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Testo completo dell'opera: GLI INSEGNAMENTI DI DON JUAN (A scuola dallo stregone) -  UNA VIA YAQUI ALLA CONOSCENZA di CARLOS CASTANEDA



(Per me esiste solo il cammino lungo sentieri che hanno un cuore, lungo qualsiasi sentiero che abbia un cuore. Io cammino lungo questo cammino, e la sola prova che vale è attraversarlo in tutta la sua lunghezza. E qui io cammino guardando, guardando, senza fiato) - DON JUAN



... non si può tentare nulla di più se non stabilire il principio e la direzione di una strada infinitamente lunga. La presunzione di qualsiasi completezza sistematica e definitiva sarebbe, come minimo, un'illusione. La perfezione può essere qui ottenuta dal singolo studioso solo nel senso soggettivo in cui egli comunichi tutto ciò che è stato capace di vede

GEORG SIMMEL

 

 

 


PREFAZIONE

 

Questo è un libro etnografico e allegorico.

Carlos Castaneda, sotto la tutela di don Juan, ci introduce, passando attraverso a quel momento di crepuscolo, a quella frattura dell’universo tra crepuscolo e tenebra, non semplicemente in un mondo diverso dal nostro, bensì in un ordine di realtà del tutto differente. Per raggiungerlo ha avuto l'aiuto di mescalito, della yerba del diablo, e di humito: cioè peyote, datura, e funghi. Ma questo non è un mero resoconto di esperienze allucinatorie, perché le sottili manipolazioni di don Juan hanno guidato il viaggiatore mentre le sue interpretazioni danno un significato agli avvenimenti che noi, attraverso il suo novizio, abbiamo l'opportunità di sperimentare.

L'antropologia ci ha insegnato che il mondo è definito differentemente a seconda dei differenti luoghi. Non è soltanto che le persone credono in differenti divinità e si aspettano differenti destini post-mortem. È, piuttosto, che i mondi delle differenti persone hanno forme differenti. Differiscono i presupposti metafisici stessi: lo spazio non si conforma alla geometria euclidea, il tempo non scorre in continuo e unidirezionalmente, la causazione non si conforma alla logica aristotelica, l'uomo non è differenziato dal non-uomo o la vita dalla morte, come nel nostro mondo. Della forma di questi altri mondi sappiamo qualcosa dalla logica dei linguaggi indigeni, dai miti e dalle cerimonie, come ci documentano gli antropologi. Don Juan ci ha fatto intravedere il mondo di uno stregone Yaqui, e poiché lo vediamo sotto l'influsso di sostanze allucinogene, lo apprendiamo con una realtà che è totalmente diversa da quelle altre fonti. In ciò consiste lo speciale valore di questo libro.

Castaneda afferma giustamente che tale mondo, in virtù di tutte le sue differenze di percezione, ha la sua propria logica interna. Ha cercato di spiegarla dall'interno, per così dire — dal di dentro delle sue esperienze ricche e personali sotto la tutela di don Juan — piuttosto che esaminarla in termini della nostra logica. Il fatto che egli non possa riuscirvi pienamente è dovuto, più che a una sua limitazione personale, a una limitazione che la nostra cultura e il nostro linguaggio pongono alla percezione; tuttavia, nei suoi sforzi, Castaneda collega per noi il mondo di uno stregone Yaqui con il nostro, il mondo della realtà non-ordinaria con quello della realtà ordinaria.

L'importanza fondamentale dell'entrare in mondi diversi dal nostro — e quindi dell'antropologia stessa — sta nel fatto che l'esperienza ci porta a comprendere che il nostro mondo è anch'esso un costrutto culturale. Conoscendo altri mondi, quindi, vediamo il nostro per quello che è, e siamo perciò in grado anche di vedere di sfuggita ciò a cui deve in effetti assomigliare il vero mondo, il mondo tra il nostro costrutto culturale e quegli altri mondi. Di qui l'allegoria, così come l'etnografia. La saggezza e la poesia di don Juan unite all'abilità e alla poesia del suo scrivano ci danno una visione sia di noi stessi che della realtà. Come in tutte le buone allegorie, ciò che si vede è nello spettatore, e non ha bisogno di commento.

Le interviste di Carlos Castaneda con don Juan ebbero inizio quando il primo era studente di antropologia all'Università di California, Los Angeles. Siamo grati all'autore per la pazienza, il coraggio, e la perspicacia di cui ha dato prova nel cercare e nell'affrontare la sfida del suo duplice noviziato, e per averci riferito i particolari delle sue esperienze. In questo lavoro Castaneda dimostra l'abilità essenziale del buon etnografo: la capacità di entrare in un mondo estraneo. Credo che abbia scoperto un sentiero che ha un cuore.

WALTER GOLDSCHMIDT

 

 

 


INTRODUZIONE

 

 

Nell'estate del 1960, quando studiavo antropologia all'Università di California, Los Angeles, feci alcuni viaggi nel Sud-Ovest per raccogliere informazioni sulle piante medicinali usate dagli indiani della zona. Gli avvenimenti qui descritti ebbero inizio durante uno dei miei viaggi. Ero in una cittadina di confine in attesa di un autobus della Greyhound, e chiacchieravo con un amico che mi aveva fatto da guida e da assistente nella mia ricerca. A un tratto questi si chinò verso di me e mi sussurrò che l'uomo seduto davanti alla finestra, un vecchio indiano dai capelli bianchi, sapeva molte cose sulle piante, specialmente sul peyote. Gli domandai allora di presentarmi a quell’uomo.

Il mio amico lo salutò, poi andò a stringergli la mano. Dopo che ebbero parlato per un po' mi fece cenno di unirmi a loro, ma subito mi lasciò solo col vecchio senza nemmeno curarsi di presentarci. Questi non era minimamente imbarazzato. Gli dissi il mio nome e lui disse di chiamarsi Juan e di essere al mio servizio. Parlava usando la cortese formula spagnola. Ci stringemmo la mano per mia iniziativa, quindi restammo in silenzio per un certo tempo. Non era un silenzio teso, ma una quiete, naturale e rilassata da entrambe le parti. Sebbene il viso e il collo abbronzati e rugosi rivelassero la sua età, mi colpì il fatto che il suo corpo fosse agile e muscoloso.

Dissi quindi che ero interessato a ottenere informazioni sulle piante medicinali. Sebbene in verità non sapessi quasi nulla del peyote, mi sorpresi a fingere di saperne molto, e addirittura a suggerire che parlare con me gli sarebbe stato utile. Mentre continuavo a dire stupidaggini egli annui lentamente e mi guardò, ma non disse nulla. Evitai i suoi occhi e finimmo col rimanere, entrambi, in un silenzio morto. Alla fine, dopo un tempo che mi era parso lunghissimo, don Juan si alzò e guardò dalla finestra. Il suo autobus era arrivato. Salutò e lasciò la stazione.

Ero seccato per avergli detto delle sciocchezze, e per essere stato scrutato da quegli occhi singolari. Al suo ritorno il mio amico cercò di consolarmi per non essere riuscito a imparare nulla da don Juan.

Spiegò che il vecchio era spesso silenzioso e vago, ma lo spiacevole effetto di questo primo incontro non si cancellò tanto facilmente.

Presi la risoluzione di scoprire dove don Juan abitava, e in seguito andai molte volte a fargli visita. Ogni volta cercavo di indurlo a parlare del peyote, ma senza successo. Ciò nonostante diventammo ottimi amici, e la mia indagine scientifica fu dimenticata, o per lo meno diretta in canali lontanissimi dalla mia intenzione originale.

L'amico che mi aveva presentato a don Juan spiegò più tardi che il vecchio non era originario dell'Arizona, dove ci eravamo incontrati, ma era un indiano Yaqui di Sonora, nel Messico.

Da principio vidi don Juan semplicemente come un uomo piuttosto singolare, che sapeva un mucchio di cose sul peyote e che parlava spagnolo notevolmente bene. Ma la gente con cui viveva credeva che avesse una qualche specie di ‘conoscenza segreta’, che fosse un ‘brujo’. Il termine spagnolo brujo significa mago, guaritore, stregone. Significa essenzialmente una persona dotata di poteri straordinari e di solito malvagi.

Conoscevo don Juan da un anno intero prima che mi prendesse in confidenza. Un giorno mi spiegò di possedere una certa conoscenza che aveva appreso da un maestro, un ‘benefattore’, come lo chiamava, che lo aveva diretto in una specie di noviziato. A sua volta don Juan aveva scelto me per fungere da suo novizio, ma mi avvertì che avrei dovuto assumermi un gravissimo impegno e che l'addestramento era lungo e arduo.

Descrivendo il suo maestro, don Juan usò la parola ‘diablero’. Più tardi imparai che diablero è un termine usato solo dagli indiani di Sonora. Significa una persona malvagia che pratica la magia nera ed è capace di trasformarsi in un animale: un uccello, un cane, un coyote o qualsiasi altra creatura. In una delle mie visite a Sonora ebbi una particolare esperienza che illustra quello che gli indiani pensano dei diablero. Era notte e stavo viaggiando in compagnia di due amici indiani, quando vidi un animale simile a un cane attraversare la strada. Uno dei miei compagni disse che non era un cane ma un grosso coyote. Rallentai e mi portai sul bordo della strada per guardare bene l'animale che rimase ancora per qualche secondo nel campo dei fari e poi fuggì nella boscaglia. Parlando concitatamente i miei due amici convennero che era un animale molto insolito, e uno di essi suggerì che potesse essere un diablero. Decisi di servirmi di questa esperienza per interrogare gli indiani della zona in merito alle loro convinzioni sull'esistenza dei diablero. Parlai con molte persone, raccontando la storia e facendo loro delle domande. Le tre conversazioni che seguono indicano quello che pensavano.

“Pensi che fosse un coyote, Choy?”, chiesi a un giovane dopo avergli raccontato la storia.

“Chissà? Un cane, senza dubbio. Troppo grande per essere un coyote”.

“Pensi che possa essere stato un diablero?”. “È un mucchio di fandonie. Queste cose non esistono”. “Perché dici così, Choy?”.

“La gente si immagina tante cose. Scommetto che se catturavi quell’animale avresti visto che era un cane. Una volta avevo da fare in un'altra città, mi alzai prima dell'alba e presi un cavallo. Mentre mi stavo avviando mi imbattei in un'ombra nera sulla strada che sembrava un grosso animale. Il cavallo si impennò, gettandomi di sella. Anch'io fui molto spaventato, ma poi si dimostrò che l'ombra era una donna diretta in città”. “Intendi dire, Choy, che tu non credi che i diablero esistano?”.

“Diablero! Che cosa è un diablero? Dimmi che cosa è un diablero!”.

“Non lo so, Choy. Manuel, che era con me quella notte, ha detto che il coyote sarebbe potuto essere un diablero. Forse tu mi puoi dire che cosa è un diablero?”.

“Un diablero, dicono, è un brujo che si cambia in qualsiasi forma voglia adottare. Ma tutti sanno che è una pura fandonia. I vecchi sono pieni di storie sui diablero. Non troveresti cose del genere tra noi giovani”.

“Che specie di animale pensate che fosse, dona Luz?”, chiesi a una donna di mezza età.

“Solo Dio lo sa con sicurezza, ma io penso che non fosse un coyote. Ci sono cose che sembrano dei coyote, ma non lo sono. Il coyote stava correndo o stava mangiando?”.

“È rimasto fermo sulle zampe la maggior parte del tempo, ma nel primo istante in cui l'ho visto penso che stesse mangiando qualcosa”. “Siete sicuro che non trasportasse qualcosa in bocca?”. “Forse sì. Ma ditemi, questo farebbe qualche differenza?”.

“Certamente. Se stava trasportando qualcosa in bocca non era un coyote”.

“Allora cos'era?”. “Era un uomo o una donna”.

“Che nome date a queste persone, dona Luz?”.

Non rispose. La interrogai ancora un poco, ma senza successo. Alla fine disse che non sapeva. Le chiesi se queste persone erano dette diablero e mi rispose che ‘diablero’ era uno dei nomi con cui venivamo chiamate.

“Conoscete qualche diablero?”, chiesi.

“Conoscevo una donna”, rispose. “È stata uccisa. È successo quando ero una bambina. La donna, dicono, aveva l'abitudine di trasformarsi in una cagna. E una notte un cane entrò nella casa di un bianco per rubare del formaggio. Il bianco uccise il cane con una schioppettata, e nello stesso istante in cui il cane moriva nella casa del bianco, la donna moriva nella sua capanna. I suoi parenti si riunirono e andarono dal bianco a chiedere un risarcimento, e il bianco dovette pagare molti soldi per averla uccisa”.

“Come poterono chiedere un risarcimento se quello che aveva ucciso era solo un cane?”.

“Dissero che l'uomo bianco sapeva che non era un cane, perché con lui c'erano altre persone, e tutte videro che il cane stava in piedi sulle zampe come un uomo e si allungava per raggiungere il formaggio in una mensola appesa al soffitto. Gli uomini stavano aspettando il ladro perché ogni notte qualcuno veniva a rubare il formaggio dell’uomo bianco. Così l'uomo uccise il ladro sapendo che non era un cane”. “Esiste qualche diablero oggi, dona Luz?”.

“Queste sono cose segretissime. Dicono che i diablero non esistono più, ma io ne dubito, perché uno dei membri di una famiglia di diablero deve imparare quello che il diablero sa. I diablero hanno le loro leggi, e una di queste è che un diablero deve insegnare i suoi segreti a uno del suo sangue”.

“Che cosa pensate che fosse l'animale, Genaro?”, chiesi a un uomo molto anziano.

“Un cane di uno dei rancho di quella zona. Che altro?”.

“Avrebbe potuto essere un diablero!”.

“Un diablero? Siete pazzo! Non ci sono diablero”.

“Intendete dire che non ce ne è nessuno oggi, oppure che non ce ne sono mai stati?”.

“Una volta c'erano, certamente. È cosa risaputa. Tutti lo sanno. Ma la gente ne aveva molta paura e li hanno uccisi tutti”. “Chi li ha uccisi?, Genaro?”.

“Tutti quelli della tribù. L'ultimo diablero di cui ho sentito parlare era S—. Aveva ucciso dozzine, forse centinaia di persone, con la sua magia. Non ne potemmo più e alla fine la gente si riunì e una notte lo prese di sorpresa e lo bruciò vivo”.

“Quanto tempo fa è stato? Genaro?”.

“Nel 1942”.

“Voi l'avete visto?”.

“No, ma la gente ne parla ancora. Dicono che non rimasero ceneri, nonostante che il rogo fosse fatto di legna fresca. Tutto quello che rimase alla fine fu una larga pozza oleosa”.

Sebbene don Juan definisse il suo benefattore come un diablero, non menzionò mai il luogo dove aveva acquistato la sua conoscenza, né identificò il suo maestro. In effetti don Juan rivelò pochissimo della sua vita personale. Tutto quello che disse fu di essere nato nel Sud-Ovest nel 1891; di aver passato quasi tutta la sua vita in Messico; che nel 1900 la sua famiglia fu mandata in esilio dal governo messicano nel Messico centrale insieme con migliaia di altri indiani di Sonora; e di aver vissuto nel Messico centrale e meridionale fino al 1940. Così, poiché don Juan aveva viaggiato moltissimo, la sua conoscenza può essere stata il prodotto di molte influenze. E per quanto si considerasse un indiano di Sonora, non me la sento di situare con sicurezza il contesto della sua conoscenza totalmente nella cultura degli indiani di Sonora. Ma non intendo qui determinare il suo preciso milieu culturale.

Cominciai il mio noviziato sotto don Juan nel giugno 1961. Prima di allora lo avevo visto in varie occasioni, ma sempre osservandolo con l'occhio dell'antropologo. Durante quelle prime conversazioni presi degli appunti di nascosto. Più tardi, basandomi sulla mia memoria, ricostruivo tutta la conversazione. Quando cominciai a partecipare in qualità di novizio, tuttavia, quel metodo di prendere appunti diventò molto difficile, perché le nostre conversazioni toccavano argomenti molto disparati. Allora don Juan mi permise — pur se dopo molte proteste — di annotare palesemente tutto quello che veniva detto. Mi sarebbe piaciuto prendere delle fotografie e fare delle registrazioni su nastro, ma non mi avrebbe permesso di farlo.

Compii il mio noviziato prima in Arizona e poi a Sonora, perché don Juan si spostò in Messico nel corso del mio addestramento. Il procedimento che seguii consisté nell'andare ogni tanto a fargli visita per qualche giorno. Le mie visite diventarono sempre più frequenti e si protrassero più a lungo durante i mesi estivi del 1961, 1962, 1963 e 1964. Ripensandoci, credo che questo metodo di condurre il noviziato impedisse che l'addestramento fosse efficace, perché ritardava l'avvento del pieno impegno di cui abbisognavo per diventare uno stregone. Ma il metodo fu benefico dal mio punto di vista personale in quanto mi consentiva un minimo di distacco che sarebbe stato impossibile da raggiungere se avessi partecipato continuamente, senza interruzione. Nel settembre 1965 misi volontariamente fine al noviziato.

Alcuni mesi dopo aver interrotto il mio noviziato considerai per la prima volta l'idea di disporre sistematicamente gli appunti presi sul campo. Poiché i dati che avevo raccolto erano molto voluminosi, e includevano anche informazioni di vario genere, cominciai col cercare di stabilire un sistema di classificazione. Divisi i dati in settori di concetti e procedimenti affini, e disposi i settori gerarchicamente a seconda dell'importanza soggettiva: in termini, cioè, dell'effetto che ciascuno di essi aveva prodotto su di me. In tal modo arrivai alla seguente classificazione: uso di piante allucinogene; procedimenti e formule usati nella stregoneria; acquisizione e manipolazione degli oggetti dotati di potere; uso delle piante medicinali; canti e leggende.

Riflettendo sui fenomeni che avevo esperimentato mi resi conto che il mio tentativo di classificazione non aveva prodotto niente più che un inventario di categorie; qualsiasi tentativo di perfezionare il mio schema avrebbe quindi prodotto solo un inventario più complesso. Non era quello che volevo. Durante i mesi che seguirono l'interruzione del noviziato dovetti comprendere quello che avevo sperimentato, e quello che avevo sperimentato era l'insegnamento di un sistema organico di credenze per mezzo di un metodo pragmatico ed empirico. Fin dalla primissima seduta a cui avevo partecipato mi era stato evidente che gli insegnamenti di don Juan possedevano una coesione interna. Una volta che aveva deciso di comunicarmi la sua conoscenza, aveva proceduto a presentare le spiegazioni secondo passi ordinati. Scoprire e comprendere tale ordine si dimostrò per me un compito difficilissimo.

La mia incapacità di arrivare a una comprensione sembra dovuta al fatto che, dopo quattro anni di noviziato, ero ancora un principiante. Era chiaro che la conoscenza di don Juan e il suo metodo di trasmetterla erano i medesimi del suo benefattore; quindi le mie difficoltà nel comprendere i suoi insegnamenti devono essere state analoghe a quelle che egli stesso aveva incontrate. Don Juan alludeva alla nostra rassomiglianza in quanto principianti attraverso commenti casuali sulla sua incapacità di comprendere il maestro durante il noviziato. Tali osservazioni mi indussero a credere che per qualsiasi principiante, indiano o no, la conoscenza della stregoneria era resa incomprensibile dalle strane caratteristiche dei fenomeni che esperimentava. Personalmente, in quanto occidentale, trovai queste caratteristiche così bizzarre che mi fu praticamente impossibile spiegarle in termini della mia vita quotidiana, e fui costretto a concludere che qualsiasi tentativo di classificare i miei appunti in termini della mia esperienza sarebbe stato futile.

Mi fu quindi ovvio che la conoscenza di don Juan doveva essere esaminata nei termini in cui lui stesso la intendeva; solo così sarebbe diventata evidente e convincente. Nel tentativo di conciliare i miei punti di vista con quelli di don Juan, tuttavia, mi resi conto che ogni qual volta cercava di spiegarmi la sua conoscenza, usava concetti che l'avrebbero resa ‘intelligibile’ a lui. Poiché questi concetti mi erano estranei, cercare di comprendere la sua conoscenza nella maniera da lui seguita mi metteva in un'altra posizione insostenibile. Quindi il mio primo compito consisté nel determinare il suo ordine di concettualizzazione. Mentre lavoravo in quella direzione mi accorsi che don Juan stesso aveva dato un particolare risalto a una certa parte dei suoi insegnamenti: specificamente, gli usi delle piante allucinogene. Su questa base rividi il mio schema di categorie.

Don Juan usò, separatamente e in differenti occasioni, tre piante allucinogene: peyote (Lophophora williamsii), erba del diavolo (Datura inoxia sin. D. meteloides), e un fungo (forse Psilocybe mexicana). Gli indiani d'America conoscevano le proprietà allucinogene di queste tre piante fin da prima dei loro contatti con gli europei. A causa delle loro proprietà le piante erano state largamente impiegate per ritrarne piacere, per curare, per la stregoneria, e per ottenere uno stato di estasi. Nello specifico contesto dei suoi insegnamenti don Juan collegava l'uso della Datura inoxia e della Psilocybe mexicana con l'acquisizione di potere, un potere a cui dava il nome di ‘alleato’. Collegava l'uso della Lophophora williamsii con l'acquisizione della saggezza, o la conoscenza della giusta strada da seguire.

L'importanza delle piante consisteva, per don Juan, nella loro capacità di produrre in un essere umano degli stadi di una particolare percezione. Mi fece quindi sperimentare una successione di questi stadi al fine di rivelare e confermare la sua conoscenza. Li ho chiamati “stati di realtà non ordinaria”, intendendo realtà insolita in quanto opposta alla realtà ordinaria della vita quotidiana. Questa distinzione è basata sul significato intrinseco degli stati di realtà non ordinaria. Nel contesto della conoscenza di don Juan erano considerati come reali, sebbene la loro realtà fosse differenziata dalla realtà ordinaria.

Don Juan credeva che gli stati di realtà non ordinaria fossero la sola forma di apprendimento pragmatico e il solo mezzo per acquisire il potere. Dava l'impressione che le altre parti dei suoi insegnamenti non fossero fondamentali per l'acquisizione del potere. L'atteggiamento di don Juan nei confronti di tutto ciò che non era direttamente connesso con gli stati di realtà non ordinaria era permeato da questa concezione. Tutti i miei appunti sono cosparsi di annotazioni sul punto di vista di don Juan. Per esempio, in una conversazione egli suggerì che alcuni oggetti hanno in sé una certa quantità di potere. Sebbene egli stesso non si curasse degli oggetti dotati di potere, disse che erano usati frequentemente come aiuti da parte di stregoni minori. Lo interrogai spesso su tali oggetti, ma sembrava che non gli interessasse affatto discuterne. Quando, tuttavia, in un'altra occasione, l'argomento si ripresentò, acconsentì con riluttanza a parlarne.

“Ci sono certi oggetti che sono permeati di potere”, disse. “Ci sono decine e decine di tali oggetti che sono alimentati da uomini potenti con l'aiuto di spiriti amichevoli. Questi oggetti sono strumenti — non strumenti ordinari, ma strumenti di morte. Tuttavia sono soltanto strumenti; non hanno alcun potere da insegnare. A rigor di termini, rientrano nel campo degli oggetti bellici designati per il combattimento; sono fatti per uccidere, per essere scagliati”.

“Che genere di oggetti sono, don Juan?”.

“Non sono oggetti veri e propri; piuttosto, sono tipi di potere”.

“Come si possono ottenere questi tipi di potere, don Juan?”.

“Dipende dal tipo di oggetto che vuoi”.

“Quanti tipi ci sono?”.

“Come ho già detto, ce ne sono decine e decine. Qualsiasi cosa può essere un oggetto dotato di potere”.

“Bene, allora quali sono i più potenti?”.

“Il potere di un oggetto dipende dal proprietario, dal genere di uomo che è. Un oggetto dotato di potere alimentato da un brujo minore è quasi uno scherzo; d'altra parte, un brujo forte e potente trasmette la sua forza ai suoi strumenti”.

“Quali sono allora i più comuni oggetti dotati di potere? Quali sono quelli preferiti dalla maggior parte dei brujo?”.

“Non ci sono preferenze. Sono tutti oggetti dotati di potere, tutti uguali”.

“Voi ne avete, don Juan?”.

Non rispose; si limitò a guardarmi sorridendo. Rimase in silenzio per un certo tempo, e pensai che le mie domande lo annoiassero.

“Ci sono delle limitazioni a questi tipi di poteri”, riprese. “Ma sono sicuro che ciò ti è incomprensibile. Mi ci è voluta quasi una vita per comprendere che, di per se stesso, un alleato può rivelare tutti i segreti di questi poteri minori, rendendoli piuttosto infantili. Ho avuto degli strumenti del genere una volta, quando ero molto giovane”.

“Che oggetti avevate?” “Maíz-pinto, cristalli, e piume”.

“Che cosa è il maíz-pinto, don Juan?”.

“È un piccolo chicco di grano con una striatura rossa nel mezzo”.

“È un solo chicco?”.

“No. Un brujo ne possiede quarantotto”.

“Che cosa fanno questi chicchi, don Juan?”.

“Ciascuno di essi può uccidere un uomo entrandogli nel corpo”.

“Come può entrare nel corpo di un uomo?”.

“È un oggetto dotato di potere e il suo potere consiste, tra le altre cose, nell'entrare nel corpo”. “Che cosa fa quando entra nel corpo?”.

“Si immerge nel corpo; si stabilisce nel petto, o negli intestini. L'uomo si ammala, e se il brujo che lo cura non è più forte di quello che lo ha stregato, morirà entro tre mesi dal momento in cui il chicco è entrato nel suo corpo”.

“C'è una maniera per guarirlo?”.

“La sola maniera è succhiare via il chicco, ma pochissimi brujo oserebbero farlo. Un brujo può riuscire a succhiare via il chicco, ma se non è abbastanza forte da espellerlo, il chicco entrerà in lui e lo ucciderà”.

“Ma come fa un chicco a entrare nel corpo di qualcuno?”.

“Per spiegartelo ti devo parlare dell'incantesimo del grano, che è una delle magie più potenti che conosca. L'incantesimo viene fatto per mezzo di due chicchi. Uno viene messo nella gemma di un fiore giallo. Il fiore viene messo in un punto in cui verrà in contatto con la vittima: la strada su cui passa ogni giorno, o qualsiasi punto in cui sia abitualmente presente. Non appena la vittima calpesta il chicco, o lo tocca in qualsiasi modo, l'incantesimo è fatto. Il chicco si immerge nel corpo”.

“Che cosa succede al chicco dopo che l'uomo lo ha toccato?”.

“Tutto il suo potere si trasferisce dentro l'uomo, e il chicco è libero. Diventa come un chicco qualsiasi. Può essere lasciato sul luogo dell'incantesimo, o può essere buttato via; non importa. È meglio buttarlo via nel sottobosco, dove potrà essere mangiato da qualche uccello”.

“Può essere mangiato da un uccello prima che l'uomo lo tocchi?”.

“Gli uccelli non sono così stupidi, te lo garantisco. Gli uccelli se ne tengono lontani”.

Don Juan descrisse quindi un complicatissimo procedimento con cui si potevano ottenere tali chicchi dotati di potere.

“Devi ricordare che il maíz-pinto è semplicemente uno strumento non un alleato”, disse. “Una volta fatta questa distinzione non avrai problemi.

Ma se ritieni che tali strumenti siano di suprema importanza sarai uno sciocco”.

“Gli oggetti dotati di potere sono forti quanto un alleato?”, chiesi.

Don Juan rise sdegnosamente prima di rispondermi. Sembrava che ce la mettesse tutta per sopportarmi.

“Maíz-pinto, cristalli e piume sono semplicemente giocattoli a confronto con un alleato”, disse. “Questi oggetti dotati di potere sono necessari solo quando un uomo non ha un alleato. Ricercarli è una perdita di tempo, specialmente per te. Dovresti cercare di guadagnarti un alleato; quando sarai riuscito, allora comprenderai quello che ti sto dicendo adesso. Gli oggetti dotati di potere sono come un gioco da bambini”.

“Non fraintendetemi, don Juan”, protestai. “Io voglio avere un alleato, ma voglio anche imparare tutto quello che posso. Voi stesso avete detto che la conoscenza è potere”.

“No!”, rispose con enfasi. “Il potere si basa sul tipo di conoscenza che si ha. Che senso c'è nel sapere cose inutili?”.

Nel sistema di don Juan l'acquisizione di un alleato significava esclusivamente lo sfruttamento degli stati di realtà non ordinaria che produceva in me attraverso l'uso delle piante allucinogene. Credeva che concentrandomi su tali stati e omettendo altri aspetti delle nozioni che mi insegnava sarei arrivato a una visione organica dei fenomeni che avevo sperimentato.

In conseguenza ho diviso questo libro in due parti. Nella prima parte presento una scelta dai miei appunti presi sul campo che trattano degli stati di realtà non ordinaria da me sperimentati durante il noviziato. Non sempre gli appunti sono in ordine cronologico perché ho dovuto adattarli alla continuità della narrazione. Non ho mai trascritto la mia descrizione di uno stato di realtà non ordinaria fino a molti giorni dopo averlo sperimentato, aspettando fino a che fossi in grado di analizzarlo con calma e oggettività. Le mie conversazioni con don Juan, tuttavia, sono state trascritte man mano che avevano luogo, immediatamente dopo ciascuno stato di realtà non ordinaria. I miei resoconti di tali conversazioni, quindi, sono stati fatti talvolta prima della piena descrizione di un'esperienza.

Gli appunti presi sul campo rivelano la versione soggettiva di quello che ho percepito mentre subivo l'esperienza. Tale versione è qui presentata proprio come l'ho narrata a don Juan, il quale richiedeva un ricordo completo e fedele di ciascun dettaglio e un racconto completo di ciascuna esperienza. Al momento di trascrivere queste esperienze, ho aggiunto dei dettagli incidentali nel tentativo di cogliere tutta l'atmosfera di ciascuno stato di realtà non ordinaria. Ho voluto descrivere più completamente possibile l'impressione emotiva che ho ricevuto.

I miei appunti rivelano anche il contenuto del sistema di credenze di don Juan. Ho condensato lunghe pagine di domande e risposte tra don Juan e me allo scopo di evitare di riprodurre il carattere ripetitivo della conversazione. Ma poiché voglio anche riflettere accuratamente l'atmosfera totale dei nostri scambi, ho cancellato solo quei dialoghi che non contribuirono alla mia comprensione della sua conoscenza. Le informazioni datemi da don Juan sulla sua conoscenza erano sempre sporadiche, e ogni apertura da parte sua corrispondeva a ore di sondaggi da parte mia. Ciò nonostante, le occasioni in cui espose liberamente la sua conoscenza furono innumerevoli.

Nella seconda parte di questo libro presento un'analisi strutturale tratta esclusivamente dai dati riportati nella prima parte. Attraversa la mia analisi ho cercato di sostenere le seguenti affermazioni: 1) don Juan presentava i suoi insegnamenti come un sistema di pensiero logico; 2) il sistema aveva un significato solo se analizzato alla luce delle sue unità strutturali; e 3) il sistema era escogitato per guidare un novizio a un livello di concettualizzazione che spiegava l'ordine dei fenomeni che aveva sperimentato.

 

 


PARTE PRIMA:
GLI INSEGNAMENTI

 

 

 


1.

 

 

I miei appunti sulla prima seduta con don Juan sono datati 23 giugno 1961. Fu in quell'occasione che incominciarono gli insegnamenti anche se in precedenza lo avevo visto molte volte, ma solo in veste di osservatore. In ciascuna occasione gli avevo chiesto di insegnarmi qualcosa sul peyote. Pur ignorando la mia richiesta ogni volta, non scartò mai del tutto l'argomento, ed io interpretai la sua esitazione come una possibilità che egli avrebbe potuto essere propenso a parlare della sua conoscenza se io avessi insistito di più.

In quella particolare seduta mi fece capire che egli avrebbe potuto prendere in considerazione la mia richiesta purché io possedessi un'idea e una finalità precise rispetto a quanto gli chiedevo. Mi era impossibile soddisfare a tale condizione, perché gli avevo chiesto di erudirmi sul peyote solo in quanto mezzo per stabilire con lui un vincolo di comunicazione. Pensavo che la sua familiarità con l'argomento avrebbe potuto predisporlo a essere più aperto e pronto a parlare, permettendomi così di accedere alla sua conoscenza sulle proprietà delle piante. Egli, tuttavia, aveva interpretato la mia richiesta alla lettera, e si interessò del mio scopo nel desiderare di imparare le qualità del peyote.

Venerdì, 23 giugno, 1961

 

 

“Volete insegnarmi qualcosa sul peyote, don Juan?”.

“Perché vuoi imparare questo genere di cose?”.

“Davvero vorrei sapere qualcosa a proposito del peyote. Voler sapere non è già di per sé una buona ragione?”.

“No! Devi cercare nel tuo cuore e scoprire perché un giovane come te vuole accingersi a questo compito di apprendimento”.

“E voi perché lo avete imparato, don Juan?”.

“Perché lo chiedi?”.

“Forse abbiamo entrambi le medesime ragioni”.

“Ne dubito. Io sono un indiano. Non abbiamo seguito le stesse strade”.

“La sola ragione che ho è che voglio imparare sul peyote, semplicemente sapere. Ma vi assicuro, don Juan, le mie intenzioni non sono cattive”.

“Ti credo. Ti ho fiutato”.

“Come sarebbe a dire?”.

“Lascia perdere. Conosco le tue intenzioni”.

“Intendete dire che avete visto dentro di me?”.

“Puoi metterla così”.

“Mi insegnerete, allora?”.

“No!”.

“È perché non sono un indiano?”.

“No! È perché non conosci il tuo cuore. Ciò che importa è che tu sappia esattamente perché vuoi accingerti a questo. Imparare a conoscere ‘Mescalito’ è una cosa molto seria. Se tu fossi un indiano il tuo desiderio da solo sarebbe sufficiente. Pochissimi indiani hanno tale desiderio”.

Domenica, 25 giugno, 1961

 

 

Rimasi con don Juan tutto il pomeriggio di venerdì. Me ne sarei andato alle sette di sera. Eravamo seduti sotto il portico davanti alla casa e io decisi di chiedergli ancora una volta di insegnarmi. Era quasi una domanda fissa e mi aspettavo che avrebbe rifiutato nuovamente. Gli chiesi se ci fosse stata una maniera in cui avrebbe accettato il mio puro e semplice desiderio di imparare, come se fossi un indiano. Impiegò molto tempo a rispondere. Fui costretto a rimanere perché sembrava che cercasse di decidere qualcosa.

Alla fine mi disse che una maniera c'era; e procede a delineare un problema. Mi fece notare che io ero molto stanco di star seduto sul pavimento, e che la cosa giusta da fare era trovare un ‘posto’ (sitio) sul pavimento dove potessi sedere senza fatica. Ero rimasto a sedere con le ginocchia contro il petto e le braccia strette attorno ai polpacci. Quando mi disse che ero stanco mi resi conto di avere la schiena dolorante e di essere del tutto esausto.

Aspettai che mi spiegasse che cosa intendeva dire per un ‘posto’, ma non fece nessun tentativo evidente per spiegare la cosa. Pensai che forse intendeva che dovessi cambiare posizione, così mi alzai e mi sedetti più vicino a lui.' Non approvò il mio spostamento e disse chiaramente che un posto significava un luogo in cui un uomo potesse sentirsi naturalmente a suo agio e forte. Battè la mano sul posto in cui sedeva e disse che quello era il suo posto, aggiungendo che mi aveva presentato un indovinello che io dovevo risolvere da solo senza altre discussioni.

Quello che aveva presentato come un problema da risolvere era un vero e proprio enigma. Non avevo nessuna idea di come cominciare e neppure di quello che aveva in mente. Diverse volte chiesi un indizio, o almeno un suggerimento, sul come procedere per individuare un punto in cui sentirmi forte e a mio agio. Insistei e insinuai che non avesse nessuna idea di ciò che intendeva veramente perché io non potevo concepire il problema. Mi suggerì di camminare intorno al portico finché non trovassi il posto.

Mi alzai e cominciai a misurare il pavimento a passi lenti. Mi sentivo stupido e mi sedetti davanti a lui.

Don Juan cominciò ad arrabbiarsi e mi accusò di non dargli retta, suggerendo che forse non volevo imparare. Dopo un poco si calmò e mi spiegò che non tutti i posti erano buoni per sedere o stare, e che nei limiti del portico c'era un solo posto che era unico, un posto in cui avrei potuto stare a mio perfetto agio. Distinguerlo da tutti gli altri posti era compito mio. Il concetto generale era che io dovevo ‘sentire’ tutti i possibili posti che fossero accessibili fino a che potessi determinare senza ombra di dubbio quale fosse quello giusto.

Sostenni che sebbene il portico non fosse troppo grande (tre metri e mezzo per due e mezzo) il numero di posti possibili era enorme, e mi ci sarebbe voluto un tempo lunghissimo per controllarli tutti, e dal momento che non aveva specificato le dimensioni del posto, le possibilità potevano essere infinite. I miei argomenti erano futili. Si alzò e mi ammonì molto severamente che avrei potuto impiegare dei giorni per calcolarlo, ma che se non avessi potuto risolvere il problema avrei potuto benissimo andarmene perché non avrebbe avuto nulla da dirmi. Ribadì che sapeva dove fosse il mio posto, e che quindi non avrei potuto mentirgli; disse che questa era la sola maniera in cui avrebbe accettato come ragione valida il mio desiderio di imparare a conoscere Mescalito. Aggiunse che nel suo mondo non si regalava nulla, che tutto ciò che si può imparare deve essere appreso con fatica.

Girò intorno alla casa per andare a orinare nella macchia. Ritornò direttamente nella casa passando per il retro.

Pensai che l'incarico di scoprire il preteso posto della felicità era un suo espediente per mandarmi via, ma mi alzai e cominciai a camminare lentamente avanti e indietro. Il cielo era chiaro. Potevo vedere tutto sia nel portico che intorno. Devo aver camminato a passi lenti per un'ora o più, ma non accadde nulla che rivelasse la situazione del posto. Mi stancai di passeggiare e mi sedetti; dopo qualche minuto mi sedetti da un'altra parte, e quindi in un altro posto ancora, finché non ebbi coperto l'intero pavimento in una maniera semi-sistematica. Cercai deliberatamente di ‘sentire’ differenze tra i posti, ma non avevo criteri di differenziazione. Sentii che stavo perdendo tempo, ma rimasi. La mia idea era che ero venuto da lontano semplicemente per vedere don Juan, e in realtà non avevo altro da fare.

Mi distesi sulla schiena mettendo le mani sotto la testa come un cuscino. Quindi mi girai e mi stesi per un poco sullo stomaco. Ripetei questo processo rotolatorio per tutto il pavimento. Per la prima volta pensai di essermi imbattuto in un vago criterio. Sentivo più caldo quando stavo disteso sulla schiena.

Mi rotolai di nuovo, questa volta nella direzione opposta, e di nuovo percorsi il pavimento in tutta la sua lunghezza, giacendo a faccia in giù nei punti dove ero stato a faccia in su durante il mio precedente rotolamento. Esperimentai le medesime sensazioni di caldo e di freddo, che dipendevano dalla mia posizione, ma non c'era differenza tra i posti.

Allora mi venne un'idea che mi sembrò brillante: il posto di don Juan! Mi ci sedetti sopra, e poi mi distesi, prima a faccia in giù, e poi sulla schiena, ma il posto era esattamente uguale a tutti gli altri. Mi alzai. Ne avevo avuto abbastanza. Volevo dire addio a don Juan ma mi imbarazzava svegliarlo. Guardai l'orologio. Erano le due di mattina! Ero stato a rotolare per sei ore.

In quel momento don Juan uscì e girò intorno alla casa nella macchia. Ritornò e si fermò sulla porta. Mi sentivo profondamente scoraggiato e volevo dirgli qualcosa di spiacevole e andarmene. Ma mi resi conto che non era colpa sua; che avevo subito tutte quelle assurdità per mia scelta; ero stato tutta la notte a rotolarmi sul suo pavimento come un idiota e ancora non riuscivo a comprendere il suo indovinello.

Rise e disse che ciò non lo sorprendeva perché non avevo agito nella maniera giusta. Non avevo usato gli occhi. Era vero, tuttavia ero certo che egli mi aveva detto di sentire la differenza. Gli feci questa obiezione, ma mi rispose che si può sentire con gli occhi, quando gli occhi non stanno guardando direttamente nelle cose. Per quanto mi riguardava, disse, non avevo altro mezzo per risolvere questo problema se non usare tutto quello che avevo: gli occhi.

Rientrò. Ero certo che era stato a guardarmi. Pensai che solo così poteva sapere che non avevo usato gli occhi.

Cominciai di nuovo a rotolare, perché quello era il sistema più comodo. Questa volta, tuttavia, appoggiai il mento sulle mani e osservai ogni dettaglio.

Dopo un certo tempo l'oscurità intorno a me cambiò. Quando misi a fuoco gli occhi sul punto direttamente di fronte a me, tutta l'area periferica del mio campo visivo prese una colorazione giallo verdastra omogenea e brillante. L'effetto era sconvolgente. Tenni gli occhi fissi sul punto di fronte a me e cominciai a strisciare lateralmente sullo stomaco, un piede per volta.

Improvvisamente, in un punto vicino al centro del pavimento, divenni consapevole di un altro cambiamento di colore. In un punto alla mia destra, ancora nella periferia del mio campo visivo, il giallo verdastro diventava di un rosso intenso. Concentrai la mia attenzione su di esso. Il rosso svaniva in un colore pallido, ma ancora brillante, che rimase costante per tutto il tempo in cui mantenni su di esso la mia attenzione.

Segnai il punto con la giacca, e chiamai don Juan che uscì fuori sul portico. Ero veramente eccitato; avevo realmente visto il cambiamento di colori. Don Juan sembrò non essere affatto impressionato, ma mi disse di sedermi sul punto e riferirmi che tipo di sensazione provassi.

Sedetti e quindi mi distesi sulla schiena. Don Juan rimase in piedi accanto a me e mi chiese ripetutamente che cosa sentivo; ma non sentivo nulla di differente. Per circa quindici minuti cercai di sentire o vedere una differenza, mentre don Juan rimaneva pazientemente in piedi accanto a me. Mi sentivo disgustato. Avevo in bocca un sapore metallico. Improvvisamente mi era venuto mal di testa. Stavo per sentirmi male. Il pensiero dell'assurdità dei miei sforzi mi irritava fino alla collera. Mi alzai.

Don Juan doveva aver notato la mia profonda frustrazione. Non rise, ma osservò molto seriamente che dovevo essere inflessibile con me stesso se volevo imparare. Davanti a me c'erano solo due possibilità, disse: alzarmi e andarmene, nel qual caso non avrei mai imparato, oppure risolvere l'indovinello.

Rientrò: volevo partire immediatamente, ma ero troppo stanco per guidare; inoltre, la percezione di quei colori era stata così impressionante che ero certo che ci fosse un criterio di qualche tipo, e forse c'erano altri cambiamenti da scoprire. Comunque, era troppo tardi per partire. Così mi rimisi a terra allungando indietro le gambe, e ricominciai tutto da capo.

Durante questa fase mi mossi rapidamente attraverso ciascun posto, passando il posto di don Juan, fino al termine del pavimento, e poi girai intorno per arrivare all'altra estremità. Quando raggiunsi il centro mi resi conto che stava avendo luogo un altro cambiamento di colorazione, ancora ai limiti del mio campo visivo. Il verde pallido uniforme che vedevo in tutta l'area si trasformava, in un punto alla mia destra, in un netto color verderame. Rimase così per un momento e quindi bruscamente si trasformò in un'altra tinta costante, differente dall'altra che avevo scoperto prima. Presi una scarpa e segnai il punto, e continuai a rotolare fino a che non ebbi misurato il pavimento in tutte le direzioni possibili. Non avvenne nessun altro cambiamento di colorazione.

Ritornai al punto segnato con la scarpa, e lo esaminai. Era situato a uno o due metri di distanza dal punto segnato con la giacca, in direzione sud-est. C'era vicino un grosso sasso. Mi sedetti lì per qualche tempo cercando di trovare indizi, guardando ogni dettaglio, ma non sentii nulla di differente.

Decisi di provare l'altro punto. Ruotai rapidamente sulle ginocchia ed ero sul punto di stendermi sulla giacca quando provai un timore insolito. Era più come una sensazione fisica di qualcosa che spingesse effettivamente sul mio stomaco. Balzai in piedi e mi ritrassi in un solo movimento. I capelli mi si rizzarono sulla nuca. Le gambe mi si erano leggermente inarcate, il busto era piegato in avanti, e le braccia sporgevano davanti a me con le dita contratte come artigli. Mi resi conto della mia strana posizione e la mia paura aumentò.

Camminai all'indietro involontariamente e sedetti sul sasso vicino alla mia scarpa. Dal sasso caddi sul pavimento. Cercai di immaginare che cosa fosse successo per causarmi una tale paura. Pensai che dovesse essere stata la stanchezza che provavo. Era quasi giorno. Mi sentivo stupido e imbarazzato. Tuttavia non avevo modo di spiegare quello che mi aveva spaventato, né avevo immaginato quello che voleva don Juan.

Decisi di fare un ultimo tentativo. Mi alzai e mi accostai lentamente al punto segnato con la giacca, e di nuovo provai lo stesso timore. Questa volta feci un grande sforzo per controllarmi. Sedetti, e quindi mi inginocchiai per potermi stendere a faccia in giù, ma non potei stendermi a dispetto della mia volontà. Misi le mani sul pavimento davanti a me. Il mio respiro era accelerato; il mio stomaco era sottosopra. Avevo una netta sensazione di panico, e lottai per non fuggire. Pensai che forse don Juan mi stava osservando. Lentamente strisciai indietro fino all'altro punto e appoggiai la schiena contro il sasso. Volevo riposarmi per un poco per organizzare i miei pensieri, ma caddi addormentato. Sentii don Juan parlare e ridere sopra il mio capo. Mi svegliai.

“Hai trovato il posto”, disse.

Da principio non lo compresi, ma mi assicurò nuovamente che il posto in cui ero caduto addormentato era il posto in questione. Mi chiese di nuovo come mi sentissi lì disteso. Gli dissi che in realtà non notavo nessuna differenza.

Mi chiese di confrontare le mie sensazioni di quel momento con quello che avevo provato stando disteso sull'altro punto. Per la prima volta mi venne in mente che probabilmente non potevo spiegare il mio timore della notte precedente. Quasi con un atteggiamento di sfida mi esortò a sedere sull'altro posto. Per una qualche ragione inesplicabile avevo effettivamente paura dell'altro posto, e non mi ci sedetti sopra. Affermò che solo uno stupido poteva non vedere la differenza.

Gli chiesi se ciascuno dei due posti avesse un nome speciale. Disse che quello buono era detto il sitio e quello cattivo il nemico; disse che questi due posti erano la chiave del benessere di un uomo, specialmente per un uomo che ricercava la conoscenza. Il puro e semplice atto del sedersi sul proprio posto creava una forza superiore. D'altra parte, il posto nemico indeboliva un uomo e avrebbe potuto anche causarne la morte. Disse che avrei ricuperato le mie energie, che avevo speso a profusione la notte precedente, schiacciando un pisolino sul mio posto.

Disse anche che i colori che avevo visto in associazione con ciascun posto specifico avevano lo stesso effetto globale di dare forza o di toglierla.

Gli chiesi se per me esistevano altri posti come i due che avevo scoperto, e come avrei potuto fare per trovarli. Rispose che molti posti nel mondo erano paragonabili a questi due, e che la maniera migliore per scoprirli era distinguere i rispettivi colori.

Non mi era chiaro se avessi risolto o no il problema, e in effetti non ero neppure convinto che ci fosse stato un problema. Non potei evitare di pensare che tutta l'esperienza era imposta e arbitraria. Ero certo che don Juan mi aveva osservato per tutta la notte e poi aveva continuato ad assecondarmi dicendo, dovunque fossi caduto addormentato, che quello era il posto che stavo cercando. Tuttavia non riuscii a vedere una ragione logica per tale atto, e quando mi sfidò a sedermi sull'altro posto non potei farlo. C'era uno strano contrasto tra la mia spiacevole esperienza del timore dell' ‘altro posto’ e le mie riflessioni razionali in merito a tutta la faccenda.

Don Juan, d'altra parte, era sicurissimo che io fossi riuscito, e, agendo in conformità al mio successo, mi comunicò che intendeva insegnarmi a conoscere il peyote.

“Mi hai chiesto di insegnarti di Mescalito”, disse. “Ho voluto scoprire se avevi abbastanza spina dorsale per incontrarlo a faccia a faccia. Mescalito non è qualcosa da prendere per divertimento. Devi avere la padronanza di tutte le tue risorse. Adesso posso prendere il tuo desiderio come di per sé una buona ragione per imparare”.

“Davvero intendete istruirmi sul peyote?”.

“Preferisco chiamarlo Mescalito. È la stessa cosa”.

“Quando intendete incominciare?”.

“Non è così semplice. Prima devi essere pronto”.

“Credo di essere pronto”.

“Questo non è un gioco. Devi aspettare fino a che non ci sia ombra di dubbio, e allora lo incontrerai”.

“Devo prepararmi?”.

“No. Devi semplicemente aspettare. Potresti abbandonare del tutto l'idea dopo un certo tempo. Ti stanchi facilmente. Ieri sera eri pronto ad andartene non appena le cose diventavano difficili. Mescalito richiede un intento molto serio”.

 


2.

 

 

Lunedì, 7 agosto, 1961

 

 

Arrivai alla casa di don Juan in Arizona venerdì, verso le sette di sera. Altri cinque indiani sedevano con lui sotto il portico della casa. Lo salutai e aspettai che gli altri dicessero qualcosa. Dopo un silenzio formale uno degli uomini si alzò, venne verso di me e disse: “Buenas noches”. Mi alzai in piedi e risposi “Buenas noches”. Quindi tutti gli altri si alzarono e vennero verso di me e mormorammo tutti “buenas noches” e ci stringemmo la mano o toccandoci semplicemente a vicenda la punta delle dita o tenendo la mano per un istante e lasciandola quindi cadere improvvisamente.

Ci rimettemmo tutti a sedere. Sembravano piuttosto impacciati, senza parole, sebbene parlassero tutti spagnolo.

Dovevano essere state circa le sette e mezzo quando improvvisa mente si alzarono tutti e si incamminarono verso il retro della casa. Per un lungo tempo nessuno aveva detto una parola. Don Juan mi fece segno di seguirli e tutti entrammo in un vecchio furgoncino che era parcheggiato là dietro. Sedetti dietro con don Juan e due giovani. Non c'erano né cuscini né panche, e il pavimento di metallo era dolorosamente scomodo, specialmente quando lasciammo la strada asfaltata e ci inoltrammo in una strada bianca. Don Juan mi sussurrò che stavamo andando alla casa di un suo amico che aveva sette mescalito per me.

Gli chiesi: “Non ne avete voi stesso, don Juan?”.

“Ne ho, ma non potrei offrirteli. Vedi, questo deve essere fatto da qualcun altro”.

“Potete dirmi perché?”.

“Forse tu non ‘gli’ vai a genio e non ‘gli’ piaceresti, e allora non sarai mai in grado di conoscerlo con affetto, come si dovrebbe; e la nostra amicizia sarebbe rotta”.

“Perché potrei non piacergli? Non gli ho mai fatto nulla”.

“Non devi fare nulla per piacergli o non piacergli. O ti prende o ti scaccia”.

“Ma se non mi prende, c'è qualcosa che io possa fare per far sì che io gli piaccia?”.

Gli altri due uomini sembrarono aver udito per caso la mia domanda e risero.

“No! Non riesco a immaginare nulla che si possa fare”, disse don Juan.

Mi volse le spalle e non potei più parlargli.

Dovevamo aver viaggiato per almeno un'ora quando ci fermammo davanti a una piccola casa. Era completamente buio, e dopo che il guidatore ebbe spento i fari potei distinguere soltanto il vago contorno dell'edificio.

Una giovane donna, una messicana, a giudicare dal suo accento, dava di voce a un cane per farlo smettere di abbaiare. Scendemmo dal camioncino ed entrammo nella casa. Gli uomini mormorarono “Buenas noches” mentre le passavano accanto. La donna ricambiò e continuò a gridare al cane.

La stanza era ampia e affollata da una moltitudine di oggetti. Una tenue luce proveniente da una piccolissima lampadina elettrica dava un tono lugubre alla scena. Contro il muro c'erano alcune sedie sfondate e con le gambe rotte. Tre degli uomini si misero a sedere su un divano che era il mobile più grande della stanza. Era vecchissimo e tutto sfondato fino a toccare il pavimento; alla tenue luce della lampadina sembrava rosso e sporco. Gli altri si misero a sedere sulle sedie. Rimanemmo a lungo seduti in silenzio.

Improvvisamente uno degli uomini si alzò e andò in un'altra stanza. Aveva forse cinquant'anni, era alto, di carnagione scura, e robusto. Ritornò un momento dopo con un vaso da caffè. Aprì il coperchio e me lo porse. Dentro c'erano sette cose di strano aspetto. Variavano per dimensioni e consistenza. Alcune erano quasi tonde, altre allungate. Al tatto assomigliavano al gheriglio delle noci, o alla superficie di un sughero. Il loro colore marrone le faceva assomigliare a dei gusci di noce duri e secchi. Li presi in mano, accarezzandone la superficie per un certo tempo.

“Sono da masticare (esto se masca)”, disse don Juan in un bisbiglio.

Fino a quando non parlò non mi ero reso conto che si era seduto accanto a me. Guardai gli altri uomini, ma nessuno mi stava guardando; stavano parlando tra loro a voce bassissima. Fu un momento di acuta indecisione e di paura. Mi sentivo quasi incapace di controllarmi.

“Devo andare in bagno”, gli dissi. “Vado fuori a fare due passi”.

Mi porse il vaso da caffè e ci rimisi dentro i boccioli di peyote. Stavo uscendo dalla stanza quando l'uomo che mi aveva dato il vaso si alzò, venne verso di me, e disse di avere un w.c. nell'altra camera.

Il w.c. era quasi contro la porta. Accanto alla porta, quasi a contatto con il w.c,, c'era un ampio letto che occupava più della metà della stanza. Sopra c'era la donna che dormiva. Restai per un poco immobile accanto alla porta, quindi ritornai nella camera in cui erano gli altri uomini.

Il proprietario della casa mi parlò in inglese: “Don Juan dice che voi venite dal Sud America. C'è peyote nel vostro paese?”. Risposi che non ne avevo mai sentito parlare.

Sembrarono interessati al Sud America e parlammo degli indiani per un po' di tempo. Quindi uno degli uomini mi chiese perché volessi provare il peyote. Risposi che volevo sapere a cosa assomigliava. Risero tutti timidamente.

Don Juan mi esortò dolcemente, “Masticalo, masticalo (Masca, masca)”.

Avevo le mani bagnate e lo stomaco contratto. Il vaso con i boccioli di peyote era sul pavimento accanto alla sedia. Mi piegai, ne presi uno a caso, e me lo misi in bocca. Aveva un sapore stantio. Lo spezzai in due con un morso e cominciai a masticare uno dei pezzi. Sentii un forte sapore amaro e piccante; subito la mia bocca fu tutta intorpidita. Il sapore amaro aumentava man mano che continuavo a masticare, costringendomi a secernere un'incredibile quantità di saliva. Mi sentivo le gengive e l'interno della bocca come se avessi mangiato carne secca o pesce secco salatissimi, che sembrano obbligare a masticare di più. Dopo un po' masticai l'altro pezzo e la mia bocca fu così intorpidita che non potei più sentire il sapore amaro. Il bocciolo di peyote era un fascio di filamenti, come la parte fibrosa di un'arancia o come canna da zucchero, e non sapevo se inghiottirlo o sputarlo. In quel momento il proprietario della casa si alzò e invitò tutti a uscire nel portico.

Uscimmo e sedemmo al buio. Fuori si stava piuttosto comodi, e l'ospite tirò fuori una bottiglia di tequila.

Gli uomini erano seduti in fila con la schiena appoggiata al muro. Io stavo all'estrema destra della fila. Don Juan, che sedeva accanto a me, mise il vaso con i boccioli di peyote tra le mie gambe. Poi mi porse la bottiglia, che veniva fatta passare dall'uno all'altro, e mi disse di bere un poco di tequila per sciacquare dalla bocca il gusto di amaro.

Don Juan mi diede quindi un pezzo di albicocca secca, o forse era un fico secco — al buio non potei vederlo, né potei sentirne il sapore — e mi disse di masticarlo accuratamente e lentamente, senza fretta. Trovai delle difficoltà a inghiottirlo; sembrava come se non andasse giù.

Dopo una breve pausa la bottiglia fece un altro giro. Don Juan mi porse un pezzo di carne secca croccante. Gli dissi che non mi sentivo di mangiare.

“Questo non è mangiare”, disse con fermezza.

Tutto questo fu ripetuto sei volte. Ricordo di aver masticato sei boccioli di peyote quando la conversazione divenne molto animata; sebbene non riuscissi a capire in che lingua parlassero, l'argomento della conversazione, a cui tutti partecipavano, era molto interessante, e cercai di ascoltare attentamente così da potervi prender parte. Ma quando cercai di parlare mi resi conto di non poterlo fare; le parole si muovevano continuamente senza scopo nella mia mente.

Sedetti con la schiena appoggiata al muro e ascoltai quello che stavano dicendo gli uomini. Parlavano in italiano e ripetevano in continuazione una stessa frase sulla stupidità dei pescecani. Pensai che fosse un argomento logico e coerente. Avevo raccontato in precedenza a don Juan che il fiume Colorado in Arizona era chiamato dagli antichi spagnoli “el rio de los tizones” (il fiume dei tronchi carbonizzati); ma qualcuno aveva pronunciato o compreso male ‘tizones’, e il fiume fu battezzato “el rio de los tiburones” (il fiume dei pescecani). Ero certo che stessero parlando di quello, tuttavia non mi venne mai in mente che nessuno di essi sapeva parlare italiano.

Avevo un fortissimo desiderio di dar di stomaco, ma non ricordo di averlo effettivamente fatto. Chiesi che qualcuno mi desse un po' d'acqua. Sentivo una sete insopportabile» Don Juan mi portò una grossa pentola. La mise sul pavimento accanto al muro. Portò una tazzina o un barattolo. La tuffò nella casseruola e me la porse, e disse che non potevo bere ma solo rinfrescarmici la bocca.

L'acqua sembrava stranamente lucida, scintillante, simile a una spessa lacca. Volli chiedere spiegazioni a don Juan e cercai faticosamente di esprimere i miei pensieri in inglese, ma subito mi ricordai che lui non parlava inglese. Provai un momento di grande confusione, e mi, resi conto del fatto che sebbene avessi nella mente un pensiero chiaro, non potevo parlare. Volli commentare la strana qualità dell'acqua, ma quello che seguì non assomigliava a una lingua; era un sentire i miei pensieri non espressi uscire dalla mia bocca in una specie di forma liquida. Era una sensazione passiva di vomitare senza le contrazioni del diaframma. Era un gradevole scorrere di parole liquide.

Bevvi. E la sensazione di star vomitando scomparve. A quel punto tutti i rumori erano svaniti e trovai che avevo delle difficoltà nel mettere a fuoco gli occhi. Cercai don Juan e quando ebbi girato la testa scoprii che il mio campo visivo si era ridotto a un'area circolare davanti ai miei occhi. Questa sensazione non dava spavento né disagio, ma. tutto il contrario, costituiva una novità; potevo letteralmente spazzare il pavimento mettendo a fuoco su un solo punto e poi muovendo lentamente la testa in qualsiasi direzione. Quando ero uscito la prima volta sul portico avevo notato che era tutto buio tranne che per il lontano alone delle luci della città. Ma entro l'area circolare della mia visione tutto era chiaro. Dimenticai tutto quel che riguardava don Juan e gli altri uomini, e mi dedicai interamente all'esplorazione del terreno nell'ambito della mia visione ristretta a una punta di spillo.

Vidi la congiunzione del pavimento del portico con il muro. Voltai lentamente la testa a destra, seguendo il muro, e vidi don Juan che sedeva appoggiandovi le spalle. Spostai la testa a sinistra per mettere a fuoco l'acqua. Trovai il fondo della casseruola; sollevai il capo lentamente e vidi avvicinarsi un cane di media taglia. Lo vidi venire verso l'acqua. Il cane cominciò a bere. Alzai la mano per scacciarlo dalla mia acqua; per eseguire il movimento misi a fuoco sul cane la mia visione puntiforme, e improvvisamente lo vidi diventare trasparente. L'acqua era un liquido scintillante e vischioso. La vidi scendere nella gola del cane ed entrare nel suo corpo. La vidi scorrere uniformemente per tutta la sua lunghezza e quindi uscire fuori attraverso ciascuno dei peli. Vidi il fluido iridescente percorrere tutta la lunghezza di ciascun singolo pelo e quindi proiettarsi fuori dei peli per formare una lunga criniera bianca e setosa.

In quel momento ebbi una sensazione di intense convulsioni, e in pochi istanti intorno a me si formò una galleria, molto bassa e stretta, dura e stranamente fredda. Al tatto sembrava un muro di lamiera compatta. Scoprii di essere seduto sul pavimento della galleria. Cercai di alzarmi in piedi, ma battei il capo contro il tetto metallico, e la galleria si compresse fino a soffocarmi. Ricordo di aver dovuto strisciare verso una specie di punto rotondo laddove terminava la galleria; quando alla fine arrivai, se pure arrivai, avevo completamente dimenticato il cane, don Juan, e me stesso. Ero spossato. I miei abiti erano imbevuti di un liquido freddo e appiccicoso. Rotolai avanti e indietro per trovare una posizione in cui riposare, una posizione in cui il cuore non mi battesse così forte. In uno di questi spostamenti vidi di nuovo il cane.

Improvvisamente mi tornò il ricordo di tutto, e subito tutto fu chiaro nella mia mente. Mi girai intorno per cercare don Juan, ma non potei vedere nulla o nessuno. Tutto quello che fui in grado di vedere fu il cane che diventava iridescente: una luce intensa emanava dal suo corpo. Vidi di nuovo l'acqua che scorreva attraverso il suo corpo, accendendolo come un falò. Mi accostai all'acqua, immersi il viso nella casseruola, e bevvi con lui. Avevo le mani davanti a me sul pavimento e, mentre bevevo, vidi il liquido scorrere attraverso le mie vene formando colori rossi, gialli, e verdi. Bevetti sempre di più. Bevvi finché non fui tutto in fiamme; ero tutto ardente. Bevvi finché il liquido usci dal mio corpo attraverso tutti i pori, e si proiettò fuori simile a fibre di seta, e anch'io acquistai una lunga criniera, luminosa e iridescente. Guardai il cane, e la sua criniera era come la mia. Una suprema felicità riempiva tutto il mie corpo, e corremmo insieme verso una specie di calore giallo che veniva da un qualche luogo indefinito. E qui giocammo. Giocammo e lottammo finché non conobbi i suoi desideri ed egli conobbe i miei. Ci alternammo a manovrarci a vicenda alla maniera di un teatro di burattini. Potevo fargli muovere le gambe torcendo le dita dei piedi, e ogni volta che abbassava la testa sentivo un irresistibile impulso a saltare. Ma il suo atto più birichino fu farmi grattare la testa col piede mentre ero seduto; lo fece facendo ondeggiare le orecchie da una parte all'altra. Questa azione fu per me totalmente, insopportabilmente divertente. Che tocco di grazia e di ironia; che maestria, pensavo. L'euforia che mi possedeva era indescrivibile. Risi finché non mi fu quasi impossibile respirare.

Ebbi la chiara sensazione di non essere capace di aprire gli occhi; stavo guardando attraverso un serbatoio d'acqua. Fu uno stato lungo e assai penoso, pieno dell'angoscia del non essere capace di svegliarmi e tuttavia essere sveglio. Quindi lentamente il mondo diventò chiaro e a fuoco. Il mio campo visivo ridivenne molto rotondo e ampio, e con esso venne un atto conscio ordinario, che era girarsi intorno e cercare quel meraviglioso essere. A questo punto incontrai la transizione più difficile. Il passaggio dal mio stato normale era avvenuto quasi senza che me ne rendessi conto: ero consapevole; i miei pensieri e le mie sensazioni erano un corollario di questa consapevolezza; e il passaggio era stato armonioso e chiaro. Ma questo secondo cambiamento, il risvegliarsi a una coscienza seria e sobria, fu autenticamente sconvolgente. Avevo dimenticato di essere un uomo. L'amarezza di una situazione talmente irreconciliabile fu così intensa che piansi.

Sabato, 5 agosto, 1961

 

 

Più tardi quella mattina, dopo la colazione, il proprietario della casa, don Juan ed io ritornammo all'abitazione di don Juan. Ero stanchissimo, ma non potei addormentarmi nel camioncino. Solo dopo che l'uomo se ne fu andato caddi addormentato nel portico della casa di don Juan.

Quando mi svegliai era buio; don Juan mi aveva messo addosso una coperta. Lo cercai, ma non era nella casa. Venne più tardi con una pentola di fagioli fritti e una grande quantità di tortillas. Ero estremamente affamato.

Terminato di mangiare, mentre stavamo riposando, mi chiese di raccontargli tutto quello che mi era successo la notte precedente. Riferii la mia esperienza molto dettagliatamente e con la maggior precisione possibile.

Quando ebbi finito accennò con la testa e disse: “Penso che tu sia a posto. Mi è difficile adesso spiegare come e perché. Ma penso che per te sia andato tutto bene. Vedi, qualche volta è scherzoso, come un bambino; altre volte è terribile, spaventoso. O scherza, o è mortalmente serio. Non si può sapere in anticipo come sarà con un'altra persona. Tuttavia, quando lo si conosce bene — qualche volta si può prevedere. Stanotte hai giocato con lui. Sei la sola persona che io sappia che abbia avuto un incontro del genere”.

“In che cosa si differenzia la mia esperienza da quella degli altri?”.

“Non sei un indiano; quindi mi è difficile immaginarmi in che consista la differenza. Tuttavia, o accetta le persone o le respinge, senza badare se siano o no indiani. Che io sappia. Ne ho visto una grande quantità. So anche che scherza, certa gente la fa ridere, ma non l'ho mai visto giocare con nessuno”.

“Don Juan, potete dirmi adesso come fa il peyote a proteggere...”.

Non mi lasciò terminare. Mi toccò vigorosamente sulla spalla.

“Non chiamarlo così! Non hai ancora visto abbastanza di lui per conoscerlo”.

“Come fa Mescalito a proteggere la gente?”.

“Consiglia. Risponde a qualsiasi domanda tu faccia”.

“Allora Mescalito è vero? Voglio dire è qualcosa che si può vedere?”.

Sembrò sconcertato dalla mia domanda. Mi guardò con una specie di espressione senza significato.

“Quello che intendevo dire è che Mescalito...”.

“Ho sentito quello che hai detto. Non l'hai forte visto ieri notte?”.

Volevo dirgli che avevo visto solamente un cane, ma notai il suo sguardo sconcertato.

“Allora pensate che quello che ho visto ieri notte era lui?”.

Mi guardò con disprezzo. Fece una risatina soffocata, scosse il capo come se non potesse crederci, e aggiunse in un tono molto bellicoso: “A poco crees que era tu... marna? (Non dirmi che credi che fosse tua... mamma?)”. Fece una pausa prima di dire ‘marna’ perché quello che intendeva dire era “tu chingada madre”, un'espressione usata come allusione poco rispettosa alla madre dell'interlocutore. La parola, ‘mama’ era talmente assurda che entrambi ridemmo a lungo.

Quindi mi resi conto che si era addormentato e non aveva risposto alla mia domanda.

Domenica, 6 agosto, 1961

 

 

Accompagnai con l'automobile don Juan alla casa in cui avevo preso il peyote. Lungo la strada mi disse che il nome dell'uomo che mi aveva ‘offerto a Mescalito’ era John. Quando arrivammo alla casa trovammo John seduto sul portico assieme a due giovani. Erano tutti estremamente gioviali. Ridevano e chiacchieravano con grande facilità. Tutti e tre parlavano inglese alla perfezione. Dissi a John che ero venuto a ringraziarlo per avermi aiutato.

Volevo sapere quello che pensavano sul mio comportamento durante l'esperienza allucinogena, e dissi loro che avevo tentato di pensare a quello che avevo fatto quella notte e che non riuscivo a ricordare. Risero ed erano riluttanti a parlare. Sembrava che si tenessero indietro per via di don Juan. Lo guardavano tutti come se aspettassero un cenno affermativo per continuare. Probabilmente don Juan fece un cenno, sebbene io non notassi nulla, perché improvvisamente John prese a dirmi quello che avevo fatto durante la notte.

Disse che aveva saputo che ero stato ‘preso’ quando mi aveva sentito vomitare. Calcolava che dovevo aver vomitato trenta volte Don Juan lo corresse e disse che erano state solo dieci volte.

John continuò: “Poi ci mettemmo tutti accanto a te. Eri irrigidito, e avevi delle convulsioni. Per moltissimo tempo, stando disteso sulla schiena, hai mosso la bocca come se parlassi. Poi hai cominciato a battere il capo sul pavimento, don Juan ti ha messo sulla testa un vecchio cappello e tu hai smesso. Sei rimasto a rabbrividire e a gemere per ore, disteso sul pavimento. Penso che a quel punto tutti si erano addormentati; ma ti ho sentito ansimare e gemere nel mio sonno. Poi ti ho sentito urlare e mi sono svegliato. Ti ho visto balzare in aria, urlando. Ti sei precipitato verso l'acqua, hai rovesciato la casseruola e hai cominciato a nuotare nella pozzanghera.”

“Don Juan ti ha portato dell'altra acqua. Ti sei seduto tranquillamente davanti alla casseruola. Poi sei saltato in piedi e ti sei tolto tutti i vestiti. Stavi inginocchiato davanti all'acqua, bevendo a grandi ; sorsate. Poi ti sei seduto a fissare il vuoto. Pensavamo che saresti rimasto lì per sempre. Erano quasi tutti addormentati, compreso don Juan, quando improvvisamente sei saltato di nuovo in piedi, ululando, e ti sei messo a inseguire il cane. Il cane si è spaventato, e ha ululato anche lui, e si è messo a correre dietro la casa. Allora tutti si sono svegliati.”

“Ci siamo alzati tutti. Tu sei ritornato dall'altra parte ancora inseguendo il cane. Il cane correva davanti a te abbaiando e ululando. Penso che devi aver girato venti volte intorno alla casa, correndo in cerchio, abbaiando come un cane. Temevo che la gente cominciasse a incuriosirsi. Non ci sono vicini qui intorno, ma il tuo ululare era così forte che avrebbe potuto essere sentito a miglia di distanza”.

Uno dei giovani aggiunse: “Hai catturato il cane e lo hai portato nel portico in braccio”.

John continuò: “Poi hai cominciato a giocare con il cane. Hai lottato con lui, e tu e il cane avete giocato e vi siete morsi a vicenda. Questo, penso, era divertente. Il mio cane di solito non gioca. Ma questa volta tu e il cane stavate rotolando l'uno sull'altro”.

“Poi sei corso all'acqua e il cane ha bevuto con te”, disse il giovane.

“Sei corso a bere con il cane cinque o sei volte”.

“Quanto tempo è durato?”, chiesi.

“Ore”, disse John. “A un certo momento vi abbiamo persi di vista tutti e due. Penso che dovete essere corsi dietro la casa. Vi sentivamo solo abbaiare e gemere. Assomigliavi talmente a un cane che non potevamo distinguervi l'uno dall'altro”.

“Può essere che fosse semplicemente il cane da solo”, dissi.

Risero, e John disse: “Eri là che abbaiavi, ragazzo!”.

“Che cosa è successo poi?”.

I tre si guardarono l'un l'altro, sembrava che non riuscissero a decidere che cosa era accaduto in seguito. Alla fine il giovane che non aveva ancora detto nulla parlò.

“Soffocava”, disse, rivolto a John.

“Sì, certamente, soffocavi. Hai cominciato a gridare in maniera molto strana, e poi sei caduto sul pavimento. Pensavamo che ti stessi mordendo la lingua; don Juan ti ha aperto le mascelle e ti ha versato dell'acqua in faccia. Poi hai cominciato di nuovo a rabbrividire e ad avere convulsioni.

Quindi sei rimasto immobile a lungo. Don Juan ha detto che era finito tutto. Era ormai mattina, così ti abbiamo buttato addosso una coperta e ti abbiamo lasciato a dormire sotto il portico”. A questo punto John si fermò e guardò gli altri uomini che stavano palesemente cercando di non ridere. Si rivolse a don Juan e gli disse qualcosa. Don Juan sorrise e rispose alla domanda. John si rivolse a me e disse: “Ti abbiamo lasciato sotto il portico perché temevamo che ti mettessi a pisciare in tutte le stanze”.

Risero tutti rumorosamente.

“Che cosa mi succedeva?”, chiesi. “Io...”.

“Tu?”, mi canzonò John. “Non volevamo dirlo, ma don Juan dice che è tutto regolare. Hai pisciato sul mio cane!”. “Che cosa ho fatto?”.

“Non penserai che il cane scappava perché aveva paura di te, forse? Il cane correva perché tu gli stavi pisciando addosso”.

A questo punto ci fu una risata generale. Cercai di interrogare uno dei giovani, ma stavano tutti ridendo e non mi udì.

John proseguì: “II mio cane si è preso la rivincita; anche lui ti ha pisciato addosso!”.

Questa affermazione era evidentemente divertentissima perché scoppiarono tutti dalle risate, compreso don Juan. Quando si furono calmati chiesi in tutta serietà: “È vero sul serio? È successo davvero?”. John replicò, sempre ridendo: “Ti giuro che il mio cane ti ha pisciato addosso”.

Tornando in macchina alla casa di don Juan gli chiesi: “È davvero successo tutto questo, don Juan?”.

“Sì”, mi rispose, “ma loro non sanno quello che hai visto. Non si rendono conto che stavi giocando con ‘lui’. È per questo che non ti ho disturbato”.

“Ma è vera questa storia del cane e me che ci pisciavamo addosso a vicenda?”.

“Non era un cane! Quante volte te lo devo dire? Questa è la sola maniera per capire. È la sola maniera! Era ‘lui’ che giocava con te”.

“Sapevate che stava accadendo tutto questo prima che ve lo dicessi?”.

Esitò per un istante prima di rispondere.

“No, ho ricordato, dopo che me lo hai raccontato, la strana maniera in cui guardavi. Sospettavo soltanto che stesse andando bene perché tu non mi sembravi spaventato”.

“Il cane ha veramente giocato con me come dicono loro?”.

“Maledizione! Non era un cane! ”.

Giovedì, 17 agosto, 1961

 

 

Dissi a don Juan quello che pensavo della mia esperienza. Dal punto di vista del lavoro che intendevo fare era stata disastrosa. Dissi che non mi interessava un altro ‘incontro’ del genere con Mescalito. Convenni che tutto quello che era successo era stato più che interessante, ma aggiunsi che nulla in ciò poteva veramente spingermi a ricercarlo di nuovo. Credevo seriamente di non essere tagliato per quel tipo di sforzo. Il peyote aveva prodotto in me, come reazione secondaria, uno strano tipo di disagio fisico. Era un timore indefinito e una indefinita infelicità; una malinconia di un qualche tipo, che non sapevo definire esattamente. E non trovavo alcunché di nobile in quello stato.

Don Juan rise e disse: “Stai cominciando a imparare”.

“Questo tipo di apprendimento non è per me. Non ci sono tagliato, don Juan”.

“Esageri sempre”.

“Non è un'esagerazione”.

“Lo è. La sola difficoltà è che esageri soltanto gli aspetti sfavorevoli”.

“Non ci sono aspetti favorevoli per quel che mi riguarda. Tutto quello che so è che mi fa paura”.

“Non c'è nulla di male nell'aver paura. Quando hai paura vedi le cose in modo diverso”.

“Ma non mi importa di vedere le cose in modo diverso. Penso che intendo abbandonare lo studio di Mescalito. Non riesco a tenerlo in mano. Per me è veramente una brutta situazione”.

“Naturalmente è brutta; anche per me. Non sei il solo a essere sconcertato”.

“Perché dovreste essere sconcertato voi, don Juan?”.

“Sono stato a pensare a quello che ho visto l'altra notte. Mescalito ha veramente giocato con te. Questo mi ha sconcertato, perché era un'indicazione (presagio)”.

“Che tipo di indicazione, don Juan?”.

“Mescalito ti indicava a me”.

“Perché?”.

“In quel momento non mi era chiaro, ma adesso lo è. Voleva dire che tu sei il ‘prescelto’ (escogido). Mescalito ti ha indicato a me, e nel far ciò mi ha detto che tu eri l'uomo prescelto”.

“Volete dire che io sono stato scelto tra altri per un qualche compito, o per qualcosa del genere?”.

“No. Quello che voglio dire è che Mescalito mi ha detto che tu potresti essere l'uomo che sto cercando”.

“Quando ve lo ha detto, don Juan?”.

“Giocando con te me lo ha detto. Questo ti rende per me il prescelto”.

“Che cosa vuoi dire essere il prescelto?”. , “Conosco dei segreti (Tengo secretos). Ho dei segreti che non posso rivelare a nessuno finché non trovo il mio prescelto. L'altra notte quando ti ho visto giocare con Mescalito mi è stato chiaro che tu eri l'uomo. Ma tu non sei un indiano. Che cosa sconcertante!”.

“Ma che cosa significa questo per me, don Juan? Che cosa devo fare?”.

“Ho deciso, e intendo rivelarti i segreti che costituiscono la fortuna di un uomo di conoscenza”.

“Intendete dire i segreti riguardanti Mescalito?”.

“Sì, ma quelli non sono tutti i segreti che conosco. Ce ne sono degli altri, di tipo diverso, che vorrei trasmettere a qualcuno. Io stesso ho avuto un maestro, il mio benefattore, e anch'io sono diventato il suo prescelto dopo il compimento di un certo fatto. Mi ha insegnato tutto quello che so”.

Gli chiesi ancora quali sarebbero state le esigenze di questo nuovo ruolo; disse che la sola cosa che comportava era imparare, imparare nel senso di ciò che avevo esperimentato nelle due sedute con lui.

La piega presa dalla situazione era ben strana. Avevo deciso di dirgli che intendevo abbandonare l'idea di imparare a conoscere il peyote, ed ecco che, prima che potessi veramente dire quello che intendevo, mi offriva di insegnarmi la sua ‘conoscenza’. Non sapevo che cosa intendesse con questo, ma sentivo che questa svolta improvvisa era molto seria. Dissi che non avevo qualifiche per un compito del genere, in quanto richiedeva un raro tipo di coraggio che io non possedevo. Gli dissi che il mio carattere mi portava a parlare di azioni compiute da altri. Volevo ascoltare i suoi punti di vista e le sue opinioni a proposito di tutto. Gli dissi che potevo essere felice se avessi potuto sedergli accanto e ascoltarlo parlare per intere giornate. Questo, per me, sarebbe stato imparare.

Ascoltò senza interrompermi. Parlai a lungo. Quindi disse: “Tutto questo è molto facile da comprendere. La paura è il primo nemico naturale che un uomo deve superare lungo il suo cammino verso la conoscenza. Inoltre, tu sei curioso. Questo mette le cose in pari. E imparerai a dispetto di te stesso. Questa è la regola”.

Protestai ancora un poco, cercando di dissuaderlo. Ma sembrava convinto che non ci fosse altro che io potessi fare se non imparare.

“Non stai pensando nella maniera giusta”, disse. “Mescalito ha veramente giocato con te. È a questo che devi pensare. Perché non ti soffermi su questo invece che sulla tua paura?”.

“È stata una cosa così insolita”.

“Tu sei la sola persona che io abbia visto giocare con lui. Tu non sei abituato a questo tipo di vita; quindi le indicazioni (i presagi) ti passano accanto senza che tu te ne renda conto. Tuttavia sei una per sona seria, ma la tua serietà è attaccata a quello che fai, non a quello che avviene fuori di te. Ti soffermi troppo su te stesso. Questo è il guaio. E questo produce una fatica terribile”.

“Ma che cosa altro posso fare, don Juan?”.

“Cercare e vedere le meraviglie tutto intorno a te. Ti stancherai di guardare solo te stesso, e quella stanchezza ti renderà sordo e muto per tutto il resto”.

“Avete un bel dire, don Juan; ma come posso cambiare?”.

“Pensa alla meraviglia di Mescalito che gioca con te. Non pensare a nient'altro: il resto verrà da sé”.

Domenica, 20 agosto, 1961

 

 

Ieri sera don Juan ha cominciato a guidarmi nel regno della sua conoscenza. Sedevamo al buio davanti alla casa. Improvvisamente, dopo un lungo silenzio, cominciò a parlare. Disse che intendeva consigliarmi con le stesse parole che il suo benefattore aveva usato il primo giorno in cui lo aveva preso come suo novizio. Don Juan aveva evidentemente imparato le parole a memoria, perché le ripeté diverse volte, per accertarsi che non ne perdessi nessuna.

“Un uomo va alla conoscenza come va alla guerra, vigile, con timore, con rispetto, e con assoluta sicurezza. Andare alla conoscenza o andare alla guerra in qualsiasi altro modo è un errore, e chiunque lo fa vivrà per rimpiangere i suoi passi”.

Gli chiesi perché fosse così, e mi rispose che quando un uomo ha soddisfatto a questi quattro requisiti non ci sono errori che egli debba spiegare; in tali condizioni i suoi atti perdono l'aspetto goffo dell'atto di un folle. Se un tale uomo fallisce, o patisce una sconfitta, avrà perso solo una battaglia, e per questa non ci saranno penosi rimpianti.

Quindi disse che intendeva istruirmi su un ‘alleato’ nella stessissima maniera in cui gli aveva insegnato il suo benefattore. Diede molto risalto alle parole ‘stessissima maniera’, ripetendo più volte la frase.

Un ‘alleato’, disse, è un potere che un uomo può portare nella propria vita per ottenere aiuto, consiglio, e la forza necessaria per compiere azioni, sia grandi che piccole, sia buone che cattive. Questo alleato è necessario per intensificare la vita di un uomo, per guidare le sue azioni, e approfondire la sua conoscenza. In effetti un alleato è un aiuto indispensabile per il conoscere. Don Juan disse questo con gran forza e convinzione. Sembrava scegliere con cura le parole. Ripeté quattro volte la seguente frase: “Un alleato ti farà vedere e comprendere cose sulle quali nessun essere umano potrebbe forse illuminarti”.

“Un alleato è qualcosa di simile a uno spirito custode?”. “Non è né un custode né uno spirito. È un aiuto”. “Mescalito è il vostro alleato?”.

“No. Mescalito è un altro tipo di potere. Un 'potere unico! Un protettore, un maestro”.

“Che cosa è che rende Mescalito differente da un alleato?”. “Non può essere domato e usato come viene domato e usato un alleato. Mescalito è esterno. Sceglie di mostrarsi in molte forme a chiunque gli stia dinnanzi, senza curarsi se questa persona è un brujo o un garzone di fattoria”.

Don Juan disse con profondo fervore che Mescalito era il maestro del giusto modo di vivere. Gli chiesi come Mescalito insegnasse il ‘giusto modo di vivere’, e don Juan rispose che Mescalito mostrava come vivere.

“Come lo mostra?”, chiesi.

“Ha molte maniere per mostrarlo. Talvolta lo mostra sulla sua mano, o sulle rocce, o sugli alberi, o proprio davanti a te”.

“È come un'immagine davanti a te?”.

“No. È un insegnamento davanti a te”.

“Mescalito parla alla gente?”.

“Sì. Ma non a parole”.

“Come parla, allora?”.

“Parla a ognuno in modo diverso”.

Sentii che le mie domande lo infastidivano. Non domandai altro. Don Juan proseguì a spiegare che per conoscere Mescalito non esistevano dei passi determinati; quindi nessuno, se non Mescalito stesso, poteva insegnare qualcosa a proposito di se stesso. Questa qualità faceva di lui un potere unico; non era lo stesso per ognuno.

D'altra parte l'acquisto di un alleato richiedeva, disse don Juan, l'insegnamento più preciso e il seguire stadi o passi senza una singola deviazione. Disse che nel mondo ci sono molti poteri alleati del genere, ma che egli ne conosceva bene solo due. E intendeva guidarmi a loro e ai loro segreti, ma spettava a me scegliere uno solo di questi, perché potevo averne uno soltanto. L'alleato del suo benefattore era nella yerba del diablo (erba del diavolo), disse, ma a lui personalmente non piaceva, anche se il suo benefattore gliene aveva insegnato i segreti. Il suo alleato era nel humito (piccolo fumo), disse, ma non si dilungò sulla natura del fumo.

Lo interrogai su di esso. Rimase in silenzio. Dopo una lunga pausa gli chiesi : “Che tipo di potere è un alleato?”.

“È un aiuto. Te l'ho già detto”.

“Come aiuta?”.

“Un alleato è un potere capace di trasportare un uomo ai confini di se stesso. Questo è il modo in cui un alleato può rivelare cose che nessun essere umano potrebbe”.

“Ma anche Mescalito ti porta al di là dei confini di te stesso. Questo non fa di lui un alleato?”.

“No. Mescalito ti porta fuori di te stesso per insegnarti. Un alleato ti conduce fuori per darti potere”.

Gli chiesi di spiegarmi questo punto più dettagliatamente, o di descrivere la differenza di effetto tra i due. Mi guardò a lungo e rise. Disse che imparare attraverso la conversazione era non solo una perdita di tempo, ma anche una cosa stupida, perché imparare era il compito più difficile a cui un uomo potesse accingersi. Mi disse di ricordare la volta in cui avevo cercato di trovare il mio posto, e come volessi trovarlo senza fare nessuno sforzo perché mi aspettavo che lui mi fornisse tutte le indicazioni. Se lo avesse fatto, disse, non avrei mai imparato. Invece, sapere quanto fosse difficile trovare il mio posto, e soprattutto sapere che esisteva, mi avrebbe, dato un senso di sicurezza unico. Disse che finché rimanevo attaccato al mio ‘posto giusto’ nulla poteva farmi male fisicamente, perché avevo la certezza che in quel posto mi trovavo nelle mie migliori condizioni. Avevo il potere di allontanare tutto ciò che potesse essermi dannoso. Se, tuttavia, mi avesse detto dov'era, non avrei mai avuto la sicurezza necessaria per proclamarlo come vera conoscenza. La conoscenza, quindi, era davvero potere.

Don Juan disse che ogni volta che un uomo si accinge a imparare deve affaticarsi quanto mi ero affaticato io per trovare il posto, e i limiti del suo imparare sono determinati dalla sua natura. Quindi non vedeva alcuna utilità nel parlare della conoscenza. Disse che alcuni tipi di conoscenza erano troppo potenti per le mie forze, e parlarne mi avrebbe solo nuociuto. Evidentemente pensò che non c'era altro che volesse dirmi. Si alzò e si incamminò verso la casa. Gli dissi che la situazione mi schiacciava. Non era come l'avevo immaginata o come volevo che fosse.

Rispose che le paure sono naturali; che noi tutti le proviamo e che non possiamo farci nulla. Ma d'altra parte, non importa quanto possa essere terrificante imparare, è più terribile pensare a un uomo senza un alleato, o senza conoscenza.

 


3.

 

 

Nell'intervallo di due anni e oltre dal momento in cui decise di insegnarmi i poteri alleati fino al momento in cui pensò che fossi pronto a imparare nella forma pragmatica e partecipatoria che considerava come apprendimento, don Juan definì gradualmente gli aspetti generali dei due alleati in questione. Mi preparò all'indispensabile corollario di tutta la teoria, e al consolidamento di tutti gli insegnamenti: gli stati di realtà non ordinaria.

Da principio parlò dei poteri alleati in maniera molto casuale. I primi riferimenti che ho nei miei appunti sono inframmezzati da altri argomenti di conversazione.

Mercoledì, 23 agosto, 1961

 

 

“L'erba del diavolo (Datura inoxia) era l'alleato del mio benefattore. Avrebbe potuto anche essere il mio, ma non mi piaceva”.

“Perché non vi piaceva l'erba del diavolo, don Juan?”.

“Ha un grave inconveniente”.

“È inferiore agli altri poteri alleati?”.

“No. Non fraintendermi. È potente quanto il migliore degli alleati, ma c'è in lei qualcosa che personalmente non mi piace”.

“Potete dirmi che cos'è?”.

“Altera gli uomini. Da loro troppo presto il gusto del potere senza fortificare i loro cuori, e li rende prepotenti e imprevedibili. Li rende deboli in mezzo al loro grande potere”.

“C'è una maniera per evitare questo?”.

“C'è una maniera per superarlo, ma non per evitarlo. Chiunque diventa alleato dell'erba deve pagare questo prezzo”.

“Come si può superare quell'effetto, don Juan?”.

“L'erba del diavolo ha quattro teste: la radice, lo stelo e le foglie, i fiori, e i semi. Ciascuna è differente dalle altre, e chiunque diventa il suo alleato deve impararle in quell'ordine. La testa più importante è nelle radici. Il potere dell'erba del diavolo si conquista attraverso le radici. Lo stelo e le foglie sono la testa che guarisce le malattie; usata adeguatamente, questa testa è un dono per l'umanità. La terza testa e nei fiori, ed è usata per fare impazzire la gente, o per renderla obbediente, o per ucciderla. L'uomo il cui alleato è l'erba non ingerisce mai i fiori, né ingerisce lo stelo e le foglie, proprio per questo, tranne nel caso che sia ammalato; ma le radici e i semi vengono ingeriti sempre; specialmente i semi; sono la quarta testa dell'erba del diavolo, e la più potente delle quattro”.

“Il mio benefattore era solito dire che i semi sono la ‘testa sobria’, la sola parte che possa fortificare il cuore dell'uomo. L'erba del diavolo è dura con suoi protetti, era solito dire, perché tende a ucciderli rapidamente, cosa che di solito porta a termine prima che essi possano arrivare ai segreti della ‘testa sobria’. Si racconta, tuttavia, di uomini che hanno interpretato i segreti della testa sobria. Che sfida per un uomo di conoscenza!”.

“Il vostro benefattore interpretò quei segreti?”. “No, non lo fece”. “Avete conosciuto nessuno che lo abbia fatto?”.

“No. Ma vivevano in un tempo in cui quella conoscenza era importante”.

“Conoscete nessuno che abbia incontrato quegli uomini?”. “Non ne conosco”.

“Il vostro benefattore ne conosceva qualcuno?” “Sì”. “Perché non arrivò ai segreti della testa sobria?”.

“Domare l'erba del diavolo e farsene un alleato è uno dei compiti più difficili che io conosca. Non è mai diventata una sola cosa con me, per esempio, forse perché non mi è mai piaciuta”. “Potete tuttavia usarla a dispetto del fatto che non l'amate?”.

“Lo posso. Ciò nonostante preferisco non farlo. Forse per te sarà diverso”. “Perché è chiamata erba del diavolo?”.

Don Juan fece un gesto di indifferenza, alzò le spalle, e rimase silenzioso per un certo tempo. Alla fine disse che ‘erba del diavolo’ era il suo nome temporaneo (su nombre de leche). Disse anche che esistevano altri nomi per l'erba del diavolo, ma non dovevano essere usati, perché pronunciare un nome era una cosa seria, specialmente se si stava imparando a domare un potere alleato. Gli chiesi perché pronunciare un nome fosse una faccenda così seria. Rispose che i nomi erano riservati per essere usati solo quando si chiedeva aiuto, in momenti di grande tensione e bisogno, e mi assicurò che tali momenti capitano presto o tardi nella vita di chiunque ricerchi la conoscenza.

Domenica, 3 settembre, 1961

 

 

Nel pomeriggio, don Juan raccolse due piante di Datura nel campo. Del tutto inaspettatamente aveva introdotto nella conversazione l'argomento dell'erba del diavolo, e quindi mi chiese di andare con lui sulle colline a cercarne una.

Andammo con l'automobile fino alle vicine montagne. Tirai fuori una pala dal bagagliaio e ci incamminammo in uno dei canyon. Camminammo per un bel po', aprendoci un varco tra la boscaglia che cresceva fitta sul terreno soffice e sabbioso. Don Juan si fermò vicino a una pianta dalle foglie color verde scuro e con grandi fiori bianchi a forma di campana.

“Eccone una”, disse.

Immediatamente cominciò a scavare. Cercai di aiutarlo, ma rifiutò scuotendo vigorosamente il capo, e continuò a scavare un buco circolare intorno alla pianta: un buco a forma di cono, profondo verso il bordo esterno e che risaliva in un monticello al centro del cerchio. Quando smise di scavare si inginocchiò vicino allo stelo e tolse con le dita il soffice terriccio che lo circondava, scoprendo circa dieci cent-metri di una grossa radice tuberiforme e biforcata, il cui spessore contrastava nettamente con quello dello stelo, che in confronto appariva fragile.

Don Juan mi guardò e disse che la pianta era un ‘maschio’ perché la radice si biforcava esattamente nel punto in cui si congiungeva allo stelo. Quindi si alzò e cominciò a camminare allontanandosi, cercando qualcosa. “Che cosa cercate, don Juan?”. “Voglio trovare un bastone”. Cominciai a cercare intorno, ma mi fermò.

“Non tu! Siediti qui”. Indicò delle rocce a qualche metro di distanza. “Lo troverò io”.

Poco dopo era di ritorno con un lungo ramo secco. Servendosene come di una vanga, assottigliò accuratamente il terriccio lungo i due rami divergenti della radice. Li pulì intorno fino a una profondità di circa sessanta centimetri. A mano a mano che scavava più a fondo la terra diventava così compatta che era praticamente impossibile penetrarla col bastone.

“Perché non la scavate fuori con la pala?”, chiesi. “Potrei tagliare la pianta e ferirla. Ho dovuto prendere un bastone che appartenesse a questa zona così che, se avessi colpito la radice, la ferita non sarebbe stata così brutta come quella causata da una pala o da un oggetto estraneo”.

“Che tipo di bastone avete preso?”.

“Andrebbe bene qualsiasi ramo secco dell'albero ‘paloverde’. Se non ci sono rami secchi ne devi tagliare uno fresco”.

“Si possono usare i rami di qualsiasi altro albero?”.

“Te l'ho detto, solo paloverde e nessun altro”.

“Perché, don Juan?”.

“Perché l'erba del diavolo ha pochissimi amici, e il paloverde è il solo albero di questa zona con cui vada d'accordo, la sola cosa che fa presa su di essa (lo unico que prende). Se danneggi la radice con una pala questa non ricrescerà per te quando la trapianterai, ma se la ferisci con un bastone come questo, c'è la possibilità che la pianta non lo senta nemmeno”.

“Che cosa state per fare adesso con la radice?”.

“Devo tagliarla. Tu devi andar via. Va' a cercarti un'altra pianta e aspetta finché non ti chiamo”.

“Non volete che vi aiuti?”.

“Mi aiuterai solo se te lo chiederò”.

Mi allontanai e cominciai a cercare un'altra pianta per combattere il forte desiderio di girargli intorno di soppiatto per osservarlo. Dopo un po' mi raggiunse.

“Cerchiamo la femmina adesso”, disse.

“Come fate a distinguerle?”.

“La femmina è più alta e cresce al di sopra del terreno così da sembrare veramente un alberello. Il maschio è grosso e si allarga vicino al terreno e somiglia più a un fitto cespuglio. Una volta scavata la femmina vedrai che ha una lunga radice che si allunga molto prima di biforcarsi. Il maschio, invece, ha una radice biforcata unita allo stelo”.

Cercammo insieme per il campo di Datura. Quindi don Juan, indicando una pianta, disse: “Quella è una femmina”. E cominciò a scavarla fuori come aveva fatto con l'altra. Non appena ebbe pulito la radice potei vedere che questa si conformava alla sua previsione. Mi allontanai di nuovo quando fu per tagliarla.

Quando arrivammo a casa aprì il fagotto in cui aveva messo le piante di Datura. Prese prima la più grossa, il maschio, e la lavò in un grande vassoio di metallo. Tolse accuratamente tutta la terra dalla radice, dallo stelo e dalle foglie. Dopo tale meticolosa pulizia separò lo stelo dalla radice facendo un'incisione superficiale attorno allo spessore della loro giuntura con un corto coltello seghettato, e spezzandoli In due. Prese lo stelo e ne separò ogni parte facendo dei singoli mucchietti con le foglie, i fiori e i baccelli spinosi. Gettò via tutte le parti secche o deteriorate dai vermi, e conservò solo le parti complete. Legò insieme i due rami della radice con due pezzi di spago, li spezzò in due dopo aver fatto un taglio superficiale alla giuntura, e ottenne due pezzi di radice di uguali dimensioni.

Quindi prese un pezzo di rozza tela e ci mise dentro prima i due pezzi di radice legati insieme; sopra a questi mise le foglie in un bel mazzetto, quindi i fiori, i baccelli e lo stelo. Piegò la tela e ne annodò i capi.

Ripeté esattamente lo stesso procedimento con l'altra pianta, la femmina, tranne che, quando arrivò alla radice, invece di tagliarla lasciò la biforcazione intatta, come una lettera Y capovolta. Poi mise tutte le parti in un altro fagotto di stoffa. Quando ebbe finito era già buio.

Mercoledì, 6 settembre, 1961

 

 

Nel tardo pomeriggio tornammo sull'argomento dell'erba del diavolo.

“Penso che dovremmo ricominciare con quell'erba”, disse improvvisamente don Juan.

Dopo un silenzio educato chiesi: “Che cosa intendete fare delle piante?”.

“Le piante che ho tagliato e scavato sono mie”, rispose. “È come se fossero me stesso; con queste ti insegnerò la maniera in cui domare l'erba del diavolo”.

“Come lo farete?”.

“L'erba del diavolo è divisa in porzioni (partes). Ciascuna porzione è differente; ciascuna ha il suo scopo e la sua funzione”.

Aprì la mano sinistra e misurò il terreno dalla punta del pollice a quella del mignolo.

“Questa è la mia porzione. Misurerai la tua con la tua mano. Adesso, per stabilire il dominio sull'erba del diavolo, devi cominciare col prendere la prima porzione della radice. Ma dal momento che io ti ho portato a lei, tu devi prendere la prima porzione della radice della mia pianta. L'ho misurata per te, quindi quella che tu devi prendere all'inizio è in realtà la mia porzione”.

Entrò in casa e ne uscì con uno dei fagotti di tela. Sedette e lo aprì. Notai che era la pianta maschio. Notai anche che c'era soltanto un pezzo di radice. Prese il pezzo rimasto dei due che c'erano prima e lo tenne sospeso davanti alla mia faccia.

“Questa è la tua porzione”, disse. “Io la do a te. L'ho tagliata io stesso per te. L'ho misurata come se fosse la mia; adesso io la do a te”.

Per un istante mi passò per la testa l'idea che avrei dovuto masticarla come una carota, ma don Juan la mise dentro un sacchetto bianco di cotone.

Si diresse dietro la casa. Là si sedette con le gambe incrociate e cominciò a schiacciare la radice dentro il sacco con un mano rotondo. La lavorò sopra una piastra che serviva da mortaio. Di quando in quando lavava le due pietre; teneva l'acqua in un piccolo catino piatto scavato nel legno.

Mentre pestava cantava una canzone incomprensibile, molto dolce e monotona. Quando ebbe schiacciato la radice fino a ridurla una soffice poltiglia all'interno del sacco, la mise nel catino di legno. Mise quindi il mortaio e il pestello nel catino, lo riempì d'acqua, e poi lo mise su una specie di truogolo appoggiato contro il recinto posteriore.

Disse che la radice doveva macerare per tutta la notte, e doveva essere lasciata fuori della casa così che prendesse l'aria della notte (el sereno). “Se domani sarà una calda giornata di sole sarà un presagio eccellente”, disse.

Domenica, 10 settembre, 1961

 

 

Il 7 settembre era una giornata molto limpida e calda. Don Juan sembrava molto contento del buon presagio, e ripeté molte volte che probabilmente ero piaciuto all'erba del diavolo. La radice era rimasta a macerare tutta la notte, e verso le dieci del mattino ci dirigemmo verso la parte posteriore della casa. Don Juan tolse il catino dal truogolo, lo mise per terra, e ci si sedette vicino. Prese il sacchetto e lo strofinò sul fondo del catino, lo tenne sospeso qualche centimetro al di sopra dell'acqua e ne spremette il contenuto. Ripeté lo stesso procedimento altre tre volte, quindi mise via il sacchetto, gettandolo nel truogolo, e lasciò il catino in pieno sole.

Ritornammo due ore dopo. Don Juan portava con sé un bricco di media grandezza con dentro dell'acqua bollente, giallastra. Inclinò il catino con molta attenzione e vuotò l'acqua di superficie, conservando la densa poltiglia che si era raccolta sul fondo. Versò l'acqua bollente sulla poltiglia e lasciò di nuovo il catino al sole.

Questo procedimento fu ripetuto tre volte a intervalli di più di un'ora. Alla fine versò tutta l'acqua fuori del catino, lo inclinò da un lato perché prendesse l'ultimo sole del pomeriggio, e lo lasciò. Quando ritornammo, alcune ore più tardi, era buio. Sul fondo del catino c'era uno strato di sostanza gommosa. Somigliava a un pezzo di amido mezzo cotto, biancastro o grigio chiaro. Ce n'era forse un cucchiaio pieno. Don Juan portò il catino in casa, e mentre metteva a bollire dell'acqua io tolsi alcuni pezzenti di terra che il vento aveva fatto cadere nella poltiglia. Mi prese in giro.

“Quel po' di terra non farà male a nessuno”.

Quando l'acqua bollì ne versò all’incirca una tazza nel catino. Era la stessa acqua giallastra che aveva usato prima. Disciolse la poltiglia formando una specie di sostanza lattiginosa.

“Che razza di acqua è, don Juan?”.

“Acqua di fiori e frutti del canyon”.

Vuotò il contenuto del catino in un vecchio boccale di argilla che sembrava un vaso da fiori. Era ancora molto caldo, così vi soffiò sopra per raffreddarlo. Ne prese un sorso e mi porse il boccale.

“Bevi, adesso!”, disse.

Lo presi automaticamente e bevvi senza pensarci tutta l'acqua. Aveva un gusto un po' amaro, sebbene l'amaro si notasse appena. Quello che era molto singolare era l'odore dell'acqua. Odorava di scarafaggio.

Quasi immediatamente incominciai a sudare. Sentivo molto caldo e il sangue mi affluiva alle orecchie. Vidi una macchia rossa davanti agli occhi e i muscoli dello stomaco incominciarono a contrarsi in crampi dolorosi. Dopo un poco, sebbene non sentissi più dolore, incominciai ad avere freddo, e il sudore mi inzuppava letteralmente.

Don Juan mi chiese se vedevo del nero o delle macchie nere davanti agli occhi. Risposi che stavo vedendo tutto rosso.

Battevo i denti per via di un nervosismo incontrollabile che mi coglieva a ondate, come se si irradiasse dal centro del petto.

Quindi don Juan mi chiese se avessi paura. Le sue domande mi sembravano prive di significato. Gli dissi che ovviamente avevo paura, ma mi chiese ancora se avessi paura di lei. Non compresi quel che voleva dire e risposi di sì. Rise, e disse che non avevo veramente paura. Mi chiese se vedevo ancora rosso. Tutto quello che vedevo era una grande macchia rossa davanti agli occhi.

Dopo un poco mi sentii meglio. Gradualmente gli spasimi nervosi scomparvero, lasciando solo una stanchezza dolorosa e piacevole, e un intenso desiderio di dormire. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti, anche se potevo sentire ancora la voce di don Juan. Caddi addormentato, ma la sensazione di essere sommerso in un rosso intenso persisté tutta la notte. Feci anche dei sogni in rosso.

Mi svegliai sabato alle tre del pomeriggio. Avevo dormito quasi due giorni. Sentivo un leggero mal di testa e avevo lo stomaco sottosopra con dei dolori intermittenti molto acuti negli intestini. A parte ciò, tutto il resto era come un risveglio ordinario. Trovai don Juan che sonnecchiava davanti alla casa. Mi sorrise.

“È andato tutto bene l'altra notte”, disse. “Hai visto rosso, e questo è tutto quello che conta”.

“Che cosa sarebbe accaduto se non avessi visto rosso?”.

“Avresti visto nero, e sarebbe stato un brutto segno”.

“Perché brutto?”.

“Quando un uomo vede nero vuol dire che non è fatto per l'erba del diavolo, e vomita le sue viscere, tutte verdi e nere”.

“Potrebbe morire?”.

“Non credo che nessuno ne morirebbe, ma resterebbe ammalato per molto tempo”.

“Che cosa succede a quelli che vedono rosso?”. ' “Non vomitano, e la radice da loro un effetto piacevole, che significa che la loro natura è forte e violenta, una cosa che all'erba piace. Questa è la sua forma di seduzione. Il solo punto negativo è che gli uomini finiscono schiavi dell'erba del diavolo in cambio del potere che essa da loro. Ma questi sono campi su cui non abbiamo alcun controllo. L'uomo vive solo per imparare. E se impara è perché questa è la natura che gli è toccata in sorte, per il bene e per il male”.

“Che cosa dovrò fare dopo, don Juan?”.

“Dopo dovrai piantare un germoglio (brote) che io ho tagliato dall'altra metà della prima porzione di radice. Ne hai presa metà l'altra notte, e adesso l'altra metà deve essere messa nel terreno. Deve crescere e produrre semi prima che tu possa intraprendere il vero e proprio compito di domare la pianta”.

“Come la domerò?”.

“L'erba del diavolo viene domata attraverso la radice. Un passo dopo l'altro, devi imparare i segreti di ciascuna porzione della radice. Devi ingerirla per impararne i segreti e conquistarne il potere”.

“Le differenti porzioni sono preparate nello stesso modo in cui avete preparato la prima?”.

“No, ogni porzione è diversa”.

“Quali sono gli effetti specifici di ciascuna porzione?”.

“Te l'ho già detto, ciascuna insegna una differente forma di potere. Quella che hai preso l'altra notte non è ancora niente. Lo può fare chiunque. Ma solo il brujo può prendere le porzioni profonde. Non posso dirti che cosa fanno perché ancora non so se ti prenderà. Dobbiamo aspettare”.

“Quando me lo direte, allora?”.

“Quando la tua pianta sarà cresciuta e avrà prodotto dei semi”.

“Se la prima porzione può essere presa da chiunque, a che cosa serve?”.

“In forma diluita è buona per tutte le cose umane, vecchi che hanno perduto il loro vigore, o giovani che stanno cercando avventure, o anche donne che vogliono la passione”.

“Voi dite che la radice è usata solo per ottenere il potere, ma vedo che è usata anche per altre cose oltre al potere. Ho ragione?”.

Mi guardò a lungo, con uno sguardo fisso che mi imbarazzava. Sentii che la mia domanda lo aveva fatto andare in collera, ma non potevo capire perché.

“L'erba è usata solo per ottenere il potere”, disse alla fine in un tono secco e rigido. “L'uomo che rivuole il suo vigore, i giovani che cercano di sopportare la fatica e la fame, l'uomo che vuole uccidere un altro uomo, la donna che vuole essere in calore; desiderano tutti il potere. E l'erba lo darà loro! Senti forse che ti piace?”, chiese dopo una pausa.

“Sento uno strano vigore”, dissi, ed era vero. Lo avevo notato al risveglio e lo sentivo adesso. Era una stranissima sensazione di disagio, o di frustrazione; tutto il mio corpo si muoveva e si tendeva con una leggerezza e una forza insolite. Le braccia e le gambe mi prudevano. Mi sembrava che le spalle mi si gonfiassero; mi sentivo i muscoli della schiena e del collo come se spingessi o mi strofinassi contro degli alberi. Sentivo che avrei potuto demolire un muro a testate.

Non parlammo più. Sedemmo per un poco sotto il portico. Notai che don Juan si stava addormentando; reclinò il capo un paio di volte, quindi allungò semplicemente le gambe, si distese sul pavimento con le mani dietro il capo, e si addormentò. Mi alzai e andai dietro la casa dove bruciai il mio eccesso di energia fisica spazzando via i rifiuti. Ricordavo che don Juan aveva detto che gli sarebbe piaciuto che io lo aiutassi a tenere pulito il retro della casa.

Più tardi, quando don Juan si svegliò e venne dietro la casa, ero già rilassato.

Ci sedemmo per mangiare, e nel corso del pasto mi chiese tre volte come mi sentissi. Poiché ciò era molto raro, alla fine chiesi: “Perché vi preoccupate tanto di come mi sento, don Juan? Vi aspettate che abbia una brutta reazione dopo aver bevuto quell'intruglio?”.

Rise. Pensai che si comportava come un bambino malizioso che abbia imbastito uno scherzo e ne controlli di volta in volta i risultati. Ancora ridendo, disse: “Non mi sembri ammalato. Poco fa sei addirittura stato sgarbato con me”.

“Non l'ho fatto, don Juan”, protestai. “Non ricordo nemmeno di avervi parlato come voi dite”. Ero molto serio su questo punto perché non mi ricordavo di essermi mai sentito seccato nei suoi confronti.

“Ti sei messo a difenderla”, disse.

“A difendere chi?”.

“Stavi difendendo l'erba del diavolo. Sembravi già un innamorato”.

Stavo per protestare ancor più vigorosamente, ma mi fermai.

“Non mi sono neppure reso conto di difenderla”.

“Naturalmente no. Non ti ricordi neppure di quello che hai detto, vero? ”.

“No, non mi ricordo. Devo riconoscerlo”.

“Vedi, l'erba del diavolo è fatta così. Si insinua in te come una donna. Non te ne rendi neppure conto. Tutto quello di cui ti preoccupi è che ti fa sentire buono e forte: i muscoli che si gonfiano dal vigore, i pugni che prudono, le piante dei piedi che ardono dalla voglia di buttare a terra qualcuno. Quando un uomo la conosce diventa davvero pieno di brame. Il mio benefattore era solito dire che l'erba del diavolo tiene gli uomini che vogliono il potere, e si sbarazza di quelli che non lo sanno tenere in pugno. Ma a quei tempi il potere era comune; era cercato più avidamente. Il mio benefattore era un uomo potente, e in base a quel che mi ha detto, il suo benefattore, a sua volta, era ancor più dedito alla ricerca del potere. Ma a quei tempi c'erano buone ragioni per essere potenti”.

“Pensate che oggigiorno non vi sia ragione per il potere?”.

“Il potere va benissimo per te, adesso; tu sei giovane, non sei un indiano. Forse l'erba del diavolo sarebbe cosa buona in mano tua, sembra che ti sia piaciuta. Ti ha fatto sentire forte. Mi sono sentito così io stesso e tuttavia non mi è piaciuta”.

“Potete dirmi perché, don Juan?”.

“Non mi piace il suo potere! Non serve più: In altri tempi, come quelli di cui mi ha parlato il mio benefattore, vi era una ragione per cercare il potere. Gli uomini compivano gesta fenomenali, erano ammirati per la loro forza e temuti e rispettati per la loro conoscenza. Il mio benefattore mi ha raccontato storie di gesta davvero fenomenali compiute molto tempo fa. Ma oggi noi indiani non cerchiamo più il potere. Oggi gli indiani usano l'erba per frizionarsi. Usano le foglie e i fiori per altre cose; dicono anche che guarisce i loro foruncoli. Ma non cercano il suo potere, un potere che agisce come una calamità, più potente e più pericoloso da tenere in pugno a mano a mano che la radice si sprofonda di più nel terreno. Quando si arriva a una profondità di tre metri - si dice che alcuni ci siano arrivati - si trova la sede del potere permanente, del potere senza fine. Sono pochissimi gli esseri umani che lo hanno fatto nel passato, e nessuno lo ha fatto oggi. Ti sto dicendo che noi indiani non abbiamo più bisogno del potere dell'erba del diavolo. A poco a poco, penso che abbiamo perso l'interesse, e oggi il potere non conta più. Io stesso non lo cerco, e tuttavia un tempo, quando avevo la tua età, anch'io l'ho sentito gonfiarsi dentro di me, solo che era cinquecento volte più forte. Uccidevo un uomo con un solo colpo del braccio. Potevo scagliare macigni, macigni enormi che nemmeno venti uomini potrebbero smuovere. Una volta sono saltato così in alto da strappare le foglie degli alberi più alti. Ma non serviva a nulla. Tutto quel che ottenevo era spaventare gli indiani; solo gli indiani. Gli altri che non ne sapevano nulla non ci credevano. Vedevano o un indiano pazzo, o qualcosa che si muoveva in cima agli alberi”.

Rimanemmo in silenzio a lungo. Dovevo dire qualcosa.

“Era diverso quando al mondo esistevano persone”, proseguì, “persone che sapevano che un uomo poteva diventare un Icone di montagna, o un uccello, o semplicemente che un uomo poteva volare. Così non uso più l'erba del diavolo. A che pro? Per spaventare gli indiani? (¿Para que? ¿Para asustar a los indios?)”.

A questo punto lo vidi triste, e sentii una profonda simpatia per lui. Volevo dirgli qualcosa, anche se era una banalità.

“Forse, don Juan, questo è il destino di tutti gli uomini che vogliono conoscere”.

“Forse”, rispose tranquillamente.

Giovedì, 23 novembre, 1961

 

 

Non vidi don Juan seduto sotto il portico mentre arrivavo in automobile. Pensai che il fatto era strano. Lo chiamai a gran voce e dalla casa uscì la nuora.

“È dentro”, disse.

Seppi che si era slogato una caviglia alcune settimane prima. Si era fatto l'ingessatura da solo imbevendo strisce di tela in una poltiglia fatta di cactus e ossa polverizzate. Le strisce, avvolte strettamente intorno alla caviglia, si erano asciugate formando una leggera ingessatura affusolata. Aveva la durezza del gesso, ma non era così ingombrante.

“Come è successo?”, chiesi.

La nuora, una messicana dello Yucatan, che lo curava, rispose: “È stato un incidente! È caduto e si è quasi rotto un piede”.

Don Juan rise, e prima di rispondere attese che la donna fosse uscita.

“Incidente un corno! Avevo vicino un nemico. Una donna. ‘La Catalina’! Mi ha spinto in un momento di debolezza e sono caduto”.

“Perché lo ha fatto?”.

“Voleva uccidermi, ecco perché”.

“Era con voi?”.

“Sì”.

“Perché l'avete lasciata entrare?”.

“Non l'ho lasciata entrare. È volata dentro”.

“Non capisco”.

“È un merlo (chanate). E quanto a questo è molto in gamba. Sono stato preso di sorpresa. È da molto tempo che cerca di farla finita con me e questa volta c'è andata davvero vicina”.

“Avete detto che è un merlo? Voglio dire, questa donna è un uccello?”.

“Ecco che ricominci con le tue domande. È un merlo! Allo stesso modo in cui io sono un corvo. Sono un uomo o sono un uccello? Sono un uomo che sa come diventare un uccello. Ma, tornando a ‘la Catalina’, è una strega malvagia! La sua intenzione di uccidermi è così forte che riesco a stento a scacciarla. Il merlo è entrato nella mia casa e non ho potuto fermarlo”.

“Potete diventare un uccello? don Juan?”.

“Sì! Ma di questo ci occuperemo poi”.

“Perché vuole uccidervi?”.

“Oh, tra noi c'è una vecchia storia. Siamo ormai arrivati a un punto in cui sembra che io debba farla finita con lei prima che lei la faccia finita con me”.

“Vi servirete della stregoneria?”, chiesi pieno di aspettativa.

“Non essere sciocco. Nessuna stregoneria funzionerebbe mai contro di lei. Ho altri piani. Te ne parlerò un giorno o l'altro”.

“Il vostro alleato vi può proteggere da lei?”.

“No! Il piccolo fumo mi dice solo ciò che devo fare. Quindi sono io che devo pensare a proteggermi”.

“E Mescalito? Vi può proteggere da lei?”.

“No! Mescalito è un maestro, non un potere da usare per ragioni personali”.

“E l'erba del diavolo?”.

“Ti ho già detto che devo proteggermi da solo, seguendo gli insegnamenti del mio alleato, il fumo. E per quanto ne so, il fumo può fare qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa tu voglia sapere il fumo te la dirà. E ti darà non solo la conoscenza, ma anche i mezzi per procedere. È l'alleato più meraviglioso che un uomo possa avere”.

“Il fumo è il miglior alleato per chiunque?”.

“Non è lo stesso per chiunque. Molti lo temono e non vogliono toccarlo, o neppure accostarvisi. Il fumo è come ogni altra cosa; non è stato fatto per tutti noi”.

“Che tipo di fumo è, don Juan?”.

“Il fumo degli indovini”.

Nella sua voce c'era un evidente rispetto; uno stato d'animo che non avevo mai scoperto prima.

“Comincerò col dirti esattamente quello che mi ha detto il mio benefattore quando ha cominciato a istruirmi sul fumo. Sebbene allora, come te adesso, forse non avrei potuto comprendere. ‘L'erba del diavolo è per chi vuole acquistare il potere. Il fumo è per chi vuole osservare e vedere’. E a mio parere il fumo non ha eguali. Una volta che un uomo è entrato nel suo regno, ogni altro potere è al suo comando. È magnifico! Naturalmente, ci vuole una vita. Ci vuole un anno solo per imparare a conoscere le due parti essenziali: la pipa e la mistura da fumo. La pipa mi è stata data dal mio benefattore, e dopo tanti anni che l'accarezzo, è diventata mia. È cresciuta nelle mie mani. Trasmetterla nelle tue mani, per esempio, sarà per me un vero problema, e un grande successo per te, se riusciremo! La pipa sentirà il disagio di essere maneggiata da qualcun altro; e se uno di noi commette un errore, non ci sarà modo di impedire che la pipa esploda a causa della sua stessa forza, o che ci sfugga di mano per andare in pezzi, anche se cade su un mucchio di paglia. Se mai questo accadesse, significherebbe la fine per noi due. In particolare per me. Il fumo si rivolterebbe contro di me in mille modi”.

“Come potrebbe rivoltarsi contro di voi se è il vostro alleato?”.

Sembrò che la mia domanda avesse disturbato il corso dei suoi pensieri. Rimase silenzioso a lungo.

“La difficoltà degli ingredienti”, proseguì improvvisamente, “fa della mistura da fumo una delle sostanze più pericolose che conosco. Nessuno la può preparare senza essere stato addestrato. È mortalmente velenosa per chiunque tranne che per il protetto del fumo! Pipa e mistura dovrebbero essere trattate con cura affettuosa. E l'uomo che tenta di imparare deve prepararsi conducendo una vita austera e tranquilla. I suoi effetti sono così terribili che solo un uomo molto forte può sopportarne la più piccola boccata. Da principio tutto è terrificante e confuso, ma ogni nuova boccata rende le cose più precise. E improvvisamente si apre un nuovo mondo. Inimmaginabile! Quando questo avviene, il fumo è diventato il proprio alleato e risolverà qualsiasi quesito col permettere di entrare in mondi inimmaginabili.”

“Questa è la più grande proprietà del fumo, il suo dono più grande. E compie la sua funzione senza nuocere minimamente. Dico che il fumo è un vero alleato!”.

Come di consueto eravamo seduti davanti alla casa, dove il pavimento è sempre pulito e compatto; a un tratto don Juan si alzò ed entrò in casa. Dopo qualche minuto ritornò con un fagotto allungato e sedette nuovamente.

“Ecco la mia pipa”, disse.

Si piegò verso di me e mi mostrò una pipa che trasse da un astuccio di tela verde. Era lunga una trentina di centimetri. Il cannello era fatto di legno rossastro; era liscio, senza decorazioni. Anche il fornello sembrava di legno, ma era piuttosto massiccio a confronto con il sottile cannello. Aveva una patina levigata ed era grigio scuro, quasi color carbone.

Mi mise la pipa davanti agli occhi. Pensai che me la porgesse. Allungai la mano per afferrarla, ma lui la ritrasse in fretta.

“Questa pipa mi è stata data dal mio benefattore”, disse. “A mia volta la trasmetterò a te. Ma prima devi cominciare a conoscerla. Te la darò ogni volta che verrai qui. Comincia col toccarla. Tienila per pochissimo tempo, da principio, finché tu e la pipa non vi siate conosciuti reciprocamente. Poi mettila in tasca, o magari nella camicia. E alla fine mettila in bocca. Tutto questo deve esser fatto a poco a poco, lentamente e con cura. Quando il legame sarà stabilito (la amistad està hecha), la fumerai. Se segui i miei consigli e non ti affretti il fumo potrà diventare l'alleato preferito anche per te”.

Mi tese la pipa, ma senza lasciarla andare. Allungai la mano destra per toccarla.

“Con tutte e due le mani”, disse.

Toccai la pipa con tutte e due le mani per un brevissimo istante. Non me la tese tutta così che potessi afferrarla, ma solo tanto che potessi toccarla. Poi la tirò indietro.

“Il primo passo è amare la pipa. Questo richiede del tempo!”.

“È possibile che io non piaccia alla pipa?”.

“No, non puoi non piacere alla pipa, tuttavia devi imparare a piacerle, così che quando per te sarà venuto il momento di fumare, la pipa ti aiuterà a non avere paura”. “Che cosa fumate, don Juan?”. “Questo!”.

Si slacciò il colletto e mostrò un sacchetto che teneva sotto la camicia, appeso al collo come un medaglione. Lo tirò fuori, lo aprì, e versò con molta cura un po' del suo contenuto sul palmo della mano.

Da quanto potevo capire, la mistura sembrava fatta di foglie di tè tritate finemente, che variavano di colore dal marrone scuro fino al verde chiaro, con qualche chiazza di giallo brillante.

Rimise la mistura nel sacchetto, chiuse il sacchetto, lo legò con un laccio di cuoio, e lo rimise sotto la camicia.

“Che mistura è?”.

“Ci sono dentro moltissime cose. Ottenere tutti gli ingredienti è molto difficile. Si deve viaggiare molto lontano. I piccoli funghi (los honguitos) necessari per preparare la mistura crescono solo in certe epoche dell'anno, e solo in certi luoghi”.

“Avete una mistura diversa per ciascun tipo di aiuto di cui avete bisogno? ”.

“No! C'è soltanto un fumo, e non ce n'è nessun altro simile”.

Indicò il sacchetto appeso sul petto, e sollevò la pipa che teneva appoggiata tra le gambe.

“Queste due cose sono una cosa sola! L'una non può fare a meno dell'altra. Questa pipa e il segreto di questa mistura appartenevano al mio benefattore. Gli furono date nella stessa maniera in cui il mio benefattore le ha date a me. La mistura, anche se difficile da preparare, è rimpiazzabile. Il suo segreto è nei suoi ingredienti, nella maniera in cui sono trattati e mescolati. La pipa, invece, è una cosa che dura tutta la vita”.

“Che cosa accadrebbe se perdeste o rompeste la pipa?”.

Scosse la testa molto lentamente, e mi guardò.

“Morirei!”.

“Tutte le pipe degli stregoni sono come la vostra?”.

“Nessuno di loro ha una pipa come la mia. Ma ne conosco qualcuno che ne ha una”.

“Potreste fabbricare una pipa come questa, don Juan?”, insistei.

“Supponiamo che non la possediate, come potreste darmene una se voleste farlo?”.

“Se non avessi la pipa non potrei, né vorrei, volerne dare una. Ti darei invece qualcos'altro”.

Mi sembrò che si fosse un poco arrabbiato con me. Mise con molta cura la pipa nell'astuccio, che doveva essere foderato di un tessuto molto soffice perché la pipa, che vi si adattava appena, vi scivolò dentro con facilità. Entrò in casa per riporre la pipa.

“Siete in collera con me, don Juan?”, chiesi quando fu di ritorno. Sembrò sorpreso dalla mia domanda.

“No! Non sono mai in collera con nessuno! Nessun essere umano può fare nulla di abbastanza importante per questo. Si va in collera con le persone quando si pensa che i loro atti siano importanti. Non la penso più così”.

Martedì, 26 dicembre, 1961

 

 

Il momento specifico in cui trapiantare il ‘germoglio’, come don Juan chiamava la radice, non era stato stabilito, anche se era inteso che costituiva il passo successivo nel domare il potere della pianta.

Arrivai a casa di don Juan sabato 23 dicembre, nel primo pomeriggio. Sedemmo in silenzio per un certo tempo, come al solito. La giornata era calda e nuvolosa. Erano passati dei mesi da quando mi aveva dato la prima porzione.

“È venuto il momento di riportare l'erba alla terra”, disse improvvisamente. “Ma prima devo fissarti una protezione. La conserverai e la difenderai, e la dovrai vedere tu solo. Anch'io la vedrò dal momento che la devo fissare. Questo non è bene, perché, come ti ho detto, l'erba del diavolo non mi piace. Non siamo una sola cosa. Ma la mia memoria non vivrà a lungo; sono troppo vecchio. Tuttavia devi nasconderla alla vista degli altri, perché fin che dura in loro il ricordo di averla vista, il potere della, protezione è ostacolato”.

Entrò nella sua camera e tirò fuori tre fagotti da sotto un vecchio pagliericcio. Tornò nel portico e si mise a sedere.

Dopo un lungo silenzio aprì uno dei fagotti. Era la Datura femmina che aveva raccolto con me; tutte le foglie, i fiori e i baccelli che aveva riunito prima si erano seccati. Prese il lungo pezzo di radice a forma di Y e legò di nuovo il fagotto.

La radice si era seccata e accartocciata e i rami della biforcazione si erano ancora allargati ed erano contorti. Si mise la radice in grembo, aprì la sua borsa di cuoio, e tirò fuori il coltello. Tenne la radice secca davanti a me.

“Questa parte è per la testa”, disse, e praticò la prima incisione sulla coda della Y, che in posizione capovolta assomigliava a un uomo a gambe larghe.

“Questo è per il cuore”, disse, e fece un taglio vicino alla giuntura della Y. Poi tagliò via le punte della radice, lasciando circa dieci centimetri di legno su ciascun braccio della Y. Quindi, lentamente e con pazienza, intagliò la figura di un uomo.

La radice era secca e fibrosa. Per poterla tagliare don Juan praticò due incisioni e sbucciò le fibre tra di esse fino alla profondità dei tagli. Ciò nonostante, quando arrivò ai particolari, cesellò il legno, come quando diede forma alle braccia e alle mani. Il prodotto finale fu una figurina filiforme raffigurante un uomo, le braccia ripiegate sul petto e le mani giunte.

Don Juan si alzò e si diresse verso un'agave azzurra che cresceva davanti alla casa. Prese con la mano una delle dure spine che crescono sulle foglie centrali carnose, la piegò, e la torse tre o quattro volte. Il movimento circolare la staccò quasi dalla foglia; pendeva liberamente. La morse, o piuttosto, la prese tra i denti e la tirò fuori. La spina uscì dalla polpa, portandosi dietro un fascio di lunghe fibre filiformi, attaccate alla parte legnosa come una bianca coda, lunga una sessantina di centimetri. Sempre tenendo la spina tra i denti, torse le fibre tra i palmi delle mani e ne fece un legaccio, che avvolse intorno alle gambe della figurina per tenerle insieme. Lo fece girare intorno alla parte inferiore del corpo finché il legaccio non fu terminato; quindi con molta abilità lo inserì come un punteruolo nella parte anteriore del corpo sotto le braccia ripiegate, finché la punta aguzza emerse come se uscisse dalle mani della figurina. Usò di nuovo i denti e, tirando dolcemente, fece uscire la spina per quasi tutta la sua lunghezza. Sembrava una lunga spada che sporgesse dalle mani della figurina. Senza guardare più la statuetta don Juan la mise nella sua borsa di cuoio. Sembrava esausto per lo sforzo. Si distese sul pavimento e si addormentò.

Quando si svegliò era già buio. Mangiammo le vettovaglie che gli avevo portato e sedemmo ancora un po' sotto il portico. Poi don Juan si diresse verso il retro della casa portando i tre fagotti di tela. Tagliò sterpi e rami secchi, e accese un fuoco. Ci sedemmo comodamente davanti al fuoco ed egli aprì i tre fagotti. Oltre a quello contenente i pezzi secchi della pianta femmina, ce ne era un altro con tutto quello che era rimasto della pianta maschio, e un terzo fagotto voluminoso che conteneva pezzi verdi di Datura, tagliati di fresco.

Don Juan andò al truogolo e ne tornò con un mortaio di pietra, un mortaio molto profondo che assomigliava più a una pentola il cui fondo terminava in una dolce curva. Mise altri sterpi secchi sul fuoco, quindi prese i due fagotti con i pezzi secchi delle piante maschio e femmina e li vuotò tutti insieme nel mortaio. Scosse il fagotto per assicurarsi che tutti gli avanzi fossero caduti nel mortaio. Dal terzo fagotto estrasse due pezzi freschi di radice di Datura.

“Li preparo proprio per te”, disse.

“Che tipo di preparazione è, don Juan?”.

“Uno di questi pezzi viene da una pianta maschio, l'altro da una pianta femmina. Questa è la sola volta in cui le due piante dovrebbero essere messe insieme. I pezzi vengono da una profondità di circa un metro”.

Li schiacciò nel mortaio con colpi regolari del pestello. Mentre li schiacciava, cantava a bassa voce, una voce che assomigliava a un ronzio monotono e senza ritmo. Le parole mi erano incomprensibili. Era assorbito nel suo lavoro.

Quando le radici furono completamente schiacciate prese dal fagotto alcune foglie di Datura. Erano pulite e tagliate di fresco, ed erano tutte intatte e senza buchi di vermi o tagli. Le lasciò cadere nel mortaio una alla volta. Prese una manciata di fiori di Datura e li lasciò cadere nel mortaio nella stessa maniera ponderata. Ne contai quattordici. Poi prese un mazzo di freschi baccelli verdi, non aperti e con tutte le loro punte. Non potei contarli perché li lasciò cadere tutti insieme nel mortaio, ma immaginai che anche questi fossero quattordici. Aggiunse tre steli di Datura senza nessuna foglia. Erano puliti e di colore rosso scuro, e sembravano venire da grosse piante, a giudicare dalle loro molte ramificazioni.

Dopo che ebbe messo il tutto nel mortaio, lo schiacciò; fino a farlo diventare una poltiglia, con gli stessi colpi regolari. A un certo momento inclinò il mortaio, e con la mano vuotò il miscuglio in una vecchia pentola. Protese la mano verso di me, e pensai che volesse che gliela asciugassi. Invece mi afferrò la sinistra e con un movimento molto rapido separò quanto più poté il medio e l'anulare. Quindi, con la punta del coltello, fece un'incisione proprio in mezzo alle due dita e tagliò verso il basso la pelle dell'anulare. Agì con tanta destrezza e rapidità che quando ritrassi bruscamente la mano questa era tagliata profondamente, e il sangue scorreva in abbondanza. Mi afferrò di nuovo la mano, la tenne sopra la pentola, e la spremette per far uscire ancora più sangue.

Il braccio mi si era intorpidito. Ero in uno stato di shock; mi sentivo stranamente freddo e rigido, con un senso di oppressione al petto e alle orecchie. Sentivo di scivolare giù dal mio sedile. Stavo svenendo! Don Juan mi lasciò andare la mano e rimescolò il contenuto della pentola. Quando mi ripresi dallo shock ero davvero in collera con lui. Mi ci volle molto per recuperare il mio sangue freddo.

Don Juan dispose tre pietre intorno al fuoco e sopra mise la pentola. A tutti gli altri ingredienti aggiunse qualcosa che ritenni essere un grosso pezzo di colla da falegname e una pentola d'acqua, e lasciò il tutto a bollire. Le piante di Datura avevano, di per sé, un odore molto strano. Combinate con la colla da falegname, che emanò un forte odore quando il miscuglio cominciò a bollire, crearono un odore cosi acre che dovetti lottare per non dar di stomaco.

Il miscuglio bollì a lungo mentre sedevamo immobili davanti al fuoco. Di quando in quando, allorché il vento soffiava il vapore nella mia direzione, il tanfo mi avvolgeva, e trattenevo il respiro nello sforzo di evitarlo.

Don Juan aprì la sua borsa di cuoio e ne tolse la figurina. Me la porse con cura e mi disse di metterla nella pentola senza bruciarmi le mani. La lasciai scivolare dolcemente nella poltiglia bollente. Don Juan estrasse il coltello, e per un secondo pensai che stesse per ferirmi di nuovo; invece spinse la figurina con la punta del coltello e la fece affondare.

Osservò bollire la poltiglia ancora per un certo tempo, quindi cominciò a pulire il mortaio. Una volta terminato mise mortaio e pestello contro lo steccato. Entrammo in casa, e la pentola fu lasciata sulle pietre per tutta la notte.

La mattina dopo, all'alba, don Juan mi ordinò di tirar fuori la figurina dalla colla e di appenderla al tetto rivolta a est, perché si asciugasse al sole. A mezzogiorno era rigida come filo di ferro. Il calore aveva saldato la colla a cui si era mescolato il colore verde delle foglie. La figurina aveva una patina lucida e strana.

Don Juan mi disse di tirarla giù. Quindi mi diede una borsa di cuoio che aveva fatto con una vecchia giacca di camoscio che gli avevo portato qualche tempo prima. La borsa assomigliava a quella che lui stesso possedeva. La sola differenza era che era fatta di un morbido cuoio marrone.

“Metti la tua ‘immagine’ dentro la borsa e chiudila”, disse. Non mi guardò, e tenne deliberatamente il capo girato. Una volta messa la figurina dentro la borsa mi diede una sporta, e mi disse di mettervi dentro la pentola d'argilla.

Si avviò verso la mia automobile, prese la sporta dalle mie mani e la appese allo sportello aperto dello scomparto dei guanti.

“Vieni con me”, disse.

Lo seguii. Camminò intorno alla casa, compiendo un giro completo in senso orario. Si fermò al portico e girò di nuovo intorno alla casa, questa volta in senso antiorario e ritornando di nuovo al portico. Rimase immobile per un certo tempo, poi si sedette.

Ero condizionato a credere che tutto quello che faceva avesse un qualche significato. Mi domandavo che cosa significasse girare in cerchio intorno alla casa quando disse: “Hei! Ho dimenticato dove l'ho messo”.

Gli chiesi che cosa stesse cercando. Disse che aveva dimenticato dove aveva messo il germoglio che io dovevo trapiantare. Girammo intorno alla casa ancora una volta prima che si ricordasse dov'era.

Mi indicò un piccolo vaso di vetro posto su di un'asse inchiodata al muro sotto il tetto. Il vaso conteneva l'altra metà della prima porzione della radice di Datura. La radice mostrava un principio di crescita di foglie alla sommità. Il vaso conteneva un poco d'acqua, ma non terra.

“Perché non c'è della terra?”, chiesi.

“I terreni non sono tutti uguali, e l'erba del diavolo deve conoscere soltanto il terreno in cui vivrà e crescerà. E adesso è venuto il momento di riportarla alla terra prima che venga danneggiata dai vermi”.

“Possiamo piantarla qui vicino alla casa?”, chiesi.

“No! No! Non qui intorno. Deve essere ricondotta in un luogo di tuo gradimento”.

“Ma dove posso trovare un luogo di mio gradimento?”.

“Questo non lo so. Puoi trapiantarla dovunque tu voglia. Ma deve essere curata e accudita, perché deve vivere affinché tu abbia il potere di cui hai bisogno. Se muore, significa che non ti vuole, e non devi più disturbarla. Significa che non avresti potere su di lei. Quindi devi curarla e accudirla, così che cresca. Tuttavia non devi viziarla”.

“Perché no?”.

“Perché se non ha voglia di crescere è inutile allettarla. Ma, d'altra parte, devi dimostrare che ne hai cura. Tieni lontani i vermi e annaffiala quando vai a visitarla. Questo deve essere fatto regolarmente finché la pianta non produce semi. Dopo che sarà spuntato il primo seme saremo sicuri che ti vuole”.

“Ma, don Juan, non mi è possibile aver cura della radice nella maniera che desiderate”.

“Se vuoi il suo potere, devi farlo! Non c'è altro modo!”.

“Potete aver cura voi di lei in mia vece quando io non ci sono, don Juan?”.

“No! Non io! Non posso farlo. Ciascuno deve coltivare la propria pianta. Io ho avuto la mia. Ora tu devi avere la tua. E fino a che non ha prodotto semi, come ti ho detto, non puoi considerarti pronto per imparare”.

“Dove pensate che dovrei trapiantarla?”.

“Spetta a te solo deciderlo. E nessuno deve conoscere il posto, nemmeno io! Questo è il modo in cui deve essere fatto il trapianto. Nessuno, proprio nessuno, deve sapere dov'è la tua pianta. Se un estraneo ti segue, o ti vede, prendi il germoglio e scappa in un altro posto. Potrebbe causarti un danno irreparabile toccando il germoglio. Potrebbe storpiarti o ucciderti. È per questo che nemmeno io devo sapere dov'è la tua pianta”.

Mi porse il piccolo vaso con il germoglio.

“Prendilo, adesso”.

Lo presi. Quindi mi trascinò quasi all'automobile.

“Adesso devi partire. Vatti a scegliere il punto dove trapianterai il germoglio. Scava un buco profondo, nella terra molle, vicino a un posto ricco d'acqua. Ricorda, per poter crescere deve essere vicina all'acqua. Scava il buco solo con le mani, anche se sanguinano. Metti il germoglio al centro del buco e facci intorno un monticello (pilon). Poi inzuppalo d'acqua. Quando l'acqua si è assorbita, riempi il buco di terra morbida. Poi scegli un posto a due passi di distanza dal germoglio, in quella direzione (indicò verso sud-est). Scava un altro buco profondo, sempre con le mani, e versaci dentro il contenuto della pentola. Quindi rompi la pentola, e seppelliscila in un altro posto, lontano dal punto dov'è il tuo germoglio. Quando hai seppellito la pentola ritorna al tuo germoglio e annaffialo ancora una volta. Poi tira fuori la tua immagine, tienila tra le dita nel punto in cui hai la carne ferita e, stando in piedi sul punto in cui hai seppellito la colla, tocca leggermente il germoglio con la punta della spina. Gira intorno al germoglio quattro volte, fermandoti ogni volta nello stesso punto per toccarlo”.

“Devo seguire una direzione specifica mentre giro intorno alla radice?”.

“Qualsiasi direzione andrà bene. Ma devi sempre ricordare in quale direzione hai seppellito la colla, e quale direzione hai preso quando hai girato intorno al germoglio. Tocca dolcemente il germoglio con la punta della spina ogni volta tranne l'ultima volta, in cui devi conficcarla profondamente. Ma fallo con precauzione; inginocchiati per avere la mano più ferma perché non devi rompere il punto dentro il germoglio. Se lo rompi sei finito. La radice non ti sarà più di alcuna utilità”.

“Devo pronunciare qualche parola mentre giro intorno al germoglio?” “No, lo farò io per te”. .

Sabato, 27 gennaio, 1962

 

 

La mattina, appena arrivai alla casa, don Juan mi disse che intendeva mostrarmi come si prepara la mistura da fumo. Ci dirigemmo verso le colline e ci inoltrammo in un canyon. Don Juan si fermò davanti a un alto cespuglio snello il cui colore contrastava nettamente con quello della vegetazione circostante. La boscaglia intorno al cespuglio era giallastra, ma il cespuglio era di un bel verde smagliante.

“Da questo alberello devi prendere le foglie e i fiori”, disse don Juan. “Il tempo adatto per coglierli è il giorno dei santi (el día de las animas)”.

Tirò fuori il coltello e tagliò la cima di un ramo sottile. Scelse un altro ramo simile e anche di questo tagliò la punta. Ripeté tale operazione finché non ottenne una manciata di punte di rami. Quindi si sedette per terra.

“Guarda qui”, disse. “Ho tagliato tutti i rami al di sopra delle biforcazioni formate da due o più foglie e lo stelo. Vedi? Sono tutti uguali. Da ciascun ramo ho preso solo la punta, dove le foglie sono fresche e tenere. Ora dobbiamo cercare un luogo ombroso”.

Camminammo finché non gli parve di aver trovato quello che stava cercando. Tirò fuori dalla tasca un lungo laccio e lo legò al tronco e ai rami bassi di due cespugli, formando una specie di corda per il bucato a cui sospese le punte dei rami, capovolte. Le dispose lungo la corda in maniera ordinata; appese per la biforcazione tra le foglie e lo stelo, rassomigliavano a una lunga fila di cavalieri verdi.

“Si deve fare attenzione che le foglie asciughino all'ombra”, disse. “ II posto deve essere isolato e difficile da raggiungere. In questo modo le foglie sono protette. Devono essere lasciate ad asciugare in un posto in cui sia quasi impossibile trovarle. Quando sono secche devono essere messe in un fagotto e chiuse ermeticamente”.

Raccolse le foglie dalla corda e le gettò nei cespugli vicini. Evidentemente aveva inteso solo mostrarmi il procedimento.

Continuammo a camminare e don Juan raccolse tre diversi fiori, dicendo che facevano parte degli ingredienti e che dovevano essere raccolti contemporaneamente. Ma i fiori dovevano essere messi in recipienti di terra separati e fatti asciugare al buio; si doveva mettere un coperchio su ciascun vaso così che i fiori si ammuffissero dentro il recipiente. Disse che la funzione delle foglie e dei fiori era quella di addolcire la mistura da fumo. Uscimmo dal canyon e ci avviammo verso il letto del fiume. Dopo un lungo giro ritornammo alla casa. Più tardi, la sera, sedemmo nella sua stanza, una cosa che mi era permessa raramente, e mi parlò dell'ingrediente finale della mistura: i funghi.

“Il vero segreto della mistura è nei funghi”, disse. “Sono l'ingrediente più difficile da raccogliere. Il viaggio per arrivare al luogo in cui crescono è lungo e pericoloso. Ci sono altri tipi di funghi che crescono vicino, i quali non servono affatto. Rovinerebbero quelli buoni se fossero fatti essiccare insieme. Per conoscere bene i funghi in modo da non commettere errori ci vuole del tempo. Se si usa il tipo sbagliato se ne ricaverà un grave danno, per l'uomo e per la pipa. So di uomini che sono morti sul colpo per aver usato il fumo sbagliato”.

“I funghi vengono messi appena raccolti in una zucca, così non c'è modo di ricontrollarli. Vedi, devono essere tagliati a strisce per poterli far passare attraverso allo stretto collo della zucca”.

“Come si può evitare un errore?”.

“Stando molto attenti e sapendo scegliere. Ti ho detto che è difficile. Non tutti riescono a domare il fumo; la maggior parte delle persone non ci prova nemmeno”.

“Per quanto tempo si tengono i funghi dentro la zucca?”.

“Per un anno. Anche tutti gli altri ingredienti sono tenuti ermeticamente chiusi per un anno. Quindi se ne misurano parti uguali e si macinano separatamente in una polvere sottilissima. I piccoli funghi non vanno macinati perché si trasformano da soli in una polvere sottilissima; tutto quel che si deve fare è schiacciare i pezzi. A quattro parti di funghi si aggiunge una parte di tutti gli altri ingredienti insieme. Quindi si mescola il tutto e lo si mette in un sacco come il mio”. Mostrò il sacchetto appeso sotto la sua camicia.

“A questo punto tutti gli ingredienti sono riuniti nuovamente, e dopo che sono stati messi a seccare sei pronto a fumare la mistura che hai appena preparato. Nel tuo caso, fumerai l'anno prossimo. E l'anno dopo la mistura sarà tutta tua perché l'avrai raccolta da solo. La prima volta che fumerai ti accenderò io la pipa. Fumerai la mistura nel fornello e aspetterai. Il fumo arriverà. Lo sentirai. Ti renderà libero di vedere tutto quello che vuoi vedere. A rigor di termini, è un alleato senza confronti. Ma chiunque lo cerca deve avere un'intenzione e una volontà al di là di ogni biasimo. Ne ha bisogno perché deve intendere e volere il proprio ritorno, altrimenti il fumo non lo lascerà tornare indietro. Secondo, deve intendere e voler ricordare tutto ciò che il fumo gli permetterà di vedere, altrimenti non sarà niente di più che un po' di nebbia nella sua mente”.

Sabato, 7 aprile, 1962

 

 

Durante le nostre conversazioni don Juan usava o citava coerentemente l'espressione ‘uomo di conoscenza’, ma non spiegò mai che cosa intendesse con questa. Glielo domandai.

“Un uomo di conoscenza è un uomo che ha seguito fedelmente i sacrifici dell'imparare”, rispose. “Un uomo che, senza affrettarsi e senza esitare, è arrivato fin dove ha potuto nello svelare i segreti del potere e della conoscenza”.

“Chiunque potrebbe diventare un uomo di conoscenza?”.

“No, non chiunque”.

“Allora che cosa deve fare un uomo per diventare un uomo di conoscenza?”.

“Deve sfidare e sconfiggere i suoi quattro nemici naturali”.

“Dopo aver sconfitto questi quattro nemici sarà diventato un uomo di conoscenza?”.

“Sì. Un uomo può dirsi uomo di conoscenza solo se è stato capace di sconfiggerli tutti e quattro”.

“Allora, chiunque sconfigga questi nemici può essere un uomo di conoscenza?”.

“Chiunque li sconfigge diventa un uomo di conoscenza”.

“Ma ci sono dei particolari requisiti a cui un uomo deve soddisfare prima di combattere con questi nemici?”.

“No. Chiunque può tentare di diventare un uomo di conoscenza; in realtà pochissimi riescono. I nemici che si incontrano sulla strada dell'imparare a diventare un uomo di conoscenza sono davvero formidabili; la maggior parte degli uomini vi soccombe”.

“Che tipo di nemici sono, don Juan?”.

Rifiutò di parlare dei nemici. Disse che doveva passare molto tempo prima che l'argomento avesse per me un qualche significato. Tentai di tener viva la questione e gli domandai se pensava che io potessi diventare un uomo di conoscenza. Disse che nessun uomo poteva forse dirlo con certezza. Ma io insistei per sapere se esisteva qualche indizio che egli potesse usare per determinare se avevo o no una possibilità di diventare un uomo di conoscenza. Rispose che sarebbe dipeso dalla mia battaglia contro i quattro nemici — se riuscissi a sconfiggerli o fossi sconfitto da essi — ma era impossibile predire il risultato di tale battaglia.

Gli chiesi se poteva usare la stregoneria o la profezia per vedere il risultato della battaglia. Affermò recisamente che i risultati della lotta non potevano essere previsti con nessun mezzo, perché diventare un uomo di conoscenza era una cosa temporanea. Quando gli chiesi di spiegare questo punto, rispose: “Essere un uomo di conoscenza non ha carattere duraturo. Non si è mai un uomo di conoscenza, non realmente. Piuttosto si diventa uomo di conoscenza per un brevissimo istante, dopo aver sconfitto i quattro nemici naturali”.

“Dovete dirmi, don Juan, che tipo di nemici sono”.

Non rispose. Insistei ancora, ma lui lasciò cadere l'argomento e cominciò a parlare di qualcos'altro.

Domenica, 15 aprile, 1962

 

 

Mentre mi stavo preparando a partire decisi di interrogarlo ancora una volta in merito ai nemici di un uomo di conoscenza. Immaginavo di non poter ritornare prima di un certo tempo, e sarebbe stata una buona idea trascrivere quello che diceva e poi ripensarci mentre ero via.

Esitò un poco, ma poi cominciò a parlare.

“Quando un uomo comincia a imparare, non sa mai con chiarezza quali sono i suoi obiettivi. Il suo scopo è imperfetto; il suo intento è vago. Spera in una ricompensa che non si concreterà mai, perché non sa nulla delle difficoltà dell'imparare.

Comincia lentamente a imparare, dapprima a poco a poco, poi a grandi passi. E presto i suoi pensieri entrano in conflitto. Quello che impara non è mai quello che ha sperato o immaginato, e così incomincia ad aver paura. Imparare non è mai quello che ci si aspetta. Ogni passo dell'imparare è un compito nuovo, e la paura che l'uomo prova comincia a salire implacabilmente, inflessibilmente. Il suo scopo diventa un campo di battaglia”.

“E così si è imbattuto nel primo dei suoi nemici naturali: la Paura! Un nemico terribile, traditore, e difficile da superare. Si tiene nascosto a ogni svolta della strada, in agguato, aspettando. E se l'uomo, atterrito dalla sua presenza, fugge, il nemico avrà messo fine alla sua ricerca”.

“Che cosa accadrà all'uomo che fugge per il terrore?”.

“Non gli accadrà nulla, tranne che non imparerà mai. Non diventerà mai un uomo di conoscenza. Sarà forse un uomo borioso, o innocuo, o spaventato; in ogni caso, sarà un uomo sconfitto. Il suo primo nemico avrà messo fine ai suoi desideri”. “E che cosa può fare per vincere la paura?”. “La risposta è semplicissima. Non deve fuggire. Deve sfidare la sua paura, e a dispetto di essa deve compiere il passo successivo nell'imparare, e il successivo e ancora il successivo. La sua paura deve essere completa, e tuttavia non si deve fermare. Questa è la regola! E verrà il momento in cui il suo primo nemico volgerà in ritirata. L'uomo comincia a sentirsi sicuro di sé. Il suo intento diviene più forte. Imparare non è più un compito terrificante.”

“Quando arriva questo lieto momento l'uomo può dire senza esitazione di aver sconfitto il suo primo nemico naturale”.

“Ciò avviene tutto in una volta, don Juan, oppure a poco a poco?”.

“Avviene a poco a poco, e tuttavia la paura è vinta improvvisamente e rapidamente”.

“Ma l'uomo non avrà ancora paura se gli succederà qualcosa di nuovo?”.

“No. Una volta che un uomo ha vinto la paura, ne è libero per tutto il resto della sua vita perché, invece della paura, ha acquistato la lucidità: una lucidità mentale che cancella la paura. A questo punto l'uomo conosce i suoi desideri; sa come soddisfare tali desideri. Può anticipare i nuovi passi dell'imparare, e una limpida lucidità circonda ogni cosa. L'uomo sente che nulla è nascosto.”

“E così ha incontrato il suo secondo nemico: la lucidità! Quella lucidità mentale, che è così difficile da ottenere, scaccia la paura, ma acceca anche.”

“Costringe l'uomo a non dubitare mai di se stesso. Gli dà la sicurezza di poter fare tutto quel che gli piace, perché vede chiaramente in tutto. Ed è coraggioso perché è lucido, e non si ferma davanti a nulla perché è lucido. Ma tutto questo è un errore; è come qualcosa di incompleto. Se l'uomo si arrende a questo falso potere, ha ceduto al suo secondo nemico e sarà maldestro nell'imparare. Si affretterà quando dovrà essere paziente, o sarà paziente quando dovrebbe affrettarsi. E sarà maldestro nell'imparare finché non cederà, incapace di imparare più nulla”.

“Che ne è di un uomo sconfitto in tal modo, don Juan? Muore come risultato?”.

“No, non muore. Il suo secondo nemico lo ha semplicemente bloccato impedendogli di diventare un uomo di conoscenza; l'uomo può, invece, trasformarsi in un allegro guerriero o in un: pagliaccio. Tuttavia la lucidità pagata a così caro prezzo non si trasformerà mai più nella tenebra e nella paura. Avrà la lucidità finché vivrà, ma non imparerà, o bramerà, più nulla”.

“Ma che cosa deve fare per evitare di essere sconfitto?”.

“Deve fare quello che ha fatto con la paura: deve sfidare la sua lucidità e usarla solo per vedere, e aspettare con pazienza e misurare con cura prima di fare nuovi passi; deve pensare, dopo tutto, che la sua lucidità è quasi un errore. E verrà un momento in cui comprenderà che la sua lucidità era solo un punto davanti ai suoi occhi. E così avrà superato il suo secondo nemico, e sarà in una posizione in cui nulla potrà mai nuocergli. Questo non sarà un errore. Non sarà solamente un punto davanti ai suoi occhi. Sarà vero potere.”

“A questo punto saprà che il potere che ha inseguito così a lungo è finalmente suo. Può fare tutto quel che vuole. Il suo alleato è al suo comando. Il suo desiderio è la regola. Vede tutto quel che è intorno a lui. Ma si è anche imbattuto nel terzo dei suoi nemici: il Potere!”

“Il potere è il più forte di tutti i nemici. E naturalmente la cosa più facile è arrendersi; dopo tutto, un uomo a questo punto è veramente invincibile. Comanda; comincia col correre rischi calcolati e finisce col creare regole, perché è un padrone.”

“A questo stadio difficilmente l'uomo si rende conto che il nemico lo sta circondando. E improvvisamente, senza saperlo, avrà certamente perduto la battaglia. Il suo nemico lo avrà trasformato in un uomo crudele e capriccioso”.

“Perderà il suo potere?”.

“No, non perderà mai la sua lucidità o il suo potere”.

“Allora che cosa lo distinguerà da un uomo di conoscenza?”.

“Un uomo che è sconfitto dal potere muore senza sapere veramente come tenerlo in pugno. Il potere è solo un fardello sul suo destino. Un tale uomo non ha il comando su se stesso, e non può sapere quando come usare il suo potere”.

“La sconfitta da parte di uno qualsiasi di questi nemici è una sconfitta definitiva”.

“Certo che è definitiva. Una volta che uno di questi nemici ha avuto il sopravvento su di un uomo non c'è nulla che questi possa fare”.

“È possibile, per esempio, che l'uomo sconfitto dal potere possa vedere il proprio errore e correggersi?”.

“No. Quando un uomo cede è spacciato”.

“Ma che cosa accadrebbe se fosse accecato temporaneamente dal potere e poi lo rifiutasse?”.

“Significherebbe che la sua battaglia ancora continua. Significherebbe che sta ancora cercando di diventare un uomo di conoscenza. Un uomo è sconfitto solo quando non tenta più, e si lascia andare”.

“Ma allora è possibile, don Juan, che un uomo possa abbandonarsi per anni alla paura, ma alla fine vincerla?”.

“No. Questo non è vero. Se cede alla paura non la vincerà mai, perché avrà paura di imparare e non tenterà più. Ma se cerca per anni di imparare, pur in mezzo alla sua paura, alla fine la vincerà perché non si è mai veramente abbandonato a essa”.

“Come può sconfiggere il suo terzo nemico, don Juan?”.

“Deve sfidarlo, deliberatamente. Deve arrivare a rendersi conto che il potere da lui apparentemente conquistato in realtà non è mai suo. Deve stare sempre in guardia, tenendo in pugno con cura e con fede tutto ciò che ha imparato. Se riuscirà a vedere che la lucidità e il potere, quando manca il suo proprio controllo su di sé, sono peggio ancora di errori, raggiungerà un punto in cui tutto è tenuto sotto controllo. Saprà allora come e quando usare il suo potere. E in questo modo avrà sconfitto il suo terzo nemico.”

“L'uomo sarà, ormai, alla fine del suo viaggio di apprendimento, e si imbatterà, quasi senza esserne stato avvertito, nell'ultimo dei suoi nemici: la Vecchiaia! Questo nemico è il più crudele di tutti, il solo che non potrà essere sconfitto completamente, ma solo scacciato.”

“Questo è il momento in cui l'uomo non ha più paure, non più un'impaziente lucidità mentale; un momento in cui il suo potere è tutto sotto controllo, ma anche il momento in cui prova un irresistibile desiderio di riposare. Se si arrende totalmente al desiderio di lasciarsi andare e dimenticare, se si adagia nella stanchezza, avrà perduto l'ultimo combattimento, e il suo nemico lo ridurrà a una creatura debole e vecchia. Il suo desiderio di ritirarsi annullerà tutta la sua lucidità, il suo potere, e la sua conoscenza.”

“Ma se l'uomo si spoglia della sua stanchezza, e affronta il proprio destino, può allora essere detto uomo di conoscenza, pur se soltanto per il breve momento in cui riesce a sconfiggere il suo ultimo e invincibile nemico. Quel momento di lucidità di potere e di conoscenza, è sufficiente”.

 


4.

 

 

Era raro che don Juan parlasse apertamente di Mescalito. Ogni volta che lo interrogavo sull'argomento si rifiutava di parlare, ma diceva sempre abbastanza per creare un'impressione di Mescalito, una impressione che era sempre antropomorfica. Mescalito era di genere maschile, non solo per via della regola grammaticale che da alla parola un genere maschile, ma anche per via della sua costante qualità di protettore e maestro. Don Juan riaffermava tali caratteristiche in varie forme ogni volta che parlavamo.

Domenica, 24 dicembre, 1961

 

 

“L'erba del diavolo non ha mai protetto nessuno. Serve solo per dare potere. Mescalito, d'altra parte, è dolce, come un bambino”.

“Ma voi avete detto che talvolta Mescalito è terrificante”.

“Certo che è terrificante, ma una volta che si è cominciato a conoscerlo, è dolce e gentile”.

“Come mostra la sua gentilezza?”.

“È un protettore e un maestro”.

“Come protegge?”.

“Puoi tenerlo sempre con te, ed egli baderà che non ti accada nulla di male”.

“Come si può tenerlo sempre con sé?”.

“In un sacchetto, legato intorno al braccio o sotto il collo con un legaccio”.

“Lo avete con voi?”.

“No, perché io ho un alleato. Ma altre persone lo fanno”.

“Che cosa insegna?”.

“Insegna a vivere giustamente”.

“Come insegna?”.

“Mostra le cose e spiega quello che sono (enzeña las cosas y te dice lo que son)”.

“Come?”.

“Dovrai vederlo da te”.

Martedì, 30 gennaio 1962

“Che cosa vedete quando Mescalito vi porta con sé, don Juan?”.

“Cose del genere non sono adatte a una conversazione ordinaria. Non te lo posso dire”.

“Vi accadrebbe qualcosa di male se me lo diceste?”.

“Mescalito è un protettore, un protettore gentile e dolce; ma ciò non significa che lo si possa prendere in giro. Per il fatto di essere un gentile protettore può anche essere l'orrore stesso per coloro che non ama”.

“Non intendo prenderlo in giro. Voglio solo sapere che cosa fa fare o vedere agli altri. Vi ho descritto tutto quello che Mescalito mi ha fatto vedere, don Juan”.

“Con te è diverso, forse perché non lo conosci. Devi imparare a conoscerlo come un bambino impara a camminare”.

“Per quanto tempo ancora devo imparare?”.

“Fino a che lui stesso non comincerà ad avere significato per te”.

“E poi?”.

“Poi capirai da solo. Non dovrai più raccontarmi nulla”.

“Potete dirmi solo dove Mescalito vi porta?”.

“Non posso parlarne”.

“Tutto quel che voglio sapere è se esiste un altro mondo al quale conduce la gente”.

“Esiste”.

“È in paradiso?” (Il termine spagnolo per indicare il paradiso è cielo che [come in italiano], significa anche ‘volta celeste’).

“Conduce attraverso il cielo (cielo)”.

“Voglio dire, è il paradiso (cielo), dove è Dio?”.

“Stai diventando stupido adesso. Io non so dov'è Dio”.

“Mescalito è Dio, il solo Dio? O è uno degli dèi?”.

“È semplicemente un protettore e un maestro. È un potere”.

“È un protettore dentro di noi?”.

“No. Mescalito non ha niente a che vedere con noi stessi. È esterno a noi”.

“Allora chiunque prende Mescalito deve vederlo nella medesima forma?”.

“Niente affatto. Non è lo stesso per tutti”.

Giovedì, 12 aprile, 1962

 

 

“Perché non mi dite di più su Mescalito, don Juan?”. “Non c'è niente da dire”.

“Devono esserci migliaia di cose che io dovrei sapere prima di incontrarlo ancora”.

“No. Forse per te non c'è nulla che tu debba sapere. Come ti ho già detto, non è lo stesso per tutti”.

“Lo so, ma vorrei ancora sapere che cosa provano gli altri nei suoi confronti”.

“L'opinione di chi si preoccupa di parlare di lui non vale molto. Vedrai. Probabilmente parlerai di lui fino a un certo punto, e da allora in poi non ne parlerai mai”.

“Potete parlarmi delle vostre prime esperienze?”.

“A che pro?”.

“Allora saprei come comportarmi con Mescalito”. “Tu già sai più di quanto sappia io. Tu hai effettivamente giocato con lui. Un giorno o l'altro vedrai quanto è stato buono con te il protettore. Sono sicuro che quella prima volta ti ha detto molte, moltissime cose, ma tu eri sordo e cieco”.

Sabato, 14 aprile, 1962

 

 

“Mescalito prende qualsiasi forma quando si mostra?”.

“Sì, qualsiasi forma”.

“Allora, quali sono le forme più comuni che conoscete?”.

“Non ci sono forme comuni”.

“Volete dire, don Juan, che appare in qualsiasi forma, anche a chi lo conosce bene?”.

“No. Appare in qualsiasi forma a coloro che lo conoscono soltanto un poco, ma con chi lo conosce bene è sempre costante”.

“In che modo è costante?”.

“Appare a essi talvolta come un uomo, come noi, o come una luce. Semplicemente una luce”.

“Mescalito cambia mai la sua forma permanente con coloro che lo conoscono bene?”. “No, che io sappia”.

Venerdì, 6 luglio, 1962

 

 

Don Juan ed io partimmo per un viaggio nel tardo pomeriggio di sabato 23 giugno. Don Juan disse che andavamo a cercare honguitos (funghi) nello stato di Chihuahua. Disse che sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso. Aveva ragione. Arrivammo in una piccola città mineraria nel Chihuahua del nord alle dieci di sera di mercoledì 27 giugno. Andammo a piedi dal luogo in cui avevo parcheggiato l'automobile, alla periferia della città, fino alla casa dei suoi amici: un indiano Tarahumara e la moglie, che ci ospitarono per la notte.

La mattina dopo l'uomo ci svegliò verso le cinque. Ci portò farinata e fagioli. Si mise a sedere e parlò con don Juan mentre mangiavamo, ma non disse nulla del nostro viaggio.

Dopo la colazione l'uomo riempì d'acqua la mia borraccia, e mise due focacce nel mio zaino. Don Juan diede a me la borraccia e si legò lo zaino sulle spalle con una corda, ringraziò l'uomo per la sua gentilezza, e rivolto a me disse: “È ora di andare”.

Seguimmo una strada bianca per circa un miglio. Quindi tagliammo attraverso i campi e dopo due ore eravamo ai piedi delle colline a sud della città. Ci arrampicammo sui lievi pendii in direzione sud-ovest. Quando arrivammo alle pendenze più scoscese don Juan cambiò direzione e seguimmo una profonda valle in direzione est. Nonostante la sua età avanzata don Juan mantenne un passo così incredibilmente veloce che a mezzogiorno io ero completamente esausto. Ci sedemmo ed egli aprì il sacco del pane.

“Puoi mangiarlo tutto, se vuoi”, disse.

“ E voi ? ”.

“Non ho fame, e più tardi non avremo bisogno di questo cibo”.

Ero molto stanco e affamato e non mi feci scrupolo di accettare la sua offerta. Pensai che fosse un buon momento per parlare dello scopo del nostro viaggio e, del tutto casualmente, chiesi: “Pensate che rimarremo qui a lungo?”.

“Siamo qui per raccogliere Mescalito. Rimarremo fino a domani”.

“Dov’è Mescalito?”.

“Tutto intorno a noi”.

In tutta la zona crescevano a profusione cactus di molte specie, ma non riuscii a distinguere il peyote tra di essi.

Riprendemmo il cammino e alle tre giungemmo in una valle lunga stretta, fiancheggiata da ripide colline. Mi sentivo stranamente eccitato all'idea di trovare il peyote, che non avevo mai visto nel suo ambiente naturale. Entrammo nella valle e avevamo camminato probabilmente per un centinaio di metri quando a un tratto riconobbi tre piante che erano inequivocabilmente di peyote. Formavano un grappolo a pochi centimetri di altezza dal terreno davanti a me, alla sinistra del sentiero. Sembravano rose verdi, rotonde e carnose. Corsi verso di esse, indicandole a don Juan.

Mi ignorò, e tenne deliberatamente le spalle voltate mentre continuava a camminare. Seppi di aver commesso un errore, e per il resto del pomeriggio camminammo in silenzio, muovendoci lentamente sul fondo pianeggiante della valle, coperto di piccole pietre dai bordi aguzzi. Procedevamo in mezzo ai cactus, disturbando folle di lucertole e di quando in quando un uccello solitario. E io oltrepassai decine di piante di peyote senza dire una parola.

Alle sei eravamo ai piedi delle montagne che segnavano la fine della valle. Ci arrampicammo fino a una sporgenza. Don Juan lasciò cadere il suo sacco e si mise a sedere.

Avevo di nuovo fame, ma non era rimasto niente da mangiare; suggerii di cogliere Mescalito e di riprendere la strada della città. Mi guardò infastidito e fece un suono schioccante con le labbra. Disse che avremmo passato la notte lì.

Ci sedemmo tranquillamente. A sinistra c'era una parete rocciosa e a destra la valle che avevamo appena attraversato. Si stendeva su una lunga distanza e sembrava più ampia di quanto avessi pensato, e non così pianeggiante. Vista dal punto in cui eravamo seduti, era piena di collinette e di protuberanze.

“Domani ripartiremo per il viaggio di ritorno”, disse don Juan senza guardarmi e indicando la strada. “Ci apriremo la via del ritorno e lo raccoglieremo mentre attraverseremo il campo. Cioè, lo raccoglieremo solo quando sarà sul nostro cammino. Lui troverà noi e non il contrario. Lui troverà noi; se vuole”.

Don Juan appoggiò la schiena contro la parete di roccia e, con il capo girato dalla sua parte, continuò a parlare come se oltre a me ci fosse un'altra persona. “Ancora una cosa. Solo io posso coglierlo. Forse tu porterai il sacco, oppure camminerai davanti a me; ancora non lo so. Ma domani non ti metterai a indicarlo come hai fatto oggi!”.

“Mi dispiace, don Juan”.

“Non è niente. Tu non sapevi”.

“Tutte queste cose su Mescalito ve le ha insegnate il vostro benefattore?”.

“No! Nessuno mi ha insegnato. Il protettore stesso è stato il mio maestro”.

“Allora Mescalito è come una persona a cui si può parlare?”.

“No, non lo è”.

“Come insegna, allora?”.

Rimase un poco in silenzio.

“Ricordi la volta in cui hai giocato con lui? Hai capito quello che voleva dire, no?”.

“L'ho capito”.

“È questo il modo in cui insegna. Allora non lo sapevi, ma se tu gli avessi fatto attenzione, ti avrebbe parlato”.

“Quando?”.

“Quando l'hai visto per la prima volta”.

Sembrava che il mio interrogatorio lo infastidisse alquanto. Gli dissi che dovevo fargli tutte quelle domande perché volevo scoprire tutto quello che potevo.

“Non chiederlo a me”, rispose sorridendo maliziosamente.

“Chiedilo a lui. La prima volta che lo vedi chiedigli tutto quello che vuoi sapere”.

“Allora Mescalito è come una persona a cui si può parlare?”.

Non mi lasciò terminare. Si voltò, prese la borraccia, scese dalla sporgenza, e scomparve dietro la roccia. Non volevo rimanere lì solo e, sebbene non me lo avesse chiesto, lo seguii. Camminammo per circa centocinquanta metri fino a un piccolo ruscello. Si lavò le mani e la faccia, e riempì la borraccia. Si sciacquò la bocca con l'acqua, ma non la bevve. Raccolsi un po' d'acqua nelle mani e bevvi, ma mi fermò dicendo che non era necessario bere.

Mi porse la borraccia e riprese a camminare verso la sporgenza. Una volta arrivati ci sedemmo rivolti alla valle con la schiena contro il muro di roccia. Gli chiesi se potevo accendere un fuoco. Reagì come se fosse inconcepibile domandare una cosa del genere. Disse che per quella notte eravamo ospiti di Mescalito e lui ci avrebbe tenuti caldi.

Eravamo quasi all'imbrunire. Don Juan tirò fuori dal suo sacco due leggere coperte di cotone, me ne gettò una sulle ginocchia, e sedette a gambe incrociate con l'altra coperta sulle spalle. La valle sotto di noi era buia, con i contorni che già sfumavano nella nebbia della sera.

Don Juan sedeva immobile rivolto verso il campo di peyote. Un vento ostinato soffiava sul mio viso.

“Il crepuscolo è la frattura tra i mondi”, disse a bassa voce, senza voltarsi verso di me.

Non gli chiesi che cosa avesse voluto dire. Mi si erano stancati gli occhi. Improvvisamente mi sentii in uno stato di ebbrezza; provavo un desiderio di piangere, strano e opprimente.

Mi distesi sullo stomaco; il pavimento di roccia era duro e scomodo, e dovevo cambiare di posizione ogni volta dopo pochi minuti. Alla fine mi misi a sedere con le gambe incrociate, mettendomi la coperta sulle spalle. Con mia meraviglia la posizione era estremamente comoda, e caddi addormentato.

Quando mi svegliai sentii don Juan che mi parlava. Era ancora molto buio. Non riuscivo a vederlo bene. Non capii quello che diceva ma lo seguii quando cominciò a scendere dalla sporgenza. Ci muovevamo con cautela, o per lo meno io lo facevo, per via dell'oscurità. Ci fermammo al fondo del muro di roccia. Don Juan sedette e mi fece cenno di sedermi alla sua sinistra. Si aprì la camicia e ne tirò fuori un sacco di cuoio, che aprì e posò sul terreno davanti a sé. Conteneva un certo numero di boccioli secchi di peyote.

Dopo una lunga pausa prese in mano uno dei boccioli. Lo tenne con la destra, strofinandolo molte volte tra il pollice e l'indice mentre cantava sommessamente. All'improvviso emise un grido terribile.

“Ahiiii!”.

Era un grido soprannaturale, inaspettato. Mi atterrì. Nell'oscurità vidi che si metteva in bocca il bocciolo di peyote e cominciava a masticarlo. Dopo un momento prese tutto il sacco, lo spinse verso di me, e mi disse in un bisbiglio di prendere il sacco, di prendere un bocciolo di mescalito, di rimettere il sacco davanti a noi, e quindi di fare esattamente quello che faceva lui.

Tirai su un bocciolo di peyote e lo strofinai tra le dita come aveva fatto lui. Nel frattempo don Juan cantava, dondolandosi avanti e indietro. Tentai molte volte di mettermi il bocciolo in bocca, ma gridare mi imbarazzava. Poi, come in un sogno, dalla mia bocca uscì un grido incredibile: Ahiiii! Per un attimo pensai che fosse stato un altro. Sentii di nuovo nello stomaco gli effetti dello shock nervoso. Stavo cadendo all'indietro. Stavo svenendo. Mi misi in bocca il bocciolo di peyote e lo masticai. Dopo un po' don Juan ne prese un altro dal sacco. Fui molto sollevato nel vedere che lo metteva in bocca dopo un breve canto. Mi passò il sacco, lo misi di nuovo davanti a noi dopo averne preso un bocciolo. Questo ciclo si ripeté cinque volte prima che mi accorgessi di aver sete. Presi la borraccia per bere, ma don Juan mi disse di sciacquarmi soltanto la bocca e di non bere, altrimenti avrei vomitato.

Mi sciacquai ripetutamente la bocca con l'acqua. A un certo momento provai l'irresistibile tentazione di bere e inghiottii una goccia d'acqua. Immediatamente cominciai a sentire delle convulsioni allo stomaco. Mi aspettavo di emettere dalla bocca senza dolore e senza sforzo, come era accaduto durante la mia prima esperienza col peyote, invece, con mia sorpresa, ebbi semplicemente l'ordinaria sensazione del vomitare. Tuttavia non durò a lungo.

Don Juan prese un altro bocciolo e mi porse il sacco, e il ciclo fu rinnovato e ripetuto finché non ebbi masticato quattordici boccioli. A quel momento le mie prime sensazioni di sete, freddo e disagio erano scomparse. Al loro posto sentivo un inconsueto senso di calore e di eccitazione. Presi la borraccia per rinfrescarmi la bocca, ma era vuota.

“Posso andare al ruscello, don Juan?”.

Il suono della mia voce non uscì dalla bocca ma colpì la sommità del mio palato, mi rimbalzò in gola, ed echeggiò avanti e indietro tra palato e gola. L'eco era dolce e musicale, e sembrava fornita di ali che battessero nella mia gola. Il suo tocco mi calmava. Ne seguii il movimento in avanti e indietro finché non fu svanito.

Ripetei la domanda. La mia voce risuonava come se parlassi sotto una volta.

Don Juan non rispose. Mi alzai e mi volsi in direzione del ruscello. Lo guardai per vedere se veniva, ma sembrava ascoltare attentamente qualcosa.

Con la mano mi fece imperiosamente segno di star fermo.

“Abuhthol (?) è già qui!”, disse.

Non avevo mai udito prima quella parola, e mi chiedevo se era il caso di interrogarlo quando percepii un rumore che sembrava un ronzio nelle mie orecchie. Il suono divenne gradualmente più forte finché non fu come la vibrazione prodotta da un enorme bull-roarer1. Durò un breve istante e calò gradualmente finché tutto fu di nuovo silenzioso. La violenza e l'intensità del rumore mi atterrivano. Tremavo a tal punto che a stento riuscivo a rimanere diritto, tuttavia ero perfettamente coerente. Benché qualche minuto prima fossi stato assopito, questa sensazione era svanita del tutto, lasciando il posto a uno stato di estrema lucidità. Il rumore mi ricordò un film di fantascienza in cui un'ape gigantesca faceva vibrare le ali uscendo da un campo di radiazioni atomiche. Risi a questo ricordo. Vidi don Juan ricadere nella sua posizione rilassata. E improvvisamente mi ritornò l'immagine di un'ape gigantesca. Era più reale dei pensieri ordinari. Rimase isolata, circondata da un chiarore straordinario. Ogni altra cosa era scacciata dalla mia mente. Questo stato di lucidità mentale, che non aveva precedenti nella mia vita, produsse un altro momento dì terrore.

Incominciai a sudare. Mi chinai verso don Juan per dirgli che avevo paura. La sua faccia era a pochi centimetri dalla mia. Mi guardava, ma i suoi occhi erano quelli di un'ape. Sembravano vetri rotondi che emanassero una loro luce nell'oscurità. Aveva le labbra protese in avanti, e da esse proveniva un suono meccanico: “Pehtuh-peh-tuh-pet-tuh”. Feci un salto indietro, andando quasi a urtare contro la parete di roccia. Per un momento apparentemente senza fine provai un terrore insopportabile. Ansimavo e gemevo. Il sudore mi si era gelato sulla pelle, dandomi un'imbarazzante rigidità. Quindi sentii la voce di don Juan che diceva: “Alzati! Muoviti! Alzati!”.

L'immagine svanì e potei vedere nuovamente il suo volto familiare.

“Vado a prendere un po' d'acqua”, dissi dopo un altro momento interminabile. La voce mi venne meno. Riuscii a stento ad articolare le parole. Don Juan fece cenno di sì col capo. Mentre mi incamminavo mi resi conto che la mia paura se ne era andata altrettanto rapidamente e misteriosamente come era venuta.

Mentre mi avvicinavo al ruscello notai che potevo vedere quasi ogni oggetto lungo la strada. Ricordai di avere appena visto don Juan con chiarezza, mentre prima potevo a stento distinguere i contorni della sua figura. Mi fermai e guardai in lontananza, e potei addirittura vedere attraverso la valle. Alcuni macigni dall'altra parte diventarono perfettamente visibili. Pensai che dovesse essere mattina presto, ma mi venne in mente che forse avevo perso la nozione del tempo. Guardai l'orologio, segnava le dodici e dieci! Controllai l'orologio per vedere se camminava. Non poteva essere mezzogiorno; doveva essere mezzanotte! Intendevo fare una corsa fino all'acqua e ritornare alle rocce, ma vidi don Juan scendere e lo aspettai. Gli dissi che riuscivo a vedere nel buio.

Mi scrutò a lungo senza dire una parola; se parlò, forse non lo udii, perché ero concentrato sulla mia nuova, unica, capacità di vedere nel buio. Riuscivo a distinguere i più piccoli granelli di sabbia. Di quando in quando tutto era così chiaro che sembrava fosse l'alba, o il crepuscolo. Poi tornava buio; poi di nuovo chiaro. Presto mi resi conto che la luminosità corrispondeva alla diastole del mio cuore, e l'oscurità alla sistole. Il mondo cambiava dalla luce al buio e poi di nuovo alla luce a ogni battito del mio cuore.

Ero assorto in questa scoperta quando lo stesso strano rumore che avevo sentito prima divenne nuovamente udibile. I miei muscoli si irrigidirono.

“Anuhctal (come udii la parola questa volta) è qui”, disse don Juan. Sentii il muggito così tonante, così schiacciante, che nient'altro più contava. Il ruscello, che un minuto prima era largo meno di trenta centimetri, si era dilatato fino a diventare un lago enorme. La luce che sembrava venire dal di sopra di esso ne toccava la superficie come se risplendesse attraverso un denso fogliame. Di quando in quando, per un secondo, l'acqua mandava un bagliore: oro e nero. Poi rimaneva buia, senza luce, quasi invisibile, e tuttavia stranamente presente.

Non ricordo per quanto tempo rimasi fermo a osservare, seduto sulla riva del lago nero. Nel frattempo il muggito doveva essere calato di tono, perché quello che mi fece sobbalzare (e tornare alla realtà?) fu di nuovo un ronzio terrificante. Mi girai intorno per cercare don Juan. Lo vidi arrampicarsi e sparire dietro la sporgenza rocciosa. Ma la sensazione di essere solo non mi turbò affatto; rimasi seduto in uno stato di assoluta fiducia e di abbandono. Il muggito diventò nuovamente udibile; era molto intenso, come il rumore prodotto da un forte vento. Ascoltando più attentamente che potei riuscii a individuare una definita melodia. Era un composto di suoni acuti, come voci umane, accompagnati da un suono profondo di grancassa. Concentrai tutta la mia attenzione sulla melodia, e di nuovo notai che le sistole e le diastole del mio cuore coincidevano con il suono della batteria e con il ritmo della musica.

Mi alzai e la melodia si fermò. Cercai di ascoltare il battito del mio cuore, ma non riuscii a distinguerlo. Mi rimisi a sedere pensando che forse i suoni erano stati causati o indotti dalla mia posizione! Ma non accadde nulla! Non un rumore! Nemmeno il mio cuore! Pensai di averne avuto abbastanza ma, mentre mi alzavo per andarmene, sentii tremare la terra. Il suolo sotto i miei piedi stava tremando. Stavo perdendo l'equilibrio. Caddi all'indietro e rimasi sulla schiena mentre la terra si muoveva con violenza. Cercai di afferrarmi a una roccia o a una pianta, ma qualcosa scivolava sotto di me. Saltai in piedi, rimasi in piedi per un attimo, e ricaddi. Il terreno su cui ero seduto si stava muovendo, scivolando nell'acqua come una zattera. Rimasi immobile, irrigidito da un terrore che, come ogni altra cosa, era unico, ininterrotto e assoluto.

Mi spostavo attraverso l'acqua del lago nero aggrappato a un pezzo di terreno che assomigliava a un trave di terra. Avevo la sensazione di andare in direzione sud, trasportato dalla corrente. Potevo vedere intorno l'acqua muoversi e turbinare. Al tatto sembrava fredda e stranamente pesante. Immaginai che fosse viva.

Non riuscii a distinguere sponde o altri punti di riferimento, e non posso ricordare i pensieri o le sensazioni che devo aver provato durante questo viaggio. Dopo quelle che mi parvero ore di galleggiamento alla deriva, la mia zattera fece una svolta ad angolo retto verso sinistra, verso est. Continuò a scivolare nell'acqua per una brevissima distanza, e inaspettatamente andò a sbattere contro qualcosa. L'urto mi proiettò in avanti. Chiusi gli occhi e sentii un acuto dolore mentre le mie ginocchia e le mie braccia protese urtavano il terreno. Dopo un momento guardai in su. Ero disteso al suolo. Era come se il mio trave di terra si fosse fuso con il terreno. Mi tirai su a sedere e mi volsi intorno. L'acqua si ritirava! Si muoveva all'indietro, come un'onda al contrario, finché scomparve.

Rimasi seduto a lungo, cercando di raccogliere i miei pensieri e di ridurre tutto quello che mi era accaduto a un!unità coerente. Avevo tutto il corpo dolorante. Mi sentivo la bocca come una piaga aperta; mentre ‘approdavo’ mi ero morso le labbra. Mi alzai in piedi. Il vento mi fece rendere conto che avevo freddo. Avevo gli abiti bagnati. Mani, mascelle e ginocchia, tremavano così violentemente che dovetti mettermi nuovamente disteso. Gocce di sudore mi scivolavano negli occhi facendoli bruciare finché non gridai dal dolore.

Dopo un po' riacquistai una certa stabilità e mi alzai in piedi. Nel crepuscolo buio la scena era chiarissima. Feci un paio di passi. Udii un suono distinto di molte voci umane. Sembravano parlare ad alta voce. Seguii il suono; camminai per circa cinquanta metri e mi fermai improvvisamente. Avevo raggiunto un punto morto. Il luogo dove mi ero fermato era un corral formato da enormi macigni. Ne potevo distinguere un'altra fila, quindi un'altra e un'altra ancora, finché si fondevano con la montagna a picco. Da questi macigni proveniva la meravigliosa musica. Era un susseguirsi soprannaturale di suoni limpidi e ininterrotti.

Ai piedi di un macigno vidi un uomo seduto per terra, il volto girato di profilo. Mi avvicinai a lui fino alla distanza di circa tre metri: a questo punto volse il capo e mi guardò. Mi fermai: i suoi occhi erano l'acqua che avevo appena visto. Avevano lo stesso volume, gli stessi bagliori di oro e nero. Aveva la testa a punta come una fragola; la pelle verde punteggiata di innumerevoli protuberanze. Tranne che per la forma a punta, la testa rassomigliava esattamente alla superficie della pianta del peyote. Mi fermai davanti a lui, guardandolo fissamente; non riuscivo a distogliere gli occhi. Sentii che stava deliberatamente facendo pressione sul mio petto col peso dei suoi occhi. Stavo soffocando. Persi l'equilibrio e caddi a terra.

I suoi occhi si voltarono. Sentii che mi parlava. Da principio la sua voce somigliava al dolce mormorio di una lieve brezza. Poi la udii come una musica — come una melodia di voci — e ‘seppi’ che stava dicendo: “Che cosa vuoi?”.

Mi inginocchiai davanti a lui e parlai della mia vita, quindi piansi. Mi guardò di nuovo. Sentii che i suoi occhi mi spingevano via, e pensai che quel momento sarebbe sfato il momento della mia morte. Mi fece cenno di venire più vicino. Vacillai un istante prima di fare un passo in avanti. Mentre mi avvicinavo distolse da me gli occhi e mi mostrò il dorso della sua mano. La melodia disse “Guarda!”. In mezzo alla mano c'era un buco rotondo. “Guarda!”, disse nuovamente la melodia. Guardai nel buco e vidi me stesso. Ero vecchissimo e debole e correvo tutto curvo, con scintille luminose che mi volavano tutto intorno. Poi tre delle scintille mi colpirono, due sulla testa e una sulla spalla sinistra. La mia figura, nel buco, si drizzò per un momento finché non fu del tutto verticale, e quindi scomparve insieme con il buco.

Mescalito rivolse di nuovo gli occhi verso di me. Erano così vicini che li ‘udii’ rimbombare dolcemente con quel particolare rumore che avevo udito molte volte quella notte. Divennero gradualmente calmi finché furono come uno stagno tranquillo increspato da bagliori di nero e oro.

Distolse gli occhi ancora una volta e saltò come un grillo per forse quindici metri. Saltò ancora e ancora, e scomparve.

La cosa successiva che ricordo è che cominciai a camminare. Cercai molto ragionevolmente di riconoscere i punti di riferimento, come montagne in lontananza, per orientarmi. Durante tutta l'esperienza ero stato perseguitato dai punti cardinali, e credevo che il nord dovesse essere alla mia sinistra. Camminai per un poco in quella direzione prima di rendermi conto che era giorno, e che non stavo più usando la mia ‘vista notturna’. Ricordai di avere un orologio e guardai l'ora. Erano le otto.

Erano circa le dieci quando arrivai alla sporgenza dove ero stato la notte prima. Don Juan dormiva disteso per terra.

“Dove sei stato?”, chiese.

Mi misi a sedere per riprendere fiato.

Dopo un lungo silenzio chiese: “Lo hai visto?”.

Cominciai a narrargli il succedersi delle mie esperienze fin dal principio, ma mi interruppe dicendo che tutto quello che importava era se lo avevo visto o no. Chiese quanto mi si era avvicinato Mescalito. Gli risposi che lo avevo quasi toccato.

Quella parte della mia storia lo interessò. Ascoltò attentamente ogni particolare senza fare commenti, interrompendo solo per fare domande sulla forma dell'entità che avevo visto, la sua disposizione, e altri particolari. Era quasi mezzogiorno quando don Juan parve sufficientemente soddisfatto del mio racconto. Si alzò e mi assicurò al petto un sacco di tela; mi ordinò di camminare davanti a lui e disse che lui avrebbe tagliato Mescalito e io dovevo riceverlo nelle mie mani e metterlo con dolcezza nel sacco.

Bevemmo un po' d'acqua e incominciammo a camminare. Quando raggiungemmo il fondo della valle sembrò esitare per un momento prima di decidere quale direzione prendere. Una volta che ebbe fatta la sua scelta ci incamminammo in linea retta.

Ogni volta che arrivavamo a una pianta di peyote, le si accovacciava davanti e con molta dolcezza ne tagliava via la sommità con il suo corto coltello seghettato. Faceva un'incisione a livello del terreno e cospargeva la ‘ferita’, come la chiamava, con zolfo puro in polvere che portava in un sacchetto di cuoio. Teneva il bocciolo fresco nella sinistra e spargeva la polvere con la destra. Poi si alzava in piedi e mi porgeva il bocciolo, che io ricevevo con entrambe le mani, come aveva prescritto, e mettevo dentro il sacco. “Stai diritto e non lasciare che il sacco tocchi il terreno o i cespugli o qualsiasi altra cosa”, mi aveva detto ripetutamente, come se pensasse che avrei dimenticato.

Raccogliemmo sessantacinque boccioli. Quando il sacco fu completamente pieno me lo mise sulla schiena e me ne adattò un altro su) petto. Quando avemmo finito di attraversare l'altipiano avevamo due sacchi pieni, contenenti centodieci boccioli di peyote. I sacchi erano così pesanti e voluminosi che a stento riuscivo a camminare sotto il loro peso e la loro mole.

Don Juan mi disse sottovoce che i sacchi erano pesanti perché Mescalito voleva ritornare alla terra. Disse che quel che rendeva pesante Mescalito era la tristezza di lasciare la propria residenza; il mio vero incarico consisteva nel non lasciare che i sacchi toccassero il terreno, perché se lo avessi fatto Mescalito non mi avrebbe permesso di risollevarlo.

A un particolare momento la pressione delle cinghie sulle mie spalle divenne intollerabile. Qualcosa stava esercitando una forza tremenda per spingermi giù. Mi sentivo molto spaventato. Notai che avevo incominciato a camminare più in fretta, quasi di corsa; stavo in certo modo trotterellando dietro a don Juan.

Improvvisamente il peso sulla schiena e sul petto diminuì. Il carico divenne elastico e leggero. Corsi liberamente per raggiungere don Juan, che era davanti a me. Gli dissi che non sentivo più il peso. Spiegò che avevamo già lasciato la dimora di Mescalito.

Martedì, 3 luglio 1962

 

 

“Penso che Mescalito ti abbia quasi accettato”, disse don Juan.

“Perché dite che mi ha quasi accettato, don Juan?”.

“Non ti ha ucciso, né ti ha fatto del male. Ti ha fatto prendere un bello spavento, ma non uno spavento eccessivo. Se non ti avesse accettato affatto ti sarebbe apparso come mostruoso e pieno di collera. Alcuni hanno imparato che cosa è l'orrore incontrandolo senza essere accettati da lui”.

“Se è così terribile, perché non me lo avete detto prima di condurmi nel campo?”.

“Tu non hai il coraggio di cercarlo deliberatamente. Pensavo che sarebbe stato meglio per te se non avessi saputo”.

“Ma avrei potuto morire, don Juan!”.

“Sì, avresti potuto. Ma ero certo che per te sarebbe andato tutto bene. Ha giocato con te una volta. Non ti ha fatto del male. Ho pensato che avrebbe avuto compassione di te anche questa volta”.

Gli chiesi se davvero pensasse che Mescalito aveva avuto compassione di me. L'esperienza era stata terrificante; sentivo di essere quasi morto di paura.

Disse che Mescalito era stato gentilissimo con me; mi aveva mostrato una scena che era un risposta a una domanda. Don Juan disse che Mescalito mi aveva dato una lezione. Gli chiesi quale fosse la lezione e che cosa significasse. Disse che sarebbe stato impossibile rispondere alla domanda perché ero stato troppo spaventato per sapere esattamente che cosa chiedevo a Mescalito.

Don Juan esplorò quel che mi ricordavo di aver detto a Mescalito prima che mi mostrasse la scena sulla sua mano. Ma non riuscivo a ricordare. Tutto quel che ricordavo era di essere caduto in ginocchio e di avergli ‘confessato i miei peccati’.

Sembrò che a don Juan non interessasse più parlarne. Gli chiesi: “Potete insegnarmi le parole delle canzoni che cantavate?”.

“No, non posso. Quelle parole sono mie, sono le parole insegnate dal protettore in persona. Le canzoni sono le mie canzoni. Non posso dirti cosa sono”.

“Perché non me lo potete dire, don Juan?”.

“Perché queste canzoni sono un vincolo tra il protettore e me. Sono sicuro che un giorno o l'altro ti insegnerà le tue canzoni. Aspetta fino ad allora; e non devi mai copiare o chiedere delle canzoni che appartengono a un altro”.

“Qual era il nome che avete esclamato? Quello potete dirmelo, don Juan?”.

“No. Il suo nome non può mai essere pronunciato, tranne che per chiamarlo”.

“E se voglio chiamarlo io?”.

“Se un giorno o l'altro ti accetterà, ti dirà il suo nome. Quel nome dovrai usarlo solo tu, o per chiamarlo a gran voce, o per dirlo sottovoce a te stesso. Forse ti dirà che il suo nome è José. Chi sa?”.

“Che c'è di male nell'usare il suo nome quando si parla di lui?”.

“Tu hai visto i suoi occhi, non è vero? Non puoi prendere in giro il protettore. È per questo che non riesco a capacitarmi del fatto che abbia scelto di giocare con te”.

“Come può essere un protettore quando ad alcune persone nuoce?”.

“La risposta è semplicissima. Mescalito è un protettore perché è a disposizione di chiunque lo cerca”.

“Ma non è forse vero che nel mondo tutto è a disposizione di chiunque lo cerca?”.

“No, non è vero. I poteri alleati sono accessibili solo ai brujos, ma chiunque può partecipare di Mescalito”.

“Ma allora perché ad alcuni nuoce?”.

“Non tutti amano Mescalito; ma tutti lo cercano con l'idea di avvantaggiarsene senza fare nessuna fatica. Naturalmente il loro primo incontro con lui è sempre sconvolgente”.

“Che cosa accade quando accetta un uomo completamente?”.

“Gli appare come un uomo, o come una luce. Quando una persona ha ottenuto questo tipo di accettazione, Mescalito è costante. Dopo non cambia mai. Forse quando lo incontrerai di nuovo sarà una luce, e un giorno o l'altro potrà anche portarti con sé in volo e rivelarti tutti i suoi segreti”. “Che devo fare per arrivare a quel punto, don Juan?”. “Devi essere un uomo forte, e la tua vita deve essere sincera”. “Che cosa è una vita sincera?”. “Una vita vissuta con ponderazione, una vita buona e forte”.

 


5.

 

 

Don Juan mi interrogava periodicamente, in maniera casuale, sullo stato della mia pianta di Datura. Nell'anno trascorso dal momento in cui avevo trapiantato la radice, la pianta era cresciuta fino a diventare un grosso cespuglio. Aveva prodotti semi e i baccelli si erano seccati. E don Juan giudicò che fosse venuto per me il momento di imparare qualcosa di più sull'erba del diavolo.

Domenica, 27 gennaio, 1963

 

 

Oggi don Juan mi ha dato le informazioni preliminari sulla ‘seconda porzione’ della radice di Datura, il secondo passo nell'imparare la tradizione. Disse che la seconda porzione di radice era il vero inizio dell'imparare; al cui confronto la prima porzione era come un gioco infantile. La seconda porzione doveva essere padroneggiata; doveva essere ingerita per lo meno venti volte, disse, prima che si potesse andare al terzo passo.

“Che cosa fa la seconda porzione?”, chiesi.

“La seconda porzione dell'erba del diavolo è usata per vedere Con essa un uomo può librarsi in aria per vedere quel che avviene in qualsiasi posto che egli scelga”.

“Un uomo può davvero volare attraverso l'aria, don Juan?”.

“Perché no? Come ti ho già detto, l'erba del diavolo è per chi cerca il potere. L'uomo che padroneggia la seconda porzione può usare l'erba del diavolo per fare cose inimmaginabili, per acquistare un potere maggiore”.

“Che tipo di cose, don Juan?”.

“Non te lo posso dire. Ogni uomo è diverso”.

Lunedì, 28 gennaio, 1963

 

 

Don Juan mi disse: “Se completerai il secondo passo con esito favorevole, potrò mostrarti solo un altro passo ancora. Mentre imparavo l'erba del diavolo mi sono reso conto che non era per me, e non ho più seguito la sua strada”.

“Che cosa vi ha fatto decidere contro di essa, don Juan?”.

“L'erba del diavolo mi ha quasi ucciso ogni volta che ho cercato di usarla. Una volta è stata così brutta che ho pensato di aver finito. E tuttavia avrei potuto evitare tutta quella pena”.

“Come? C'è una maniera speciale per evitarla?”.

“Sì, una maniera c'è”.

“È una formula, un procedimento, o cosa?”.

“È una maniera di attaccarsi alle cose. Per esempio quando stavo imparando l'erba del diavolo ero troppo avido. Mi attaccavo alle cose come un bambino alle caramelle. L'erba del diavolo è solo una strada tra un milione. Tutto è una sola strada tra un milione (un camino entre cantidades de caminos). Quindi devi sempre tenere a mente che una strada è solo una strada; se senti che non dovresti seguirla, non devi restare con essa a nessuna condizione. Per raggiungere una chiarezza del genere devi condurre una vita disciplinata. Solo allora saprai che qualsiasi strada è solo una strada, e che non c'è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nel lasciarla andare se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Ma il tuo desiderio di insistere sulla strada o di abbandonarla deve essere libero dalla paura o dall'ambizione. Ti avverto. Guarda ogni strada attentamente e deliberatamente. Mettila alla prova tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, e a te stesso soltanto, una domanda. Questa è una domanda posta solo da un uomo molto vecchio. Il mio benefattore me la ha detta una volta quando ero giovane, e il mio sangue era troppo vigoroso perché la comprendessi. Ora la comprendo. Ti dirò che cosa è: Questa strada ha un cuore? Tutte le strade sono uguali; non portano da nessuna parte. Sono strade che passano attraverso alla boscaglia o che vanno nella boscaglia. Nella mia vita posso dire di aver percorso strade lunghe, molto lunghe, ma io non sono da nessuna parte. La domanda del mio benefattore ha adesso un significato. Questa strada ha un cuore? Se lo ha la strada è buona. Se non lo ha, non serve a niente. Entrambe le strade non portano da nessuna parte: ma una ha un cuore e l'altra no. Una porta a un viaggio lieto; finché la segui sei una sola cosa con essa. L'altra ti farà maledire la tua vita. Una ti rende forte; l'altra ti indebolisce”.

Domenica, 21 aprile, 1963

 

 

Martedì 16 aprile, nel pomeriggio, don Juan e io andammo alle colline dove erano le sue piante di Datura. Mi chiese di lasciarlo solo, e di aspettarlo in automobile. Ritornò quasi tre ore dopo pertanto un pacco avvolto in una stoffa rossa. Mentre ci accingevamo a ritornare alla casa indicò il fagotto e mi disse che quello era il suo ultimo regalo per me.

Gli chiesi se intendeva dire che non mi avrebbe più insegnato nulla. Spiegò che si riferiva al fatto che ormai avevo una pianta completamente matura e non avrei avuto più bisogno delle sue.

Più tardi nel pomeriggio sedemmo nella sua stanza; tirò fuori un mortaio ben levigato e un pestello. Il fornello del mortaio aveva circa venti centimetri di diametro. Aprì un grande pacco pieno di piccoli fagotti, ne scelse due, e li mise su una stuoia al mio fianco; poi aggiunse ancora quattro involti delle stesse dimensioni, presi dal pacco che aveva portato a casa. Disse che erano semi, e che io dovevo macinarli fino a farli diventare una polvere sottile. Aprì il primo fagotto e versò parte del suo contenuto nel mortaio. I semi erano secchi, rotondi, e di colore giallo caramello.

Cominciai a lavorare di pestello; dopo un po' mi corresse. Mi disse di spingere il pestello prima contro un lato del mortaio, e quindi di farlo scorrere attraverso il fondo e risalire dall'altro lato. Gli chiesi che cosa avrebbe fatto con la polvere. Non ne volle parlare.

La prima porzione di semi era estremamente difficile da macinare. Mi ci vollero quattro ore per finire il lavoro. La schiena mi doleva per via della posizione in cui ero stato a sedere. Mi distesi per terra e volevo addormentarmi proprio lì, ma don Juan aprì l'involucro successivo e versò parte del suo contenuto nel mortaio. Questa volta i semi erano leggermente più scuri dei primi, ed erano uniti insieme. Il resto del contenuto dell'involto era una specie di polvere fatta di granelli scuri, piccolissimi e rotondi.

Volevo qualcosa da mangiare, ma don Juan disse che se volevo imparare dovevo seguire la regola, e la regola era che mentre imparavo i segreti della seconda porzione potevo solamente bere un poco d'acqua.

Il terzo involto conteneva una manciata di scarabei del grano, neri, e vivi. E nell'ultimo c'erano alcuni semi bianchi, soffici quasi come funghi, ma fibrosi e difficili da macinare in una pasta sottile, come si aspettava che facessi. Dopo che ebbi finito di macinare il contenuto dei quattro involti don Juan misurò due tazze di un'acqua verdognola, la versò in una pentola di terracotta, e mise la pentola sul fuoco. Quando l'acqua bollì aggiunse la prima porzione di semi macinati. Rimescolò con un lungo osso, o pezzo di legno appuntito che portava nella sua sacca di cuoio. Non appena l'acqua bollì nuovamente aggiunse le altre sostanze a una a una, seguendo lo stesso procedimento. Poi aggiunse un'altra tazza della stessa acqua e lasciò bollire il miscuglio a fuoco lento.

Quindi mi disse che era ora di schiacciare la radice. Estrasse attentamente un lungo pezzo di radice di Datura dal fagotto che aveva portato a casa. La radice era lunga quasi cinquanta centimetri. Era spessa, forse cinque centimetri di diametro. Disse che era la seconda porzione, e la seconda porzione la doveva ancora misurare lui stesso, perché era sempre la sua radice.

Spinse verso di me il grosso mortaio, ed io cominciai a schiacciare la radice esattamente nello stesso modo in cui avevo macinato la prima porzione. Mi fece seguire il medesimo procedimento, e di nuovo lasciammo la radice schiacciata a impregnarsi d'acqua, esposta all'aria notturna. Ormai il miscuglio messo a bollire si era solidificato nella sua pentola di terracotta. Don Juan tolse la pentola dal fuoco, la mise in una rete, e l'appese a un trave in mezzo alla stanza.

Alle otto del mattino del 17 aprile, don Juan e io cominciammo a lisciviare l'estratto di radice con l'acqua. Era una giornata chiara e piena di sole, e don Juan interpretò il bel tempo come un presagio del fatto che l'erba del diavolo mi amava; disse che con me intorno poteva solo ricordare quanto fosse stata cattiva con lui.

Il procedimento che seguimmo nel lisciviare l'estratto di radice era lo stesso che avevo osservato per la prima porzione. Nel tardo, pomeriggio, dopo aver versato per l'ottava volta l'acqua di superficie, infondo al fornello c'era rimasta una cucchiaiata di sostanza giallastra.

Tornammo nella sua stanza dove c'erano due sacchetti che ancora non aveva toccato. Ne aprì uno, infilò dentro una mano e con l'altra strinse il bordo aperto del sacchetto intorno al polso. Sembrava che avesse in mano qualcosa, a giudicare dal modo in cui la muove vai dentro il sacco. Improvvisamente, con un movimento rapido, tirò via il sacco dalla mano come un guanto, rivoltandolo, e spinse la mano vicino alla mia faccia. Teneva in mano una lucertola. Il muso era a pochi centimetri dai miei occhi. C'era qualcosa di strano nella bocca della lucertola, la fissai per un momento e poi mi ritrassi involontariamente. La bocca della lucertola era stata cucita a punti grossolani. Don Juan mi ordinò di tenere la lucertola nella mano sinistra. La presi; si contorceva contro il palmo della mia mano. Mi sentivo nauseato. Le mani mi incominciavano a sudare.

Prese l'ultimo sacco e, ripetendo gli stessi movimenti, ne trasse un'altra lucertola. Tenne anche questa vicina alla mia faccia, e vidi che aveva le palpebre cucite. Mi ordinò di tenere questa lucertola nella destra.

Al momento in cui ebbi nelle mani entrambe le lucertole mi sentii quasi male. Avevo un fortissimo desiderio di lasciarle cadere e andarmene.

“Non le stringere!”, disse don Juan, e la sua voce mi diede un senso di sollievo e di direzione. Mi chiese che cosa c'era che non andava. Cercò di rimanere serio, ma non riuscì a conservare un'espressione rigida e rise. Cercai di allentare la presa, ma le mani mi sudavano così profusamente che le lucertole cominciarono a divincolarsi. I loro piccoli artigli aguzzi mi graffiavano le mani, producendo un incredibile senso di disgusto e di nausea. Chiusi gli occhi e strinsi i denti. Una delle lucertole stava già scivolando sul mio polso; le bastava solo far passare la testa tra le mie dita per essere libera. Provavo una particolare sensazione di disperazione fisica, di supremo sconforto. Grugnii a don Juan, tra i denti, dicendogli di togliermi quelle maledette cose. Scossi la testa involontariamente. Mi guardò con curiosità. Grugnii come un orso, scuotendo il corpo. Don Juan fece cadere le lucertole nei loro sacchetti e incominciò a ridere. Anch'io volevo ridere, ma avevo lo stomaco sottosopra. Mi stesi a terra.

Gli spiegai che quello che mi aveva disturbato era stata la sensazione delle loro unghie sui miei palmi; disse che c'erano moltissime cose che potevano fare impazzire un uomo, specialmente se non possedeva la risoluzione e l'intenzionalità richieste per l'apprendimento; ma quando un uomo aveva un intento chiaro e inflessibile, le sensazioni non erano assolutamente un ostacolo, perché era capace di controllarle.

Don Juan aspettò qualche istante e poi, ripetendo gli stessi movimenti, mi porse di nuovo le lucertole. Mi disse di tenere le loro teste . rivolte in alto e di strofinarle dolcemente contro le mie terapie, mentre chiedevo loro qualsiasi cosa che volessi sapere.

Da principio non capii che cosa voleva che facessi. Mi disse ancora di chiedere alle lucertole di qualsiasi cosa che non riuscivo a scoprire da solo. Mi diede tutta una serie di esempi: potevo venire a sapere di persone che non vedevo ordinariamente, o di oggetti perduti, o di luoghi che non avevo visto. Allora mi resi conto che stava parlando di divinazione. Mi eccitai moltissimo. Il cuore mi cominciò a battere in fretta. Sentii che stavo perdendo il fiato.

Don Juan mi avvertì di non chiedere di cose personali questa prima volta; disse che avrei piuttosto dovuto pensare a cose che non avevano nulla a che fare con me. Dovevo pensare in fretta e con chiarezza perché non ci sarebbe stato modo di revocare i miei pensieri,.

Cercai freneticamente di pensare a qualcosa che volevo sapere. Don Juan mi incalzava imperiosamente, e rimasi sbalordito nel rendermi conto che non riuscivo a pensare a nulla che volessi ‘chiedere’ alle lucertole.

Dopo un'attesa penosamente lunga pensai a qualcosa. Qualche tempo prima era stato rubato un gran numero di libri in una sala di lettura. Non era un fatto personale, e tuttavia mi interessava. Non avevo alcuna idea preconcetta sull'identità della persona, o delle persone, che avevano preso i libri. Strofinai le lucertole contro le mie tempie, chiedendo loro chi fosse il ladro.

Dopo un po' don Juan rimise le lucertole nei loro sacchetti, e disse che nella pasta e nella radice non c'erano grandi segreti. La pasta era fatta per dare direzione; la radice rendeva chiare le cose. Ma il vero mistero erano le lucertole. Erano il segreto di tutta la stregoneria della seconda porzione. Chiesi se fossero un tipo speciale di lucertole. Rispose che lo erano. Dovevano venire dalla zona della propria pianta; dovevano essere propri amici. E per avere amiche le lucertole, disse, ci voleva un lungo periodo di preparazione. Si doveva sviluppare con esse una forte amicizia dando loro del cibo e dicendo loro parole gentili.

Chiesi perché la loro amicizia fosse così importante. Disse che le lucertole si sarebbero lasciate prendere solo se conoscevano l'uomo, e che chiunque prendeva sul serio l'erba del diavolo doveva trattare le lucertole con serietà. Disse che, di regola, le lucertole dovevano essere catturate dopo che erano state preparate pasta e radice. Dovevano essere catturate tardi nel pomeriggio. Se non si era in termini di intimità con le lucertole, disse, si potevano passare dei giorni a cercare di catturarle, senza successo; e la pasta dura solo un giorno. Mi diede quindi una lunga serie di istruzioni riguardanti il procedimento da seguire dopo che le lucertole erano state catturate.

“Una volta che hai catturato le lucertole, mettile in sacchetti separati, poi prendi la prima e parlale. Chiedile scusa perché le fai del male, e pregala di aiutarti. E cucile la bocca con un ago di legno. Per cucire usa le fibre di agave e una delle spine di choya. Stringi bene i punti. Poi di’ all'altra lucertola le stesse cose e cucile le palpebre. Quando comincerà a scendere la notte sarai pronto. Prendi la lucertola con la bocca cucita e spiegale la cosa che vuoi sapere. Chiedile di andarla a vedere per te; dille che hai dovuto cucirle la bocca perché tornasse in fretta da te e non si fermasse a parlare con nessuno. Lasciala divincolarsi nella pasta dopo che gliela hai strofinata sulla testa; poi mettila per terra. Se va nella direzione della tua buona fortuna, la stregoneria riuscirà bene e facilmente. Se va nella direzione opposta, non riuscirà. Se la lucertola si muove verso di te (sud), ti puoi aspettare più della normale fortuna; ma se si allontana da te (nord), la stregoneria sarà estremamente difficile. Puoi addirittura morire! Quindi, se si allontana da te, quello è il momento buono per andartene. A questo punto puoi prendere la decisione di andartene. Se lo fai, perderai la capacità di comandare le lucertole, ma è meglio che perdere la vita. D'altra parte, puoi decidere di continuare con la magia a dispetto del mio avvertimento. Se lo fai, il passo successivo consiste nel prendere l'altra lucertola e nel dirle di ascoltare la storia della sua sorella e quindi di descrivertela”.

“Ma la lucertola con la bocca cucita come può fare a dirmi quello che vede? Non le è forse stata cucita la bocca per impedirle di chiacchierare?”.

“Cucendole la bocca le si impedisce di raccontare la sua storia agli estranei. La gente dice che le lucertole sono delle grandi chiacchierone; si fermerebbero dovunque a chiacchierare. Comunque il passo successivo consiste nello spalmarle la pasta sul dietro della testa, e poi nello strofinarle la testa sulla tua tempia destra, tenendo lontana la pasta dal centro della tua fronte. Quando si incomincia è una buona idea tenere la lucertola legata alla spalla destra con un laccio. In questo modo non la puoi perdere né ferire. Ma a mano a mano che vai avanti e acquisti una maggiore famigliarità con il potere dell'erba del diavolo, la lucertola imparerà a obbedire ai tuoi comandi e resterà appollaiata sulla tua spalla. Dopo che ti sei spalmato la pasta sulla tempia con la lucertola, affonda le dita di entrambe le mani nella poltiglia; prima strofinala sulle due terapie e quindi spalmala su tutti e due i lati della tua testa. La pasta asciuga molto in fretta, e può essere applicata quante volte è necessario. Comincia ogni volta usando prima la testa della lucertola e poi le dita. Prima o poi la lucertola che è andata vedere ritorna e racconta alla sorella del suo viaggio, e la sorella cieca te lo descrive come se tu fossi della sua razza. Quando la stregoneria è finita, metti giù la lucertola e lasciala andare, ma non guardare dove va. Scava un buco profondo con le mani nude e seppelliscici dentro tutto quello che hai usato”.

Alle 6 del pomeriggio don Juan versò l'estratto di radice dalla scodella in un pezzo piatto di schisto; c'era meno di un cucchiaio da tè di una poltiglia giallognola. Ne mise metà in una tazza e aggiunse un po' d'acqua giallastra. Ruotò la tazza tra le mani per sciogliere la sostanza. Mi porse la tazza e mi disse di bere il miscuglio. Era senza sapore, ma mi lasciò in bocca un gusto leggermente amaro. L'acqua era troppo calda e questo mi diede fastidio. Il cuore cominciò a battermi in fretta, ma presto fui di nuovo rilassato.

Don Juan prese l'altra scodella con la pasta. La pasta sembrava solida, e aveva una superficie lucida. Cercai di sentire col dito la consistenza della crosta, ma don Juan balzò verso di me e spinse la mia mano lontana dalla scodella. Si arrabbiò molto; disse che era molto sconsiderato da parte mia cercare di fare così, e che se davvero volevo imparare non c'era bisogno di essere così sbadato. Quello era potere, disse, additando la pasta, e nessuno poteva dire che tipo di potere fosse veramente. Era già abbastanza brutto doverci avere a che fare per i nostri scopi — cosa di cui non possiamo fare a meno perché siamo uomini, disse — ma dovremmo per lo meno trattarlo col giusto rispetto. Il miscuglio sembrava farina d'avena. Evidentemente aveva dentro abbastanza amido per dargli quella consistenza. Don Juan mi disse di prendere i sacchi con le lucertole. Prese la lucertola con la bocca cucita e me la porse con cautela. Me la fece prendere con la sinistra e mi disse di prendere un po' di pasta col dito e di strofinarla sulla testa della lucertola e quindi di mettere la lucertola nella pentola e di tenervela finché non avesse tutto il corpo ricoperto di pasta.

Poi mi disse di togliere la lucertola dalla pentola. Prese la pentola e mi condusse a un'area rocciosa non troppo lontana dalla sua casa. Indicò una grossa roccia e mi disse di sedermici davanti, come se fosse la mia pianta di Datura, e, tenendo la lucertola di fronte alla mia faccia, di spiegarle nuovamente quello che volevo sapere, e di chiederle di andare a cercare per me la risposta. Mi consigliò di dire alla lucertola che ero spiacente di doverle causare del disagio, e di prometterle che in cambio sarei stato gentile con tutte le lucertole. E quindi mi disse di tenerla tra il medio e l'anulare della mano sinistra, dove una volta lui mi aveva fatto un taglio, e di danzare intorno alla roccia facendo esattamente quello che avevo fatto quando avevo trapiantato l'erba del diavolo. Mi chiese se mi ricordavo tutto quello che avevo fatto quella volta; risposi di sì. Ripeté che tutto doveva essere esattamente lo stesso, e se non ricordavo dovevo aspettare finché non avevo tutto chiaro in mente. Mi avvertì con molta premura che se avessi agito troppo in fretta, senza deliberazione, avrei fatto del male a me stesso. La sua ultima istruzione fu che dovevo mettere la lucertola con la bocca cucita per terra e osservare dove andava, così che potessi determinare il risultato dell'esperienza. Disse che non dovevo distogliere gli occhi dalla lucertola, perché era un trucco comune alle lucertole distrarre una persona e poi scappare.

Non era ancora del tutto buio. Don Juan guardò il cielo. “Ti lascerò solo”, disse, e se ne andò.

Seguii tutte le sue istruzioni e poi misi per terra la lucertola. Questa rimase immobile dove l'avevo messa. Quindi mi guardò, e corse verso le rocce a est e vi scomparve in mezzo.

Mi misi a sedere per terra davanti alla roccia, come se fossi di fronte alla mia pianta. Mi colse una profonda tristezza. Mi domandavo che cosa facesse la lucertola con la bocca cucita. Pensai al suo strano viaggio e a come mi guardava prima di correre via. Era un pensiero strano, una proiezione fastidiosa. Il mio destino era, forse, solo quello di vedere; in quel momento sentii che non sarei mai stato capace di raccontare quello che avevo visto. Era ormai molto buio. Potevo a stento distinguere le rocce davanti a me. Pensai alle parole di don Juan: “II crepuscolo — ecco la frattura tra i mondi;”.

Dopo aver esitato a lungo cominciai a seguire i passi prescritti. La pasta sembrava farina d'avena, ma non al tatto. Era molto omogenea e fredda. Produceva sulla pelle una sensazione di freddo e si asciugava rapidamente. Mi strofinai le terapie undici volte, senza notare nessun effetto. Cercai molto accuratamente di tener conto di qualsiasi cambiamento di percezione o di stato d'animo, perché non sapevo nemmeno che cosa aspettarmi. In realtà, non riuscivo a concepire la natura dell'esperienza, e continuavo a cercare indizi.

La pasta si era seccata e squamata cadendo dalle mie terapie. Stavo per strofinarla ancora quando mi resi conto di essere seduto sui talloni alla maniera giapponese. Ero stato a sedere a gambe incrociate e non ricordavo di aver cambiato posizione. Mi ci volle un po' tempo per rendermi conto pienamente di essere seduto sul pavimento di una specie di chiostro con grandi archi. Pensai che fossero archi di mattoni, ma esaminandoli vidi che erano di pietra.

Questa transizione fu molto difficile. Venne così all'improvviso che non fui pronto a seguire. La mia percezione degli elementi della visione era diffusa, come se stessi sognando. Ma i componenti non cambiavano. Rimanevano costanti e potevo soffermarmi lungo ciascuno di essi ed esaminarlo effettivamente. La visione non era così chiara o così reale come quelle indotte dal peyote. Aveva un carattere nebbioso, un aspetto di pastello intensamente piacevole.

Mi domandai se potevo alzarmi o no, e la cosa successiva che notai fu che mi ero mosso. Ero in cima a una scala e H., una mia amica,, era in fondo. Aveva gli occhi febbricitanti. C'era in essi una luce folle. Rise forte e con tale intensità da essere terrificante. Incominciò a salire su per le scale. Volevo scappare o mettermi al riparo perché “una volta era uscita di senno”. Quello fu il pensiero che mi venne in mente. Mi nascosi dietro una colonna e mi oltrepassò senza guardare. “Sta per accingersi a un lungo viaggio, adesso”, fu un altro pensiero che mi venne in mente in quel momento; e per finire l'ultimo pensiero che ricordai fu: “Ride tutte le volte che sta per avere un collasso nervoso”.

Improvvisamente la scena diventò chiarissima; non era più come un sogno. Era come una scena ordinaria, ma mi sembrava di guardarla attraverso i vetri di una finestra. Tentai di toccare una colonna, ma tutto quello che sentii era che non mi potevo muovere; tuttavia sapevo che potevo rimanere fin quanto volevo a guardare la scena. Ero in essa e tuttavia non ne ero parte.

Provai una sensazione di arresto dei miei pensieri e delle mie argomentazioni razionali. Ero, per quel che potevo giudicare, in uno stato ordinario di coscienza sobria. Ogni elemento apparteneva al campo dei miei processi normali. E tuttavia sapevo di non essere in uno stato ordinario.

La scena cambiò bruscamente. Era notte. Ero nell'atrio di un edificio. L'oscurità all'interno dell'edificio mi fece render conto di quanto nella scena precedente il sole era stato meravigliosamente chiaro. Tuttavia era stato tutto così normale che al momento non lo avevo notato. Mentre guardavo ancora la nuova visione vidi un giovane uscire da una camera portando sulle spalle un grosso sacco. Non sapevo chi fosse, sebbene l'avessi visto una o due volte. Passò accanto a me e scese le scale. Avevo ormai dimenticato la mia apprensione, i miei dilemmi razionali. “Chi è quel tizio?”, pensai. “Perché l'ho visto?”.

La scena cambiò di nuovo, e stavo osservando il giovane mentre camuffava i libri; incollava insieme alcune delle pagine, cancellava scritte, e così via. Poi lo vidi disporre ordinatamente i libri in una cassa di legno. C'era una pila di casse. Non erano nella sua camera, ma in un ripostiglio.

Mi venivano alla mente altre immagini, ma non erano chiare. La scena diventò nebbiosa. Avevo la sensazione di girare su me stesso.

Don Juan mi scosse per le spalle e mi svegliai. Mi aiutò ad alzarmi in piedi e ci incamminammo verso la sua casa. Erano passate tre ore e mezza dal momento in cui avevo cominciato a strofinarmi la pasta sulle tempie fino al momento in cui mi ero svegliato, ma lo stato di visione non poteva essere durato più di dieci minuti. Non risentivo di nessuna conseguenza. Avevo solo fame e sonno.

Giovedì, 18 aprile, 1963

 

 

Ieri sera don Juan mi chiese di descrivere la mia recente esperienza, ma avevo troppo sonno per parlarne. Non riuscivo a concentrarmi. Oggi, appena mi sono svegliato, me lo ha chiesto di nuovo.

“Chi ti ha detto che questa ragazza, H., era uscita di senno?”, chiese quando ebbi finito il racconto.

“Nessuno. Era semplicemente uno dei pensieri che mi sono venuti”.

“Pensi che fossero tuoi pensieri?”.

Gli dissi che erano miei pensieri, per quanto non avessi avuto ragione di pensare che H. era stata malata. Erano pensieri strani. Sembravano affiorare nella mia mente da non si sa dove. Mi guardò interrogativamente. Gli chiesi se non mi credeva; rise e disse che era mia abitudine non curarmi delle mie azioni.

“Che cosa ho fatto di sbagliato, don Juan?”.

“Avresti dovuto ascoltare le lucertole”.

“Come avrei dovuto ascoltarle?”.

“La piccola lucertola sulla tua spalla ti stava descrivendo tutto quello che la sorella stava vedendo. Ti stava parlando. Ti stava dicendo tutto, e tu non le hai fatto attenzione. Invece, hai creduto che le parole della lucertola fossero pensieri tuoi”.

“Ma erano pensieri miei, don Juan”.

“Non lo erano. La natura di questa stregoneria è così. In realtà la visione deve essere ascoltata, piuttosto che guardata. A me è successa la stessa cosa. Stavo per avvertirti quando mi sono ricordato che il mio benefattore non mi aveva avvertito”.

“La vostra esperienza è stata come la mia, don Juan?”.

“No. La mia è stata un viaggio infernale. Sono quasi morto”.

“Perché è stata infernale?”.

“Forse perché l'erba del diavolo non mi amava, o perché non sapevo con chiarezza che cosa volevo chiedere. Come te ieri. Devi aver avuto in mente quella ragazza quando hai fatto la domanda in merito ai libri”.

“Non riesco a ricordarlo”.

“Le lucertole non sbagliano mai; prendono ogni pensiero come una domanda. La lucertola è tornata e ti ha raccontato a proposito di H. delle cose che nessuno potrà mai capire, perché neppure tu sapevi dove erano i tuoi pensieri”.

“E l'altra visione che ho avuto?”.

“I tuoi pensieri dovevano essere fermi quando hai fatto quella domanda. Ed è questo il modo in cui dovrebbe essere condotta questa stregoneria, con chiarezza”.

“Intendete dire che la visione della ragazza non deve essere presa sul serio?”.

“Come potrebbe essere presa sul serio se non sai a quali domande stessero rispondendo le due lucertoline?”.

“Per la lucertola sarebbe più chiaro se si facesse solo una domanda?”.

“Certamente sarebbe più chiaro. Se tu riuscissi a tenere fermo un pensiero solo”.

“Ma che cosa accadrebbe, don Juan, se la domanda pur essendo unica non fosse semplice?”.

“Finché il tuo pensiero è costante, e non si confonde con altre cose, è chiaro alle lucertoline, e quindi la loro risposta è chiara per te”.

“ Si possono fare ancora altre domande alle lucertole man mano che si va avanti nella visione?”.

“No. La visione consiste nel guardare tutto quello che le lucertole dicono. Per questo ho detto che è una visione da ascoltare più che una visione da vedere. Per questo ti ho detto di chiedere cose impersonali. Di solito, quando la domanda riguarda delle persone, il tuo desiderio di toccarle o di parlar loro è troppo forte, e la lucertola si fermerà a parlare e la stregoneria sarà annullata. Prima di cercare di vedere cose che ti riguardano personalmente dovresti sapere molto di più di quanto sai ora. La prossima volta devi ascoltare con cura. Sono sicuro che le lucertole ti hanno detto molte, moltissime cose, ma tu non stavi a sentire”.

Venerdì, 19 aprile, 1963

 

 

“Che cosa erano tutti quegli ingredienti che ho maculato per la pasta, don Juan?”.

“Semi di erba del diavolo e scarabei che vivono dei semi. La misura è una manciata di semi per ciascun ingrediente”. Mi mostrò il cavo della mano per farmi vedere la quantità.

Gli chiesi che cosa sarebbe accaduto se un solo ingrediente fosse usato di per sé, senza gli altri. Disse che tale procedimento avrebbe soltanto indispettito l'erba del diavolo e le lucertole. “Non devi indispettire le lucertole”, disse, “perché il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, devi ritornare al posto della tua pianta. Parla a tutte le lucertole e chiedi alle due che ti hanno aiutato nella stregoneria di venire di nuovo fuori. Cerca finché non è completamente buio. Se non riesci a trovarle, devi provare ancora una volta il giorno dopo. Se sei forte le troverai tutte e due, e allora dovrai mangiarle, sul posto. E sarai per sempre dotato della capacità di vedere ciò che è sconosciuto. Non avrai mai più bisogno di catturare lucertole per effettuare questa stregoneria. Da allora in poi vivranno dentro di te”.

“Che devo fare se ne trovo una sola?”.

“Se ne trovi una sola devi lasciarla andare alla fine della tua ricerca. Se la trovi il primo giorno, non tenerla, sperando di prendere l'altra il giorno dopo. Questo guasterebbe soltanto la tua amicizia con le lucertole”.

“E se non riesco a trovarle?”.

“Penso che per te sarebbe la cosa migliore. Implica che devi catturare due lucertole ogni volta che vuoi il loro aiuto, ma implica anche che sei libero”.

“Libero, che cosa volete dire?”.

“Libero dalla schiavitù dell'erba del diavolo. Se le lucertole devono vivere dentro di te, l'erba del diavolo non ti lascerà mai andare”.

“È un male?”.

“Certo che è un male. Ti taglierà fuori da qualsiasi altra cosa. Dovrai passare la tua vita a servirla come un alleato. È possessiva. Una volta che ti ha dominato, c'è una sola strada da seguire: la sua”.

“E se scopro che le lucertole sono morte?”.

“Se ne trovi morta una, o tutte e due, non devi cercare di fare questa stregoneria per un certo tempo. Stattene tranquillo per un po'”.

“Penso che questo sia tutto quello che ti devo dire; quello che ti ho detto è la regola. Ogni volta che esegui questa stregoneria per tuo conto, devi seguire tutti i passi che ho descritto mentre siedi di fronte alla pianta. Ancora una cosa. Non devi mangiare o bere finché la stregoneria non è finita”.

 


6.

 

 

Il passo successivo negli insegnamenti di don Juan fu un nuovo aspetto nel padroneggiare la seconda porzione della radice di Datura. Nel periodo trascorso tra i due stadi di apprendimento don Juan mi interrogava sullo sviluppo della mia pianta.

Giovedì, 27 giugno, 1963

 

 

“È buona pratica mettere alla prova l'erba del diavolo prima di incamminarsi completamente sulla sua strada”, disse don Juan.

“Come la si mette alla prova, don Juan?”.

“Devi tentare un'altra stregoneria con le lucertole. Devi avere tutti gli elementi che necessitano per fare un'altra domanda alle lucertole, questa volta senza il mio aiuto”.

“È proprio necessario che io faccia questa stregoneria, don Juan?”.

“È la maniera migliore per mettere alla prova i sentimenti dell'erba del diavolo nei tuoi confronti. Lei ti mette sempre alla prova, quindi è semplicemente giusto che tu la metta alla prova a tua volta, e se da qualche parte lungo la sua strada senti che per qualche ragione non dovresti proseguire, allora devi semplicemente fermarti”.

Sabato, 29 giugno, 1963

 

 

Tirai fuori l'argomento dell'erba del diavolo. Volevo che don Juan me ne dicesse di più, e tuttavia non volevo essere impegnato a partecipare.

“La seconda porzione è usata solamente per la divinazione, non è vero don Juan?”, chiesi per dare il via alla conversazione.

“Non solo per la divinazione. Si impara la stregoneria delle lucertole con l'aiuto della seconda porzione, e nello stesso tempo si mette alla prova l'erba del diavolo; ma in realtà la seconda porzione è usata per altri fini. La stregoneria delle lucertole è soltanto l'inizio”. “Allora per che cosa è usata, don Juan?”.

Non rispose. Cambiò bruscamente argomento e mi chiese quanto fossero grandi le piante di Datura che crescevano intorno alla mia pianta. Feci un gesto per mostrargli le dimensioni.

“Ti ho insegnato come distinguere una pianta maschio da una pianta femmina”, disse. “Adesso vai alle tue piante e portamene una per genere. Vai prima alla tua vecchia pianta e osserva attentamente i rivoli prodotti dalla pioggia. Ormai la pioggia deve aver trasportato lontano i semi. Osserva i solchi (zanjitas) prodotti dal flusso dell'acqua piovana, e da essi determina la direzione dell'acqua. Quindi trova la pianta cresciuta nel punto più lontano dalla tua vecchia pianta. Tutte le piante di erba del diavolo che crescono in mezzo sono tue. Più tardi, man mano che queste produrranno semi, potrai estendere le dimensioni del tuo territorio seguendo i rivoli prodotti dall'acqua piovana da ciascuna pianta”.

Mi diede istruzioni meticolose sul modo in cui procurarmi un attrezzo per tagliare. Il taglio della radice, disse, doveva essere eseguito nel modo seguente. Primo, dovevo scegliere la pianta da tagliare e togliere il terriccio intorno al punto in cui la radice è unita allo stelo. Secondo, dovevo ripetere esattamente la stessa danza che avevo eseguito quando avevo trapiantato la radice. Terzo, dovevo tagliare via lo stelo, e lasciare la radice nel terreno. L'ultimo passo consisteva nello scavare cinquanta centimetri di radice. Mi ammonì di non parlare o di tradire alcun sentimento durante questo atto.

“Dovresti portare due pezzi di stoffa”, disse. “Spiegali per terra e mettici sopra le piante. Poi taglia le piante in tante parti e ammucchiale. Spetta a te decidere l'ordine in cui fare ciò; ma devi sempre ricordare che ordine hai usato, perché è quella la maniera in cui dovrai farlo sempre. Portami le piante non appena le hai”.

Sabato, 6 luglio, 1963

 

 

Lunedì 1º luglio tagliai le piante di Datura che don Juan mi aveva chiesto. Aspettai che fosse abbastanza buio per eseguire la danza intorno alle piante perché non volevo che mi vedesse nessuno. Mi sentivo apprensivo. Ero certo che qualcuno avrebbe assistito ai miei strani atti. Avevo scelto in precedenza le piante che pensavo fossero un maschio e una femmina. Dovevo tagliare cinquanta centimetri della radice di ciascuna, e scavare fino a quella profondità con un bastone di legno non era cosa facile. Mi ci vollero due ore. Finii il lavoro nella completa oscurità, e quando fui pronto a tagliarle dovetti usare una lampadina portatile. La mia originaria apprensione che qualcuno mi osservasse era minima in confronto alla paura che qualcuno individuasse la luce nei cespugli.

Portai le piante alla casa di don Juan il martedì 2 luglio. Aprì i fagotti ed esaminò i pezzi. Disse che doveva ancora darmi i semi delle sue piante. Spinse un mortaio davanti a me. Prese un vaso di vetro e ne versò il contenuto — semi secchi attaccati insieme — nel mortaio.

Gli chiesi che cosa fossero, e mi disse che erano semi mangiati dagli scarabei. C'erano alcuni coleotteri tra i semi, piccoli scarabei neri del grano. Disse che erano coleotteri speciali e dovevamo tirarli fuori e metterli in un vaso separato. Mi porse un altro vaso, pieno per un terzo dello stesso tipo di scarabei. All'imboccatura del vaso era stato messo un pezzo di carta appallottolato per impedire agli scarabei di fuggire.

“La prossima volta dovrai usare gli scarabei delle tue piante”, disse don Juan. “Quello che devi fare è tagliare i baccelli che hanno dei piccoli buchi: sono pieni di coleotteri. Apri il baccello e raccogli tutto in un vaso.

Raccogli una manciata di scarabei e mettili in un altro recipiente. Trattali bruscamente. Con loro non devi essere pieno dì riguardi o delicato. Misura una manciata dei semi appiccicati insieme che sono stati mangiati dagli scarabei e una manciata di polvere di scarabei, e seppellisci il resto in qualsiasi posto in quella direzione (a questo punto indicò in direzione sud-est) dalla tua pianta. Poi raccogli dei semi buoni, secchi, e riponili separatamente. Puoi raccoglierne quanti vuoi. Puoi usarli sempre. È una buona idea togliere là i semi dai baccelli così da poter seppellire tutto in una sola volta”.

Quindi don Juan mi disse di macinare per primi i semi appiccicati insieme, poi le uova di scarabeo, poi gli scarabei, e per finire i semi buoni e secchi.

Quando fu tutto tritato fino a diventare una polvere sottile, don Juan prese i pezzi di Datura che avevo tagliato e li ammucchiò. Separò la radice maschio e la avvolse delicatamente in un pezzo di stoffa. Mi porse il resto e mi disse di tagliare tutto a pezzettini, schiacciare bene, e poi mettere tutto quello che avevo ottenuto in una pentola. Disse che li dovevo schiacciare nello stesso ordine in cui li avevo ammucchiati.

Dopo che ebbi finito mi disse di misurare una tazza di acqua bollente e di mescolarla a tutto quello che era nella pentola, e quindi di aggiungere altre due tazze. Mi porse una bacchetta d'osso ben levigata. Rimescolai con essa il miscuglio e misi la pentola sul fuoco. Poi don Juan disse che dovevamo preparare la radice, e per far ciò dovevamo usare il mortaio più grande perché la radice maschio non doveva essere assolutamente tagliata. Andammo dietro la casa. Don Juan aveva preparato il mortaio, e io mi dedicai a pestare la radice come avevo fatto prima. Lasciammo la radice a impregnarsi d'acqua, esposta all'aria notturna, e tornammo in casa.

Don Juan mi disse di osservare il miscuglio nella pentola. Dovevo lasciarlo a bollire finché non avesse un po' di corpo, finché non fosse duro da rimescolare. Quindi si distese sul suo materasso e si addormentò. Il miscuglio aveva bollito per almeno un'ora quando mi accorsi che stava diventando sempre più duro da rimescolare. Giudicai che doveva essere pronto, e lo tolsi dal fuoco. Lo misi nella rete sotto il cornicione, e andai a dormire.

Mi svegliai quando don Juan si alzò. Il sole splendeva nel cielo limpido. Era una giornata calda e secca. Don Juan commentò di nuovo che era sicuro che l'erba del diavolo mi amava.

Procedemmo a trattare la radice, e alla fine della giornata avevamo un bel po' di sostanza giallastra in fondo alla scodella. Don Juan versò l'acqua raccolta in superficie. Pensai che il procedimento fosse finito, ma riempì di nuovo la scodella con acqua bollente.

Tirò giù la pentola con il miscuglio di sotto il tetto. Il miscuglio sembrava quasi secco. Portò la pentola in casa, la depose con cura sul pavimento e si mise a sedere. Quindi incominciò a parlare.

“Il mio benefattore mi ha detto che era consentito mescolare la pianta con il lardo. E questo è ciò che tu farai. Il mio benefattore la ha mescolata per me con il lardo, ma, come ti ho già detto, non ho mai amato molto la pianta né ho mai cercato di diventare una sola cosa con essa. Il mio benefattore mi ha detto che per ottenere i risultati migliori, per chi voleva veramente padroneggiare il potere, la cosa più conveniente da fare era mescolare la pianta con il lardo di un cinghiale. Il grasso dell'intestino è il migliore. Ma questo spetta a te sceglierlo. Forse il giro della ruota deciderà che tu prenda l'erba del diavolo come un alleato, nel qual caso ti consigliere, come mi ha consigliato il mio benefattore, di catturare un cinghiale e di prenderne il grasso degli intestini (sebo de tripa). In altri tempi, quando l'erba del diavolo era molto considerata, i brujo facevano delle speciali spedizioni di caccia per procurarsi il grasso di cinghiale. Cercavano i maschi più grandi e forti. Avevano una magia speciale per i cinghiali; attingevano da essi un potere speciale, così speciale che era difficile da credere, anche a quei tempi. Ma quel potere è stato perduto. Io non ne so nulla. E non so di nessun uomo che lo conosca. Forse l'erba del diavolo ti insegnerà tutto questo”.

Don Juan misurò una manciata di lardo, lo lasciò cadere nella scodella che conteneva la poltiglia ormai secca, e si pulì la mano dal grasso rimasto strofinandola contro il bordo del vaso. Mi disse di rimescolare il contenuto finché non fosse mescolato in modo omogeneo e completo.

Rimestai la poltiglia per quasi due ore. Don Juan la guardava di tanto in tanto e pensai che ancora non fosse pronta. Alla fine parve soddisfatto. L'aria che si era mischiata alla pasta le aveva dato un colore grigio chiaro e la consistenza della gelatina. Appese la scodella al tetto accanto all'altra scodella. Disse che l'avrebbe lasciata lì fino al giorno dopo perché ci volevano due giorni per preparare questa seconda porzione. Mi disse di non mangiare nulla nel frattempo. Potevo avere dell'acqua, ma niente cibo.

Il giorno dopo, giovedì 4 luglio, don Juan mi fece lisciviare la radice quattro volte. Quando versai per l'ultima volta l'acqua fuori della scodella era già buio. Sedemmo sotto il porticato. Don Juan si mise entrambe le scodelle davanti. L'estratto di radice ammontava a un cucchiaio da tè di un amido bianchiccio. Lo, mise in una tazza e aggiunse acqua. Ruotò la tazza nella mano per scogliere la sostanza, e quindi me la porse. Mi disse di bere tutto quello che era nella tazza. Bevvi in fretta e quindi misi la tazza sul pavimento e caddi all'indietro. Il cuore mi incominciò a pulsare; sentivo di non poter respirare. Don Juan mi ordinò, senza tanti complimenti, di togliermi tutti i vestiti. Gli domandai perché, e mi rispose che dovevo strofinarmi tutto con la pasta. Esitai, non mi decidevo a spogliarmi. Don Juan mi esortò a sbrigarmi. Disse che non c'era tempo da perdere. Mi tolsi tutti i vestiti.

Prese la sua bacchetta d'osso e incise due linee orizzontali sulla superficie della pasta, dividendo così il contenuto della scodella in tre parti uguali. Quindi, partendo dal centro della prima linea, incise una linea verticale perpendicolare alle altre due, dividendo la pasta in cinque parti. Indicò la zona in basso a destra e disse che era per il mio piede sinistro. La parte sopra era per la mia gamba sinistra. La parte superiore e più grande era per i miei genitali. Quella subito in basso, al lato sinistro, era per la mia gamba destra e la zona in fondo a sinistra per il mio piede destro. Mi disse di applicare la parte di pasta designata per il piede sinistro sulla pianta del piede e di strofinarla completamente. Poi mi fece applicare la pasta sulla parte interna di tutta la gamba sinistra, sui genitali, giù sulla parte interna di tutta la gamba destra, e alla fine sulla pianta del piede destro.

Seguii le sue istruzioni. La pasta era fredda e aveva un odore particolarmente forte. Quando ebbi finito di applicarla si indurì. L'odore del miscuglio mi entrava nelle narici. Mi toglieva il fiato. L'odore acre mi stava soffocando. Era come un gas. Cercai di respirare attraverso la bocca e cercai di parlare a don Juan, ma non ci riuscii.

Don Juan continuava a fissarmi. Feci un passo verso di lui. Le mie gambe erano elastiche e lunghe, estremamente lunghe. Feci un altro passo. Mi sentivo le giunture delle ginocchia flessibili, come un'asta da salto con l'asta; si scuotevano, vibravano, e si contraevano, elasticamente. Il movimento del mio corpo era lento e tremolante; somigliava più a un tremito in avanti e in alto. Guardai giù e vidi don Juan seduto sotto di me, lontano sotto di me. La forza d'inerzia mi portò in avanti di un altro passo, che fu ancora più elastico e lungo del precedente. E da quel punto mi librai in aria. Ricordo di essere venuto giù una volta; allora spinsi con tutti e due i piedi, li feci scattare all'indietro, e scivolai sulla schiena. Vedevo il cielo buio sopra di me, e le nuvole che mi passavano accanto. Ruotai il capo per poter guardare in giù. Vidi la massa scura delle montagne. La mia velocità era straordinaria. Tenevo le braccia fisse, piegate contro i fianchi. La mia testa era l'unità direzionale. Se la tenevo piegata all'indietro facevo dei cerchi verticali. Cambiavo direzione voltando la testa di lato. Godevo di una libertà e di una agilità mai conosciute prima. La meravigliosa oscurità mi dava un senso di tristezza, di desiderio, forse. Era come se avessi trovato un luogo a cui appartenevo — l'oscurità della notte. Cercai di guardarmi intorno, ma tutto quello che percepivo era che la notte era serena, e tuttavia aveva così tanto potere.

Improvvisamente seppi che era il momento di scendere; era come se mi fosse stato dato un ordine a cui dovevo obbedire. E cominciai a discendere come una piuma con movimenti laterali. Quel tipo di movimento mi fece sentire molto male. Era lento e sussultante, come se fossi tirato giù con delle carrucole. Mi sentii male. La testa mi scoppiava per il dolore più tormentoso. Ero avvolto in una specie di tenebra. Ero perfettamente consapevole della sensazione di essere sospeso in essa.

La cosa che ricordo subito dopo fu la sensazione di svegliarmi. Ero nel mio letto nella mia camera. Mi tirai su a sedere e l'immagine della mia camera si dissolse. Mi alzai in piedi. Ero nudo! L'atto dell'alzarmi in piedi mi fece di nuovo sentir male.

Riconobbi alcuni punti di riferimento nel paesaggio. Ero a circa un chilometro di distanza dalla casa di Don Juan, vicino al luogo dove erano le sue piante di Datura. Di colpo tutto tornò a posto, e mi resi conto che avrei dovuto fare a piedi tutta la strada fino alla casa, nudo. Essere senza vestiti era un profondo svantaggio psicologico, ma non c'era nulla che potessi fare per risolvere il problema. Pensai di farmi un gonnellino di frasche, ma l'idea sembrava ridicola e, inoltre, stava per albeggiare, perché il crepuscolo mattutino era già chiaro. Dimenticai il mio disagio e la mia nausea, e cominciai a camminare in direzione della casa. Ero ossessionato dalla paura di essere scoperto. Spiavo l'arrivo di persone o di cani. Cercai di correre ma mi ferii sui piccoli sassi aguzzi. Camminai lentamente. Era già molto chiaro. A quel punto vidi qualcuno che veniva su per la strada, e mi buttai dietro ai cespugli. La situazione mi sembrava quanto mai incoerente. Un momento prima stavo godendo l'incredibile piacere del volo; il momento dopo ero lì che mi nascondevo, imbarazzato dalla mia nudità. Pensai di balzare nuovamente sulla strada e di correre con tutte le mie forze oltrepassando la persona che stava arrivando. Pensavo che sarebbe rimasta così sconvolta che al momento in cui si fosse resa conto che ero un uomo nudo l'avrei lasciata indietro di molto. Pensai tutto questo, ma non osai muovermi.

La persona che veniva su per la strada era proprio sopra di me e smise di camminare. La sentii chiamarmi per nome. Era don Juan, e mi portava i miei vestiti. Mentre li indossavo mi guardava e rideva; rideva così forte che scoppiai a ridere anch'io.

II giorno stesso, venerdì 5 luglio, nel tardo pomeriggio, don Juan mi disse di narrargli i particolari della mia esperienza. Riferii tutto l'episodio quanto più accuratamente potei.

“La seconda porzione dell'erba del diavolo è usata per volare”, disse quando ebbi finito. “L'unguento di per sé non è sufficiente. II mio benefattore diceva che è la radice a dare direzione e saggezza, ed è la causa del volo. Man mano che imparerai di più, e la prenderai spesso per volare, comincerai a vedere tutto con grande chiarezza. Potrai librarti nell'aria per centinaia di chilometri per vedere che cosa succede in qualsiasi posto tu voglia, o scagliare un colpo mortale ai tuoi nemici lontani. A mano a mano che acquisterai familiarità con l'erba del diavolo, essa ti insegnerà a fare queste cose. Per esempio, ti ha già insegnato come cambiare direzione. Nello stesso modo, ti insegnerà cose inimmaginabili”.

“Come cosa, don Juan?”.

“Questo non te lo so dire. Ogni uomo è diverso. Il mio benefattore non mi ha mai raccontato quello che aveva imparato. Mi ha detto come procedere, mai però quello che vedeva. Questo riguarda solo se stessi”.

“Ma io vi racconto tutto quello che vedo, don Juan”.

“Adesso lo fai. Più tardi non lo farai. La prossima volta che prenderai l'erba del diavolo lo farai per conto tuo, intorno alle tue piante, perché è là che atterrerai, intorno alle tue piante. Ricordalo. È per questo che sono venuto alle mie piante a cercarti”.

Non disse nient'altro, e io mi addormentai. Quando mi svegliai quella sera mi sentivo rinvigorito. Per una qualche ragione trasudavo una specie di contentezza fisica. Ero felice, soddisfatto.

Don Juan mi domandò: “Ti è piaciuta la notte? Oppure è stata terrificante?”.

Gli dissi che la notte era stata davvero magnifica.

“E il tuo mal di testa? È stato molto doloroso?”, chiese.

“Il mal di testa è stato forte quanto tutte le altre sensazioni. È stato il dolore più forte che abbia mai provato”, dissi.

“Pensi che questo ti distoglierà dal voler assaggiare ancora l'erba del diavolo?”.

“Non lo so. Adesso non la voglio, ma più tardi potrei. Davvero non so, don Juan”.

C'era una domanda che volevo fargli. Sapevo che l'avrebbe elusa, quindi aspettai che fosse lui a menzionare l'argomento; aspettai tutto il giorno. Alla fine, prima che me ne andassi quella sera, dovetti chiedergli: “Ho davvero volato, don Juan?”.

“Questo è ciò che mi hai detto tu, non è vero?”.

“Lo so, don Juan. Voglio dire, il mio corpo ha volato? Ho spiccato il volo come un uccello?”.

“Tu mi fai sempre delle domande a cui non posso rispondere. Hai volato. È a questo che serve la seconda porzione dell'erba del diavolo. A mano a mano che ne prenderai di più, imparerai a volare alla perfezione. Non è una faccenda semplice. Con l'aiuto della seconda porzione dell'erba del diavolo un uomo vola. Questo è tutto quello che ti posso dire. Quello che tu vuoi sapere non ha significato. Gli uccelli volano come uccelli e un uomo che ha preso l'erba del diavolo vola così (el enyerbado vuela así)”.

“Così come gli uccelli? (Así como los páiaros?)”.

“No, vola così come l'uomo che ha preso l'erba (No, así como los enyerbados)”.

“Allora io non ho veramente volato, don Juan. Ho volato nella mia immaginazione, nella mia mente soltanto. Il mio corpo dov'era?”.

“Nei cespugli”, rispose causticamente, ma subito dopo scoppiò di nuovo a ridere. “Quello che non va in te è che capisci le cose in un modo solo. Tu non pensi che un uomo voli; e tuttavia un brujo può spostarsi di mille miglia in un secondo per vedere quello che accade. Può colpire i suoi nemici quando questi sono molto lontani. Così, vola o non vola?”.

“Vedete don Juan, voi e io siamo orientati in maniera diversa. Supponiamo, per amor di discussione, che uno degli studenti miei colleghi fosse stato qui con me quando ho preso l'erba del diavolo. Avrebbe potuto vedermi volare?”.

“Ecco che ricominci con le tue domande su quello che sarebbe successo se... È inutile parlare in questo modo! Se il tuo amico, o chiunque altro, prende la seconda porzione di erba, tutto quello che può fare è volare. Ora, se ti avesse semplicemente osservato, avrebbe potuto vederti volare, o non avrebbe potuto. Questo dipende dall'uomo”.

“Ma quello che intendo dire, don Juan, è che se voi ed io guardiamo un uccello e lo vediamo volare, conveniamo che sta volando. Ma se due dei miei amici mi avessero visto volare come ho fatto la notte scorsa, avrebbero convenuto che stavo volando?”.

“Bene, avrebbero potuto. Tu convieni che gli uccelli volano perché li hai visti volare. Volare è comune tra gli uccelli. Ma non convieni su altre cose che gli uccelli fanno, perché non li hai mai visti farle. Se i tuoi amici sapessero che gli uomini volano con l'erba del diavolo, allora converrebbero”.

“Mettiamola in un altro modo, don Juan. Quello che voglio dire è che se mi fossi legato a una roccia con una pesante catena, avrei volato lo stesso, perché il mio corpo non ha avuto niente a che fare con il mio volo”.

Don Juan mi guardò con incredulità. “Se ti leghi a una roccia”, disse, “temo che dovrai volare con tutta la roccia e la catena”.

 


7.

 

 

La raccolta degli ingredienti e la loro preparazione per la mistura da fumo costituivano un ciclo annuale. Il primo anno don Juan mi insegnò il procedimento. Nel dicembre del 1962, il secondo anno, quando fu rinnovato il ciclo, don Juan si limitò a darmi le istruzioni; raccolsi da solo gli ingredienti, li preparai, e li misi da parte fino all'anno dopo.

Nel dicembre del 1963 cominciò per la terza volta un nuovo ciclo. Don Juan mi mostrò allora come combinare gli ingredienti secchi che avevo raccolto e preparato l'anno prima. Mise la mistura da fumo in un sacchetto di cuoio, e uscimmo un'altra volta a raccogliere i diversi ingredienti per l'anno dopo.

Don Juan menzionò di rado il ‘piccolo fumo’ durante l'anno che trascorse tra i due raccolti. Ogni volta che lo andavo a trovare, tuttavia, mi dava la sua pipa da tenere in mano, e il procedimento del ‘diventare familiare’ con la pipa andava avanti nella maniera da lui descritta. Mise la pipa nelle mie mani molto gradualmente. Pretendeva una concentrazione assoluta e attenta su quell'azione, e mi dava istruzioni molto esplicite. Qualsiasi gesto malaccorto con la pipa sarebbe risultato inevitabilmente nella sua o nella mia morte, disse.

Non appena finito il terzo raccolto e terminato di preparare il ciclo, don Juan cominciò a parlare del fumo come un alleato per la prima volta in più di un anno.

Lunedì, 23 dicembre, 1963

 

 

Stavamo tornando a casa in automobile dopo aver raccolto alcuni fiori gialli per la mistura. Erano uno degli ingredienti necessari. Osservai che quell'anno non avevamo seguito lo stesso ordine dell'anno precedente nel raccogliere gli ingredienti. Rise e disse che il fumo non era volubile o meschino come l'erba del diavolo. Per il fumo l'ordine in cui si raccoglievano gli ingredienti non aveva importanza; tutto quel che era necessario era che l'uomo che usava la mistura fosse accurato ed esatto. Chiesi a don Juan che cosa avremmo fatto della mistura che aveva preparato e mi aveva dato da conservare. Rispose che era mia, e aggiunse che dovevo usarla il più presto possibile. Gli chiesi quanta ce ne voleva ogni volta. Il sacchetto che mi aveva dato conteneva approssimativamente tre volte il contenuto di una normale borsa da tabacco. Disse che avrei dovuto usare tutto il contenuto del sacco in un anno, e la quantità che avrei fumato ciascuna volta era una faccenda personale.

Volli sapere che cosa sarebbe successo se non avessi finito mai il sacchetto. Don Juan rispose che non sarebbe successo nulla; il fumo non richiedeva nulla. Lui stesso non aveva più bisogno di fumare, e tuttavia preparava una nuova mistura ogni anno. Subito dopo si corresse e disse che raramente doveva fumare. Chiesi che cosa ne facesse della mistura non usata, ma non rispose. Disse che la mistura non era più buona se non era usata entro un anno.

A questo punto ci addentrammo in una lunga discussione. Non formulai le domande correttamente e le sue risposte sembravano confondere. Volevo sapere se la mistura avrebbe perso le sue proprietà allucinogene, o il suo potere, dopo un anno, rendendo in questo modo necessario il ciclo annuale; ma don Juan insisté che la mistura non avrebbe mai perso il proprio potere in nessun momento. La sola cosa che accadeva, disse, era che non se ne aveva più bisogno perché si era preparato un nuovo rifornimento; gli avanzi della vecchia mistura dovevano essere trattati in una maniera specifica, che don Juan non volle rivelarmi a quel punto.

Martedì, 24 dicembre, 1963

 

 

“Avete detto, don Juan, che voi non avete più bisogno di fumare?”. “Sì, dal momento che il fumo è il mio alleato non ho più bisogno di fumare. Lo posso chiamare in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo”. “Intendete dire che viene da voi anche se non fumate?”. “Voglio dire che vado a lui liberamente”. “Sarò capace anch'io di farlo?”. “Se riuscirai a ottenerlo come alleato, lo farai”.

Martedì, 31 dicembre, 1963

 

 

Giovedì 26 dicembre feci la mia prima esperienza con l'alleato di don Juan, il fumo. Per tutta la giornata lo portai in giro in automobile e lavorai per lui. Ritornammo alla sua casa tardi nel pomeriggio. Feci notare che in tutto il giorno non avevamo avuto nulla da mangiare. Non si curò assolutamente di ciò; prese invece a dirmi che per me era indispensabile familiarizzarmi col fumo. Disse che dovevo provarlo io stesso per potermi rendere conto di quanto fosse importante un alleato.

Senza darmi l'opportunità di ribadire nulla, don Juan mi disse che avrebbe acceso la pipa per me, lì su due piedi. Cercai di dissuaderlo sostenendo che pensavo di non essere pronto. Gli dissi che mi sembrava di non aver maneggiato la pipa per un tempo sufficientemente lungo. Ma mi rispose che ormai non mi rimaneva molto tempo per imparare e che dovevo usare la pipa subito. Tirò fuori la pipa dal suo astuccio e la accarezzò. Mi misi a sedere sul pavimento al suo fianco e tentai freneticamente di sentirmi male e di svenire, di fare qualsiasi cosa per scansare questo passo inevitabile.

La stanza era quasi buia. Don Juan aveva acceso la lampada a cherosene e l'aveva messa in un angolo. Di solito la lampada manteneva la stanza in una semioscurità rilassante, la sua luce giallastra era quasi confortante. Quella volta, invece, la luce sembrava tenue e insolitamente rossa; era snervante. Don Juan aprì il sacchetto contenente la mistura senza toglierlo dal legaccio con cui lo teneva appeso al collo. Si avvicinò la pipa, se la infilò nella camicia, e versò un po' della mistura nel fornello. Mi fece osservare il procedimento, facendomi notare che se la mistura traboccava sarebbe ricaduta nella camicia.

Riempì i tre quarti del fornello, poi legò il sacchetto con una mano mentre con l'altra reggeva la pipa. Prese un piattino di creta, me lo porse dicendomi di andare fuori a prendere qualche carbone dal fuoco. Andai dietro la casa e raccolsi un mucchietto di carboni dalla stufa di mattoni. Ritornai in fretta nella camera. Sentivo una profonda angoscia. Era come una premonizione.

Sedetti vicino a don Juan e gli diedi il piatto. Lo guardò e disse con calma che i carboni erano troppo grossi. Ne voleva di più piccoli, che potessero entrare nel fornello della pipa. Tornai alla stufa e ne presi un po'. Don Juan prese il nuovo piatto di carboni e se lo mise davanti. Stava seduto con le gambe incrociate e ripiegate sotto di sé. Mi guardò con la coda dell'occhio e si appoggiò in avanti finché non toccò quasi i carboni col mento. Tenne la pipa con la sinistra, e con un movimento estremamente rapido prese un pezzetto di carbone acceso e lo mise nel fornello della pipa; poi si mise a sedere diritto e, tenendo la pipa con entrambe le mani, la mise in bocca e aspirò tre volte. Tese le braccia e mi disse sottovoce ma energicamente di prendere la pipa con le due mani e di fumare.

L'idea di rifiutare la pipa e scappare mi attraversò la mente per un attimo; ma don Juan mi disse ancora — sempre in un sussurro — di prendere la pipa e fumare. Lo guardai. I suoi occhi erano fissi su di me.

Ma il suo sguardo era amichevole, ansioso. Era chiaro che avevo fatto la mia scelta molto tempo prima: non c'era altra alternativa se non fare quello che diceva.

Presi la pipa e quasi la lasciai cadere. Scottava! La misi in bocca con estrema cautela perché immaginavo che il suo calore sarebbe stato insopportabile per le mie labbra. Ma non sentii calore alcuno.

Don Juan mi disse di aspirare. Il fumo mi affluì in bocca e sembrò circolarvi dentro. Era pesante! Mi sentii come se avessi la bocca piena di pasta di pane. Questo paragone mi venne in mente sebbene non mi fosse mai capitato di avere la bocca piena di pasta di pane. Inoltre il fumo sembrava mentolo e l'interno della mia bocca diventò improvvisamente freddo. Era una sensazione rinfrescante. “Ancora! Ancora!” sentii sussurrare don Juan. Sentivo il fumo filtrare liberamente nel mio corpo, quasi senza mio controllo! Non avevo più bisogno di incitamento da parte di don Juan. Meccanicamente incominciai, ad aspirare.

All'improvviso don Juan si protese in avanti e mi tolse la pipa dalle mani. La batté dolcemente sul piatto dei carboni per far cadere la cenere, poi si bagnò il dito con la saliva e lo passò dentro il fornello per pulirlo. Soffiò ripetutamente attraverso il cannello. Lo vidi rimettere la pipa nel suo astuccio. Le sue azioni attiravano il mio interesse.

Quando ebbe finito di pulire la pipa e di riporla, mi fissò, e per la prima volta mi resi conto che tutto il mio corpo era intorpidito e mentolato. Mi sentivo il viso pesante e le mascelle che dolevano. Non riuscivo a tenere chiusa la bocca, ma non ne usciva saliva. Avevo la bocca così asciutta che bruciava, e tuttavia non avevo sete. Cominciai a sentire un calore insolito in tutta la testa. Un calore freddo! Il mio fiato sembrava tagliarmi le narici e il labbro superiore ogni volta che espiravo. Ma non bruciava; faceva male come un pezzo di ghiaccio.

Don Juan sedette accanto a me, alla mia destra, e senza muoversi tenne l'astuccio della pipa contro il pavimento come se lo tenesse giù con la forza. Le mani mi pesavano. Le braccia mi crollarono, trascinando giù le spalle. Il naso mi colava. Lo asciugai col dorso della mano, e il mio labbro superiore fu cancellato via! Mi asciugai la faccia, e tutta la carne fu spazzata via! Mi stavo sciogliendo! Mi sentii come se la mia carne si stesse effettivamente fondendo. Balzai in piedi e tentai di afferrarmi a qualcosa — qualsiasi cosa — a cui sostenermi. Stavo sperimentando un terrore che non avevo mai provato prima. Mi afferrai a un palo conficcato nel pavimento al centro della camera. Mi fermai lì per un momento, poi mi voltai per guardare don Juan. Era ancora seduto immobile, con la pipa in mano, e mi fissava.

Il mio fiato era dolorosamente caldo (o freddo?). Mi stava soffocando. Piegai la testa in avanti per appoggiarla sul palo, ma evidentemente lo mancai, e la mia testa continuò a muoversi all’ingiù oltre il punto dove era il palo. Mi fermai quando fui quasi giù sul pavimento. Mi tirai su. Il palo era là davanti ai miei occhi! Cercai di nuovo di appoggiare la testa contro di esso. Cercai di controllarmi e di rendermi conto di quello che facevo, e tenni gli occhi aperti mentre mi piegavo in avanti per toccare il palo con la fronte. Era lontano pochi centimetri dai miei occhi, ma mentre spingevo la testa contro di esso ebbi la stranissima sensazione di passarvi diritto attraverso.

Cercando disperatamente una spiegazione razionale conclusi che i miei occhi distorcevano la profondità, e che il palo doveva essere stato lontano tre metri, anche se lo vedevo direttamente davanti alla mia faccia. Immaginai quindi una maniera logica e razionale per controllare la posizione del palo. Incominciai a spostarmi lateralmente intorno a esso, un passetto per volta. La mia idea era che camminando in quel modo intorno al palo non potevo probabilmente fare un circolo di un diametro maggiore di un metro e mezzo; se il palo era davvero lontano tre metri da me, o al di là della mia portata, sarebbe venuto un momento in cui mi sarei trovato con le spalle voltate a esso. Confidavo che in quel momento il palo sarebbe svanito, perché in realtà sarebbe stato dietro di me.

Cominciai allora a girare intorno al palo, che però mi rimaneva davanti agli occhi mentre gli giravo intorno. In un accesso di frustrazione tentai di afferrarlo con le due mani, ma le mani gli passarono attraverso. Stavo abbracciando l'aria. Calcolai attentamente la distanza tra il palo e me, immaginai che dovesse essere di circa un metro. Cioè, i miei occhi percepivano la distanza come se fosse di circa un metro. Giocai per un momento con la percezione della profondità muovendo il capo da una parte all'altra, mettendo a fuoco ciascun occhio a turno sul palo e poi sullo sfondo. In base al mio modo di giudicare la profondità, il palo era inequivocabilmente davanti a me, forse a circa un metro di distanza. Protendendo le mani per proteggermi il capo, caricai con tutte le mie forze. La sensazione fu la stessa: passavo attraverso il palo. Questa volta caddi del tutto sul pavimento. Mi alzai di nuovo in piedi. E alzarmi in piedi fu forse il più insolito di tutti gli atti compiuti quella notte. Mi ‘pensai’ su! Non usai per alzarmi i muscoli e le ossa nella maniera in cui sono solito, perché non avevo più controllo su di essi. Lo seppi nell'istante in cui toccai il terreno. Ma la mia curiosità a proposito del palo era così forte che ‘mi pensai su’ in una specie di azione riflessa. E prima che potessi rendermi conto di non potermi muovere, ero in piedi.

Chiamai don Juan per chiedergli aiuto. A un certo momento urlai freneticamente con tutta la voce che avevo in corpo, ma don Juan non si mosse. Continuò a guardarmi, di sbieco, come se non volesse voltare il capo per guardarmi in faccia completamente. Feci un passo verso di lui, ma invece di muovermi in avanti barcollai all'indietro e caddi contro il muro. Sapevo di avervi cozzato contro con la schiena, ma non lo sentii duro: ero completamente sospeso in una sostanza soffice e spugnosa; era il muro. Avevo le braccia protese in fuori lateralmente, e piano piano tutto il mio corpo sembrò affondare nel muro. Potevo solo guardare davanti a me nella stanza. Don Juan mi stava ancora osservando, ma non fece alcun movimento per aiutarmi. Feci uno sforzo per scuotere il capo fuori del muro, ma riuscii solo ad affondare sempre di più. In mezzo a un terrore indescrivibile sentii che il muro spugnoso si stava chiudendo sulla mia faccia. Cercai di chiudere gli occhi, ma erano rimasti sbarrati.

Non ricordo che cosa accadde d'altro. D'un tratto don Juan fu davanti a me, a poca distanza. Eravamo nell'altra camera. Vidi la tavola e la stufa di mattoni con il fuoco acceso, e con la coda dell'occhio distinguevo lo steccato fuori della casa. Riuscivo a vedere tutto con molta chiarezza. Don Juan aveva portato la lampada a cherosene e l'aveva appesa al trave in mezzo alla stanza. Cercai di guardare in una direzione differente, ma avevo gli occhi fissi e riuscivo a vedere solo direttamente davanti a me. Non riuscivo a distinguere, o a percepire, nessuna parte del mio corpo; il mio respiro era impercettibile, ma i miei pensieri erano estremamente lucidi. Don Juan venne verso di me, e la mia lucidità mentale finì. Qualcosa sembrò fermarsi dentro di me; non c'erano più pensieri. Vidi don Juan venire e lo odiai. Volevo farlo a pezzi. Avrei potuto ucciderlo in quel momento, ma non riuscivo a muovermi. Da principio sentii vagamente una pressione sul capo, ma anche questa scomparve. Rimaneva solo una cosa: una collera schiacciante contro don Juan. Lo vedevo solo a pochi centimetri da me. Volevo sbranarlo. Sentii che stavo gemendo. Qualcosa in me cominciò a sconvolgersi. Sentii don Juan che mi parlava. La sua voce era dolce e conciliante, e, sentii, infinitamente piacevole. Venne ancora più vicino e cominciò a recitare una ninnananna spagnola.

“Signora Santa Anna, perché piange il bambino? Per una mela che ha perduto. Ve ne darò una, ve ne darò due. Una per il bambino e una per voi (¿Señora Santa Ana, por qué llora el niño? Por una manzana que se le ha perdido. Yo le daré una. Yo le daré dos. Una para el niño y otra para vos)”. Una sensazione di calore mi pervase. Era un calore di cuore e di sentimenti. Le parole di don Juan erano un'eco lontana. Rievocavano i ricordi dimenticati dell'infanzia.

La violenza che avevo provato prima scomparve. Il risentimento si trasformò in un desiderio, un affetto gioioso per don Juan. Mi disse che dovevo lottare per non addormentarmi; che non avevo più un corpo ed ero libero di trasformarmi in tutto quello che avrei voluto. Fece un passo indietro. I miei occhi erano a un livello normale, come se fossi stato in piedi davanti a lui. Tese entrambe le braccia verso di me e mi disse di entrarvi dentro.

O io mi mossi in avanti o lui venne verso di me. Le sue mani mi erano quasi sulla faccia, sugli occhi, sebbene non le sentissi. “Entra nel mio petto”, sentii che diceva. Sentii che mi inabissavo in lui. Era la stessa sensazione di spugnosità che avevo provato con il muro.

A questo punto potei udire solo la sua voce che mi ordinava di guardare e vedere. Non riuscivo più a distinguerlo. Avevo evidente mente gli occhi aperti perché vedevo lampi di luce su un campo rosso; era come se stessi guardando una luce attraverso le palpebre chiuse. Poi i miei pensieri ebbero di nuovo libero sfogo. Tornarono in una rapida serie di immagini, facce, scenari. Apparivano e scomparivano scene senza nessuna coerenza. Era come un rapido sogno in cui le immagini si sovrapponevano e cambiavano. Poi i pensieri cominciarono a diminuire di numero e di intensità, e presto se ne furono di nuovo andati. Rimaneva una consapevolezza di affetto, di essere felice. Non riuscivo a distinguere nessuna forma o luce. Tutto d'un tratto fui spinto in alto. Sentii distintamente di essere sollevato. E fui libero, muovendomi con una spaventosa leggerezza e velocità nell'acqua o nell'aria. Nuotai come un'anguilla; mi contorsi e mi girai e mi librai in su e in giù a volontà. Sentii un vento freddo soffiare tutto intorno a me, e cominciai a fluttuare come una piuma avanti e indietro, giù, giù, sempre più giù.

Sabato, 28 dicembre, 1963

 

 

Mi svegliai il 27 nel tardo pomeriggio. Don Juan mi disse che avevo dormito pacificamente per quasi due giorni. Avevo un fortissimo mal di testa. Bevvi un po' d'acqua e mi sentii male. Mi sentivo stanco, estremamente stanco, e dopo aver mangiato tornai a dormire.

Il giorno dopo mi sentii di nuovo perfettamente rilassato. Parlai con don Juan della mia esperienza con il piccolo fumo. Pensando che volesse che gli raccontassi tutta la storia nella maniera in cui avevo sempre fatto, cominciai a descrivere le mie impressioni, ma mi fermò dicendomi che non era necessario. Mi disse che in realtà non avevo fatto nulla, e che ero caduto addormentato immediatamente, quindi non c'era nulla di cui parlare.

“E la maniera in cui mi sentivo? Non ha forse una qualche importanza?”, insistei.

“No, non con il fumo. Più tardi, quando avrai imparato come viaggiare, parleremo; quando avrai imparato a entrare nelle cose”.

“Davvero si entra nelle cose?”.

“Non ti ricordi? Tu sei entrato in quel muro e ci sei passato attraverso”.

“Io penso che in realtà sono uscito fuori della mia mente”. “No, non l'hai fatto”.

“Voi vi siete comportato allo stesso modo quando avete fumato per la prima volta, don Juan?”.

“No, non è stato lo stesso. Abbiamo caratteri diversi”.

“Come vi siete comportato?”.

Non rispose. Riformulai la domanda e lo interrogai di nuovo, ma rispose che non ricordava le sue esperienze, e che la mia domanda era paragonabile al chiedere a un pescatore che cosa avesse provato la prima volta che aveva pescato.

Disse che il fumo come alleato era unico, e io gli rammentai che anche di Mescalito aveva detto che era unico; rispose che ognuno dei due era unico, ma che differivano per qualità.

“Mescalito è un protettore perché ti parla e può guidare i tuoi atti”, disse. “Mescalito inségna a vivere nella maniera giusta. E lo puoi vedere perché è al di fuori di te. Il fumo, d'altra parte, è un alleato. Ti trasforma e ti dà potere senza mostrare mai la sua presenza. Non gli puoi parlare; però sai che esiste perché ti toglie il corpo e ti rende leggero come l'aria. Tuttavia non lo vedi mai. Ma è presente per darti il potere di compiere cose inimmaginabili, come quando ti toglie il corpo”.

“Ho sentito veramente di aver perduto il corpo, don Juan”.

“Certamente”.

“Volete dire, davvero non ho avuto un corpo?”.

“Che cosa pensi tu stesso?”.

“Bene, non so. Tutto quello che vi posso dire è quello che ho provato”.

“Questo è tutto quello che c'è nella realtà: quello che hai provato”.

“Ma come mi vedevate, don Juan? Come vi apparivo?”.

“Come ti ho visto non ha importanza. È come la volta che hai afferrato il palo; sentivi che non c'era e gli sei girato intorno per assicurarti che ci fosse. Ma quando gli sei balzato contro hai sentito di nuovo che in realtà non c'era”.

“Ma voi mi avete visto come sono ora, non è vero?”.

“No! Tu NON eri come sei ora!”.

“È vero! Lo ammetto. Ma avevo il mio corpo, non è vero, anche se non potevo sentirlo?”.

“No! Maledizione! Non avevi un corpo come il corpo che hai oggi! ”.

“Allora che cosa è successo al mio corpo?”.

“Pensavo che tu avessi capito. Il piccolo fumo ti aveva portato via il corpo”.

“Ma dove è andato?”.

“Come diavolo ti aspetti che io lo sappia?”.

Era inutile insistere nel cercare di ottenere una spiegazione ‘razionale’.

Gli dissi che non intendevo discutere o fare domande stupide, ma se accettavo l'idea che era possibile perdere il mio corpo avrei perso tutta la mia razionalità.

Disse che stavo esagerando, come al solito, e che non avevo né avrei perso nulla a causa del piccolo fumo.

Martedì, 28 gennaio, 1964

 

 

Chiesi a don Juan che cosa pensasse dell'idea di somministrare il fumo a chiunque desiderasse l'esperienza.

Rispose indignato che somministrare il fumo a chiunque sarebbe stato esattamente lo stesso che ucciderlo, perché non avrebbe avuto nessuno che lo guidasse. Chiesi a don Juan di spiegarmi quello che intendeva dire. Rispose che io ero lì, vivo, e parlavo con lui, perché lui mi aveva ricondotto indietro. Lui aveva reintegrato il mio corpo. Senza di lui non mi sarei mai risvegliato.

“Come avete reintegrato il mio corpo, don Juan?”.

“Questo lo imparerai più tardi, ma dovrai imparare a farlo da solo. Questa è la ragione per cui voglio che tu impari quanto più puoi finché io sono ancora in circolazione. Hai sprecato abbastanza tempo a fare domande stupide in merito a cose assurde. Ma forse non è tuo destino imparare tutto del piccolo fumo”.

“Bene, che cosa dovrò fare allora?”.

“Lasciare che il fumo ti insegni tutto quello che puoi imparare”.

“Il fumo insegna anche?”.

“Naturalmente insegna”.

“Insegna come insegna Mescalito?”.

“No, non è un maestro come lo è Mescalito. Non mostra le stesse cose”.

“Ma allora che cosa insegna il fumo?”.

“Ti mostra come tenere in pugno il suo potere, e per imparare ciò devi prenderlo tutte le volte che puoi”.

“Il vostro alleato incute molta paura, don Juan. È stato diverso da qualsiasi altra cosa che io abbia mai esperimentato prima. Pensavo di aver perduto la ragione”.

Per qualche motivo questa era l'immagine più spiacevole che mi venisse in mente. Vedevo tutto l'avvenimento dal particolare punto di vista dell'aver avuto altre esperienze allucinogene da cui trarre un paragone, e la sola cosa che mi veniva in mente, continuamente, era che con il fumo si perde la ragione.

Don Juan scartò la mia similitudine dicendo che quello che avevo sentito era il suo inimmaginabile potere. E per tenere in pugno quel potere, disse, si doveva vivere una vita forte. L'idea di una vita forte non si riferisce soltanto al periodo di preparazione, ma comporta anche l'atteggiamento dell'uomo dopo l'esperienza. Disse che il fumo è così forte che lo si può affrontare solo con la forza; altrimenti la propria vita sarebbe ridotta in pezzi.

Gli chiesi se il fumo aveva lo stesso effetto su chiunque. Disse che produceva una trasformazione, ma non in chiunque.

“Allora, qual è la ragione speciale per cui il fumo ha prodotto la trasformazione in me?”, chiesi.

“Penso che questa domanda sia molto sciocca. Hai seguito con obbedienza tutti i passi prescritti. Non è un mistero che il fumo ti abbia trasformato”.

Gli chiesi ancora di parlarmi della maniera in cui ero apparso. Volevo sapere che cosa sembravo, perché l'immagine di un essere senza corpo, che mi aveva instillato nella mente, era comprensibilmente insopportabile.

Rispose che a dire il vero aveva avuto paura di guardarmi; si sentiva nello stesso modo in cui doveva essersi sentito il suo benefattore quando aveva visto don Juan fumare per la prima volta.

“Perché eravate spaventato? Era una cosa che incuteva paura?”, chiesi.

“Prima di allora non avevo mai visto nessuno fumare”.

“Non avete visto fumare il vostro benefattore?”.

“No”.

“Non avete visto neppure voi stesso?”.

“Come avrei potuto?”.

“Avreste potuto fumare davanti a uno specchio”.

Non rispose, ma mi fissò e scosse il capo. Gli chiesi di nuovo se era possibile guardare in uno specchio. Disse che sarebbe stato possibile, anche se inutile, perché si sarebbe probabilmente morti di paura, se non di altro.

“Allora si deve avere un aspetto spaventoso”, dissi.

“Per tutta la vita mi sono domandato la stessa cosa”, rispose. “Tuttavia non ho fatto domande, né ho guardato in uno specchio. Non ci ho nemmeno pensato”.

“Allora come posso scoprirlo?”.

“Dovrai aspettare, così come ho fatto io, finché non somministrerai il fumo a qualcun altro; se mai riuscirai a padroneggiarlo, naturalmente. Allora vedrai che aspetto ha un uomo. Questa è la regola”.

“Che cosa accadrebbe se fumassi davanti a una macchina fotografica e prendessi una fotografia di me stesso?”.

“Non lo so. Probabilmente il fumo si rivolterebbe contro di te. Ma suppongo che tu trovi il fumo così innocuo che pensi ti poterci giocare”.

Gli dissi che non intendevo giocare, ma che lui stesso mi aveva detto prima che il fumo non richiedeva dei passi particolari, e pensavo che non ci sarebbe stato niente di pericoloso nel voler sapere che cosa si sembrava. Mi corresse dicendo che quel che intendeva dire era che non c'era alcuna necessità di seguire un ordine specifico, come con l’erba del diavolo; tutto quello di cui si aveva bisogno con il fumo, disse, era l'atteggiamento appropriato. Sotto quel punto di vista si doveva essere rigorosi nel seguire la regola. Mi diede un esempio, spiegando che non contava quale ingrediente della mistura si sceglieva per primo, purché il quantitativo fosse giusto.

Gli chiesi se il parlare ad altri della mia esperienza avrebbe potuto nuocermi in qualche modo. Rispose che i soli segreti che non dovevano essere mai rivelati erano il modo in cui preparare la mistura, la maniera in cui ci si doveva muovere, e la maniera in cui ritornare; le altre cose che riguardavano l'argomento non avevano nessuna importanza.

 


8.

 

 

II mio ultimo incontro con Mescalito consisté in una serie di quattro sedute che si svolsero in quattro giorni consecutivi. Don Juan chiamava questa lunga sessione col nome di mitote. Era una cerimonia del peyote per peyoteros e novizi. C'erano due vecchi, all'incirca dell'età di don Juan, uno dei quali era il capo, e cinque uomini più giovani compreso me.

La cerimonia ebbe luogo nello stato di Chihuahua, Messico, vicino al confine con il Texas. Consisteva nel cantare e ingerire peyote durante la notte. Durante il giorno alcune donne con mansioni di assistenza, che rimanevano fuori dei confini del luogo della cerimonia, rifornivano di acqua ciascun partecipante, e ogni giorno si consumava soltanto una quantità simbolica di cibo rituale.

Sabato, 12 settembre, 1964

 

 

Durante la prima notte della cerimonia, giovedì 3 settembre, ingerii otto boccioli di peyote. Non mi fecero nessun effetto, o, se ne ebbero, fu minimo. Tenni gli occhi chiusi per la maggior parte della notte. In quel modo mi sentivo meglio. Non caddi addormentato, né mi sentivo stanco. Proprio alla fine della seduta il canto divenne straordinario. Per un breve momento mi sentii sollevato in aria e volli piangere, ma quando il canto cessò la sensazione svanì.

Ci alzammo tutti e uscimmo. Le donne ci diedero dell'acqua. Alcuni degli uomini la usarono per gargarizzarsi; altri la bevvero. Gli uomini non parlarono affatto, ma le donne chiacchierarono e risero tutto il giorno. Il cibo rituale fu servito a mezzogiorno; era grano cotto.

Al tramonto di venerdì 4 settembre cominciò la seconda seduta. Il capo cantò la sua canzone del peyote, e ricominciò un'altra volta il ciclo di canti e ingerimento di boccioli di peyote. Terminò al mattino con ciascuno che cantava la propria canzone, all'unisono con gli altri.

Quando uscii non vidi tante donne quante ce ne erano state il giorno prima. Qualcuno mi diede dell'acqua, ma io non mi interessavo più a quello che mi circondava. Avevo ingerito otto boccioli di peyote, ma l'effetto era stato differente.

Deve essere stato verso la fine della seduta che il canto accelerò grandemente, con tutti che cantavano insieme. Percepii che qualcuno o qualcosa fuori della casa voleva entrare. Non riuscivo a capire se il canto era per impedirgli di entrare oppure per attirarlo dentro.

Ero il solo a non avere una canzone. Sembravano guardarmi tutti interrogativamente, specialmente i giovani. Il mio imbarazzo aumentò e chiusi gli occhi.

Allora mi resi conto che se tenevo gli occhi chiusi riuscivo a percepire molto meglio quello che accadeva. Questa idea attirò tutta la mia attenzione. Chiusi gli occhi e vidi gli uomini davanti a me; li aprii e l'immagine era immutata. Tutto ciò che mi circondava era per me esattamente lo stesso, sia che tenessi gli occhi aperti o chiusi.

Improvvisamente tutto svanì o si sbriciolò, e al posto apparve la figura virile di Mescalito che avevo visto due anni prima. Era seduto a una certa distanza con il profilo rivolto verso di me.

Pensai che stavo facendo qualcosa di sbagliato, qualcosa che lo teneva lontano. Mi alzai e mi diressi verso di lui per chiederglielo. Ma il mio movimento scacciò l'immagine. Cominciò a svanire, e ad essa si sovrapposero le figure degli uomini che erano con me. Di nuovo sentii il canto forte e frenetico.

Andai nei cespugli vicini e camminai per un po'. Ogni cosa spiccava con molta chiarezza. Notai che vedevo nel buio, ma questa volta non me ne curai molto. Il punto importante era: perché Mescalito mi ha evitato?

Ritornai per unirmi al gruppo, ed ero sul punto di entrare nella casa quando udii un pesante brontolìo e percepii un tremore. Il terreno si scuoteva. Era lo stesso rumore che avevo udito due anni prima nella valle del peyote.

Corsi di nuovo nei cespugli. Sapevo che Mescalito era là, e che stavo per trovarlo. Ma non c'era. Aspettai fino al mattino, e mi unii agli altri prima che terminasse la sessione.

Il terzo giorno fu ripetuto il solito procedimento. Non ero stanco, ma dormii durante il pomeriggio.

La sera di sabato 5 settembre il vecchio cantò la sua canzone del peyote per dare ancora una volta il via al ciclo. Durante questa sessione masticai solo un bocciolo di peyote e non ascoltai nessuna delle canzoni, né feci attenzione a nulla di quanto accadeva. Fin dal primo momento tutto il mio essere era concentrato unicamente su un solo punto. Sapevo che mancava qualcosa di terribilmente importante per il mio benessere.

Mentre gli uomini cantavano, chiesi a Mescalito, ad alta voce, di insegnarmi una canzone. La mia invocazione si confuse con il canto sonoro degli altri uomini. Immediatamente udii nelle orecchie una canzone. Mi girai e mi misi a sedere con le spalle rivolte al gruppo per ascoltare. Udii ripetutamente le parole e la melodia, e le ripetei finché non ebbi imparato tutta la canzone. Era una lunga canzone in spagnolo. Allora la cantai al gruppo diverse volte. E subito dopo mi venne alle orecchie un nuovo canto. Al mattino avevo cantato innumerevoli volte entrambe le canzoni. Mi sentivo rimesso a nuovo, fortificato.

Dopo che ci fu data l'acqua don Juan mi porse un sacco, e andammo tutti alle colline. Fu una camminata lunga e faticosa per arrivare a un piccolo altipiano. Vidi parecchie piante di peyote, ma per qualche ragione non volli guardarle. Dopo aver attraversato l'altipiano il gruppo si sciolse. Don Juan e io ritornammo indietro raccogliendo boccioli, esattamente come avevamo fatto la prima volta che lo avevo aiutato.

Tornammo nel tardo pomeriggio di domenica 6 settembre. Alla sera il capo aprì di nuovo il ciclo. Nessuno aveva detto una parola, ma sapevo perfettamente che era l'ultima riunione. Questa volta il vecchio cantò una nuova canzone. Fu fatto circolare un sacco contenente boccioli freschi di peyote. Era la prima volta che assaggiavo un bocciolo fresco. Era carnoso ma duro da masticare. Sembrava un frutto duro e verde, ed era più aspro e più amaro dei boccioli secchi. Personalmente trovai il peyote fresco infinitamente più vivo.

Masticai quattordici boccioli; li contai con cura. Non finii l'ultimo perché udii il familiare brontolio che segnalava la presenza di Mescalito. Tutti cantavano freneticamente, e io sapevo che don Juan e tutti gli altri avevano effettivamente sentito il rumore. Mi rifiutai di pensare che la loro reazione fosse la risposta a un suggerimento dato da uno di essi semplicemente per ingannarmi.

In quel momento mi sentii riempire da un grande afflusso di saggezza. Una congettura che mi aveva tormentato per tre anni si trasformò allora in una certezza. Mi ci erano voluti tre anni per rendermi conto, o piuttosto per scoprire, che qualsiasi cosa fosse contenuta nel cactus Lophophora williamsii, ciò non aveva nulla a che fare con me per esistere in quanto entità; esisteva di per sé esternamente, in generale. Lo seppi allora.

Cantai febbrilmente finché non potei più articolare le parole. Mi sentii come se le mie canzoni fossero dentro il mio corpo, scuotendomi incontrollabilmente. Dovevo uscire e trovare Mescalito, altrimenti sarei scoppiato. Mi incamminai verso il campo di peyote. Continuai a cantare le mie canzoni. Sapevo che erano individualmente mie. La prova indiscutibile della mia unicità. Sentivo ciascuno dei miei passi. Risuonavano sul terreno; la loro eco produceva l'indescrivibile euforia data dalla sensazione di essere un uomo.

Ciascuna delle piante di peyote nel campo risplendeva di una luce bluastra e scintillante. Una sola pianta aveva una luce molto brillante. Mi misi a sedere davanti a quella pianta e le cantai le mie canzoni. Mentre cantavo dalla pianta uscì Mescalito. La stessa figura virile che avevo visto prima. Mi guardò. Con grande audacia, per una persona del mio temperamento, cantai per lui. Ci fu un suono di flauti, o di vento. Una familiare vibrazione musicale. Sembrò che avesse detto, come due anni prima, “Che cosa vuoi?”.

Parlai a voce molto alta. Dissi che sapevo che c'era qualcosa di molto sconveniente nella mia vita e nelle mie azioni, ma che non riuscivo a scoprire che cosa fosse. Lo supplicai di dirmi che cosa c'era di sbagliato in me, e inoltre di dirmi il suo nome affinché potessi chiamarlo quando avessi avuto bisogno di lui. Mi guardò, allungò la bocca come una tromba finché non raggiunse il mio orecchio, e quindi mi disse il suo nome.

Improvvisamente vidi mio padre in piedi in mezzo al campo di peyote; ma il campo era svanito e la scena era la mia vecchia casa, la casa della mia infanzia. Mio padre e io eravamo accanto a un grande albero di fico. Abbracciai mio padre e cominciai precipitosamente a dirgli cose che non ero mai stato capace di dirgli prima. Tutti i miei pensieri erano precisi e appropriati. Era come se non avessimo avuto tempo, veramente, e dovessi dire tutto in una volta. Dissi cose sconcertanti sui miei sentimenti verso di lui, cose che non sarei mai stato capace di dire in circostanze ordinarie.

Mio padre non parlò; si limitò ad ascoltare e quindi fu spinto o risucchiato via. Ero di nuovo solo. Piansi di rimorso e tristezza.

Camminai attraverso il campo di peyote chiamando il nome che Mescalito mi aveva insegnato. Qualcosa emerse da una strana luce a forma di stella su una pianta di peyote. Era un lungo oggetto rilucente: una colonna di luce delle dimensioni di un uomo. Per un momento illuminò tutto il campo con un'intensa luce giallastra o color ambra; poi illuminò tutto il ciclo in alto, creando una visione portentosa, meravigliosa. Pensai che se avessi continuato a guardare sarei diventato cieco; mi coprii gli occhi e nascosi il capo nelle braccia.

Ebbi la chiara sensazione che Mescalito mi dicesse di mangiare un altro bocciolo di peyote. Pensai: “Non posso farlo perché non ho un coltello con cui tagliarlo”.

“Mangiane uno dal suolo”, mi disse Mescalito nella stessa strana maniera.

Mi distesi sullo stomaco e masticai la cima di una pianta. Questo atto mi accese; riempì di calore e di sincerità ogni angolo del mio corpo. Tutto era vivo. Tutto aveva particolari squisiti e intricati, e tuttavia tutto era così semplice. Ero dappertutto; potevo vedere sopra e sotto e intorno, tutto nello stesso tempo.

Questa particolare sensazione durò abbastanza a lungo perché ne diventassi consapevole. Poi cambiò in un terrore opprimente, un terrore che non si impadronì di me bruscamente, ma in certo modo rapidamente. Dapprima il meraviglioso mondo di silenzio fu scosso da acuti rumori, ma non me ne preoccupai. Poi i rumori divennero più forti e ininterrotti, come se si stessero chiudendo su di me. E gradualmente persi la sensazione di galleggiare in un mondo indifferenziato, indifferente e bellissimo. I rumori divennero passi giganteschi. Qualcosa di enorme stava muovendosi e respirando intorno a me. Credetti che mi stesse dando la caccia.

Corsi a nascondermi sotto un macigno, e da lì cercai di determinare che cosa mi stava seguendo. A un certo momento strisciai fuori dal mio nascondiglio per guardare, e il mio inseguitore, chiunque fosse, mi fu sopra. Era come un'alga marina. Si gettò su di me. Pensai che il suo peso mi avrebbe schiacciato, ma mi trovai dentro un tubo, o una cavità. Vidi con chiarezza che l'alga non aveva coperto tutta la superficie del terreno intorno a me. Rimaneva un pezzetto di terreno libero sotto il macigno. Cominciai a strisciarvi sotto. Vidi grosse gocce di liquido cadere dall'alga. ‘Sapevo’ che stava secernendo un acido digestivo per dissolvermi. Una goccia mi cadde sul braccio; cercai di togliere l'acido con della terra, e vi applicai sopra della saliva mentre continuavo a scavare. A un certo punto fui quasi vaporoso. Venivo spinto in alto verso una luce. Pensai che l'alga mi avesse dissolto. Distinsi vagamente una luce che diventava sempre più brillante; stava spingendo da sotto il terreno finché alla fine venne alla superficie in quello che riconobbi come il sole che spuntava da dietro le montagne.

Lentamente ricominciai a riacquistare i miei abituali processi sensoriali. Giacqui sullo stomaco con il mento appoggiato sulle braccia ripiegate. La pianta di peyote davanti a me cominciò ad accendersi di nuovo, e prima che potessi muovere gli occhi emerse nuovamente la luce di prima. Si librò sopra di me. Mi misi a sedere. La luce toccò tutto il mio corpo con una forza tranquilla, e poi rotolò via uscendo dalla mia vista.

Feci di corsa tutta la strada fino al luogo dove erano gli altri uomini. Tornammo tutti in città. Don Juan e io rimanemmo un altro giorno con don Roberto, l'uomo che aveva guidato le sedute. Dormii per tutto il tempo in cui rimanemmo là. Quando fummo sul punto di partire, i giovani che avevano preso parte alle sessioni del peyote vennero da me. Mi abbracciarono a uno a uno sorridendo timidamente. Ciascuno di loro si presentò. Parlammo per ore, di tutto tranne che delle riunioni con il peyote.

Don Juan disse che era ora di partire. I giovani mi abbracciarono di nuovo. “Ritorna”, disse uno. “Ti stiamo già aspettando”, aggiunse un altro. Mi allontanai guidando lentamente, cercando di vedere i vecchi, ma non ce n'era nessuno.

Giovedì, 10 settembre, 1964

 

 

Per raccontare un'esperienza a don Juan ero sempre costretto a rievocarla un passo dopo l'altro, al massimo delle mie capacità. Questa sembrava essere la sola maniera per ricordare tutto.

Gli raccontai i dettagli del mio ultimo incontro con Mescalito. Ascoltò attentamente la mia storia fino al punto in cui Mescalito mi diceva il suo nome. A quel punto don Juan mi interruppe.

“Ormai sei a posto”, disse. “Il protettore ti ha accettato. D'ora in avanti ti sarò di pochissimo aiuto. Non devi dirmi più nulla dei tuoi rapporti con lui. Ormai conosci il suo nome; e non dovrai mai menzionare a essere vivente né il suo nome né i tuoi rapporti con lui”.

Insistei che volevo raccontargli tutti i particolari dell'esperienza, perché non aveva significato per me. Gli dissi che avevo bisogno della sua assistenza per interpretare quello che avevo visto. Disse che lo potevo fare per mio conto, che era meglio per me incominciare a pensare da solo solo. Insistei che mi interessava ascoltare le sue opinioni perché mi ci sarebbe voluto troppo per arrivare alle mie, e non sapevo come procedere.

“Prendete, per esempio, le canzoni”, dissi. “Che cosa significano?”.

“Solo tu lo puoi decidere”, rispose. “Come potrei sapere che cosa significano? Solo il protettore te lo può dire, proprio come lui solo ti può insegnare le sue canzoni. Se io dovessi dirti che cosa significano sarebbe la stessa cosa come se tu avessi imparato le canzoni di qualcun altro”.

“Che cosa intendete dire con ciò, don Juan?”.

“Puoi distinguere quali sono i simulatori se ascolti la gente cantare le canzoni del protettore. Solo le canzoni che hanno un'anima sono sue e sono state insegnate da lui. Le altre sono copie di canzoni di altri uomini. Talvolta la gente è falsa fino a questo punto. Canta le canzoni di qualcun altro senza nemmeno sapere quello che le canzoni dicono”.

Dissi che avevo inteso chiedere a che scopo erano usate le canzoni. Rispose che le canzoni che avevo imparato servivano per chiamare il protettore, e che per chiamarlo avrei dovuto usarle sempre insieme al suo nome. Più tardi Mescalito mi avrebbe probabilmente insegnato altre canzoni per altri scopi, disse.

Gli chiesi allora se pensasse che il protettore mi aveva accettato completamente. Rise come se la mia domanda fosse sciocca. Disse che il protettore mi aveva accettato e si era assicurato che io sapessi che mi aveva accettato mostrandosi per due volte come una luce. Don Juan sembrò molto impressionato dal fatto che avessi visto la luce due volte. Mise in risalto questo aspetto del mio incontro con Mescalito.

Gli dissi che non riuscivo a comprendere come fosse possibile essere accettato dal protettore e tuttavia nello stesso tempo esserne terrorizzato.

Rimase a lungo senza rispondere. Sembrava perplesso. Alla fine disse: “È così chiaro. Quello che voleva è talmente chiaro che non capisco come tu possa fraintenderlo”.

“Mi è tutto ancora incomprensibile, don Juan”.

“Ci vuole davvero del tempo per vedere e comprendere quello che Mescalito vuole intendere; dovresti pensare alle sue lezioni finché non ti diventeranno chiare”.

Venerdì, 11 settembre, 1964

 

 

Insistei ancora affinché don Juan interpretasse le esperienze fatte nelle mie visioni. Tergiversò per un poco. Poi parlò come se ci fossimo già addentrati in una discussione su Mescalito.

“Non vedi quanto è stupido chiedere se è come una persona con cui si possa parlare?”, disse don Juan. “Non somiglia a nulla di quanto tu abbia mai visto. È come un uomo, ma nello stesso tempo non è affatto simile a un uomo. È difficile spiegarlo a persone che non sanno nulla di lui e vogliono sapere tutto di lui subito. E quindi le sue lezioni sono altrettanto misteriose quanto lo è lui stesso. Nessun uomo, che io sappia, può predire le sue azioni. Tu gli fai una domanda e lui ti mostra la strada, ma non te ne parla nella stessa maniera in cui noi ci parliamo a vicenda. Capisci adesso che cosa fa?”.

“Non penso di incontrare difficoltà nel comprenderlo. Quello che non riesco a immaginare è il suo significato”.

“Tu gli hai chiesto di dirti che cosa c'era in te che non andava, e lui ti ha dato tutto il quadro. Non può esserci errore! Non puoi asserire di non aver capito. Non è stata una conversazione; e tuttavia lo è stata. Poi tu gli hai fatto un'altra domanda, e lui ti ha risposto esattamente nella stessa maniera. Quanto a ciò che intendeva, non sono sicuro di comprenderlo, perché tu hai scelto di non dirmi qual era la tua domanda”.

Ripetei molto accuratamente le domande che ricordavo di aver fatto. Le misi nell'ordine in cui le avevo pronunciate: “Sto facendo la cosa giusta? Sono sulla strada giusta? Che cosa dovrei fare della mia vita?”. Don Juan rispose che le domande che avevo fatto erano solo parole; era meglio non pronunciare le domande, ma chiederle dall'interno. Mi disse che il protettore aveva inteso darmi una lezione; e per provarmi che voleva darmi una lezione, e non spaventarmi per farmi fuggire, si era mostrato due volte come una luce.

Dissi che ancora non riuscivo a comprendere perché Mescalito mi aveva terrorizzato se mi aveva accettato. Rammentai a don Juan che, in base a quanto mi aveva affermato, essere accettati da Mescalito implicava che la sua forma rimanesse costante e non passasse dalla beatitudine all'incubo. Don Juan rise di nuovo di me e disse che se avessi pensato alla domanda che avevo nel cuore quando avevo parlato a Mescalito, allora io stesso avrei compreso la lezione senza bisogno del suo aiuto.

Pensare alla domanda che avevo nel mio ‘cuore’ era un problema difficile. Dissi a don Juan che avevo avuto molte cose in mente. Quando avevo chiesto se ero sulla strada giusta intendevo dire: Ho un piede in ciascuno dei due mondi? Quale dei due mondi è quello giusto? Quale corso dovrebbe prendere la mia vita?

Don Juan ascoltò le mie spiegazioni e concluse che non avevo una chiara visione del mondo, e che il protettore mi aveva dato una lezione meravigliosamente limpida.

Disse: “Tu pensi che per te esistano due mondi: due sentieri. Ma ce n'è uno solo. Il protettore te l'ha mostrato con una chiarezza incredibile. Il solo mondo a tua disposizione è il mondo degli uomini, e tu non puoi decidere di lasciare quel mondo. Tu sei un uomo! Il protettore ti ha mostrato il mondo della felicità dove non c'è differenza tra le cose perché non c'è nessuno a cui chiedere della differenza. Ma quello non è il mondo degli uomini. Il protettore ti ha fatto uscire bruscamente da quel mondo e ti ha mostrato come vive e combatte un uomo. Quello è il mondo dell'uomo! Ed essere uomo vuol dire essere condannato a quel mondo. Tu hai la vanità di credere di vivere in due mondi. Ma quella è solo la tua vanità. Per noi non esiste che un solo mondo. Siamo uomini, e dobbiamo seguire con soddisfazione il mondo degli uomini.”

“Credo che quella fosse la lezione”.

 


9.

 

 

Sembrava che don Juan volesse che io mi occupassi il più possibile dell'erba del diavolo. Questo punto di vista non corrispondeva alla sua pretesa avversione per quel potere. Si spiegò dicendo che era vicino il momento in cui avrei dovuto fumare di nuovo, e che per allora dovevo aver sviluppato una migliore conoscenza del potere dell'erba del diavolo.

Suggerì ripetutamente che dovevo per lo meno mettere alla prova l'erba del diavolo con una ulteriore stregoneria con le lucertole. Mi trastullai a lungo con questa idea. L'insistenza di don Juan aumentò drammaticamente finché a un certo punto mi sentii obbligato a venire incontro alla sua richiesta. E un giorno mi decisi a fare un esperimento di divinazione su certi oggetti rubati.

Lunedì, 28 dicembre, 1964

 

 

Sabato 19 dicembre tagliai la radice di Datura. Aspettai che fosse abbastanza buio per fare la mia danza intorno alla pianta. Preparai l'estratto di radice durante la notte e la domenica, alle sei di mattina, mi recai nel luogo dov'era la mia pianta di Datura. Sedetti davanti alla pianta. Avevo preso appunti accurati sugli insegnamenti di don Juan sul procedimento. Lessi di nuovo le mie note e mi resi conto che non era là che dovevo macinare i semi. In certo modo il solo rimanere davanti alla pianta mi dava un raro tipo di stabilità emotiva, una lucidità di pensiero o una forza di concentrazione sulle mie idee di cui ordinariamente mancavo.

Seguii meticolosamente tutte le istruzioni, calcolando il tempo così che pasta e radice furono pronte nel tardo pomeriggio. Verso le cinque stavo cercando laboriosamente di catturare una coppia di lucertole. Per un'ora e mezza tentai ogni sistema che potei escogitare, ma fallii ogni tentativo.

Ero seduto davanti alla pianta di Datura cercando di immaginare un espediente per raggiungere il mio scopo quando a un tratto mi ricordai che don Juan aveva detto che alle lucertole si deve parlare. Da principio parlare alle lucertole mi sembrò ridicolo. Era come sentirsi imbarazzato a parlare davanti a un pubblico. Presto questa sensazione svanì e continuai a parlare. Era quasi buio. Sollevai un sasso, sotto c'era una lucertola. All'aspetto sembrava paralizzata. La presi. Subito dopo vidi che c'era un'altra lucertola irrigidita sotto un altro sasso. Non si divincolarono nemmeno.

Cucire la bocca e gli occhi fu il compito più difficile. Notai che don Juan aveva impartito alle mie azioni un senso di irrevocabilità. Il suo punto di vista era che quando un uomo comincia un atto non c'è alcun modo per fermarlo. Se avessi voluto fermarmi, tuttavia, non c'era nulla che me lo impedisse. Forse io non mi volevo fermare.

Lasciai libera una delle lucertole e questa si allontanò in direzione nord-est; presagio di un'esperienza buona ma difficile. Mi legai l'altra lucertola alla spalla e mi strofinai le tempie come prescritto. La lucertola era irrigidita; per un attimo pensai che fosse morta, e don Juan non mi aveva mai detto che cosa fare se questo fosse accaduto. Ma la lucertola era solo intorpidita.

Bevvi la pozione e attesi un poco. Non percepii nulla di fuori dell'ordinario. Cominciai a strofinarmi la pasta sulle tempie. L'applicai venticinque volte. Poi, del tutto meccanicamente, come se fossi distratto, me la cosparsi ripetutamente su tutta la fronte. Mi resi conto del mio errore e mi ripulii precipitosamente della pasta. Un'intensa angoscia si impadronì di me, perché don Juan mi aveva consigliato vigorosamente di non cospargermi la fronte con la pasta. La paura cambiò in una sensazione di assoluta solitudine, una sensazione di essere condannato. Ero solo. Se stava per succedermi qualcosa di pericoloso non c'era nessuno che mi potesse aiutare. Volevo fuggire. Provavo un'allarmante sensazione di indecisione, di non sapere che cosa fare. Un fiume di pensieri irruppe nella mia mente, balenando con straordinaria velocità. Notai che erano pensieri piuttosto strani; erano strani nel senso che sembravano arrivare in maniera diversa dai pensieri ordinari. Conosco bene la maniera in cui penso. I miei pensieri hanno un ordine definito che è tipicamente mio, e qualsiasi deviazione viene notata.

Uno dei pensieri estranei riguardava un'affermazione fatta da un autore. Assomigliava, ricordo vagamente, a una voce o a qualcosa di detto da qualche parte nello sfondo. Mi venne alla mente in maniera così improvvisa da sconvolgermi. Mi fermai per considerarlo, ma si trasformò in un pensiero ordinario. Ero sicuro che si trattava di una frase che avevo letto, ma non riuscivo a pensare al nome dell'autore. Improvvisamente ricordai che era Alfred Kroeber. Subito dopo un altro pensiero estraneo balzò su e ‘disse’ che non era stato Kroeber, bensì George Simmel, a fare quella affermazione. Insistei che si trattava di Kroeber, e ciò di cui mi resi conto subito dopo fu di trovarmi nel bel mezzo di una discussione con me stesso. E avevo dimenticato la mia sensazione di essere condannato.

Avevo le palpebre pesanti, come se avessi preso un sonnifero. Fu quella l'immagine che mi venne in mente, sebbene non ne avessi mai preso. Mi stavo addormentando. Volevo andare all'automobile e scivolarvi dentro, ma non riuscivo a muovermi.

Poi, del tutto improvvisamente, mi svegliai, o piuttosto, sentii chiaramente di essermi svegliato. Il mio primo pensiero fu per l'ora. Mi guardai intorno, non ero davanti alla pianta di Datura. Accettai con noncuranza il fatto di subire un'altra esperienza divinatoria. Erano le dodici e trentacinque a un orologio sopra la mia testa. Sapevo che era pomeriggio.

Vidi un giovane che portava un mucchio di carte. Lo toccavo quasi. Vedevo pulsare le vene del suo collo e udivo il rapido battito del suo cuore. Mi ero assorbito in quello che vedevo e non mi ero reso conto, fino a quel momento, della qualità dei miei pensieri. Poi udii all'orecchio una ‘voce’ che descriveva la scena, e mi resi conto che la ‘voce’ era il pensiero estraneo nella mia mente.

Mi immersi a tal punto nell'ascolto che la scena perse per me il suo interesse visivo. Udivo la voce al mio orecchio destro, sopra la spalla. Creava effettivamente la scena col descriverla. Ma obbediva alla mia volontà, perché la potevo fermare in qualsiasi momento ed esaminate a mio piacere i dettagli di ciò che diceva. 'Udii-vidi' l'intera sequenza delle azioni del giovane. La voce continuava a spiegarle nei minimi dettagli, ma in certo modo l'azione non era importante. L'aspetto straordinario era la vocina. Tre volte durante il corso dell'esperienza tentai di voltarmi per vedere chi stava parlando. Tentai di girare la testa tutta a destra, o semplicemente di ruotarmi all'improvviso per vedere se c'era qualcuno. Ma ogni volta che lo feci la mia visione si offuscò. Pensai: “La ragione per cui non mi posso voltare è perché la scena non è nel regno della realtà ordinaria”. E quel pensiero era mio.

Da quel momento in poi concentrai la mia attenzione sulla voce soltanto. Sembrava provenire dalla mia spalla. Era perfettamente chiara, anche se una vocina. Tuttavia non era una voce infantile o un falsetto, bensì la voce di un uomo in miniatura. Non era neanche la mia voce. Pensai che quello che ascoltavo fosse inglese. Ogni volta che cercai deliberatamente di catturare la voce questa decrebbe del tutto o divenne vaga, e la scena svanì. Pensai a un paragone. La voce era simile all'immagine creata da particelle di polvere tra le ciglia, o dai vasi sanguigni nella cornea dell'occhio, una forma allungata che può essere vista finché non la si guarda direttamente; ma nel momento in cui si cerca di guardarla, il movimento della pupilla la fa uscire dal campo visivo.

Mi disinteressai totalmente dell'azione. A mano a mano che ascoltavo la voce diventava più complessa. Quella che pensavo essere una voce era più come un qualcosa che bisbigliasse pensieri al mio orecchio. Ma non era precisamente così. Qualcuno pensava per me. I pensieri erano esterni a me stesso. Sapevo che era così perché riuscivo a far coesistere nello stesso tempo i miei pensieri e i pensieri dell' ‘altro’.

A un certo punto la voce creò scene interpretate dal giovane, che non avevano nulla a che fare con la mia domanda originaria a proposito degli oggetti perduti. Il giovane compiva azioni molto complesse. L'azione era di nuovo diventata importante e non prestai più attenzione alla voce. Cominciai a perdere la pazienza; volevo fermarmi. “Come posso far finire ciò?”, pensai. La voce al mio orecchio disse che avrei dovuto ritornare al canyon. Chiesi come avrei dovuto fare, e la voce rispose che avrei dovuto pensare alla mia pianta.

Pensai alla mia pianta. Di solito le sedevo davanti. Lo avevo fatto così tante volte che mi era piuttosto facile visualizzarla. Credetti che vederla, come facevo in quel momento, fosse un'altra allucinazione, ma la voce disse che ero ‘ritornato’! Mi sforzai di ascoltare. C'era solo silenzio. La pianta di Datura davanti a me sembrava altrettanto reale quanto ogni altra cosa che avevo visto, ma la potevo toccare, le potevo girare intorno.

Mi alzai e mi avviai verso l'automobile. Lo sforzo mi aveva esaurito, e mi misi a sedere chiudendo gli occhi. Mi sentivo girare la testa e volevo vomitare. Sentivo un ronzio nelle orecchie.

Qualcosa mi scivolò sul petto, era la lucertola. Ricordai che don Juan mi aveva ammonito di lasciarla libera. Ritornai alla pianta e slegai la lucertola. Non volli vedere se fosse viva o morta. Ruppi il vaso di terra contenente gli avanzi della pasta e ci spinsi sopra a calci un poco di terra. Entrai nell'automobile e caddi addormentato.

Giovedì, 24 dicembre, 1964

 

 

Raccontai a don Juan tutta l'esperienza. Come al solito mi ascoltò senza interrompermi. Alla fine avemmo il seguente dialogo.

“Hai fatto qualcosa di veramente sbagliato”.

“Lo so. È stato un errore molto sciocco, un incidente”.

“Non ci sono incidenti quando si ha a che fare con l'erba del diavolo. Ti avevo detto che ti avrebbe messo alla prova fino in fondo. Così come la vedo io, o tu sei veramente forte, oppure l'erba del diavolo ti ama veramente. Il centro della fronte è solo per i grandi brujo che sanno come maneggiare il suo potere”.

“Che cosa accade di solito quando un uomo si strofina la pasta sulla fronte, don Juan?”.

“Se quell'uomo non è un grande brujo non farà mai ritorno dal suo viaggio”.

“Voi vi siete mai strofinato la pasta sulla fronte, don Juan?”.

“Mai! Il mio benefattore mi ha detto che pochissimi ritornano da un viaggio del genere. Un uomo potrebbe uscire di senno per mesi, e dovrebbe essere accudito da altri. Il mio benefattore diceva che le lucertole potrebbero condurre un uomo alla fine del mondo e mostrargli dietro sua richiesta i segreti più meravigliosi”.

“Sapete di nessuno che abbia mai intrapreso tale viaggio?”.

“Sì, il mio benefattore. Ma non mi ha mai insegnato come si fa a ritornare”.

“È così terribilmente difficile ritornare, don Juan?”.

“Sì. È per questo che ciò che hai fatto mi lascia veramente sbalordito. Non avevi passi da seguire, e noi dobbiamo seguire certi passi, perché è nei passi che l'uomo trova la forza. Senza di essi non siamo nulla”.

Rimanemmo in silenzio per ore. Don Juan sembrava immerso in una profondissima meditazione.

Sabato, 26 dicembre, 1964

 

 

Don Juan mi chiese se avevo cercato le lucertole. Gli risposi che lo avevo fatto, ma che non ero riuscito a trovarle. Gli chiesi che cosa sarebbe accaduto se una delle lucertole fosse morta mentre io la tenevo. Disse che la morte di una lucertola sarebbe stato un avvenimento sfortunato. Se fosse morta la lucertola con la bocca cucita, in qualsiasi momento, non ci sarebbe stato alcun senso nel proseguire la stregoneria, disse. Avrebbe inoltre significato che le lucertole mi avevano tolto la loro amicizia, e avrei dovuto abbandonare lo studio dell'erba del diavolo per molto tempo.

“Per quanto tempo, don Juan?”.

“Due anni o più”.

“Che cosa sarebbe successo se fosse morta l'altra lucertola?”.

“Se fosse morta la seconda lucertola ti saresti trovato in un vero pericolo. Saresti rimasto solo, senza una guida. Se fosse morta prima di cominciare la stregoneria avresti potuto interromperla; ma se tu l'avessi interrotta, avresti anche dovuto abbandonare l'erba del diavolo per il tuo bene. Se la lucertola fosse morta mentre era sulla tua spalla, dopo che avevi cominciato la stregoneria, avresti dovuto andare avanti, e quella sarebbe stata veramente pazzia”.

“Perché sarebbe stata pazzia?”. ; “Perché in quelle condizioni nulla ha significato. Sei solo senza una guida, vedi cose terrificanti e assurde”.

“Che cosa intendete dire per ‘cose assurde’?”.

“Cose che vediamo da soli. Cose che vediamo quando non abbiamo nessuna guida. Significa che l'erba del diavolo sta cercando di sbarazzarsi di te, scacciandoti via definitivamente”.

“Conoscete nessuno che abbia avuto tale esperienza?”.

“Sì. Io l'ho avuta. Senza la saggezza delle lucertole sono diventato matto”.

“Che cosa avete visto, don Juan?”.

“Un mucchio di assurdità. Che cos'altro avrei potuto vedere senza direzione?”.

Lunedì, 28 dicembre, 1964

 

 

“Don Juan, voi mi avete detto che l'erba del diavolo mette gli uomini alla prova. Che cosa intendevate dire?”.

“L'erba del diavolo è come una donna, e lusinga gli uomini come una donna. Cerca di farli cadere in trappola a ogni svolta. Lo ha fatto con te quando ti ha costretto a strofinarti la pasta sulla fronte. Ci proverà di nuovo, e tu probabilmente te ne innamorerai. Ti metto in guardia contro di lei. Non prenderla con passione; l'erba del diavolo è solo uno dei sentieri che conducono ai segreti di un uomo di conoscenza. Ci sono altri sentieri. Ma la sua trappola consiste nel farti credere che la sua è la sola strada. Dico che è inutile sprecare la propria vita su un solo sentiero, specialmente se quel sentiero non ha un cuore”.

“Ma come si fa a sapere quando un sentiero non ha un cuore, don Juan?”.

“Prima di inoltrarti in esso poniti la seguente domanda: Questo sentiero ha un cuore? Se la risposta è no, lo saprai, e allora devi scegliere un altro sentiero”.

“Ma come farò a sapere con certezza se un sentiero ha un cuore o no?”.

“Lo saprebbe chiunque. Il guaio è che nessuno si pone la domanda; e quando alla fine un uomo si rende conto di aver preso un sentiero senza un cuore, il sentiero è pronto a ucciderlo. A questo punto pochissimi uomini sanno fermarsi per ponderare, e abbandonare il sentiero”.

“Come dovrei procedere per porre appropriatamente la domanda, don Juan?”.

“Devi solo chiederla”.

“Voglio dire, esiste un metodo appropriato, così da non mentire a me stesso e credere che la risposta sia sì quando in realtà è no?”.

“Perché dovresti mentire?”.

“Forse perché al momento il sentiero è gradito e piacevole”.

“Questo è assurdo. Un sentiero senza cuore non è mai piacevole. Devi lavorare duramente anche per prenderlo. D'altra parte, un sentiero che ha un cuore è facile; amarlo non ti costa fatica”.

All'improvviso don Juan cambiò il corso della conversazione e mi mise bruscamente a faccia a faccia con l'idea che io amavo l'erba del diavolo. Dovetti ammettere che come minimo avevo per essa una preferenza. Mi chiese che cosa sentissi nei confronti del suo alleato, il fumo, e dovetti dirgli che già la sola idea mi spaventava fino a farmi diventar matto.

“Ti ho detto che per scegliere un sentiero devi essere libero dalla paura e dall'ambizione. Ma il fumo ti acceca di paura, e l'erba del diavolo ti acceca di ambizione”.

Sostenni che si deve avere ambizione anche per incamminarsi su qualsiasi sentiero, e che la sua affermazione che si doveva essere liberi dall'ambizione non aveva significato. Una persona deve avere ambizione per poter imparare.

“II desiderio di imparare non è ambizione”, disse. “Voler conoscere è il nostro destino di uomini, ma cercare l'erba del diavolo significa ambire il potere, e questa è ambizione, perché tu non ambisci di conoscere. Non lasciare che l'erba del diavolo ti accechi. Ti ha già preso all'amo. Adesca gli uomini e dà loro una sensazione di potere; li fa sentire in grado di compiere cose che nessun altro uomo ordinario può. Ma è quella la sua trappola. E, quel che vien dopo, il sentiero senza un cuore si rivolterà contro di essi e li distruggerà. Non ci vuole molto per morire, e cercare la morte è cercare nulla”.

 


10.

 

 

Nel mese di dicembre 1964, don Juan e io andammo a raccogliere le differenti piante necessarie per comporre la miscela da fumo. Era il quarto ciclo. Don Juan si limitava a controllare le mie azioni. Mi esortava a prendere tempo, a osservare e a meditare prima di cogliere una pianta. Non appena gli ingredienti furono raccolti e messi da parte, mi esortò a incontrarmi di nuovo con il suo alleato.

Giovedì, 31 dicembre, 1964

 

 

“Adesso che ne sai un po' di più sull'erba del diavolo e sul fumo puoi giudicare con maggior chiarezza quale dei due ti piacerà di più”, disse don Juan.

“Il fumo mi atterrisce davvero, don Juan. Non so esattamente perché, ma quello che provo nei suoi confronti non mi piace”.

“Ti piacciono le lusinghe, e l'erba del diavolo ti lusinga. È come una donna, ti fa sentire buono. Il fumo, d'altra parte, è il potere più nobile, ha il cuore più puro. Non adesca o imprigiona gli uomini, non ama né odia. Tutto quello che richiede è la forza. Anche l'erba del diavolo richiede la forza, ma di un tipo differente. È quasi come l'essere virili con le donne. D'altra parte la forza richiesta dal fumo è la forza del cuore. Tu non l'hai. Ma pochissimi uomini l'hanno. È per questo che ti raccomando di imparare di più sul fumo. Rinforza il cuore. Non è come l'erba del diavolo, piena di passioni, di gelosie e di violenza. Il fumo è costante. Non ti devi preoccupare di dimenticare qualcosa mentre procedi”.

Mercoledì, 27 gennaio, 1965

 

 

Martedì 19 gennaio fumai di nuovo la mistura allucinogena. Avevo detto a don Juan che mi sentivo molto apprensivo nei confronti del fumo, e che mi spaventava. Mi disse che dovevo provarlo di nuovo per valutarlo con giustizia.

Entrammo nella sua camera. Erano quasi le due del pomeriggio. Tirò fuori la pipa e io andai a prendere i carboni, quindi sedemmo l'uno dirimpetto all'altro. Disse che avrebbe dato calore alla pipa per risvegliarla, e se lo osservavo attentamente avrei visto come si sarebbe animata. Si portò la pipa alle labbra tre o quattro volte, e succhiò attraverso il cannello. La accarezzava con tenerezza. D'un tratto mi fece cenno col capo, quasi impercettibilmente, per avvertirmi di guardare il risveglio della pipa. Guardai, ma non riuscii a vedere nulla.

Mi porse la pipa. Riempii il fornello con la mistura, e quindi presi un carbone acceso con un paio di pinze che mi ero fabbricato con una molletta di legno per bucato e che avevo messo da parte per quella occasione. Don Juan guardò le mie pinze e cominciò a ridere. Vacillai per un momento, e il carbone si attaccò alle pinze. Avevo paura di batterle contro il fornello della pipa, e dovetti sputare sul carbone per toglierlo.

Don Juan volse il capo e si coprì il volto con le braccia. Il suo corpo si scuoteva. Per un momento pensai che stesse piangendo, invece rideva silenziosamente.

Rimasi a lungo senza sapere che cosa fare; quindi don Juan prese lui stesso con destrezza un carbone, lo mise nel fornello, e mi ordinò di fumare. Mi ci volle un certo sforzo per succhiare attraverso la mistura; sembrava molto compatta. Dopo il primo tentativo sentii di aver succhiato la polvere sottile, che immediatamente mi intorpidì la bocca. Vedevo il fuoco nel fornello, ma non sentii mai il fumo come si sente il fumo di una sigaretta. Tuttavia avevo 1a sensazione di inalare qualcosa, qualcosa che prima mi riempiva i polmoni e quindi si spingeva in giù per riempire il resto del mio corpo.

Contai venti inalazioni, poi il conto non ebbe più importanza. Incominciai a sudare; don Juan mi guardò fissamente e mi disse di non aver paura e di fare esattamente come lui mi diceva. Cercai di dire ‘va bene’, ma invece emisi uno strano suono ululante che continuò a risuonare anche dopo che ebbi chiuso la bocca. Il suono fece trasalire don Juan che ebbe un altro attacco di ilarità. Volli dire 'sì' con il capo, ma non riuscii a muovermi.

Don Juan mi aprì le mani con dolcezza e tolse la pipa. Mi ordinò di stendermi sul pavimento, ma di non addormentarmi. Mi domandai se mi avrebbe aiutato a stendermi, ma non lo fece. Si limitò a fissarmi ininterrottamente. Tutto d'un tratto vidi crollare la stanza, e stavo guardando don Juan da una posizione al mio fianco. Da quel punto in poi le immagini diventarono stranamente offuscate, come in un sogno. Posso ricordare vagamente di aver udito don Juan che mi parlava a lungo durante il periodo di tempo in cui rimasi immobilizzato.

Non provai paura né ebbi sensazioni sgradevoli durante lo stato stesso, né mi sentii male al mio risveglio il giorno dopo. La sola cosa fuori dell'ordinario fu che non potei pensare con chiarezza per un certo tempo dopo essermi svegliato. Poi, gradualmente, nel corso di quattro o cinque ore, tornai me stesso.

Mercoledì, 20 gennaio, 1965

 

 

Don Juan non parlò della mia esperienza, né mi chiese di riferirgliela. Il suo solo commento fu che ero caduto addormentato troppo presto.

“La sola maniera per rimanere sveglio è diventare un uccello, o un grillo, o qualcosa del genere”, disse.

“Come si fa, don Juan?”.

“È quello che ti sto insegnando. Ricordi cosa ti ho detto ieri mentre eri privo di corpo?”.

“Non riesco a ricordare con chiarezza”.

“Io sono un corvo. Ti sto insegnando come diventare un corvo. Quando lo avrai imparato, rimarrai sveglio, e ti muoverai liberamente; altrimenti sarai sempre incollato al suolo, dovunque tu cada”.

Domenica, 7 febbraio, 1965

 

 

II mio secondo tentativo con il fumo ebbe luogo verso mezzogiorno di domenica 31 gennaio. Mi svegliai il giorno seguente nel tardo pomeriggio. Avevo la sensazione di possedere un'insolita capacità di ricordare tutto quello che don Juan mi aveva detto durante l'esperienza. Le sue parole mi si erano impresse nella mente. Continuavo a udirle con una chiarezza e una persistenza straordinarie. Durante questo tentativo mi divenne ovvio un altro fatto: tutto il mio corpo si era intorpidito subito dopo aver cominciato a inghiottire la sottile polvere che mi entrava in bocca ogni volta che succhiavo la pipa. Così non solo inalavo il fumo, ma ingerivo anche la mistura.

Cercai di narrare la mia esperienza a don Juan; mi disse che non avevo fatto nulla di importante. Dissi che potevo ricordare tutto quello che era accaduto, ma non lo volle ascoltare. Ogni ricordo era preciso e inequivocabile. Il procedimento usato nel fumare era stato lo stesso del tentativo precedente. Era quasi come se le due esperienze fossero perfettamente sovrapponibili, e potevo cominciare a ricordare dal momento in cui era finita la prima esperienza. Ricordavo chiaramente che dal momento in cui ero caduto per terra sul fianco ero rimasto completamente svuotato di sensazioni e di pensieri. Tuttavia la mia lucidità non era stata assolutamente menomata. Ricordo di aver pensato il mio ultimo pensiero all'incirca nel momento in cui la stanza divenne un piano verticale: “Devo aver battuto la testa sul pavimento, tuttavia non sento alcun dolore”.

Da quel momento in poi potei solo vedere e udire. Ero in grado di ripetere ogni parola detta da don Juan. Seguivo ciascuna delle sue istruzioni. Sembravano chiare, logiche e facili. Disse che il mio corpo stava scomparendo e che sarebbe rimasta solo la testa, e in tale condizione la sola maniera per rimanere svegli e muoversi era diventare un corvo. Mi ordinò di sforzarmi di ammiccare, aggiungendo che ogni volta che fossi stato capace di ammiccare sarei stato pronto ad andare avanti. Poi mi disse che il mio corpo era svanito completamente e che tutto quello che mi rimaneva era la testa; disse che la testa non scompare mai perché la testa è quella che si trasforma in corvo.

Mi ordinò di ammiccare. Deve aver ripetuto questo ordine, e tutti i suoi altri ordini, innumerevoli volte, perché riuscivo a ricordarli tutti con straordinaria chiarezza. Dovevo aver ammiccato, perché disse che ero pronto e mi ordinò di protendere il capo e di appoggiarlo sul mento. Disse che le zampe del corvo erano nel mento. Mi ordinò di percepire le zampe e di osservarle mentre spuntavano lentamente fuori. Disse poi che non ero ancora stabile, che dovevo farmi spuntare una coda, e che la coda sarebbe venuta fuori dalla mia nuca. Mi ordinò di spiegare la coda come un ventaglio, e di sentire come spazzava il suolo.

Quindi parlò delle ali del corvo, e disse che sarebbero venute fuori dai miei zigomi. Disse che era una cosa dura e faticosa. Mi ordinò di spiegarle. Disse che dovevano essere estremamente lunghe, lunghe fin quanto riuscissi a distenderle, altrimenti non sarei stato capace di volare. Mi disse che le ali stavano uscendo ed erano lunghe e belle, e che dovevo batterle fino a che non fossero vere ali.

Parlò quindi della sommità della mia testa e disse che era ancora molto grossa e pesante, e che il suo volume mi avrebbe impedito di volare. Mi disse che il modo per ridurne le dimensioni era ammiccare, a ogni ammiccamento la mia testa sarebbe divenuta più piccola. Mi ordinò di ammiccare finché non se ne fosse andato il peso della sommità del capo e io potessi saltare liberamente. Quindi mi disse che avevo ridotto la mia testa alle dimensioni di un corvo, e che dovevo camminare in giro e saltellare finché non avessi perduto la mia rigidità.

C'era solo un'ultima cosa da cambiare, disse, prima che potessi volare. Era il cambiamento più difficile, disse, e per compierlo dovevo essere docile e fare esattamente come mi diceva. Dovevo imparare a vedere come un corvo. Disse che la mia bocca e il mio naso stavano crescendo in mezzo ai miei occhi fino a che non avessi un forte becco. Disse che i corvi hanno la vista laterale, e mi ordinò di voltare il capo e di guardarlo con un occhio solo. Disse che se volevo cambiare e guardare con l'altro occhio dovevo scuotere il becco verso il basso, e che quel movimento mi avrebbe fatto guardare attraverso l'altro occhio. Mi ordinò di cambiare da un occhio all'altro. Quindi disse che ero pronto per volare, e che la sola maniera per volare era lasciare che lui mi scagliasse in aria.

Non avevo nessuna difficoltà nell'evocare la sensazione corrispondente a ciascuno dei suoi ordini. Ebbi la percezione della crescita di zampe da uccello, al principio deboli e vacillanti. Mi sentii uscire una coda dalla nuca e delle ali dagli zigomi. Le ali erano ripiegate. Le sentii uscire gradualmente. La trasformazione era dura, ma non dolorosa. Quindi spinsi in giù la testa fino a farla diventare delle dimensioni di un corvo. Ma l'effetto più stupefacente fu compiuto dagli occhi: la mia vista da uccello!

Quando don Juan mi insegnò a farmi crescere un becco ebbi una fastidiosa sensazione di mancanza d'aria. Poi qualcosa si protese all'infuori e creò un blocco davanti a me. Ma fu solo quando don Juan mi istruì sul modo di guardare lateralmente che i miei occhi furono effettivamente capaci di avere una completa visione laterale. Potevo ammiccare con un occhio alla volta e trasferire la messa a fuoco da un occhio all'altro. Ma la vista della stanza e di tutte le cose in essa non era come una vista ordinaria. Tuttavia mi era impossibile dire in quale misura fosse differente. Forse era asimmetrica, o forse le cose erano fuori fuoco. Don Juan diventò enorme e luminoso. Qualcosa in lui era confortevole e rassicurante. Poi le immagini si offuscarono; persero i loro contorni e diventarono nitidi profili astratti che tremolarono per un po'.

Domenica, 28 marzo, 1965

 

 

Giovedì 18 marzo fumai di nuovo la mistura allucinogena. La procedura iniziale fu diversa nei piccoli dettagli. Dovetti ricaricare una volta la pipa. Terminata la prima pipata don Juan mi insegnò a pulire il fornello, ma versò lui stesso la mistura nella pipa perché io mancavo di coordinazione muscolare. Mi ci voleva un grandissimo sforzo per muovere le braccia. Nel mio sacchetto c'era mistura sufficiente per una sola carica. Don Juan guardò il sacchetto e disse che quello era il mio ultimo tentativo con il fumo fino all'anno successivo, perché avevo usato tutto il mio rifornimento.

Rivoltò il sacchetto come un guanto e ne scosse la polvere nel piatto che conteneva i carboni. Bruciò con un alone trasparente, come se avesse messo sui carboni un foglio di un materiale trasparente. Il foglio prese fuoco, e quindi si spezzettò in un intricato disegno di segmenti. Qualcosa si muoveva zigzagando a grande velocità tra i segmenti. Don Juan mi disse di guardare il movimento dei segmenti. Vidi qualcosa che sembrava una pietruzza che rotolasse avanti e indietro nella zona luminosa. Don Juan si piegò in avanti, infilò la mano nel fuoco, tirò fuori la pietruzza e la mise nel fornello della pipa. Mi ordinò di tirare una boccata. Ebbi la netta impressione che avesse messo la pallina nella pipa perché io la inalassi. In un attimo la camera perse la sua posizione orizzontale. Sentii un profondo torpore, una sensazione di pesantezza.

Quando mi svegliai ero disteso sulla schiena in fondo a un canaletto di irrigazione, immerso nell'acqua fino al mento. Qualcuno mi stava tenendo sollevata la testa. Era don Juan. Il mio primo pensiero fu che l'acqua del canale aveva una qualità insolita: era fredda e pesante. Sbatteva lievemente contro di me, e a ogni movimento che faceva i miei pensieri si chiarivano. Da principio l'acqua aveva uno splendente alone verde, o una fluorescenza, che presto si dissolse, lasciando solo un flusso di acqua ordinaria.

Chiesi a don Juan che ora fosse del giorno. Rispose che era mattina presto. Dopo un poco fui completamente sveglio e uscii dall'acqua.

“Mi devi dire tutto quello che hai visto”, disse don Juan quando arrivammo alla sua casa. Disse anche che aveva tentato di ‘riportarmi indietro’ per tre giorni, e che aveva trovato molta difficoltà nel farlo. Feci numerosi tentativi per descrivere quello che avevo visto, ma non riuscivo a concentrarmi. Più tardi, sul calar della sera, sentii di essere pronto a parlare con don Juan, e cominciai a raccontargli quello che ricordavo dal momento in cui ero caduto sul fianco, ma non volle ascoltare. Disse che la sola parte interessante era quello che avevo visto e fatto dopo che lui mi aveva “scagliato in aria e io ero volato via”.

Tutto quello che potevo ricordare era una serie di immagini o di scene simili a sogni. Non avevano un ordine di successione. Avevo l'impressione che ciascuna di esse fosse come una bolla isolata, che fluttuava fino ad arrivare a essere messa a fuoco, e che poi si allontanava. Tuttavia non erano semplicemente scene da guardare. Ero in esse. Prendevo parte a esse. Quando al principio cercai di ricordarle ebbi la sensazione che fossero barlumi vaghi e diffusi, ma a mano a mano che ripensavo mi resi conto che ciascuna di esse era estremamente chiara sebbene non avesse alcuna relazione con la visione ordinaria; di qui veniva quella loro sensazione di essere vaghe. Le immagini erano poche e semplici.

Non appena don Juan menzionò di avermi “scagliato in aria” ebbi un debole ricordo di una scena assolutamente chiara in cui stavo guardando diritto verso di lui da una certa distanza. Stavo guardando solo la sua faccia. Era di dimensioni monumentali; era piatta e aveva una intensa luminosità. I capelli erano giallastri, e si muovevano. Ogni parte della sua faccia si muoveva per proprio conto, proiettando una specie di luce ambrata.

La successiva immagine fu quella in cui don Juan mi aveva effettivamente scagliato in alto, o librato, imprimendomi una direzione rettilinea. Ricordo che “distesi le ali e volai”. Mi sentivo solo, tagliavo l'aria e mi muovevo faticosamente diritto davanti a me. Assomigliava più al camminare che al volare. Mi stancava il corpo. Non c'era alcuna sensazione di un volo libero, nessuna esuberanza.

Quindi ricordai un istante in cui ero rimasto immobile a guardare una massa di aguzzi bordi oscuri in una zona che aveva una luce opaca e dolorosa; poi vidi un campo di un'infinita varietà di luci. Le luci si muovevano, si accendevano e spegnevano, e cambiavano di luminosità. Erano quasi come dei colori; la loro intensità mi abbagliò.

In un altro momento un oggetto fu quasi contro il mio occhio. Era un oggetto spesso e appuntito; aveva un definito bagliore rosa. Sentii un improvviso tremito da qualche parte nel corpo e vidi una moltitudine di simili forme rosa che venivano verso di me. Si dirigevano tutte contro di me. Balzai via.

L'ultima scena che ricordai furono tre uccelli d'argento. Irradiavano una luce risplendente, metallica, quasi come di acciaio inossidabile, ma intensa, mobile e viva. Mi piacevano. Volammo insieme.

Don Juan non fece alcun commento al mio racconto.

Martedì, 23 marzo, 1965

 

 

La seguente conversazione si svolse il giorno successivo, dopo il racconto della mia esperienza.

“Non ci vuole molto per diventare un corvo”, disse don Juan. “Tu lo hai fatto e ora sarai sempre un corvo”.

“Che cosa è successo dopo che sono diventato un corvo, don Juan? Ho volato per tre giorni?”.

“No, sei ritornato al calar della notte come ti avevo detto”.

“Ma come sono ritornato?”.

“Eri molto stanco e sei andato a dormire. Questo è tutto”.

“Voglio dire, sono tornato in volo?”.

“Te l'ho già detto. Mi hai obbedito e sei ritornato alla casa. Ma non preoccuparti di questo, non ha nessuna importanza”.

“Allora che cosa è importante?”.

“In tutto il tuo viaggio c'è stata una sola cosa di grande valore: gli uccelli d'argento”.

“Che cosa avevano di così speciale? Erano semplicemente uccelli”.

“Non erano semplicemente uccelli, erano corvi”.

“Erano corvi bianchi, don Juan?”.

“Le penne nere di un corvo sono in realtà d'argento. I corvi risplendono così intensamente che gli altri uccelli non li infastidiscono”.

“Perché le loro penne sembravano d'argento?”.

“Perché tu vedevi come vede un corvo. Gli uccelli che per noi sono scuri ai corvi appaiono bianchi. I piccioni bianchi, per esempio, a un corvo appaiono rosa, o bluastri; i gabbiani, gialli. Adesso cerca di ricordare come ti sei unito a loro”.

Ci pensai, ma gli uccelli erano un'immagine tenue e senza associazioni, che non aveva continuità. Gli dissi che riuscivo a ricordare solo di aver sentito di aver volato insieme a loro. Mi chiese se mi ero unito a loro per aria o in terra, ma non mi fu possibile rispondere. Cominciò quasi ad andare in collera con me. Pretese che ci pensassi. Disse: “Tutto questo non significa un accidente; finché non ricorderai correttamente sarà solo un sogno strambo”. Mi sforzai di ricordare, ma non ci riuscii.

Sabato, 3 aprile, 1965

 

 

Oggi pensai a un'altra immagine del mio ‘sogno’ a proposito degli uccelli d'argento. Ricordavo di aver visto una massa oscura con migliaia di buchi di spillo. In effetti la massa era un mucchio oscuro di piccoli buchi. Non so perché pensai che fosse soffice. Mentre la guardavo, tre uccelli volarono direttamente verso di me. Uno di essi emise un suono; poi tutti e tre furono accanto a me sul suolo.

Descrissi l'immagine a don Juan. Mi chiese da quale direzione erano venuti gli uccelli. Gli dissi che non mi era possibile determinarlo. Incominciò a perdere la pazienza e mi accusò di non essere elastico nei miei pensieri. Disse che avrei potuto ricordare benissimo se avessi cercato di farlo, e che avevo paura di lasciarmi diventare meno rigido. Disse, che stavo pensando in termini di uomini e di corvi, e che al momento che volevo ricordare non ero né un uomo né un corvo.

Mi chiese di ricordare che cosa mi aveva detto il corvo. Cercai di pensarvi, ma la mia mente si perdeva invece in tante altre cose. Non riuscivo a concentrarmi.

Domenica, 4 aprile, 1965

 

 

Feci una lunga escursione. Si era fatto abbastanza buio prima che arrivassi alla casa di don Juan. Stavo pensando ai corvi, quando improvvisamente un ‘pensiero’ molto strano mi attraversò la mente. Più che a un pensiero somigliava a un'impressione o a una sensazione. L'uccello che aveva emesso il suono aveva detto che venivano da nord e stavano andando a sud, e quando ci saremmo incontrati di nuovo sarebbero venuti nella stessa direzione.

Raccontai a don Juan quello che avevo pensato, o forse ricordato. “Non preoccuparti se lo hai pensato o ricordato”, mi disse. “Pensieri del genere si adattano soltanto agli uomini, non ai corvi, e in particolare a quelli che hai visto, perché sono emissari del tuo destino. Tu sei già un corvo. Non potrai mai cambiare questo fatto. D'ora in avanti i corvi ti avvertiranno con il loro volo di ogni svolta del tuo destino. In quale direzione hai volato con loro?”.

“Non potrei saperlo, don Juan!”.

“Se pensi come si conviene ricorderai. Siediti sul pavimento e dimmi in che posizione eri quando gli uccelli sono volati verso di te. Chiudi gli occhi e traccia una linea sul pavimento”.

Seguii il suo suggerimento e determinai il punto.

“Non aprire ancora gli occhi”, continuò. “In che direzione siete volati in relazione a quel punto?”.

Feci un altro segno per terra.

In base a questi punti di orientamento don Juan interpretò le differenti direzioni di volo che i corvi avrebbero osservato per predire il mio futuro o fato personale. Prese i quattro punti della bussola come gli assi del volo dei corvi.

Gli chiesi se i corvi seguissero sempre i punti cardinali per annunciare il destino di un uomo. Disse che l'orientamento era soltanto mio: qualsiasi cosa i corvi avessero fatto al mio primo incontro con essi era di importanza fondamentale. Insisté che ricordassi ogni dettaglio, perché il messaggio e il tipo degli ‘emissari’ erano una faccenda individuale e personalizzata.

C'era ancora una cosa che don Juan insisté che dovevo ricordare, ed era in quale momento del giorno gli emissari mi avevano lasciato. Mi chiese di pensare alla differenza di luce intorno a me tra il momento in cui avevo ‘incominciato a volare’ e il momento in cui gli uccelli d'argento ‘volarono con me’. Quando ebbi per la prima volta la sensazione di un volo penoso era buio. Ma quando vidi gli uccelli, tutto era di colore rossastro: rosso chiaro, o forse arancione.

“Questo significa che era tardi nella giornata”, disse don Juan. “Il sole non era ancora tramontato. Quando è completamente buio i corvi sono accecati perché vedono tutto bianco, e non nero come vediamo noi di notte. Questa indicazione di tempo pone i tuoi ultimi emissari alla fine della giornata. Ti chiameranno e, mentre voleranno sopra il tuo capo, diventeranno di colore bianco argenteo; li vedrai risplendere contro il cielo, e vorrà dire che il tuo tempo è terminato. Significherà che sei sul punto di morire e diventare tu stesso un corvo”.

“Che cosa accadrà se li vedrò al mattino?”.

“Non li vedrai di mattina!”.

“Ma i corvi volano tutto il giorno”.

“Non i tuoi emissari, sciocco! ”.

“E i vostri emissari, don Juan?”.

“I miei verranno al mattino. Anche loro saranno tre. Il mio benefattore mi disse che li si potrebbe far ridiventare neri con un grido se non si vuole morire. Ma ora so che ciò non può essere fatto. Il mio benefattore era incline al gridare, e a tutto il fracasso e alla violenza dell'erba del diavolo. Io so che il fumo è diverso perché non ha passione. E' leale. Quando verranno per te i tuoi emissari argentei, non ci sarà bisogno di gridare. Dovrai semplicemente volare insieme a loro come hai già fatto. Dopo averti raccolto invertiranno la direzione, e ci saranno quattro corvi che voleranno via”.

Sabato, 10 aprile, 1965

 

 

Continuavo a sperimentare brevi lampi di disassociazione, o lievi stati di realtà non ordinaria.

Un elemento della mia esperienza allucinogena con i funghi continuava a ricorrere nei miei pensieri: la soffice e oscura massa di buchi di spillo. Continuavo a visualizzarla come una bolla di grasso o di olio che incominciava ad attirarmi verso il suo centro. Era quasi come se il centro si aprisse e mi inghiottisse, e per brevi istanti provavo qualcosa che rassomigliava a uno stato di realtà non ordinaria. Come risultato soffrivo momenti di profonda agitazione, di angoscia e disagio, e mi sforzavo ostinatamente di porre fine alle esperienze non appena cominciavano.

Discussi con don Juan di questa condizione e gli chiesi consiglio. Sembrò non interessarsene e mi disse di non tenere conto delle esperienze perché erano prive di significato, o piuttosto prive di valore. Disse che le sole esperienze che meritavano il mio sforzo e il mio interesse sarebbero state quelle in cui avrei visto un corvo; qualsiasi altro tipo di ‘visione’ sarebbe stato semplicemente il prodotto delle mie paure. Mi rammentò ancora che per poter partecipare del fumo era necessario condurre una vita austera e tranquilla. Personalmente mi sembrava di aver raggiunto una soglia pericolosa. Gli dissi che sentivo di non poter andare avanti; nei funghi c'era qualcosa che mi spaventava veramente.

Nel passare in rassegna le immagini che rievocavo dalla mia esperienza allucinogena ero giunto all'inevitabile conclusione di aver visto il mondo in una maniera strutturalmente diversa dalla visione ordinaria. Negli altri stati di realtà non ordinaria che mi ero trovato a sperimentare, le forme e i contorni che avevo visualizzato erano sempre rimasti entro i confini della mia concezione visiva del mondo. Ma sotto l'influsso della mistura allucinogena che avevo fumato, la sensazione del vedere non era la stessa. Tutto quello che vedevo era di fronte a me in una diretta linea di visione; nulla era al di sotto o al di sopra di tale linea.

Ogni immagine aveva una irritante piattezza, e tuttavia, fatto piuttosto sconcertante, una grande profondità. Forse sarebbe più preciso dire che le immagini erano un conglomerato di dettagli incredibilmente nitidi, posti in campi di luce differente; la luce di tali campi si muoveva, creando un effetto di rotazione.

Dopo aver scandagliato la mia memoria e dopo essermi sforzato di ricordare, fui costretto a fare una serie di analogie o similitudini per poter ‘comprendere’ quello che avevo ‘visto’. La faccia di don Juan, per esempio, appariva come se egli fosse stato immerso nell'acqua. L'acqua sembrava muoversi in un continuo fluire sulla sua faccia e sui suoi capelli. Li ingrandiva a tal punto che riuscivo a vedere ogni poro della sua pelle come pure ogni capello del suo capo ogni volta che mettevo a fuoco la vista. D'altra parte, vedevo masse di materia piatte e piene di orli, ma che non si muovevano perché non c'era fluttuazione nella luce che da esse proveniva.

Chiesi a don Juan che cosa fossero le cose che avevo visto. Disse che siccome quella era la prima volta che vedevo come un corvo, le immagini non erano chiare o importanti, e che più tardi, con la pratica, sarei stato capace di riconoscere ogni cosa.

Introdussi la questione della differenza che avevo individuato nel movimento della luce. “Le cose vive”, rispose, “si muovono internamente, e un corvo può vedere con facilità quando qualcosa è morto, o sul punto di morire, perché il movimento si è arrestato o sta rallentando fino a fermarsi. Un corvo può anche capire quando qualcosa si muove troppo rapidamente, e per la stessa ragione può capire quando qualcosa si muove proprio bene”.

“Che cosa significa quando qualcosa si muove troppo rapidamente, o proprio bene?”.

“Significa che un corvo può effettivamente giudicare che cosa evitare e che cosa cercare. Quando qualcosa si muove internamente con troppa rapidità, significa che è sul punto di esplodere con violenza, o di balzare in avanti, e un corvo lo eviterà. Quando qualcosa si muove internamente proprio bene, è una vista gradita e il corvo la ricercherà”.

“Le rocce si muovono internamente?”.

“No, le rocce no, né gli animali morti, né gli alberi morti. Ma sono bellissimi da guardare. È questa la ragione per cui i corvi volano intorno ai cadaveri. Amano guardarli; non c'è nessuna luce che si muove dentro di essi”.

“Ma quando la carne va in putrefazione non si trasforma o si muove?”.

“Sì, ma quello è un movimento differente. Ciò che un corvo vede allora sono milioni di cose che si muovono dentro la carne con una loro luce, ed è una cosa che ai corvi piace vedere. È davvero una vista indimenticabile ”.

“Voi l'avete visto, don Juan?”.

“Lo può vedere chiunque impari a diventare un corvo. Lo vedrai anche tu”.

A questo punto feci a don Juan una domanda inevitabile.

“Sono davvero diventato un corvo? Voglio dire, se qualcuno mi avesse visto avrebbe pensato che ero un comune corvo?”.

“No. Quando hai a che fare con il potere degli alleati non puoi ragionare in questo modo. Domande del genere non hanno nessun significato, e tuttavia diventare un corvo è la cosa più semplice di tutte. È quasi come uno scherzo; ha poca utilità. Come ti ho già detto, il fumo non è fatto per chi ricerca il potere. È adatto solo a chi anela vedere. Ho imparato a diventare un corvo perché questi uccelli sono i più perfetti di tutti. Nessun altro uccello li infastidisce, tranne, forse, le grosse aquile affamate, ma i corvi volano in gruppi e si possono difendere. Neanche gli uomini infastidiscono i corvi, e questo è un punto importante. Qualsiasi uomo può distinguere una grande aquila, specialmente un'aquila di tipo insolito, o qualsiasi altro grande uccello insolito, ma chi si cura di un corvo? Un corvo è al sicuro. È ideale per dimensioni e per natura. Può andare tranquillamente in qualsiasi luogo senza attirare l'attenzione. D'altra parte è possibile trasformarsi in un leone o in un orso, ma è piuttosto pericoloso. Sono creature troppo grosse, ci vuole troppa energia per trasformarsi in una di esse. Si può anche diventare un grillo, o una lucertola, o anche una formica, ma è ancora più pericoloso, perché gli animali grossi mangiano quelli piccoli”.

Immaginai che ciò che aveva detto volesse dire che ci si trasformava veramente in un corvo, o in un grillo, o in qualsiasi altra cosa. Ma don Juan insisté che stavo equivocando.

“Ci vuole moltissimo tempo per imparare a essere un corvo vero e proprio”, disse. “Ma tu non ti sei trasformato, né hai smesso di essere un uomo. C'è qualcosa d'altro”.

“Mi potete dire che cos'è questo qualcosa d'altro, don Juan?”.

“Forse ormai lo sai da te. Forse se tu non avessi tanta paura di diventare matto, o di perdere il tuo corpo, comprenderesti questo meraviglioso segreto. Ma forse per comprendere quel che intendo dovrai aspettare finché non avrai perso la tua paura”.

 


11.

 

 

L'ultimo avvenimento che registrai nei miei appunti sul campo ebbe luogo nel settembre del 1965. Fu l'ultimo degli insegnamenti di don Juan. Lo definii “uno stato speciale di realtà non ordinaria” perché non fu il prodotto di una delle piante che avevo usato prima. Sembrò che don Juan l'avesse evocato per mezzo di un'attenta manipolazione di suggestioni riguardanti la sua persona; vale a dire, si comportò davanti a me in maniera così abile da creare la netta e continuata impressione che non fosse in realtà lui stesso, ma qualcuno che lo impersonava. Come risultato provai un profondo senso di conflitto; volevo credere che fosse don Juan, e tuttavia non ne potevo essere certo. Il conflitto fu accompagnato da un terrore conscio, così acuto da menomare la mia salute per parecchie settimane. Dopo quel fatto pensai che sarebbe stato saggio mettere fine al mio noviziato. Da allora in poi non sono mai più stato un partecipante, tuttavia don Juan non ha mai cessato di considerarmi un novizio. Ha considerato la mia defezione solo come un necessario periodo di riepilogo, un altro passo nell'apprendimento, che potrebbe durare indefinitamente. Dopo di allora, tuttavia, non ha mai più esposto la sua conoscenza.

Scrissi il resoconto dettagliato della mia ultima esperienza quasi un mese dopo che questa aveva avuto luogo, sebbene avessi già preso abbondanti appunti sui suoi punti salienti il giorno dopo, durante le ore di grande agitazione emotiva che precedettero il culmine del mio terrore.

Venerdì, 29 ottobre, 1965

 

 

Giovedì, 30 settembre, 1965, andai a far visita a don Juan. I brevi e superficiali stati di realtà non ordinaria erano stati persistenti a dispetto dei miei deliberati tentativi di mettere loro fine, o di liberarmene come don Juan aveva suggerito. Sentivo che la mia condizione andava peggiorando, perché la durata di tali stati aumentava. Diventai acutamente consapevole del rumore degli aeroplani. Il suono dei loro motori mentre passavano in alto catturava inevitabilmente la- mia attenzione e la fissava, al punto che sentivo di seguire l'aeroplano come se vi fossi dentro, o come se volassi insieme a esso. Questa sensazione era molto fastidiosa. La mia incapacità di sbarazzarmene produsse in me una profonda angoscia.

Don Juan, dopo aver ascoltato tutti i dettagli, concluse che soffrivo di una perdita d'anima. Gli dissi che avevo quelle allucinazioni fin dal momento in cui avevo fumato i funghi, ma insisté che erano uno sviluppo nuovo. Disse che prima avevo avuto paura, e avevo semplicemente “sognato cose assurde”, ma che ora ero veramente stregato. La prova era che il rumore degli aeroplani in volo poteva portarmi via. Ordinariamente, disse, il rumore di un ruscello o di un fiume può prendere al laccio l'uomo stregato che ha perso la sua anima, e portarlo via fino a condurlo alla morte. Mi chiese quindi di descrivere tutte le attività che avevano preceduto le mie allucinazioni. Elencai tutte le attività che riuscii a ricordare, e dal mio racconto dedusse il luogo in cui avevo perduto l'anima.

Don Juan sembrava eccessivamente preoccupato, uno stato che gli era del tutto insolito. Ciò, naturalmente, accrebbe la mia apprensione. Disse che non aveva nessuna idea precisa in merito a chi avesse catturato la mia anima, ma, chiunque fosse, costui intendeva senza dubbio uccidermi o farmi ammalare gravemente. Quindi mi diede delle precise istruzioni a proposito di una ‘forma da combattimento’, una specifica posizione fisica da conservare mentre rimanevo sul mio posto benefico. Dovevo conservare questa posizione che egli chiamava una forma (Una forma para pelear).

Gli chiesi a che cosa servisse tutto ciò, e chi avrei dovuto combattere. Rispose che si sarebbe allontanato per vedere chi mi aveva preso l'anima, e per scoprire se era possibile riottenerla indietro. Nel frattempo, dovevo rimanere al mio posto fino al suo ritorno. La forma da combattimento era in realtà una precauzione, disse, in caso che accadesse qualcosa durante la sua assenza, e doveva essere usata se venivo assalito. Consisteva nel battere le mani sul polpaccio e sulla coscia della gamba sinistra in una specie di danza che dovevo effettuare mentre fronteggiavo l'assalitore.

Mi avvertì che la forma doveva essere adottata solo in momenti di estrema crisi, ma finché non c'era pericolo in vista avrei dovuto semplicemente sedere a gambe incrociate sul mio posto. Tuttavia, in circostanze di estremo pericolo, disse, avrei potuto ricorrere a un estremo mezzo di difesa, scagliando un oggetto contro il nemico. Mi disse che ordinariamente si scaglia un oggetto dotato di potere, ma dal momento che non ne possedevo nessuno ero costretto a usare qualsiasi ciottolo che si adattasse al palmo della mia mano destra, un sasso che potessi tenere in mano premendolo con il pollice contro il palmo. Disse che tale tecnica doveva essere usata solo se si era indiscutibilmente in pericolo di vita. Il lancio dell'oggetto doveva essere accompagnato da un grido di guerra, un urlo che aveva la proprietà di dirigere l'oggetto al suo bersaglio. Mi raccomandò enfaticamente di essere attento e ponderato per quel che riguardava il grido e di non usarlo a casaccio, ma solo in “condizioni di estrema gravita”.

Gli chiesi che cosa intendesse per “condizioni di estrema gravita”. Rispose che l'urlo o grido di guerra era qualcosa che rimaneva con un uomo per tutta la durata della sua vita; quindi doveva essere buono fin dall'inizio. E la sola maniera per dargli origine correttamente consisteva nel trattenere la propria paura e la propria fretta naturali finché non si fosse assolutamente colmi di potere, e quindi il grido sarebbe prorotto con direzione e forza. Disse che erano queste le condizioni di gravita in cui si doveva lanciare l'urlo.

Gli chiesi di spiegarsi in merito alla forza che si supponeva dovesse riempirmi prima di emettere l'urlo. Rispose che era qualcosa che correva attraverso il corpo provenendo dal terreno sul quale si era; era una specie di potere che emanava dal posto benefico, per essere esatti. Era una forza che spingeva fuori il grido. Se tale forza veniva trattata appropriatamente, il grido di battaglia sarebbe stato perfetto.

Gli chiesi ancora se pensava che mi sarebbe accaduto qualcosa. Disse che non ne sapeva nulla e mi ammonì drammaticamente di rimanere incollato al mio posto finché era necessario, perché quella era la sola protezione che avevo contro qualsiasi cosa potesse accadere.

Cominciai a sentirmi spaventato e lo pregai di essere più specifico. Rispose che tutto quello che sapeva era che non avrei dovuto muovermi in nessuna circostanza; non dovevo andare né in casa né nella boscaglia. Soprattutto, disse, non avrei dovuto pronunciare una sola parola, nemmeno a lui. Disse che potevo cantare le canzoni insegnatemi da Mescalito se mi sentivo troppo spaventato, e quindi aggiunse che ne sapevo già troppo su queste cose per dover essere ammonito come un bambino sull'importanza dell'eseguire tutto correttamente.

Le sue ammonizioni produssero in me un profondo stato di angoscia. Ero sicuro che si aspettava che accadesse qualcosa. Gli chiesi perché mi aveva raccomandato di cantare le canzoni insegnatemi da Mescalito, e che cosa pensava che sarebbe venuto a spaventarmi. Rise e disse che avrei potuto aver paura a rimanere solo. Si diresse verso la casa, entrò e si chiuse dietro la porta. Guardai l'orologio, erano le sette di sera. Rimasi a lungo a sedere tranquillamente. Dalla camera di don Juan non veniva alcun rumore. Tutto era tranquillo. Pensai di fare un salto all'automobile per prendere la mia giacca a vento, ma non osai contravvenire al consiglio di don Juan. Non avevo sonno, ma ero stanco; il vento freddo mi rendeva impossibile riposare.

Quattro ore più tardi udii don Juan camminare intorno alla casa. Pensai che fosse uscito per il retro per andare a orinare nei cespugli. A questo punto mi chiamò ad alta voce.

“Hey ragazzo! Hey ragazzo! Ho bisogno di te”, disse.

Fui sul punto di alzarmi per andare da lui. La voce era la sua, ma non il tono, e le parole non erano quelle che usava di solito. Don Juan non mi aveva mai chiamato “Hey ragazzo!”. Quindi rimasi dov'ero. Cominciai a sentire un gelo su per la schiena mentre ricominciava a gridare usando la stessa frase, o una simile.

Lo udii girare intorno al retro della casa. Inciampò in una catasta di legna come se non avesse saputo che era lì. Quindi venne sotto il porticato e si mise a sedere accanto alla porta con la schiena contro il muro. Sembrava più pesante del solito. I suoi movimenti non erano lenti o sgraziati, solo più pesanti. Si lasciò cadere pesantemente al suolo, invece di scivolare agilmente come faceva di solito. Inoltre, quello non era il suo posto, e in nessuna circostanza don Juan si sarebbe mai seduto da un'altra parte.

Poi riprese a parlarmi; mi chiese perché mi rifiutavo di venire quando aveva bisogno di me. Parlava ad alta voce. Non volevo guardarlo, e tuttavia mi sentii costretto a osservarlo. Cominciò a dondolarsi leggermente da una parte all'altra. Cambiai la mia posizione, adottai la forma da combattimento che mi aveva insegnato, e mi volsi per fronteggiarlo. Avevo i muscoli rigidi e stranamente tesi. Non so cosa mi spinse ad adottare la forma da combattimento, ma forse fu perché credevo che don Juan stesse deliberatamente tentando di spaventarmi col creare l'impressione che la persona che vedevo non fosse in realtà lui stesso.

Pensai che facesse molta attenzione a compiere gesti inconsueti per stabilire il dubbio nella mia mente. Ero spaventato, ma sentivo ancora di essere al di sopra di tutto ciò, perché stavo effettivamente passando in rassegna e analizzando tutta la situazione.

A questo punto don Juan si alzò. I suoi movimenti mi erano del tutto inconsueti. Protese le braccia in avanti e si spinse in su, sollevando prima la parte posteriore; quindi si afferrò alla porta e raddrizzò la parte superiore del corpo. Ero stupito di quanto i suoi movimenti mi fossero profondamente familiari, e del senso di paura che aveva creato in me facendomi vedere un don Juan che non si muoveva come don Juan.

Fece un paio di passi verso di me. Si teneva la parte inferiore della schiena con le due mani come se cercasse di raddrizzarla, o come se sentisse dolore. Si lamentava e sbuffava. Sembrava che avesse il naso otturato. Disse che mi avrebbe preso con sé, e mi ordinò di alzarmi e di seguirlo. Si diresse verso la parte occidentale della casa. Cambiai di posizione per fronteggiarlo. Si voltò verso di me. Io non mi mossi dal mio posto, ci ero incollato sopra.

“Hey ragazzo!” urlò. “Ti ho detto di venire con me. Se non vuoi venire ti trascino”.

Fece qualche passo verso di me. Incominciai a battermi con la mano il polpaccio e la coscia, e a danzare velocemente. Arrivò fino al limite del porticato di fronte a me, e mi toccò quasi. Preparai freneticamente il corpo ad adottare la posizione conveniente per scagliare il sasso, ma cambiò direzione e si allontanò da me dirigendosi verso i cespugli alla mia destra. A un certo momento, mentre si allontanava, si voltò di scatto, ma lo stavo fronteggiando.

Uscì dalla mia vista. Conservai ancora un poco la mia posizione da combattimento, ma poiché non lo vedevo più mi rimisi a sedere a gambe incrociate con la schiena appoggiata al sasso. Ormai ero davvero spaventato. Volevo fuggire, tuttavia quel pensiero mi atterriva ancora di più. Sentii che se mi avesse sorpreso mentre andavo verso l'automobile sarei stato completamente alla sua mercé Incominciai a cantare le canzoni del peyote che conoscevo, ma in certo qual modo sentii che lì non avevano potere. Servivano solo per calmare, tuttavia mi tranquillizzarono. Le cantai molte volte di seguito.

Verso le due e quarantacinque del mattino sentii un rumore dentro la casa. Cambiai immediatamente di posizione. La porta fu spalancata con violenza e don Juan si trascinò fuori. Respirava affannosamente e si teneva la gola. Si inginocchiò davanti a me e gemette. Mi chiese con voce stridula e lamentosa di venire ad aiutarlo. Quindi urlò di nuovo e mi ordinò di venire. Emetteva dei suoni gorgoglianti. Mi supplicò di andare ad aiutarlo perché qualcosa lo soffocava. Strisciò sulle mani e sui piedi finché non mi fu vicino di poco più di un metro. Disse: “Vieni qui!”. Poi si alzò. Teneva le braccia protese verso di me. Sembrava pronto ad afferrarmi. Pestai il piede al suolo e battei la mano sul polpaccio e sulla coscia. Ero fuori di me dallo spavento.

Si arrestò e si diresse verso il fianco della casa e quindi nella boscaglia. Cambiai di posizione per fronteggiarlo. Poi mi misi di nuovo a sedere. Non volevo più cantare. La mia energia sembrò svanire. Mi doleva tutto il corpo; avevo tutti i muscoli irrigiditi e dolorosamente contratti. Non sapevo che cosa pensare. Non riuscivo a decidere se essere o no in collera con don Juan. Pensai di saltargli addosso di sorpresa, ma sentivo in qualche modo che mi avrebbe schiacciato come uno scarafaggio. Volevo davvero gridare. Provavo una profonda disperazione; il pensiero che don Juan stesse facendo di tutto per atterrirmi mi faceva quasi piangere. Ero incapace di trovare una spiegazione per la sua terrificante esibizione di istrionismo; i suoi movimenti erano così artificiosi che incominciavo a confondermi. Non era come se don Juan stesse cercando di muoversi come una donna; era come se una donna stesse cercando di muoversi come don Juan. Ebbi l'impressione che stesse davvero cercando di camminare e muoversi con la ponderatezza di don Juan, ma che fosse troppo pesante e non avesse la sua agilità. La persona davanti a me, chiunque essa fosse, creava l'impressione di essere una donna giovane e pesante che cercava di imitare i lenti movimenti di un vecchio agile.

Questi pensieri mi gettarono in uno stato di panico. Un grillo incominciò a chiamare, vicinissimo. Notai la ricchezza del suo tono; immaginai che avesse una voce di baritono. Il richiamo incominciò a svanire. Improvvisamente tutto il mio corpo si scosse. Assunsi la posizione da combattimento e fronteggiai la direzione da cui era venuto il richiamo del grillo. Il suono stava trascinandomi via; aveva incominciato a prendermi in trappola prima che mi rendessi conto che era soltanto simile al richiamo di un grillo. Il suono si avvicinò nuovamente, diventò fortissimo. Incominciai a cantare le canzoni del peyote a voce sempre più alta. Improvvisamente il grillo tacque. Mi misi a sedere immediatamente, ma continuai a cantare. Un attimo dopo vidi la forma di un uomo che correva verso di me dalla direzione opposta a quella da cui veniva il richiamo del grillo. Battei la mano sulla coscia e sul polpaccio e pestai il piede per terra vigorosamente, freneticamente. La forma mi passò accanto velocissima, quasi toccandomi. Assomigliava a un cane. Provai una paura così terribile da rimanere irrigidito. Non posso ricordare nessun'altra cosa che provai o pensai.

La rugiada mattutina stava ridandomi vigore. Qualunque cosa fosse il fenomeno, sembrava essersene andato. Erano le cinque e quarantotto del mattino quando don Juan aprì tranquillamente la porta e uscì. Protese le braccia, sbadigliando, e mi gettò uno sguardo. Fece due passi verso di me, prolungando il suo sbadiglio. Vidi i suoi occhi che mi guardavano attraverso le palpebre socchiuse. Balzai in piedi. Sapevo che chiunque, o qualunque cosa, mi fosse dinnanzi, non era don Juan.

Raccolsi da terra un piccolo sasso dagli orli appuntiti. Era vicino alla mia mano destra. Non lo guardai; mi limitai a tenerlo in mano premendolo col pollice contro le altre dita distese e adottai la forma insegnatami da don Juan. Nel giro di pochi secondi mi sentii riempire da uno strano vigore. Quindi urlai e gli scagliai contro il sasso. Pensai che fosse un grido magnifico. In quel momento non mi curai se fossi vissuto o morto. Sentii che il grido era grandioso nella sua potenza. Era lacerante e prolungato, e guidò effettivamente la mia mira. La figura davanti a me vacillò, emise uno stridulo grido, e si avviò barcollando verso il fianco della casa e poi verso i cespugli.

Impiegai due ore per riacquistare la calma. Non riuscivo più a stare seduto; continuavo a saltellare sullo stesso posto. Dovevo respirare attraverso la bocca per immettere abbastanza aria.

Alle undici don Juan uscì di nuovo. Stavo per balzare in piedi, ma i movimenti erano i suoi. Andò direttamente al suo posto e si mise a sedere nella sua solita maniera familiare. Mi guardò e sorrise. Era don Juan! Andai verso di lui e, invece di essere in collera, gli baciai la mano. Allora credevo davvero che non fosse stato lui a creare un effetto drammatico, bensì qualcuno che lo aveva impersonato per farmi del male o uccidermi.

La conversazione incominciò con speculazioni in merito all'identità di una persona femminile che si supponeva avesse preso la mia anima. Quindi don Juan mi chiese di raccontargli ogni particolare della mia esperienza.

Gli narrai l'intera successione degli avvenimenti in maniera molto ponderata. Rise tranquillamente, come se si fosse trattato di uno scherzo. Quando ebbi finito disse: “Ti sei comportato benissimo. Hai vinto la battaglia per la tua anima. Ma questa faccenda è più grave di quanto pensassi. Ieri notte la tua vita non valeva due soldi. È un fortuna che tu abbia imparato qualcosa in passato. Se tu non avessi avuto un po' di preparazione saresti ormai morto. Perché la persona che hai visto ieri notte, chiunque essa fosse, intendeva farla finita con te”.

“Come è possibile, don Juan, che abbia potuto prendere la vostra forma?”.

“È semplicissimo. È una diablera, e ha un buon aiutante dall'altra parte del mondo. Ma non è stata troppo brava ad assumere le mie sembianze, e tu l'hai colta nel suo inganno”.

“Un aiutante dall'altra parte è la stessa cosa di un alleato?”.

“No, un aiutante è l'aiuto di un diablero. Un aiutante è uno spirito che vive dall'altra parte del mondo e aiuta il diablero a provocare malattia e dolore. Lo aiuta a uccidere”.

“Un diablero può avere anche un alleato, don Juan?”.

“Sono i diablero che hanno alleati, ma di solito un diablero, prima di poter domare un alleato, ha un aiutante che lo assiste nei suoi compiti”.

“E la donna che ha preso il vostro aspetto, don Juan? Costei ha dunque solo un aiutante e non un alleato?”.

“Non so se abbia o no un alleato. Alcune persone non amano il potere di un alleato e preferiscono un aiutante. Domare un alleato è un lavoro duro. È più facile prendere un aiutante dall'altra parte”.

“Pensate che io potrei prendere un aiutante?”.

“Prima di saperlo dovrai imparare molto di più. Siamo di nuovo all'inizio, quasi come nel primo giorno quando sei venuto da me e mi hai chiesto di insegnarti di Mescalito, e io non potevo perché non avresti compreso. Quell'altra parte è il mondo dei diablero. Penso che la cosa migliore sia raccontarti quello che sento così come me lo ha raccontato il mio benefattore. Era un diablero e un guerriero; la sua vita era incline alla forza e alla violenza del mondo. Ma io non sono nessuna delle due cose. Questa è la mia natura, tu hai visto il mio mondo fin dal principio. Quanto al mostrarti il mondo del mio benefattore, posso solo condurti fin sulla soglia, e tu dovrai decidere per tuo conto; dovrai imparare con le tue sole forze. Devo ammettere adesso di aver fatto un errore. E' molto meglio, lo vedo ora, incominciare come ho fatto io stesso. Allora è più facile rendersi conto di quanto la differenza sia semplice, e tuttavia profonda. Un diablero è un diablero, e un guerriero è un guerriero. Oppure un uomo può essere tutti e due. Ci sono abbastanza persone che sono tutte e due le cose. Ma un uomo che attraversa soltanto i sentieri della vita è ogni cosa. Oggi non sono né un guerriero né un diablero. Per me esiste solo il camminare lungo sentieri che hanno un cuore, lungo qualsiasi sentiero che abbia un cuore. Lungo questo io cammino, e la sola prova che vale è attraversarlo in tutta la sua lunghezza. E qui io cammino guardando, guardando, senza fiato”.

Fece una pausa; il suo volto rivelava uno stato d'animo particolare: sembrava insolitamente serio. Non sapevo che cosa chiedere o dire. Proseguì: “La cosa particolare da imparare è come arrivare alla frattura tra i mondi e come entrare nell'altro mondo. C'è una frattura tra i due mondi, il mondo dei diablero e il mondo degli uomini viventi. C'è un luogo dove i due mondi si sovrappongono: là è la frattura. Si apre e si chiude come una porta nel vento. Per giungervi un uomo deve esercitare la sua volontà. Deve, dovrei dire, sviluppare un desiderio indomabile, un attaccamento sincero. Ma lo deve fare senza l'aiuto di nessun potere o di nessun uomo. L'uomo deve riflettere e desiderare per proprio conto fino a un momento in cui il suo corpo è pronto per intraprendere il viaggio. Tale momento è annunciato da un prolungato scuotimento degli arti e da un violento vomito. Di solito l'uomo non può né dormire né mangiare, e si indebolisce. Quando le convulsioni non si arrestano più l'uomo è pronto ad andare, e la frattura tra i due mondi gli appare proprio davanti agli occhi, come una porta monumentale, una frattura che va su e giù. Quando la frattura si apre l'uomo deve scivolarvi dentro. È difficile vedere dall'altra parte della barriera. C'è un gran vento, come una tempesta di sabbia. Il vento turbina intorno. L'uomo deve allora camminare in una qualsiasi direzione. Sarà un viaggio lungo o breve, a seconda della sua forza di volontà. Un uomo dalla volontà forte fa un viaggio breve. Un uomo indeciso e debole fa un viaggio lungo e precario. Dopo questo viaggio l'uomo arriva a una specie di altipiano. È possibile distinguerne con chiarezza alcuni degli aspetti. È un piano al di sopra del suolo. È possibile riconoscerlo per via del vento che lì diventa ancora più violento, flagella e sibila tutto intorno. Sopra all'altipiano c'è l'ingresso per l'altro mondo, e lì c'è una pelle che separa i due mondi; i morti vi passano attraverso senza un rumore, ma noi dobbiamo romperla con un grido. Il vento aumenta di forza, lo stesso vento sfrenato che soffia sull'altipiano. Quando il vento ha raccolto forza sufficiente, l'uomo deve urlare e il vento lo sospingerà attraverso l'apertura. Qui la sua volontà deve essere inflessibile, così da poter combattere il vento. Tutto quel che gli serve è una leggera spinta; non ha alcun bisogno di essere soffiato fino ai confini dell'altro mondo. Una volta giunto dall'altra parte, l'uomo dovrà errare senza meta. Se avrà fortuna troverà un aiutante lì vicino; non troppo lontano dall'entrata. L'uomo dovrà chiedergli aiuto. Con parole sue dovrà chiedere all'aiutante di ammaestrarlo e fare di lui un diablero. Quando l'aiutante è d'accordo, uccide l'uomo sull'istante, e mentre è morto lo ammaestra. La maggior parte delle volte, tuttavia, si incontrano dei brujo minori che hanno molto poco da insegnare. Ma né tu né loro avete il potere di rifiutare. L'eventualità migliore consiste nel trovare un aiutante di sesso maschile per non diventare preda di una diablera che farebbe soffrire in una maniera incredibile. Le donne sono sempre così. Ma questo dipende solo dalla fortuna, a meno che il proprio benefattore non sia egli stesso un grande diablero, nel qual caso avrà molti aiutanti nell'altro mondo e potrà guidare a incontrare un particolare aiutante. Il mio benefattore era un uomo del genere; mi guidò a incontrare il suo spirito aiutante. Dopo il tuo ritorno non sarai più lo stesso uomo. Sarai impegnato a ritornare spesso a visitare il tuo aiutante. E sarai impegnato a vagare sempre più lontano dall'entrata, finché alla fine un giorno sarai andato troppo lontano e non sarai capace di ritornare. Qualche volta un diablero può catturare un'anima e sospingerla attraverso l'ingresso lasciandola in custodia al suo aiutante mentre egli deruba la persona di tutta la sua forza di volontà. In altri casi, come il tuo per esempio, l'anima appartiene a una persona dalla volontà forte, e il diablero la può tenere nella sua tasca, perché è troppo rischioso portarla diversamente. In tali circostanze, come nella tua, il problema può essere risolto con un combattimento: un combattimento in cui il diablero o vince tutto o perde tutto. Questa volta ha perso il combattimento e ha dovuto liberare la tua anima. Se avesse vinto l'avrebbe portata al suo aiutante, per sempre”.

“Ma come ho vinto?”.

“Non ti sei mosso dal tuo posto. Se ti fossi mosso di un centimetro ti avrebbe distrutto. Ha scelto il momento in cui ero lontano come il migliore per attaccare, e lo ha fatto bene. Ha fallito perché non ha tenuto conto della tua natura, che è violenta, e anche perché tu non ti sei smosso dal posto sul quale sei invincibile”.

“Come mi avrebbe ucciso se mi fossi mosso?”.

“Ti avrebbe colpito come un fulmine. Ma soprattutto si sarebbe tenuta la tua anima e tu saresti morto di consunzione”.

“Che cosa succederà adesso, don Juan?”.

“Nulla. Hai riottenuto la tua anima. È stata una buona battaglia. Hai imparato molte cose ieri notte”.

Dopo incominciammo a cercare la pietra che avevo scagliato. Don Juan disse che se fossimo riusciti a trovarla potevamo essere completamente sicuri che la questione fosse conclusa. Cercammo per quasi tre ore. Sentivo che l'avrei riconosciuta; ma non ci riuscii.

Lo stesso giorno al calar della sera don Juan mi condusse tra le colline intorno alla casa. Là mi diede lunghe e dettagliate istruzioni su specifici metodi di combattimento. A un certo momento, nel corso della ripetizione di certi passi prescritti, mi trovai solo. Ero corso su per un pendio ed ero rimasto senza fiato. Sudavo copiosamente e tuttavia sentivo freddo. Chiamai don Juan parecchie volte, ma non rispose e cominciai a provare una strana apprensione. Udii un fruscio nel sottobosco, come se qualcuno stesse venendo verso di me. Ascoltai attentamente ma il rumore cessò. Poi ritornò, più forte e più vicino. In quel momento pensai che gli avvenimenti della notte precedente stessero per ripetersi. Nel giro di pochi secondi il mio terrore crebbe spropositatamente. Il fruscio nel sottobosco si avvicinò, e la mia forza svanì. Volli gridare o piangere, scappare o svenire. Le ginocchia mi vennero meno; caddi a terra gemendo. Non riuscii nemmeno a chiudere gli occhi. Dopo di ciò ricordo soltanto che don Juan aveva acceso un fuoco e mi strofinava i muscoli contratti delle braccia e delle gambe. Rimasi per molte ore in uno stato di profonda angoscia. Più tardi don Juan spiegò la mia reazione sproporzionata come un avvenimento comune. Gli dissi che non riuscivo a immaginare logicamente che cosa avesse causato il mio panico, e mi rispose che non era stata la paura di morire, ma piuttosto la paura di perdere l'anima, paura comune tra gli uomini che non hanno un intento inflessibile.

Quella esperienza fu l'ultimo degli insegnamenti di don Juan. Da allora in poi non ho mai più cercato le sue lezioni. E sebbene don Juan non abbia mutato il suo atteggiamento di benefattore nei miei confronti, credo di essere stato sconfitto dal primo nemico di un uomo di conoscenza.

 

 


PARTE SECONDA:
UN'ANALISI STRUTTURALE

 

 

Il seguente schema strutturale, tratto dai dati riguardanti gli stati di realtà non ordinaria presentati nella parte precedente di quest'opera, è concepito come un tentativo di rivelare la coesione interna e la logica rigorosa degli insegnamenti di don Juan. La struttura, così come la giudico io, è composta di quattro concetti che costituiscono le unità fondamentali: 1) uomo di conoscenza; 2) un uomo di conoscenza ha un alleato; 3) un alleato ha una regola; e 4) la regola è corroborata da un consenso speciale. Queste quattro unità sono a loro volta composte di un certo numero di idee sussidiarie; così l'intera struttura include tutti i concetti dotati di significato che furono presentati fino al momento in cui interruppi il noviziato. In un certo senso tali unità rappresentano successivi livelli di analisi, in cui ciascun livello modifica il precedente2.

Poiché questa struttura concettuale dipende completamente dal significato di tutte le sue unità, a questo punto sembra pertinente il seguente chiarimento: in tutto il presente lavoro il significato è stato reso così come io lo ho inteso. I concetti componenti della conoscenza di don Juan così come li ho presentati potrebbero non essere l'esatto duplicato di ciò che fu detto da lui stesso. Nonostante tutti i miei sforzi per rendere questi concetti il più fedelmente possibile, il loro significato può essere stato forzato dai miei tentativi di classificazione. Tuttavia la disposizione delle quattro unità principali di questo schema strutturale è una successione logica che appare libera dall'influenza di espedienti di classificazione estranei dovuti a me. Ma, per quanto riguarda le idee componenti di ciascuna unità principale, è stato impossibile eliminare la mia influenza personale. In certi punti sono necessari elementi di classificazione estranei al fine di render comprensibili i fenomeni. E, se tale compito qui doveva esser compiuto, era necessario procedere a zigzag avanti e indietro dai significati addotti e dallo schema di classificazione del maestro ai significati e agli espedienti di classificazione del novizio.

 

 


L'ORDINE OPERATIVO.

 

 

La prima unità: uomo di conoscenza.

 

 

A uno stadio iniziale del mio noviziato don Juan asserì che fine dei suoi insegnamenti era “mostrare come diventare un uomo conoscenza”. Uso tale affermazione come punto di partenza. È ovvio che diventare un uomo di conoscenza era un fine operazionale. Ed è anche ovvio che ogni parte degli ordinati insegnamenti di don Juan. era condotta per realizzare quel fine in un modo o in un altro. Il mio ragionamento qui è che in tali circostanze ‘uomo di conoscenza’, essendo un fine operazionale, deve essere stato indispensabile per spiegare un qualche ‘ordine operativo’. Quindi è legittimo concludere che, per poter comprendere tale ordine operativo se ne deve comprendere l'obiettivo: uomo di conoscenza.

Dopo aver stabilito ‘uomo di conoscenza’ come la prima unità strutturale, mi è stato possibile ordinare con sicurezza i seguenti sette concetti come suoi componenti appropriati : 1) diventare un uomo di conoscenza è un fatto di apprendimento; 2) un uomo di conoscenza ha un intento inflessibile; 3) un uomo di conoscenza possiede lucidità mentale; 4) diventare un uomo di conoscenza è un fatto di sforzo strenuo; 5) un uomo di conoscenza è un guerriero; 6) diventare un uomo di conoscenza è un processo incessante; e 7) un uomo di conoscenza ha un alleato.

Questi sette concetti erano dei temi. Correvano attraverso tutti gli insegnamenti, determinando il carattere dell'intera conoscenza di don Juan. Visto che il fine operazionale dei suoi insegnamenti era produrre un uomo di conoscenza, tutto quello che insegnava era impregnato delle specifiche caratteristiche di ciascuno dei sette temi. Tutti insieme componevano il concetto ‘uomo di conoscenza’ come un modo di agire, una maniera di comportarsi, che era il risultato finale di una preparazione lunga e rischiosa. ‘Uomo di conoscenza’, tuttavia, non era una guida per il comportamento, bensì una serie di principi che racchiudevano tutte le circostanze non ordinarie pertinenti alla conoscenza insegnata.

Ciascuno dei sette temi era composto, a sua volta, di vari altri concetti, che coprivano le loro differenti sfaccettature.

Dalle asserzioni di don Juan fu possibile desumere che un uomo di conoscenza poteva essere un diablero, vale a dire, uno stregone che pratica la magia nera. Disse che il suo maestro era stato un diablero e che lui stesso lo era stato in passato, sebbene avesse poi cessato di preoccuparsi di certi aspetti della pratica della stregoneria. Dal momento che il fine del suo insegnamento era mostrare come diventare un uomo di conoscenza, e dal momento che la sua conoscenza consisteva nell'essere un diablero, può esserci stata una connessione intrinseca tra uomo di conoscenza e diablero. Sebbene don Juan non usasse mai i due termini come termini intercambiabili, la probabile connessione faceva sorgere la possibilità che ‘uomo di conoscenza’ con i suoi sette temi e i loro concetti componenti abbracciasse, teoricamente, tutte le circostanze che avrebbero potuto presentarsi nel corso del diventare un diablero.

Diventare un uomo di conoscenza è un fatto di apprendimento

 

 

Il primo tema rendeva implicito che imparare era la sola maniera possibile per diventare un uomo di conoscenza, e ciò a sua volta implicava l'atto del fare uno sforzo risoluto per raggiungere un fine. Diventare un uomo di conoscenza era il risultato finale di un processo, in quanto opposto a un'acquisizione immediata attraverso un atto di grazia o attraverso il conferimento di poteri soprannaturali. La plausibilità dell'imparare come diventare un uomo di conoscenza garantiva l'esistenza di un sistema per insegnare come diventarlo.

Il primo tema aveva tre componenti: 1) per diventare un uomo di conoscenza non è necessario alcun requisito manifesto; 2) ci sono alcuni requisiti non manifesti; 3) la decisione in merito a chi può imparare a diventare un uomo di conoscenza è presa da un potere impersonale.

Apparentemente non c'era alcun prerequisito manifesto che avrebbe determinato chi era o chi non era qualificato ad apprendere come diventare un uomo di conoscenza. In teoria il compito era aperto a chiunque desiderasse perseguirlo, in pratica, però, tale punto di vista non concordava col fatto che don Juan, in quanto maestro, sceglieva i suoi novizi.

In tali circostanze, in effetti, qualsiasi maestro avrebbe scelto i suoi novizi mettendoli a confronto con certi prerequisiti non manifesti. La natura specifica di tali prerequisiti non era mai formalizzata; don Juan suggerì soltanto che esistevano certi indizi da tener presenti quando si prendeva in esame un eventuale novizio. Si suppone che gli indizi a cui alludeva rivelassero se il candidato aveva o no una certa disposizione di carattere, che don Juan chiamava ‘intento inflessibile’.

Nondimeno, la decisione ultima in merito a chi poteva imparare a diventare un uomo di conoscenza era lasciata a un potere impersonale noto a don Juan, ma estraneo alla sua sfera di volontà. A tale potere impersonale era attribuita la facoltà di indicare la persona giusta permettendole di compiere un atto di natura straordinaria, o creando intorno a tale persona una serie di circostanze particolari. Quindi non c'era mai un conflitto tra l'assenza di prerequisiti manifesti e l'esistenza di prerequisiti non manifesti, non rivelati.

L'uomo scelto in tal modo diventava il novizio. Don Juan lo chiamava l'escogido, ‘colui che era stato scelto’. Ma essere un escogido significava molto di più che essere un semplice novizio. Un escogido, in virtù del puro atto dell'essere scelto da un potere, era già considerato differente dagli uomini ordinari. Era considerato già il beneficiario di un minimo di potere che si supponeva dovesse aumentare con l'apprendimento.

Ma imparare era un processo di ricerca senza fine, e ci si aspettava che il potere che aveva preso la decisione iniziale, o un potere simile, decidesse analogamente se un escogido poteva continuare a imparare o se era stato sconfitto. Queste decisioni venivano manifestate attraverso presagi che si presentavano in qualsiasi momento degli insegnamenti. Da tale punto di vista, qualsiasi particolare circostanza riguardante un novizio era considerata un presagio del genere.

Un uomo di conoscenza ha un intento inflessibile

 

 

L'idea che un uomo di conoscenza avesse un intento inflessibile si riferiva all'esercizio della volontà. Avere un intento inflessibile significava avere la volontà di eseguire un necessario procedimento col mantenersi rigidamente entro i limiti della conoscenza che veniva insegnata. Un uomo di conoscenza aveva bisogno di una volontà ferma per sopportare l'aspetto di obbligo connesso ad ogni atto quando era eseguito nel contesto della sua conoscenza.

L'aspetto di obbligo di tutti gli atti compiuti in tale contesto, e la loro inflessibilità e predeterminazione, erano senza dubbio spiacevoli per qualsiasi uomo; per questa ragione si ricercava una minima quantità di intento inflessibile come unico requisito non manifesto di cui abbisognava un eventuale novizio.

L'intento inflessibile era composto di: 1) sobrietà, 2) sicurezza di giudizio, e 3) mancanza di libertà di innovare.

A un uomo di conoscenza era necessaria la sobrietà perché la maggioranza degli atti obbligatori aveva a che fare con eventualità o con elementi che erano al di fuori dei confini dell'ordinaria vita quotidiana, o non erano consueti nell'attività ordinaria, e l'uomo che doveva agire in conformità ad essi aveva bisogno di uno sforzo straordinario ogni qual volta si accingeva a un'azione. Era implicito che si poteva essere capaci di uno sforzo così straordinario solo essendo sobri in ogni attività che non avesse a che fare direttamente con tali azioni predeterminate.

Dal momento che tutti gli atti erano predeterminati e obbligatori, un uomo di conoscenza aveva bisogno di sicurezza nel giudizio. Questo concetto non implicava buon senso, ma la capacità di valutare le circostanze che riguardavano ogni necessità di agire. Una guida per tale valutazione si otteneva riunendo, come base razionale, tutte le parti degli insegnamenti che erano sotto il proprio controllo nel momento dato in cui doveva essere eseguita qualsiasi azione. Quindi la guida cambiava sempre a mano a mano che si imparavano più parti; tuttavia implicava sempre la convinzione che qualsiasi atto obbligatorio si dovesse compiere, era in realtà il più appropriato in quelle circostanze.

Poiché tutti gli atti erano prestabiliti e obbligatori, doverli eseguire significava mancanza di libertà di innovare. Il sistema usato da don Juan per impartire la conoscenza era così ben stabilito che non c'era possibilità di alterarlo in alcun modo.

Un uomo di conoscenza possiede lucidità mentale

 

 

La lucidità mentale era il tema che forniva un senso di direzione. Il fatto che tutti gli atti fossero predeterminati significava che il proprio orientamento nell'ambito della conoscenza insegnata era egualmente predeterminato; come conseguenza la lucidità mentale forniva solo un senso di direzione. Riaffermava continuamente la validità della strada intrapresa attraverso le idee componenti di: 1) libertà di cercare un sentiero, 2) conoscenza dello scopo specifico, e 3) essere fluido.

Si riteneva che si avesse la libertà di cercare un sentiero. Avere la libertà di scegliere non era in contrasto con la mancanza di libertà di innovare; queste due idee non erano in opposizione né interferivano a vicenda. La libertà di cercare un sentiero si riferiva alla libertà di scegliere tra differenti possibilità di azione ugualmente efficaci e utilizzabili. Il criterio in base a cui scegliere era il vantaggio di una possibilità sulle altre, basato sulla propria preferenza. In realtà, la libertà di scegliere un sentiero impartiva un senso di direzione attraverso l'espressione di inclinazioni personali.

Si creava un senso di direzione anche attraverso l'idea che ci fosse uno scopo specifico per ogni azione compiuta nel contesto della conoscenza che veniva insegnata. Quindi un uomo di conoscenza aveva bisogno di lucidità mentale per poter mettere a confronto le sue specifiche ragioni di agire con lo scopo specifico di ogni azione. La conoscenza dello scopo specifico di ogni azione era la guida che usava per giudicare le circostanze che circondavano ogni bisogno di agire.

Un altro aspetto della chiarezza mentale era l'idea che un uomo di conoscenza, per poter rinforzare l'esecuzione delle sue azioni obbligatorie, doveva radunare tutte le risorse che gli insegnamenti avevano posto a sua disposizione. Questa era l'idea dell'esser fluido. Creava un senso di direzione conferendo la sensazione di essere malleabile e pieno di risorse. L'aspetto obbligatorio di tutti gli atti avrebbe dato un senso di rigidezza o di sterilità se non fosse stato per l'idea che un uomo di conoscenza doveva essere fluido.

Diventare un uomo di conoscenza è un fatto di strenuo sforzo

 

 

Un uomo di conoscenza doveva possedere, o doveva sviluppare nel corso del suo tirocinio, una totale capacità di sforzo. Don Juan affermava che diventare un uomo di conoscenza era un fatto di strenuo sforzo. Lo strenuo sforzo denotava una capacità: 1) di produrre uno sforzo drammatico; 2) di raggiungere l'efficacia; e 3) di accettare la sfida.

Nel cammino di un uomo di conoscenza l'aspetto drammatico era senza dubbio il più rilevante, e ci voleva uno speciale tipo di sforzo per rispondere alle circostanze che esigevano uno sfruttamento drammatico; vale a dire, un uomo di conoscenza abbisognava di sforzo drammatico. Prendendo come esempio il comportamento di don Juan, a prima vista poteva sembrare che il suo sforzo drammatico consistesse soltanto nella sua naturale preferenza per l'istrionismo. Tuttavia il suo sforzo drammatico era pur sempre molto più di una recitazione; era piuttosto un profondo stato di fede. Attraverso lo sforzo drammatico impartiva la particolare qualità di finalità a tutti gli atti che eseguiva. Come conseguenza, quindi, i suoi atti erano posti su un palcoscenico in cui la morte era uno dei protagonisti principali. Era implicito che la morte fosse una possibilità nel corso dell'apprendimento per via della natura intrinsecamente pericolosa di ciò con cui aveva a che fare un uomo di conoscenza; era quindi logico che lo sforzo drammatico creato dalla convinzione che la morte era un attore onnipresente trascendesse il semplice istrionismo.

Lo sforzo comportava non solo il dramma, ma anche il bisogno di efficacia. Lo sforzo doveva essere efficace; doveva possedere la qualità di essere incanalato appropriatamente, di essere adattabile. L'idea della morte incombente non solo creava il dramma necessario per il risalto totale, ma anche la convinzione che ogni azione implicava una lotta per la sopravvivenza, la convinzione che se il proprio sforzo non soddisfaceva al requisito dell'essere efficace ne sarebbe risultato l'annichilimento.

Lo sforzo comportava inoltre l'idea della sfida, vale a dire, l'atto di mettere alla prova se, e dimostrare che, si era capaci di compiere un atto appropriato entro i rigorosi limiti della conoscenza che veniva insegnata.

Un uomo di conoscenza è un guerriero

 

 

L'esistenza di un uomo di conoscenza era una lotta incessante, e l'idea che questi fosse un guerriero, che conducesse una vita da guerriero, provvedeva i mezzi per il raggiungimento della stabilità emotiva. L'idea di un uomo in guerra comprendeva quattro concetti: 1) un uomo di conoscenza deve avere rispetto; 2) deve avere timore; 3) deve essere vigile; 4) deve essere sicuro di sé. Quindi, essere un guerriero era una forma di autodisciplina che metteva in risalto la realizzazione individuale; tuttavia era un punto di vista in cui gli interessi personali erano ridotti a un minimo, poiché nella maggior parte dei casi l'interesse personale era incompatibile con il rigore di cui si aveva bisogno per compiere qualsiasi atto predeterminato e obbligatorio.

Un uomo di conoscenza nel suo ruolo di guerriero era obbligato ad avere un atteggiamento di riguardo deferente per ciò con cui aveva a che fare; doveva impregnare di un profondo rispetto tutto ciò che si riferiva alla sua conoscenza per poter porre ogni cosa in una prospettiva significativa. Aver rispetto equivaleva all'aver valutato le proprie insignificanti risorse a confronto con l'Ignoto.

Se si rimaneva entro tale schema di pensiero, l'idea del rispetto era estesa logicamente fino a includere se stessi, poiché si era altrettanto ignoti quanto l'Ignoto stesso. L'esercizio di un senso di rispetto così capace di moderare trasformava il noviziato di questa specifica conoscenza, che avrebbe potuto altrimenti apparire assurdo, in un'alternativa razionalissima.

Un'altra necessità della vita di un guerriero era il bisogno di sperimentare e valutare con cura la sensazione di paura. L'ideale era che, a dispetto della paura, si dovesse procedere nel corso delle proprie azioni. Si supponeva che la paura venisse vinta, e nella vita di un uomo di conoscenza c'era un supposto momento in cui essa era sconfitta, ma prima si doveva essere consci di essere spaventati e si doveva valutare tale sensazione. Don Juan asseriva che si era capaci di vincere la paura solo affrontandola.

In quanto guerriero, inoltre, un uomo di conoscenza doveva essere vigile. Un uomo in guerra doveva stare all'erta per poter avere conoscenza della maggior parte dei fattori pertinenti ai due aspetti obbligatori della consapevolezza: 1) consapevolezza di intento, e 2) consapevolezza del cambiamento atteso.

La consapevolezza di intento era l'atto dell'aver conoscenza dei fattori coinvolti nel rapporto tra lo scopo specifico di qualsiasi atto obbligatorio e il proprio scopo specifico per agire. Dal momento che tutti gli atti obbligatori avevano uno scopo definito, un uomo di conoscenza doveva essere vigile; vale a dire, doveva essere capace di mettere sempre a confronto lo scopo definito di ogni atto obbligatorio con la ragione definita che aveva in mente per desiderare di agire.

Un uomo di conoscenza essendo consapevole di tale rapporto era anche capace di aver conoscenza di quello che credeva il cambiamento atteso. Quella che ho qui chiamato la ‘consapevolezza del cambiamento atteso’ si riferiva alla certezza di essere capaci di individuare sempre le variabili importanti coinvolte nel rapporto tra gli scopi specifici di ogni atto e la propria specifica ragione di agire. Si supponeva che essendo consapevoli del cambiamento atteso si sarebbero individuati i mutamenti più sottili. Tale deliberata consapevolezza dei mutamenti spiegava il riconoscimento e l’interpretazione dei presagi e di altri avvenimenti non ordinari.

L'ultimo aspetto dell'idea di un comportamento da guerriero era il bisogno di sicurezza di sé, vale a dire, la fiducia che lo scopo specifico di un atto che si avesse scelto di compiere fosse la sola alternativa plausibile per le proprie specifiche ragioni di agire. Senza la sicurezza di sé si sarebbe stati incapaci di realizzare uno dei più importanti aspetti degli insegnamenti: la capacità di affermare la conoscenza in quanto potere.

Diventare un uomo di conoscenza è un processo incessante

 

 

Essere un uomo di conoscenza non era una condizione che comportava la permanenza. Non c'era mai la certezza di diventare un uomo di conoscenza limitandosi a compiere i passi predeterminati dalla conoscenza insegnata. Era implicito che la funzione dei passi fosse solo quella di mostrare come diventare un uomo di conoscenza. Quindi diventare un uomo di conoscenza era un compito che non poteva essere condotto a termine pienamente; era piuttosto un processo incessante che comprendeva: 1) l'idea che si debba rinnovare la ricerca del diventare un uomo di conoscenza; 2) l'idea della propria precarietà; e 3) l'idea che si debba seguire un sentiero che ha un cuore.

Il costante rinnovamento della ricerca del diventare un uomo di conoscenza era espresso nel tema dei quattro nemici simbolici incontrati lungo il sentiero dell'apprendimento: paura, lucidità, potere, e vecchiaia. Rinnovare la ricerca implicava la conquista e il mantenimento del controllo su di sé. Ci si aspettava che un vero uomo di conoscenza si battesse contro tutti e quattro i suoi nemici, uno dopo l'altro, fino all'ultimo momento della sua vita, per potersi mantenere attivamente impegnato nel diventare un uomo di conoscenza. Tuttavia, a dispetto dell'esatto rinnovamento della ricerca, le probabilità erano inevitabilmente a sfavore dell'uomo; sarebbe stato sconfitto dal suo ultimo nemico simbolico. Questa era l'idea della precarietà.

In contrapposizione al valore negativo della propria precarietà c'era la nozione che si doveva seguire il ‘sentiero che avesse un cuore’. Il sentiero che ha un cuore era una metafora per affermare che a dispetto della propria precarietà si doveva ancora andare avanti e si doveva essere capaci di trovare soddisfazione e realizzazione personale nell'atto dello scegliere l'alternativa più responsabile e nell'identificarsi completamente con essa.

Don Juan sintetizzava la spiegazione razionale di tutta la sua conoscenza nella metafora che per lui la cosa importante era trovare un sentiero che avesse un cuore e quindi percorrerlo in tutta la sua lunghezza, intendendo con ciò che per lui era sufficiente l'identificazione con l'alternativa responsabile. Il viaggio di per sé era sufficiente; qualsiasi speranza di arrivare a una posizione permanente usciva dai confini della sua conoscenza.

La seconda unità: un uomo di conoscenza ha un alleato

 

 

L'idea che un uomo di conoscenza avesse un alleato era il più importante dei sette temi componenti, perché era il solo che fosse indispensabile per spiegare che cosa era un uomo di conoscenza. Nello schema di classificazione di don Juan un uomo di conoscenza aveva un alleato, mentre l'uomo medio non l'aveva, e il possesso di un alleato era ciò che lo rendeva differente dagli uomini ordinari.

Don Juan descriveva un alleato come “un potere capace di trasportare un uomo al di là dei confini di se stesso”, vale a dire, un alleato era un potere che permetteva di trascendere il regno della realtà ordinaria. In conseguenza avere un alleato implicava avere potere; e il fatto che un uomo di conoscenza avesse un alleato era di per sé prova che il fine operazionale degli insegnamenti era stato realizzato. Dal momento che il fine era quello di mostrare come diventare un uomo di conoscenza, e dal momento che un uomo di conoscenza era un uomo che aveva un alleato, un altro modo di descrivere il fine operazionale degli insegnamenti di don Juan era dire che essi inoltre mostravano come ottenere un alleato. Il concetto ‘uomo di conoscenza’, in quanto schema filosofico di uno stregone, aveva significato per chiunque volesse vivere entro tale schema solamente in quanto avesse un alleato.

Ho classificato quest'ultimo tema componente dell'uomo di conoscenza come la scenda unità strutturale fondamentale per via della sua indispensabilità nello spiegare che cosa fosse un uomo di conoscenza.

Secondo gli insegnamenti di don Juan c'erano due alleati. Il primo era contenuto nelle piante di Datura. Don Juan chiamava tale alleato con uno dei nomi spagnoli della pianta, yerba del diablo (erba del diavolo). Secondo lui l'alleato era contenuto in qualsiasi specie di pianta di Datura. Tuttavia ciascuno stregone doveva coltivare un certo numero di piante ,di una sola specie che egli dichiarava sue, non solo nel senso che le piante erano sua proprietà privata, ma nel senso che erano personalmente identificate con lui.

Le piante di don Juan appartenevano alla specie inoxia: sembrava tuttavia che non ci fosse nessuna correlazione tra quel fatto e le differenze che possono essere esistite tra le due specie di Datura a lui accessibili.

Il secondo alleato era contenuto in un fungo che io identificai come appartenente al genere Psilocybe; forse era la Psilocybe mexicana, ma la classificazione è stata fatta solo in via sperimentale perché non sono riuscito, a procurarmi un campione per l'analisi di laboratorio.

Don Juan chiamava questo alleato humito (piccolo fumo), suggerendo che l'alleato fosse analogo al fumo o alla mistura da fumo che preparava con il fungo. Il fumo era considerato il vero e proprio contenitore dell'alleato, tuttavia don Juan chiarì che il potere era associato con una sola specie di Psilocybe; quindi ci voleva una cura speciale al momento della raccolta per non confonderlo con una qualsiasi di una dozzina di altre specie dello stesso genere che crescevano nella stessa zona.

Un alleato in quanto concetto dotato di significato includeva le seguenti idee con le loro rispettive ramificazioni: 1) un alleato non ha forma; 2) un alleato è percepito come una qualità; 3) un alleato può essere domato; e 4) un alleato ha una regola.

Un alleato non ha forma

 

 

Si credeva che un alleato fosse un'entità esistente al di fuori e indipendente da se stessi, tuttavia pur essendo un'entità separata era ritenuto privo di forma. Ho stabilito ‘assenza di forma’ come una condizione che è l'opposto di ‘avere una forma definita’, una distinzione tracciata in vista del fatto che esistevano altri poteri simili a un alleato che avevano una forma percepibile definitamente. La condizione di assenza di forma di un alleato significava che esso non possedeva una forma distinta, o vagamente definita, o anche riconoscibile; e tale condizione implicava che un alleato non era visibile in nessun momento.

Un alleato è percepito come una qualità

 

 

Una conseguenza dell'assenza di forma di un alleato era un'altra condizione espressa nell'idea che un alleato era percepito solo come una qualità dei sensi; vale a dire, dal momento che un alleato era privo di forma, ci si accorgeva della sua presenza solo per via dei suoi effetti sullo stregone. Don Juan classificava alcuni di tali effetti come dotati di qualità antropomorfiche. Descriveva un alleato come avente il carattere di un essere umano, implicando così che un singolo stregone aveva la possibilità di scegliere l'alleato più confacente mettendo a confronto il proprio carattere con le supposte caratteristiche antropomorfiche dell'alleato.

I due alleati coinvolti negli insegnamenti erano presentati da don Juan come aventi una serie di qualità antitetiche.

Don Juan classificava l'alleato contenuto nella Datura inoxia come dotato di due qualità: era femminile, ed era dispensatore di potere superfluo. Pensava che queste due qualità fossero quanto mai indesiderabili. Le sue asserzioni sull'argomento erano definite, ma nello stesso tempo indicava che il suo giudizio valutativo sulla questione era una scelta puramente personale.

La caratteristica più importante di questo alleato era senza dubbio quella che don Juan definiva la sua natura femminile. Il fatto che fosse descritta come femminile non significava, tuttavia che l'alleato fosse un potere femminile. Sembrava che l'analogia della donna potesse esser stata solo una metafora usata da don Juan per descrivere quelli che riteneva essere gli spiacevoli effetti dell'alleato. Inoltre, il nome spagnolo della pianta, yerba, per via del suo genere femminile, poteva aver anche aiutato a creare l'analogia femminile. In ogni caso, la personificazione di questo alleato come un potere femminile attribuiva a esso le seguenti qualità antropomorfiche: 1) è possessivo; 2) è violento; 3) è imprevedibile; e 4) ha effetti deleteri.

Don Juan credeva che questo alleato avesse la capacità di rendere schiavi gli uomini che ne diventavano i seguaci; spiegava tale capacità come la qualità di essere possessivo, che egli metteva in correlazione con il carattere di una donna. L'alleato prendeva possesso dei suoi seguaci donando loro il potere, creando un senso di dipendenza e dando loro forza fisica e benessere.

Questo alleato era inoltre ritenuto violento. La sua violenza femminile veniva espressa nel suo costringere i seguaci a impegnarsi in atti distruttivi di forza bruta. E questa specifica caratteristica lo rendeva più adatto a uomini di natura feroce che volevano trovare nella violenza la chiave del potere personale.

Un'altra caratteristica femminile era l’imprevedibilità. Per don Juan questo significava che gli effetti dell'alleato non erano mai coerenti; si intendeva, piuttosto, che gli effetti cambiassero capricciosamente, e che non esistesse alcun modo individuabile per prevederli. All'incoerenza dell'alleato si doveva contrapporre la cura meticolosa e drammatica da parte dello stregone per ogni dettaglio nella maniera di trattarlo. Qualsiasi svolta sfavorevole che non potesse essere spiegata come risultato di un errore o di un procedimento errato era spiegata come dovuta all'imprevedibilità femminile dell'alleato.

Si riteneva che questo alleato, per via della sua possessività, della sua violenza e della sua imprevedibilità, avesse effetti totalmente deleteri sul carattere dei suoi seguaci. Don Juan credeva che l'alleato si sforzasse ostinatamente di trasmettere le sue caratteristiche femminili, e che il suo sforzo di farlo avesse effettivamente successo.

Accanto alla sua natura femminile, tuttavia, questo alleato aveva un altro aspetto che era percepito anche come una qualità: era un dispensatore di potere superfluo. Don Juan fu molto enfatico su questo punto, e fece osservare che come dispensatore di potere l'alleato era insuperabile. Si pretendeva che fornisse ai suoi seguaci forza fisica, un senso di audacia, e il valore per compiere azioni straordinarie. Secondo il giudizio di don Juan, tuttavia, un potere così esorbitante era superfluo; affermava che, almeno per lui, non ce n'era più bisogno. Ciò nonostante, lo presentava come un forte incentivo per un eventuale futuro uomo di conoscenza, purché quest'ultimo fosse incline per natura a cercare il potere.

Il punto di vista personale di don Juan era che l'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana, d'altra parte, avesse le caratteristiche più adeguate e di maggior valore: 1) è maschile, e 2) è un dispensatore di estasi.

Don Juan descriveva questo alleato come l'antitesi di quello contenuto nelle piante di Datura. Lo considerava maschile, virile. La sua condizione di mascolinità sembrava analoga alla condizione femminile dell'altro alleato; vale a dire, non era un potere di genere maschile, ma don Juan classificava i suoi effetti in termini di quello che considerava un comportamento virile. Anche in questo caso il genere maschile della parola spagnola humito può aver suggerito l'analogia con un potere maschile.

Le qualità antropomorfiche di questo alleato che don Juan giudicava convenienti per un uomo erano le seguenti: 1) è imparziale; 2) è mite; 3) è prevedibile; e 4) ha effetti benefici.

L'idea che don Juan aveva della natura imparziale dell'alleato era espressa nella convinzione che questo fosse onesto, che in effetti non esigesse mai azioni stravaganti dai suoi seguaci. Non rendeva mai suoi schiavi gli uomini, concedendo loro un potere facile; al contrario, Humito era duro, ma giusto, con i suoi seguaci.

Il fatto che l'alleato non provocasse un comportamento manifestamente violento lo rendeva mite. Si supponeva che inducesse una sensazione di incorporeità, e quindi don Juan lo presentava come calmo, mite, dispensatore di pace.

Inoltre era prevedibile. Don Juan descriveva come costanti i suoi effetti su tutti i suoi singoli seguaci e nelle successive esperienze di qualsiasi singolo uomo; in altre parole, i suoi effetti non variavano, oppure, se lo facevano, erano così simili da venire considerati gli stessi.

Si riteneva che come conseguenza dell'essere imparziale, mite, e prevedibile, questo alleato avesse anche un'altra caratteristica virile: un effetto benefico sul carattere dei suoi seguaci. Si supponeva che la qualità virile di Humito creasse in essi una rarissima condizione dì stabilità emotiva. Don Juan credeva che sotto la guida dell'alleato l'uomo temperava il proprio cuore e acquistava un equilibrio.

Si credeva che un corollario di tutte le caratteristiche virili dell'alleato fosse una capacità di dispensare estasi. Anche questo altro aspetto della sua natura era concepito come una qualità. A Humito veniva attribuita la facoltà di privare del corpo i suoi seguaci, permettendo loro in tal modo di eseguire forme specializzate di attività, che appartenevano a uno stato di incorporeità. E don Juan affermava che tali forme specializzate conducevano inevitabilmente a una condizione di estasi. L'alleato contenuto nella Psilocybe veniva detto ideale per gli uomini che per natura erano proclivi a cercare la contemplazione.

Un alleato può essere domato

 

 

L'idea che un alleato possa essere domato implicava che in quanto potere esso ha la potenzialità di essere usato. Don Juan spiegava questo fatto come una innata capacità dell'alleato di essere utilizzabile; si riteneva che uno stregone una volta domato un alleato acquistasse il comando dei suoi poteri specializzati, il che significava che li poteva manipolare a suo proprio vantaggio. Alla capacità che l'alleato aveva di essere domato veniva contrapposta l'incapacità degli altri poteri, che erano simili a un alleato tranne che per il fatto che non tolleravano di essere manipolati.

La manipolazione di un alleato aveva due aspetti: 1) un alleato è un veicolo; 2) un alleato è un aiutante.

Un alleato è un veicolo nel senso che serve a trasportare uno stregone nel regno della realtà non ordinaria. Per quanto riguardava la mia conoscenza personale, gli alleati servivano entrambi come veicoli, sebbene tale funzione avesse differenti implicazioni per ciascuno di essi.

Nell'insieme, le qualità indesiderabili dell'alleato contenuto nella Datura inoxia, specialmente la sua qualità dell'imprevedibilità, lo trasformavano in un veicolo pericoloso, sul quale non si poteva fare affidamento. Il rituale era la sola protezione possibile contro la sua incoerenza, ma non era mai sufficiente ad assicurare la stabilità dell'alleato; uno stregone che usava questo alleato come un veicolo doveva aspettare dei presagi favorevoli prima di procedere.

D'altra parte si riteneva che l'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana fosse un veicolo costante e prevedibile in quanto risultato di tutte le sue preziose qualità. Come conseguenza della sua prevedibilità, uno stregone che usava questo alleato non aveva bisogno di impegnarsi in nessun tipo di rituale preparatorio.

L'altro aspetto della manipolabilità di un alleato era espresso nell'idea che un alleato era un aiutante. Essere un aiutante significava che un alleato, dopo essere servito come veicolo, era usabile ancora come un aiuto o una guida per assistere lo stregone nel raggiungere qualsiasi fine avesse in mente andando nel regno della realtà non ordinaria.

Nella loro funzione di assistenti, i due alleati avevano proprietà differenti e uniche. La complessità e l'applicabilità di queste proprietà aumentava a mano a mano che si avanzava lungo la strada dell'apprendimento. Tuttavia, in termini generali, l'alleato contenuto nella Datura inoxia era ritenuto un aiutante straordinario, e questa capacità era ritenuta un corollario della sua facilità di dare potere superfluo. L'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana, tuttavia, era considerato un alleato ancora più straordinario. Don Juan lo riteneva senza confronti nella sua funzione di aiutante, che lui considerava come un'estensione delle sue preziosissime qualità.

La terza unità: un alleato ha una regola

 

 

Tra le componenti del concetto di ‘alleato’, soltanto l'idea che un alleato avesse una regola era indispensabile per spiegare che cosa era un alleato. A causa di tale indispensabilità ho posto tale idea come la terza unità fondamentale di questo schema strutturale.

La regola, che don Juan chiamava anche legge, era il rigido concetto organizzatore che regolava tutte le azioni da eseguire e il comportamento da osservare lungo tutto il processo del trattare un alleato. La regola era trasmessa verbalmente dal maestro al novizio, idealmente senza alterazione, attraverso il continuo rapporto tra i due. La regola era quindi più di un complesso di disposizioni; era, piuttosto, una serie di schemi di attività che governavano il corso da seguire nel processo di manipolazione di un alleato.

Senza dubbio la definizione che don Juan dava di un alleato come un “potere capace di trasportare un uomo al di là dei confini di se stesso” sarebbe stata soddisfatta da molti elementi. Chiunque accettasse tale definizione potrebbe ragionevolmente immaginare che qualsiasi cosa possieda tale capacità sia un alleato. E logicamente, anche le condizioni fisiche prodotte dalla fame, dalla stanchezza, dalla malattia, e altro, potrebbero avere la funzione di alleati, perché potrebbero possedere la capacità di trasportare un uomo al di là del regno della realtà ordinaria. Ma l'idea che un alleato avesse una regola eliminava tutte queste, possibilità. Un alleato era un potere che aveva una regola. Tutte le altre possibilità non potevano essere considerate alleati perché non avevano nessuna regola.

In quanto concetto la regola possedeva le seguenti idee e le loro varie componenti: 1) la regola è inflessibile; 2) la regola è non cumulativa; 3) la regola è corroborata nella realtà ordinaria; 4) la regola è corroborata nella realtà non ordinaria; e 5) la regola è corroborata mediante consenso speciale.

La regola è inflessibile

 

 

Gli abbozzi di attività che formavano il corpo della regola erano passi inevitabili da seguire per poter raggiungere il fine operazionale degli insegnamenti. Questo aspetto obbligatorio era reso nell'idea dell'inflessibilità della regola. L'inflessibilità della regola era collegata intimamente con l'idea dell'efficacia. Lo sforzo drammatico creava un'incessante lotta per la sopravvivenza, e in tali condizioni solo l'atto più efficace che si potesse compiere avrebbe assicurato la propria sopravvivenza. Siccome non erano consentiti punti di riferimento individualistici, la regola prescriveva le azioni che costituivano la sola alternativa di sopravvivenza. Quindi la regola doveva essere inflessibile; doveva esigere una duplice conformità ai suoi dettami.

La conformità alla regola, tuttavia, non era assoluta. Nel corso degli insegnamenti registrai un caso in cui la sua inflessibilità era stata cancellata. Don Juan spiegò quell'esempio di deviazione come un favore speciale dovuto all'intervento diretto di un alleato. In questo caso, a causa del mio errore non intenzionale nel trattare l'alleato contenuto nella Datura inoxia, la regola era stata violata. Dalla circostanza don Juan dedusse che un alleato aveva la capacità di intervenire direttamente e trattenere gli effetti deleteri e di solito fatali che risultavano dall'inosservanza della regola. Tale prova di flessibilità era ritenuta sempre il prodotto di un forte legame di affinità tra l'alleato e il seguace.

La regola è non cumulativa

 

 

Qui l'assunto era che tutti i metodi concepibili per manipolare un alleato erano già stati usati. Teoricamente, la regola era non cumulativa; non c'era possibilità di aumentarla. L'idea della natura non cumulativa della regola era inoltre messa in relazione con il concetto di efficacia. Dal momento che la regola prescriveva la sola alternativa efficace per la propria sopravvivenza personale, qualsiasi tentativo di cambiarla o di alterarne il corso era considerato non solo un atto superfluo, ma un atto mortale. Si aveva soltanto la possibilità di accrescere la propria conoscenza personale della regola, o sotto la guida del maestro o sotto la speciale guida dell'alleato stesso. Il secondo caso era considerato un esempio di acquisizione diretta della conoscenza, non un'aggiunta al corpo della regola.

La regola è corroborata nella realtà ordinaria

 

 

La corroborazione della regola intendeva l'atto del verificarla, l’atto dell'accettarne la validità confermandola pragmaticamente in maniera sperimentale. Poiché la regola aveva a che fare con situazioni di realtà ordinaria e non ordinaria, la sua corroborazione aveva luogo in entrambi i campi.

Le situazioni di realtà ordinaria con cui aveva a che fare la regola erano molto spesso situazioni singolarmente poco comuni, ma, non importa quanto fossero insolite, la regola era corroborata nella realtà ordinaria. Per tale ragione si è ritenuto che esulasse dalla portata di questo libro e che dovesse costituire l'argomento di un altro studio. Quella parte della regola riguardava i dettagli dei procedimenti impiegati nel riconoscere, mescolare, preparare, e accudire le piante dotate di potere nelle quali erano contenuti gli alleati, i dettagli degli altri procedimenti impliciti negli usi di tali piante dotate di potere, e altre simili minuzie.

La regola era corroborata nella realtà non ordinaria

 

 

La regola era corroborata inoltre nella realtà non ordinaria, e la corroborazione era compiuta nella stessa maniera pragmatica e sperimentale di convalida che sarebbe stata impiegata in situazioni di realtà ordinaria. L'idea di una corroborazione pragmatica implicava due concetti: 1) gli incontri con l'alleato, che ho chiamato stati di realtà non ordinaria; e 2) gli scopi specifici della regola.

Gli stati di realtà non ordinaria.

 

 

Le due piante in cui erano contenuti gli alleati, se usate in conformità alle rispettive regole degli alleati, producevano stati di particolare percezione che don Juan classificava come incontri con l'alleato. Dava uno straordinario risalto all'evocazione di tali stati, un risalto riassunto nell'idea che si dovesse incontrare l'alleato quante volte era possibile per verificarne la regola in maniera pragmatica e sperimentale. L'assunto era che la proporzione della regola che poteva essere verificata era in diretta correlazione con il numero di volte in cui si incontrava l'alleato.

Il metodo esclusivo per indurre un incontro con l'alleato veniva compiuto, naturalmente, attraverso l'uso appropriato della pianta in cui questo era contenuto. Nondimeno, don Juan insinuava che a un certo stadio avanzato di apprendimento gli incontri avrebbero potuto aver luogo senza l'uso di una pianta; vale a dire, avrebbero potuto essere evocati mediante un puro atto di volizione.

Ho definito gli incontri con gli alleati come stati di realtà non ordinaria. Ho scelto il termine 'realtà non ordinaria' perché si uniformava all'affermazione di don Juan che tali incontri avevano luogo in un continuum di realtà, una realtà che era soltanto lievemente differente dalla realtà ordinaria della vita quotidiana. In conseguenza, la realtà non ordinaria aveva caratteristiche specifiche che avrebbero potuto essere valutate da chiunque in termini presumibilmente uguali. Don Juan non formulò mai tali caratteristiche in maniera definitiva, ma la sua reticenza sembrava sgorgare dall'idea che ciascun uomo doveva rivendicare la conoscenza come un fatto di natura personale.

Le seguenti categorie, che io considero come le caratteristiche specifiche della realtà non ordinaria, sono state tratte dalla mia esperienza personale. Tuttavia, a dispetto della loro origine apparentemente individuale, erano da don Juan rinforzate e sviluppate sotto le premesse della sua conoscenza; don Juan conduceva i suoi insegnamenti come se queste caratteristiche fossero intrinseche nella realtà non ordinaria: 1) la realtà non ordinaria è utilizzabile; 2) la realtà non ordinaria ha elementi componenti.

La prima caratteristica — che la realtà non ordinaria è utilizzabile — implicava che essa era adatta a una vera e propria funzione. Don Juan spiegò ripetutamente che l'interesse globale della sua conoscenza era la ricerca di risultati pratici, e che tale ricerca era pertinente tanto nella realtà ordinaria quanto in quella non ordinaria. Sosteneva che nella sua conoscenza vi erano i mezzi per utilizzare la realtà non ordinaria allo stesso modo di quella ordinaria. In base a tale asserzione, gli stati indotti dagli alleati erano evocati con la deliberata intenzione di usarli. In questo particolare caso la spiegazione razionale di don Juan era che gli incontri con gli alleati erano fissati per imparare i loro segreti, e tale spiegazione razionale serviva da rigida guida per escludere altri moventi personalistici che si potessero avere per cercare gli stati di realtà non ordinaria.

La seconda caratteristica della realtà non ordinaria consisteva nel fatto che essa possedeva elementi componenti. Questi elementi componenti erano i dettagli, le azioni, e gli avvenimenti che venivano percepiti, apparentemente con i propri sensi, come il contenuto di uno stato di realtà non ordinaria. L'immagine totale della realtà non ordinaria era composta di elementi che sembravano qualità sia degli elementi della realtà ordinaria che dei componenti di un normale sogno, sebbene non si trovassero su di un piano di parità con entrambi.

In base al mio giudizio personale, gli elementi componenti della realtà non ordinaria avevano tre caratteristiche uniche: 1) stabilità; 2) singolarità; e 3) mancanza di consenso ordinario. Queste qualità li rendevano di per sé unità distinte in possesso di una inequivocabile individualità.

Gli elementi componenti della realtà non ordinaria possedevano stabilità nel senso che erano costanti. In questo aspetto erano simili agli elementi componenti della realtà ordinaria, perché non cambiavano né scomparivano, a differenza degli elementi componenti dei normali sogni. Sembrava che ogni dettaglio che costituiva un elemento componente della realtà non ordinaria avesse una sua concretezza, una concretezza che io percepivo come straordinariamente stabile. La stabilità era così pronunciata che mi permetteva di fissare il criterio che, nella realtà ordinaria, si aveva sempre la capacità di arrestarsi per esaminare qualsiasi elemento componente per quello che sembrava essere un periodo di tempo indefinitamente lungo. L'applicazione di questo criterio mi permetteva di differenziare gli stati di realtà non ordinaria usati da don Juan dagli altri stati di percezione particolare che possono essere sembrati realtà non ordinaria ma che non si sottomettevano a questo criterio.

La seconda caratteristica esclusiva degli elementi componenti della realtà non ordinaria — la loro singolarità — significava che ogni dettaglio degli elementi componenti era un aspetto singolo e individuale; sembrava che ciascun dettaglio fosse isolato dagli altri, o che i dettagli apparissero uno alla volta. La singolarità degli elementi componenti sembrava inoltre creare una necessità unica, che può essere stata comune a chiunque: l'esigenza imperativa, il bisogno, di amalgamare tutti i dettagli isolati in una scena totale, un totale composito. Don Juan era ovviamente consapevole di tale esigenza e se ne serviva in ogni occasione possibile.

La terza caratteristica unica degli elementi componenti, e la più drammatica di tutte, era la loro mancanza di consenso ordinario. Gli elementi componenti venivano percepiti mentre si era in uno stato di completa solitudine, che assomigliava più all'isolamento di un uomo che assistesse per proprio conto a una scena poco familiare nella realtà ordinaria che non alla solitudine del sognare. Poiché la stabilità degli elementi componenti della realtà non ordinaria consentiva di soffermarsi per esaminare uno qualsiasi di essi per quello che sembrava un periodo di tempo indefinitamente lungo, sembrava quasi come se fossero elementi della vita quotidiana; tuttavia la differenza tra gli elementi componenti dei due stati di realtà consisteva nella loro capacità di consenso ordinario. Per consenso ordinario intendo l'accordo tacito o implicito sugli elementi componenti che persone dello stesso ambiente si scambiano in vari modi. Per gli elementi componenti della realtà non ordinaria, il consenso ordinario era irraggiungibile. In questo senso la realtà non ordinaria era più vicina a uno stato onirico che non alla realtà ordinaria. E tuttavia, grazie alle loro caratteristiche uniche di stabilità e singolarità, gli elementi componenti della realtà non ordinaria avevano un'irresistibile qualità di autenticità che sembrava incoraggiare la necessità di convalidare la loro esistenza in termini di consenso.

Lo scopo specifico della regola.

 

 

L'altro elemento componente del concetto che la regola veniva verificata nella realtà non ordinaria era l'idea che la regola aveva uno scopo specifico. Tale scopo era il raggiungimento, attraverso l'uso di un alleato, di un fine utilitaristico. Nel contesto degli insegnamenti di don Juan l'assunto era che la regola veniva appresa corroborandola nella realtà ordinaria e non ordinaria. L'aspetto decisivo degli insegnamenti era, tuttavia, la corroborazione della regola negli stati di realtà non ordinaria; e quello che veniva corroborato nelle azioni e negli elementi percepiti nella realtà non ordinaria era lo scopo specifico della regola. Tale scopo specifico aveva a che fare con il potere dell'alleato, vale a dire, con la manipolazione di un alleato prima in quanto veicolo e poi in quanto aiutante, ma don Juan trattava sempre ciascun caso dello scopo specifico della regola come una singola unità che abbracciasse implicitamente questi due campi.

Lo scopo specifico, riferendosi alla manipolazione del potere dell'alleato, aveva una conseguenza inseparabile: le tecniche di manipolazione.

Le tecniche di manipolazione erano i veri e propri procedimenti, le vere e proprie operazioni, da intraprendere in ciascun caso che implicava la manipolazione del potere di un alleato. L'idea che un alleato fosse manipolatele garantiva la sua utilità nel raggiungimento di fini pragmatici, e le tecniche di manipolazione erano i procedimenti che per supposizione rendevano utilizzabile l'alleato.

Scopo specifico e tecniche di manipolazione formavano una singola unità che uno stregone doveva conoscere esattamente per poter comandare con efficacia il suo alleato.

Gli insegnamenti di don Juan includevano i seguenti scopi specifici delle regole dei due alleati. Li ho disposti nello stesso ordine in cui li ha presentati a me.

Il primo scopo specifico che veniva verificato nella realtà non ordinaria era mettersi alla prova con l'alleato contenuto nella Datura inoxia. La tecnica di manipolazione consisteva nell'ingerire una pozione fatta con una sezione della radice della pianta di Datura. L’ingerimento della pozione produceva un lieve stato di realtà non ordinaria, che don Juan usò per mettermi alla prova per poter determinare se, in quanto eventuale novizio, avevo o no affinità con l'alleato contenuto nella pianta. Si supponeva che la pozione producesse o una sensazione di non specificato benessere fisico o una sensazione di grande disagio, effetti che don Juan giudicava essere, rispettivamente, un segno di affinità o l'assenza di tale segno.

Il secondo scopo specifico era la divinazione. Faceva anche parte della regola dell'alleato contenuto nella Datura inoxia. Don Juan considerava la divinazione una forma di movimento specializzato, in base all'assunto che l'alleato trasportava lo stregone in un particolare compartimento della realtà non ordinaria dove era capace di divinare avvenimenti a lui altrimenti ignoti.

La tecnica di manipolazione del secondo scopo specifico era un processo di ingerimento-assorbimento. Si ingeriva una pozione fatta con la radice di Datura, e si spalmava un unguento fatto di semi di Datura sulle superfici temporali e frontali della testa. Ho usato il termine 'ingerimento-assorbimento' perché l'ingerimento potrebbe essere stato aiutato dall'assorbimento cutaneo nel produrre uno stato di realtà non ordinaria, oppure l'assorbimento cutaneo potrebbe essere stato aiutato dall’ingerimento.

Questa tecnica di manipolazione richiedeva l'utilizzazione di altri elementi oltre alla pianta di Datura, in questo caso due lucertole. Si supponeva che servissero allo stregone come strumenti di movimento, intendendo qui la particolare percezione dell'essere in un particolare regno in cui si era in grado di udire una lucertola parlare e quindi di visualizzare tutto quello che aveva detto. Don Juan spiegava tali fenomeni come la risposta delle lucertole ai quesiti che erano stati posti per la divinazione.

Il terzo scopo specifico della regola dell'alleato contenuto nelle piante di Datura aveva a che fare con un'altra forma specializzata di movimento, il volo fisico. Come spiegò don Juan, uno stregone che usava questo alleato poteva volare col corpo per enormi distanze; il volo fisico era la capacità che uno stregone aveva di muoversi attraverso la realtà non ordinaria e quindi di ritornare a suo piacimento in quella ordinaria.

Anche la tecnica di manipolazione del terzo scopo specifico era un processo di ingerimento-assorbimento. Si ingeriva una pozione fatta di radice di Datura, e si spalmava un unguento fatto di semi di Datura sulle piante dei piedi, sulla parte interna delle gambe e sui genitali.

Il terzo scopo specifico non era corroborato in profondità; don Juan fece capire di non aver approfondito altri aspetti della tecnica di manipolazione che avrebbero permesso a uno stregone di acquisire un senso di direzione mentre volava.

Il quarto scopo specifico della regola era mettere alla prova l'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana. L'esame non era inteso per determinare affinità o mancanza di affinità con l'alleato, ma piuttosto come una prima prova inevitabile, o come un primo incontro con l'alleato.

La tecnica di manipolazione per il quarto scopo specifico utilizzava una mistura da fumo fatta di funghi secchi mescolati con differenti parti di altre cinque piante, nessuna delle quali aveva notoriamente proprietà allucinogene. La regola dava risalto all'atto dell'inalare il fumo dalla mistura; il maestro usava quindi la parola humito (piccolo fumo) per indicare l'alleato contenuto in esso. Ma io ho definito questo processo come 'ingerimento-inalazione' perché era una combinazione di ingerimento prima e quindi di inalazione. I funghi, a causa della loro morbidezza, seccandosi si trasformavano in una polvere finissima, piuttosto difficile da bruciare. Gli altri ingredienti essiccandosi si trasformavano in strisce. Queste strisce si incenerivano nel fornello della pipa, mentre la polvere dei funghi, che non bruciava così facilmente, veniva aspirata in bocca e ingerita. Logicamente, la quantità di funghi secchi ingerita era maggiore della quantità di strisce bruciate e inalate.

Gli effetti del primo stato di realtà non ordinaria evocato dalla Psilocybe mexicana diedero origine alla breve discussione di don Juan sul quinto scopo specifico della regola. Questo scopo riguardava il movimento: muoversi, con l'aiuto dell'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana, dentro e attraverso oggetti o dentro e attraverso esseri animati. Oltre al processo di ingerimento-assorbimento la tecnica di manipolazione completa può aver incluso dei suggerimenti ipnotici. Poiché don Juan presentò questo scopo specifico solo come una breve discussione che non fu ulteriormente verificata, non mi fu possibile valutare correttamente nessuno dei suoi aspetti.

Il sesto scopo specifico della regola verificata nella realtà non ordinaria, che implicava anch'esso l'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana, aveva a che fare con un altro aspetto del movimento: muoversi adottando una forma sostitutiva. Questo aspetto del movimento era soggetto alla verifica più intensa. Don Juan affermava che per padroneggiarlo ci voleva una pratica assidua. Sosteneva che l'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana aveva la capacità intrinseca di far scomparire il corpo dello stregone; quindi l'idea di adottare una forma sostitutiva era una possibilità logica per muoversi in condizioni di incorporeità. Un'altra possibilità logica per muoversi era, naturalmente, muoversi attraverso oggetti ed esseri, possibilità che don Juan aveva discusso brevemente.

La tecnica di manipolazione del sesto scopo specifico della regola includeva non solo ingerimento-inalazione ma anche, in base a tutte le indicazioni, suggestione ipnotica. Don Juan aveva prodotto tale suggestione durante gli stadi di transizione nella realtà non ordinaria, e anche durante la prima parte degli stati di realtà non ordinaria. Questo processo in apparenza ipnotico veniva da lui definito come soltanto una sua personale supervisione, intendendo che in quel particolare momento non mi aveva rivelato tutta la tecnica di manipolazione.

L'adozione di una forma sostitutiva non significava che uno stregone, d'impulso, fosse libero di prendere qualsiasi forma volesse; al contrario, implicava un tirocinio di tutta una vita per raggiungere una forma concepita in precedenza. La forma che don Juan aveva preferito adottare era quella di un corvo, e in conseguenza nei suoi insegnamenti metteva in risalto quella particolare forma. Volle chiarire pienamente, nondimeno, che la forma di un corvo era una sua scelta personale, e che esistevano altre innumerevoli forme preconcepite.

La quarta unità: la regola è corroborata mediante consenso speciale

 

 

Tra i concetti componenti che formavano la regola, il solo indispensabile per spiegarla era l'idea che la regola era corroborata mediante consenso speciale; tutti gli altri concetti componenti erano insufficienti di per sé a spiegare il significato della regola.

Don Juan chiarì senza ombra di dubbio che l'alleato non veniva donato allo stregone, ma che lo stregone imparava a manipolare l'alleato attraverso il processo di corroborazione della regola. Il completo processo di apprendimento implicava verifica della regola nella realtà non ordinaria così come in quella ordinaria. Tuttavia l'aspetto cruciale degli insegnamenti di don Juan era la corroborazione della regola in una maniera pragmatica e sperimentale nel contesto di quelli che erano percepiti come gli elementi componenti della realtà non ordinaria. Ma quegli elementi componenti non erano soggetti al consenso ordinario, e se non si era capaci di ottenere l'accordo sulla loro esistenza, la loro realtà percepita sarebbe stata solo un'illusione. Dal momento che un uomo doveva trovarsi da solo nella realtà non ordinaria, a causa del suo essere solo tutto quello che percepiva sarebbe stato relativo alla sua natura individuale. L'essere solo e l'individualità dell'esperienza erano conseguenza del fatto assunto che nessun altro uomo potrebbe dare un consenso ordinario alle proprie percezioni.

A questo punto don Juan introdusse la più importante parte costituente dei suoi insegnamenti: mi fornì il consenso speciale sulle azioni e sugli elementi che si riteneva corroborassero la regola. Negli insegnamenti di don Juan, consenso speciale significava accordo tacito o implicito sugli elementi componenti della realtà non ordinaria, che egli, nella sua funzione di maestro, dava a me in quanto il novizio della sua conoscenza. Questo consenso speciale non era assolutamente fraudolento o spurio, come quello che due persone potrebbero darsi a vicenda nel descrivere gli elementi componenti dei loro sogni individuali. Il consenso speciale fornito da don Juan era sistematico, e per darlo può aver avuto bisogno della totalità della sua conoscenza. Con l'acquisizione del consenso sistematico le azioni e gli elementi percepiti nella realtà non ordinaria diventavano consensualmente reali, il che significava, nello schema di classificazione di don Juan, che la regola dell'alleato era stata corroborata. La regola aveva significato in quanto concetto, quindi solo nella misura in cui era soggetta a consenso speciale, perché senza accordo speciale sulla sua corroborazione la regola sarebbe stata una costruzione puramente relativa alla natura individuale.

Per via della sua indispensabilità per spiegare la regola, ho concepito l'idea che la regola era corroborata mediante consenso speciale, la quarta unità fondamentale di questo schema strutturale. Questa unità, essendo fondamentalmente uno scambio reciproco tra due individui, era composta: 1) dal benefattore, o la guida alla conoscenza che viene insegnata, e 2) dal novizio o il soggetto per il quale è fornito il consenso speciale.

Il fallimento o il successo nel conseguire il fine operazionale degli insegnamenti si basava su questa unità. Quindi, il consenso speciale era il culmine precario del seguente processo: uno stregone aveva un aspetto distintivo, il possesso di un alleato, che lo differenziava dagli uomini comuni. Un alleato era un potere che aveva la speciale proprietà di avere una regola. E la caratteristica unica della regola era la sua corroborazione nella realtà non ordinaria mediante consenso speciale.

Il benefattore

 

 

Il benefattore era l'agente senza il quale la corroborazione della regola sarebbe stata impossibile. Per poter fornire il consenso speciale il benefattore eseguiva due compiti: 1) preparare lo sfondo per il consenso speciale alla corroborazione della regola, e 2) guidare il consenso speciale.

Preparazione del consenso speciale

 

 

Il primo compito del benefattore consisteva nel predisporre lo sfondo necessario per produrre il consenso speciale alla corroborazione della regola. Don Juan, in quanto mio maestro, mi fece: 1) sperimentare altri stati di realtà non ordinaria che egli spiegava come del tutto indipendenti da quelli evocati per corroborare la regola degli alleati; 2) mi fece partecipare con lui a certi stati speciali di realtà ordinaria che sembrava aver prodotto lui stesso; 3) mi fece ricapitolare dettagliatamente ciascuna esperienza. Il compito di preparazione del consenso speciale consisteva da parte di don Juan nel rafforzare e confermare la corroborazione della regola col dare consenso speciale agli elementi componenti di questi nuovi stati di realtà non ordinaria, e agli elementi componenti degli stati speciali di realtà ordinaria.

Gli altri stati di realtà non ordinaria che don Juan mi fece sperimentare furono indotti mediante l'ingerimento del cactus Lophophora williamsii, noto comunemente col nome di peyote. Di solito si tagliava la parte superiore del cactus e la si metteva da parte finché non era secca, e quindi veniva masticata e ingerita, ma in circostanze speciali veniva ingerita quando era fresca. L'ingerimento, tuttavia, non era il solo modo per sperimentare uno stato di realtà non ordinaria con la Lophophora williamsii. Don Juan suggeriva che gli stati di realtà non ordinaria avevano luogo in condizioni uniche, e li classificava come doni o elargizioni da parte del potere contenuto nella pianta.

La realtà non ordinaria indotta dalla Lophophora williamsii aveva tre aspetti distintivi: 1) si riteneva che fosse prodotta da un'entità detta ‘Mescalito’; 2) era utilizzabile; e 3) aveva elementi componenti.

Si affermava che Mescalito era un potere unico, simile a un alleato nel senso che permetteva di trascendere i confini della realtà ordinaria, ma anche alquanto diverso da un alleato. A somiglianza di un alleato, Mescalito era contenuto in una determinata pianta, il cactus Lophophora williamsii. Ma a differenza di un alleato che era semplicemente contenuto nella pianta, Mescalito e la pianta in cui era contenuto erano la stessa cosa; la pianta era il centro di palesi manifestazioni di rispetto, l'oggetto di una profonda venerazione. Don Juan credeva fermamente che in certe condizioni, come uno stato di profonda sottomissione a Mescalito, il semplice atto dell'essere contiguo al cactus avrebbe indotto uno stato di realtà non ordinaria.

Ma Mescalito non aveva una regola, e per tale ragione non era un alleato pur essendo capace di trasportare un uomo fuori dei confini della realtà ordinaria. Non avere una regola non solo impediva che Mescalito venisse usato come un alleato, perché senza una regola non poteva concepibilmente essere manipolato, ma lo rendeva inoltre un potere notevolmente diverso da un alleato.

Come diretta conseguenza del non avere una regola, Mescalito era accessibile a qualsiasi uomo senza bisogno di un lungo noviziato o dell'impegno in tecniche di manipolazione, come avveniva con un alleato. E poiché era accessibile senza alcun tirocinio, Mescalito veniva definito protettore. Essere un protettore significava che era accessibile a chiunque. Tuttavia Mescalito in quanto protettore non era accessibile a ogni uomo, e per alcuni individui era incompatibile. Secondo don Juan, tale incompatibilità era causata dal divario tra la 'inflessibile moralità' di Mescalito e il carattere discutibile dell'individuo.

Mescalito era anche un maestro. Si supponeva che esercitasse funzioni didattiche. Era un direttore, una guida al giusto comportamento. Mescalito insegnava la strada giusta. L'idea che don Juan aveva della strada giusta sembrava essere un senso della buona condotta, che consisteva non nella rettitudine in termini di moralità, bensì di una tendenza a semplificare gli schemi di comportamento in termini dell'efficacia promossa dai suoi insegnamenti. Don Juan credeva che Mescalito insegnasse la semplificazione del comportamento.

Mescalito era ritenuto un'entità. E in quanto tale si riteneva che avesse una forma definita che non era di solito costante o prevedibile. Tale qualità implicava che Mescalito era percepito differentemente non solo a seconda degli uomini, ma anche dal medesimo uomo in differenti occasioni. Don Juan esprimeva questa idea in termini della capacità che Mescalito possedeva di adottare qualsiasi forma concepibile. Per gli individui con i quali era compatibile, tuttavia, adottava una forma costante dopo che essi avevano partecipato di lui per un periodo di anni.

La realtà non ordinaria prodotta da Mescalito era utilizzabile, e sotto questo aspetto era identica a quella indotta da un alleato. La sola differenza era la spiegazione razionale che don Juan usava nei suoi insegnamenti per evocarla: si supponeva che si dovessero ricercare “le lezioni di Mescalito sulla strada giusta”.

La realtà non ordinaria prodotta da Mescalito aveva inoltre degli elementi componenti, e anche qui gli stati di realtà non ordinaria prodotti da Mescalito e da un alleato erano identici. In entrambi le caratteristiche degli elementi componenti erano stabilità, singolarità, e mancanza di consenso.

L'altro procedimento usato da don Juan per preparare lo sfondo per il consenso speciale consisteva nel farmi partecipare a stati speciali di realtà ordinaria. Uno stato speciale di realtà ordinaria era una situazione che poteva essere descritta in termini delle caratteristiche della vita quotidiana, tranne che per il fatto che poteva essere impossibile ottenere il consenso ordinario sui suoi elementi componenti. Don Juan preparava lo sfondo per il consenso speciale alla corroborazione della regola dando consenso speciale agli elementi componenti degli stati speciali di realtà ordinaria. Questi elementi componenti erano componenti della vita quotidiana la cui esistenza poteva essere confermata solo da don Juan mediante uno speciale accordo. Questa era una supposizione da parte mia, perché in quanto partecipante agli stati speciali di realtà ordinaria credevo che solo don Juan, nella sua qualità di altro partecipante, sapesse quali elementi componenti costituivano lo stato speciale di realtà ordinaria.

A mio giudizio personale, gli stati speciali di realtà ordinaria erano prodotti da don Juan, sebbene egli non affermasse mai di averlo fatto. Sembrava che li producesse attraverso un'abile manipolazione di allusioni e di suggerimenti per guidare il mio comportamento. Ho chiamato questo processo la ‘manipolazione di suggerimenti’. Aveva due aspetti: 1) suggerimento riguardante l'ambiente, e 2) suggerimento riguardante il comportamento.

Nel corso dei suoi insegnamenti don Juan mi fece sperimentare due stati del genere. Può aver prodotto il primo attraverso il processo del suggerimento riguardante l'ambiente. La spiegazione razionale di don Juan per produrre tale stato fu che io avevo bisogno di un esame per provare le mie buone intenzioni, e solo dopo avermi dato il consenso speciale sui suoi elementi componenti acconsentì a incominciare i suoi insegnamenti. Per 'suggerimento riguardante l‘ambiente’ intendevo che don Juan mi aveva guidato in uno stato speciale di realtà ordinaria isolando, per mezzo di sottili suggerimenti, elementi componenti della realtà ordinaria che facevano parte dell'immediato ambiente fisico circostante. Gli elementi isolati in tal modo crearono una specifica percezione visuale di colore, che don Juan verificò tacitamente.

Il secondo stato di realtà ordinaria può essere stato prodotto dal processo di suggerimento riguardante il comportamento. Don Juan, attraverso lo stretto contatto con me e attraverso l'esercizio di un comportamento coerente, era riuscito a creare un'immagine di se stesso, un'immagine che mi serviva come modello essenziale mediante il quale potevo riconoscerlo. Quindi, assumendo certi specifici atteggiamenti scelti, irriconciliabili con l'immagine che aveva creato, don Juan poté deformare questo modello essenziale di riconoscimento. La deformazione può a sua volta aver cambiato la normale configurazione di elementi associata con il modello in un modello nuovo e incoerente che non poteva essere soggetto al consenso ordinario; don Juan, in quanto il partecipante a quello stato speciale di realtà ordinaria, era la sola persona che sapesse quali erano gli elementi componenti, e quindi era la sola persona in grado di darmi l'accordo sulla loro esistenza.

Don Juan impostò come un esame anche il secondo stato speciale di realtà ordinaria, come una specie di ricapitolazione dei suoi insegnamenti. Sembrava che entrambi gli stati speciali di realtà ordinaria segnassero una transizione negli insegnamenti. Sembravano punti in un nuovo stadio di apprendimento caratterizzato da una più diretta partecipazione tra maestro e novizio allo scopo di arrivare al consenso speciale.

Il procedimento impiegato da don Juan per preparare il consenso speciale coesisté nel farmi rendere un resoconto dettagliato di ciò che avevo esperimentato come conseguenza di ciascuno stato di realtà non ordinaria e di ciascuno stato speciale di realtà ordinaria, e quindi nel mettere in risalto certe unità scelte che egli isolava dal contesto del mio resoconto. Il fattore essenziale consisteva nel dirigere il risultato degli stati di realtà non ordinaria, e qui la mia assunzione implicita era che le caratteristiche degli elementi componenti della realtà non ordinaria — stabilità, singolarità, e mancanza di consenso ordinario — fossero intrinseche in essi e non il risultato della guida di don Juan. Questa assunzione era basata sull'osservazione che gli elementi del primo stato di realtà non ordinaria da me esperimentato possedevano le stesse tre caratteristiche, e tuttavia don Juan aveva appena cominciato a dirigermi. Assumendo, quindi, che queste caratteristiche fossero intrinseche negli elementi componenti della realtà non ordinaria in generale, il compito di don Juan consisteva nell’utilizzarle come base per dirigere il risultato di ciascuno stato di realtà non ordinaria evocato dalla Datura inoxia, dalla Psilocybe mexicana e. dalla Lophophora williamsii.

Il resoconto dettagliato che don Juan mi faceva rendere come conseguenza di ciascun stato di realtà non ordinaria era una ricapitolazione dell'esperienza. Comportava una meticolosa traduzione verbale di ciò che avevo percepito durante il corso di ciascuno stato. Una ricapitolazione aveva due aspetti: 1) la rievocazione degli avvenimenti e 2) la descrizione degli elementi componenti percepiti. La rievocazione degli avvenimenti riguardava gli incidenti che avevo apparentemente percepito nel corso dell'esperienza che andavo raccontando: vale a dire, gli avvenimenti che sembravano essere accaduti e le azioni che mi sembrava di aver compiuto. La descrizione degli elementi componenti percepiti era il mio resoconto della forma specifica e del dettaglio specifico degli elementi componenti che mi sembrava di aver percepito.

Da ciascuna ricapitolazione dell'esperienza don Juan sceglieva certe unità per mezzo dei processi: 1) dell'attribuire importanza a certe sezioni appropriate del mio resoconto, e 2) del negare tutta l'importanza ad altre sezioni del mio resoconto. L'intervallo tra gli stati di realtà non ordinaria era il periodo in cui don Juan spiegava la ricapitolazione dell'esperienza. Ho chiamato il primo processo ‘risalto’ perché comportava una forte speculazione in merito alla distinzione tra quelli che don Juan aveva concepiti come i fini che io avrei dovuto raggiungere nello stato di realtà non ordinaria e ciò che avevo percepito io stesso. Risalto significava, quindi, che don Juan isolava una sezione del mio racconto concentrando su di essa il grosso della sua speculazione. Il risalto era positivo o negativo. Risalto positivo implicava che don Juan era soddisfatto di un particolare dettaglio che aveva percepito perché si conformava ai fini che si aspettava che io raggiungessi nello stato di realtà non ordinaria. Risalto negativo significava che don Juan non era soddisfatto di ciò che avevo percepito perché poteva non conformarsi alla sua aspettativa o perché lo giudicava insufficiente. Non di meno, applicava ancora il grosso della sua speculazione a quella sezione della mia ricapitolazione per mettere in risalto il valore negativo della mia percezione.

Il secondo processo selettivo impiegato da don Juan consisteva nel negare tutta l'importanza a - qualche sezione del mio resoconto. L'ho chiamato ‘mancanza di risalto’ perché era l'opposto e il contrappeso del risalto. Sembrava che col negare importanza alle parti del mio resoconto che si riferivano a elementi componenti che giudicava completamente superflui per il fine dei suoi insegnamenti, don Juan cancellasse letteralmente la mia percezione degli stessi elementi negli stati successivi di realtà non ordinaria.

Guida del consenso speciale

 

 

Il secondo aspetto del compito di maestro di don Juan consisteva nel guidare il consenso speciale dirigendo il risultato di ciascuno stato di realtà non ordinaria e di ciascuno stato speciale di realtà ordinaria. Don Juan dirigeva tale risultato attraverso un'ordinata manipolazione dei livelli estrinseci e intrinseci della realtà non ordinaria e del livello intrinseco degli stati speciali di realtà ordinaria.

Il livello estrinseco della realtà non ordinaria si riferisce al suo ordine operativo. Implicava i meccanismi, i passi che guidavano alla vera e propria realtà non ordinaria. Il livello estrinseco aveva tre aspetti distinguibili: 1) il periodo preparatorio, 2) gli stadi di transizione, e 3) il periodo che seguiva la realtà non ordinaria.

Il periodo preparatorio era l'intervallo di tempo che trascorreva tra uno stato di realtà non ordinaria e il successivo. Don Juan lo usava per darmi istruzioni dirette e per sviluppare il corso generale dei suoi insegnamenti.

Il periodo preparatorio era di importanza critica nell'impostare gli stati di realtà non ordinaria, e poiché faceva perno su di essi aveva due aspetti distinti: 1) il periodo precedente alla realtà non ordinaria, e 2) il periodo successivo alla realtà non ordinaria.

II periodo precedente alla realtà non ordinaria era un intervallo di tempo relativamente breve, al massimo di ventiquattr’ore. Negli stati di realtà non ordinaria indotti dalla Datura inoxia e dalla Psilocybe mexicana il periodo era caratterizzato dalle drammatiche e accelerate istruzioni dirette di don Juan sullo scopo specifico della regola e sulle tecniche di manipolazione che io avrei dovuto sperimentare nello stato di realtà non ordinaria che si avvicinava. Con la Lophophora williamsii tale periodo consisteva essenzialmente in un comportamento rituale, dal momento che Mescalito non aveva una regola.

Il periodo successivo alla realtà non ordinaria, d'altra parte, era un lungo arco di tempo. Di solito durava per mesi, lasciava a don Juan il tempo per la discussione e la chiarificazione degli avvenimenti che avevano avuto luogo durante il precedente stato di realtà non ordinaria. Questo periodo era specialmente importante dopo l'uso della Lophophora williamsii. Poiché Mescalito non aveva una regola, il fine cercato nella realtà non ordinaria era la verifica delle caratteristiche di Mescalito; don Juan delineava tali caratteristiche durante il lungo intervallo che faceva seguito a ciascuno stato di realtà non ordinaria.

Il secondo aspetto del livello estrinseco erano gli stadi di transizione, il che significava il passaggio da uno stato di realtà ordinaria a uno stato di realtà non ordinaria, e viceversa. I due stati di realtà si sovrapponevano in questi stadi di transizione, e il criterio che usavo per differenziare questi ultimi da entrambi gli stati di realtà era che i loro elementi componenti erano confusi. Non fui mai capace di percepirli o di rievocarli con precisione.

In termini di tempo percepito, gli stadi di transizione erano bruschi o lenti. Nel caso della Datura inoxia, gli stati ordinari e non ordinari erano quasi sovrapposti, e la transizione dall'uno all'altro aveva luogo bruscamente. I più notevoli erano i passaggi nella realtà non ordinaria. La Psilocybe mexicana, d'altra parte, evocava stadi di transizione che io percepivo come lenti. Il passaggio dalla realtà ordinaria a quella non ordinaria era specialmente protratto e percepibile. Ne ero sempre più consapevole, forse per via della mia apprensione per gli avvenimenti che stavano per presentarsi.

Gli stadi di transizione evocati dalla Lophophora williamsii sembravano combinare aspetti degli altri due. Tranne che per una cosa: i due passaggi che introducevano nella realtà non ordinaria e ne facevano uscire, erano quanto mai percepibili. L'ingresso nella realtà non ordinaria era molto lento, e lo esperimentavo quasi senza menomazione delle mie facoltà; ma il ritorno alla realtà ordinaria era un brusco stadio di transizione che percepivo con chiarezza, ma ne valutavo ogni dettaglio con minor facilità.

Il terzo aspetto del livello estrinseco era la supervisione del maestro o l'effettivo aiuto che io, nella mia qualità di novizio, ricevevo mentre esperimentavo uno stato di realtà non ordinaria. Ho posto la supervisione come una categoria a sé perché era implicito che a un certo punto degli insegnamenti il maestro sarebbe dovuto entrare nella realtà non ordinaria insieme con il suo novizio.

Durante gli stati di realtà non ordinaria evocati dalla Datura inoxia ricevevo un minimo di supervisione. Don Juan dava molta importanza alla realizzazione dei passi del periodo preparatorio, ma dopo che avevo ottemperato a quel requisito mi lasciava procedere da solo.

Nella realtà non ordinaria indotta dalla Psilocybe mexicana, il grado di supervisione era l'opposto completo, perché qui, secondo don Juan, il novizio aveva bisogno del massimo di guida e di aiuto. Per corroborare la regola si doveva adottare una forma sostitutiva, il che sembrava suggerire che io dovessi sottopormi a una serie di adattamenti molto specializzati nel percepire ciò che mi circondava. Don Juan produceva tali necessari adattamenti per mezzo di ordini verbali e di suggerimenti durante gli stadi di transizione nella realtà ordinaria. Un altro aspetto della sua supervisione consisteva nel dirigermi durante la prima parte degli stati di realtà non ordinaria ordinandomi di concentrare la mia attenzione su certi elementi componenti del precedente stato di realtà ordinaria. I dettagli su cui mi faceva concentrare erano scelti apparentemente a casaccio, poiché il problema importante era l'atto del portare a compimento la forma sostitutiva adottata. L'ultimo aspetto della supervisione consisteva nel ricondurmi alla realtà ordinaria. Era implicito che anche questa operazione richiedesse un massimo di supervisione da parte di don Juan, sebbene io non potessi ricordare il procedimento vero e proprio.

La supervisione necessaria per gli stati indotti dalla Lophophora williamsii era un miscuglio degli altri due. Don Juan rimaneva al mio fianco per tutto il tempo che poteva, ma non tentava in alcun modo di guidarmi dentro o fuori della realtà non ordinaria.

Il secondo livello dell'ordine di differenziazione nella realtà non ordinaria consisteva nei modelli apparentemente interni o nella disposizione apparentemente interna dei suoi elementi componenti. L'ho chiamato il ‘livello intrinseco’, e ho assunto che gli elementi componenti fossero soggetti a tre processi generali, che sembravano essere il prodotto della guida di don Juan: una progressione verso lo specifico; 2) una progressione verso un campo di apprezzamento più esteso; e 3) una progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria.

La progressione verso lo specifico era l'apparente avanzare degli elementi componenti di ciascuno stato successivo di realtà non ordinaria verso una maggior precisione, una maggior specificità. Comportava due aspetti separati: 1) una progressione verso forme singole specifiche; e 2) una progressione verso risultati totali specifici.

La progressione verso le forme singole specifiche implicava che gli elementi componenti fossero familiari in maniera informe nei primi stati di realtà non ordinaria, e divenissero specifici e poco familiari negli ultimi. La progressione sembrava racchiudere due livelli di cambiamento negli elementi componenti della realtà non ordinaria: 1) una progressiva complessità dei dettagli percepiti; e 2) una progressione dalle forme familiari a quelle poco familiari.

La complessità progressiva dei dettagli significava che in ciascuno stato successivo di realtà non ordinaria i minuti particolari che percepivo come elementi componenti diventavano sempre più complessi. Valutavo la complessità in termini del mio essere consapevole del fatto che la struttura degli elementi componenti diventava più complicata, tuttavia i dettagli non si ingarbugliavano eccessivamente o in modo imbarazzante. La crescente complessità si riferiva piuttosto all'armonioso aumento dei dettagli percepiti, che variavano dalle mie impressioni di forme vaghe durante i primi stati fino alla mia percezione di spiegamenti massicci ed elaborati di minuti particolari negli ultimi stati.

La progressione dalle forme familiari a quelle poco familiari implicava che da principio le forme degli elementi componenti fossero forme familiari trovate nella realtà ordinaria, o per lo meno evocassero la familiarità della vita quotidiana. Ma in stati successivi di realtà non ordinaria le forme specifiche, i dettagli che componevano la forma, e gli schemi in cui erano combinati gli elementi componenti, diventavano progressivamente meno familiari, al punto che non riuscivo più a metterli sullo stesso piano con ciò che avevo percepito nella realtà ordinaria; in certi casi, essi non potevano neppure evocare la percezione ordinaria.

La progressione degli elementi componenti verso i risultati totali specifici era l'approssimazione, sempre maggiore, del risultato totale che raggiungevo in ciascuno stato di realtà non ordinaria verso il risultato totale che don Juan cercava riguardo alla corroborazione della regola; vale a dire, la realtà non ordinaria era indotta per corroborare la regola, e la corroborazione diventava sempre più specifica in ciascun tentativo successivo.

Il secondo processo generale del livello intrinseco della realtà non ordinaria era la progressione verso un più esteso campo di apprezzamento. In altre parole, era l'incremento che percepivo in ciascuno stato successivo di realtà non ordinaria verso l'espansione dell'area su cui potevo aver esercitato la mia capacità di mettere a fuoco l'attenzione. Qui il punto in questione era o che esisteva un'area definita che si espandeva, o che la mia capacità di percepire sembrava aumentare in ciascuno stato successivo. Gli insegnamenti di don Juan alimentavano e rinforzavano l'idea che ci fosse un'area che si espandeva, e ho dato a quella presunta area il nome di ‘campo di apprezzamento’. La sua espansione progressiva consisteva in un apprezzamento apparentemente sensoriale che io facevo degli elementi componenti della realtà non ordinaria che rientravano in un certo campo. Valutavo e analizzavo questi elementi componenti, sembrava, con i miei sensi, e in apparenza percepivo il campo in cui avevano luogo come esteso, più vasto, in ciascuno stato successivo.

Il campo di apprezzamento era di due tipi: 1) il campo dipendente, e 2) quello indipendente. Il campo dipendente era un'area in cui gli elementi componenti erano i dettagli dell'ambiente fisico che era stato entro la mia consapevolezza nel precedente stato di realtà ordinaria. Il campo indipendente, d'altra parte, era l'area in cui gli elementi componenti della realtà non ordinaria sembravano venire in esistenza da soli, liberi dall'influenza dell'ambiente fisico circostante della precedente realtà ordinaria.

La chiara allusione di don Juan in materia del campo di apprezzamento era che ciascuno dei due alleati, oltre a Mescalito, possedeva la proprietà di indurre entrambe le forme di percezione. Tuttavia mi sembrava che la Datura inoxia avesse una maggiore capacità di indurre un campo indipendente, per quanto nell'aspetto del volo fisico, che non percepii sufficientemente a lungo per poterlo valutare, il campo di apprezzamento era implicitamente dipendente. La Psilocybe mexicana aveva la capacità di produrre un campo dipendente; la Lophophora williamsii aveva la capacità di produrli entrambi.

Il mio presupposto era che Juan usasse quelle differenti proprietà per preparare il consenso speciale. In altre parole, negli stati indotti dalla Datura inoxia gli elementi componenti mancanti di consenso ordinario esistevano indipendentemente dalla realtà ordinaria precedente. Con la Psilocybe mexicana la mancanza di consenso ordinario implicava elementi componenti che dipendevano dall'ambiente della realtà ordinaria precedente. E con la Lophophora williamsii alcuni elementi erano determinati dall'ambiente, mentre altri ne erano indipendenti. Quindi l'uso delle tre piante insieme sembrava essere designato per creare un'ampia percezione della mancanza di consenso ordinario sugli elementi componenti della realtà non ordinaria.

L'ultimo processo del livello intrinseco di realtà non ordinaria fu la progressione che percepii in ciascuno stato successivo verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria. Questa progressione sembrava messa in correlazione con l'idea che ciascun nuovo stato era un più complesso stadio di apprendimento, e che la crescente complessità di ciascun nuovo stadio richiedeva un uso più inclusivo e pragmatico della realtà non ordinaria. La progressione era più notevole quando si usava la Lophophora williamsii; l'esistenza simultanea di un campo di apprezzamento dipendente e di uno indipendente in ciascuno stato rendeva più esteso l'uso pragmatico della realtà non ordinaria, perché abbracciava i due campi contemporaneamente.

Il dirigere il risultato degli stati speciali di realtà ordinaria sembrava produrre un ordine nel livello intrinseco, un ordine caratterizzato dalla progressione degli elementi componenti verso lo specifico; vale a dire gli elementi componenti erano più numerosi e venivano isolati più facilmente in ciascun successivo stato speciale di realtà ordinaria. Nel corso dei suoi insegnamenti don Juan evocò solo due di questi stati speciali, ma mi era ancora possibile scoprire che nel secondo stato per don Juan fu più facile isolare un gran numero di elementi componenti, e che la facilità per i risultati specifici influenzava la rapidità con cui era prodotto il secondo stato speciale di realtà ordinaria3.

 


L'ORDINE CONCETTUALE

 

 

Il novizio

 

 

Il novizio era l'ultima unità dell'ordine operativo. Il novizio era di per sé l'unità che metteva a fuoco gli insegnamenti di don Juan, perché doveva accettare la totalità del consenso speciale dato agli elementi componenti di tutti gli stati di realtà non ordinaria e di tutti gli stati speciali di realtà ordinaria, prima che il consenso speciale potesse diventare un concetto dotato di significato. Ma il consenso speciale, per via dell'essere interessato alle azioni e agli elementi percepiti nella realtà non ordinaria, comportava un particolare ordine di concettualizzazione, un ordine che metteva le azioni e gli elementi così percepiti in accordo con la corroborazione della regola.

Quindi l'accettazione del consenso speciale significava per me, in quanto novizio, l'adozione di un certo punto di vista convalidato dalla totalità degli insegnamenti di don Juan; vale a dire, significava il mio ingresso in un livello concettuale, un livello comprendente un ordine di concettualizzazione che avrebbe reso comprensibili gli insegnamenti nei loro stessi termini. L'ho chiamato ‘ordine concettuale’ perché era l'ordine che conferiva significato ai fenomeni non ordinari che formavano la conoscenza di don Juan; era la matrice di significato in cui erano immersi tutti i concetti individuali esposti nei suoi insegnamenti.

Tenendo presente, quindi, che il fine del novizio consisteva nell'adottare quell'ordine di concettualizzazione, il novizio aveva due alternative: poteva fallire nei suoi sforzi o poteva riuscire.

La prima alternativa, il fallimento nell'adottare l'ordine concettuale, significava anche che il novizio non era riuscito a conseguire il fine operazionale degli insegnamenti. L'idea del fallimento era spiegata nel tema dei quattro nemici simbolici dell'uomo di conoscenza; era implicito che il fallimento non era semplicemente l'atto dell'interrompere la ricerca del fine, ma l'atto dell'abbandonare la ricerca completamente sotto la pressione creata da uno qualsiasi dei quattro nemici simbolici. Lo stesso tema chiariva anche che i primi due nemici — paura e lucidità — erano la causa della sconfitta di un uomo al livello del novizio, che la sconfitta a tale livello significava il fallimento nell'imparare a comandare un alleato, e che come conseguenza di tale fallimento il novizio aveva adottato l'ordine concettuale in una maniera superficiale o fallace. Vale a dire, la sua adozione dell'ordine concettuale era fallace nel senso che era un'affiliazione fraudolenta con il significato proposto dagli insegnamenti o un affidamento fraudolento a tale significato. L'idea era che un novizio, all'atto della sconfitta, oltre all'essere incapace di comandare un alleato, rimaneva con soltanto la conoscenza di certe tecniche di manipolazione, oltre al ricordo degli elementi componenti percepiti della realtà non ordinaria, ma non li avrebbe identificati con la spiegazione razionale che avrebbe potuto renderli significativi nei loro termini. In tali circostanze qualsiasi uomo potrebbe essere costretto a sviluppare le sue spiegazioni per le scelte, dovute alla sua natura individuale, di aree dei fenomeni che aveva sperimentato, e tale processo comporterebbe l'adozione fallace del punto di vista proposto dagli insegnamenti di don Juan. L'adozione fallace dell'ordine concettuale, tuttavia, non era evidentemente ristretta al solo novizio. Nel tema dei nemici di un uomo di conoscenza era anche implicito che un uomo, dopo aver raggiunto l'obiettivo di imparare a comandare un alleato, poteva ancora soccombere agli assalti degli altri suoi due nemici: il potere e la vecchiaia. Nello schema di classificazione di don Juan, tale sconfitta implicava che un uomo era caduto in una adozione superficiale o fallace dell'ordine concettuale, come aveva fatto il novizio sconfitto.

La favorevole adozione dell'ordine concettuale, d'altra parte, significava che il novizio aveva raggiunto il fine operazionale: un'adozione in buona fede del punto di vista proposto negli insegnamenti. Vale a dire, la sua adozione dell'ordine concettuale era in buona fede in quanto era una completa affiliazione, un completo affidamento al significato espresso in quell'ordine di concettualizzazione.

Don Juan non disse mai con chiarezza quale fosse il punto esatto, o la maniera esatta, in cui un novizio cessava di essere tale, quantunque sottintendesse chiaramente che una volta raggiunto il fine operazionale del sistema — vale a dire, una volta che sapesse come comandare un alleato — non avrebbe avuto più bisogno della guida del maestro. L'idea che sarebbe venuto un momento in cui le istruzioni di un maestro sarebbero state superflue implicava che il novizio sarebbe riuscito ad adottare l'ordine concettuale, e nel far ciò avrebbe acquistato la capacità di trarre deduzioni dotate di significato senza l'aiuto del maestro.

Per quanto riguardava gli insegnamenti di don Juan, e finché non interruppi il mio noviziato, l'accettazione del consenso speciale sembrava comportare l'adozione di due unità dell'ordine concettuale: 1) l'idea di una realtà del consenso speciale, e 2) l'idea che la realtà del consenso ordinario, quotidiano, e la realtà del consenso speciale, abbiano un valore egualmente pragmatico.

Realtà del consenso speciale

 

 

II nucleo fondamentale degli insegnamenti di don Juan riguardava, come lui stesso affermava, l'uso delle tre piante allucinogene con le quali induceva stati di realtà non ordinaria. L'uso di queste tre piante sembra essere stato da parte sua un fatto di intento deliberato. Sembra che le avesse impiegate perché ciascuna di esse possedeva differenti proprietà allucinogene, che egli interpretava come le differenti nature intrinseche dei poteri contenuti in esse. Dirigendo i livelli estrinseci e intrinseci della realtà non ordinaria, don Juan sfruttò le differenti proprietà allucinogene finché esse crearono in me, in quanto novizio, la percezione che la realtà non ordinaria fosse un'area perfettamente definita, un campo separato dall'ordinaria vita quotidiana le cui proprietà intrinseche erano rivelate a mano a mano che procedevo.

Ciò nonostante, era anche possibile che le proprietà che si pretendevano differenti potessero essere state semplicemente il prodotto del processo di don Juan del dirigere l'ordine intrinseco della realtà non ordinaria, anche se nei suoi insegnamenti sfruttava l'idea che il potere contenuto in ciascuna pianta induceva stati di realtà non ordinaria che differivano gli uni dagli altri. Se era vero il secondo caso, le loro differenze in termini delle unità di questa analisi sembrano essere state nel campo di apprezzamento che si potrebbe percepire negli stati evocati da ciascuna delle tre piante. Grazie alla peculiarità del loro campo di apprezzamento, tutte e tre contribuivano a produrre la percezione di un'area o zona perfettamente definita, che consisteva di due compartimenti: il campo indipendente, detto il regno delle lucertole, o delle lezioni di Mescalito; e il campo dipendente, noto come l'area in cui ci si poteva muovere con i propri mezzi.

Uso il termine ‘realtà non ordinaria’, come già osservato, nel senso di realtà straordinaria, non comune. Per un novizio principiante tale realtà era assolutamente fuori dell'ordinario, ma il noviziato alla conoscenza di don Juan esigeva la mia partecipazione forzata e il mio impegno alla pratica pragmatica e sperimentale di tutto ciò che avevo imparato. Ciò significava che io, in quanto novizio, dovevo sperimentare un certo numero di stati di realtà non ordinaria, e che prima o poi la conoscenza di prima mano avrebbe reso per me prive di significato le classificazioni ‘ordinaria’ e ‘non ordinaria’. L'adozione in buona fede della prima unità dell'ordine concettuale avrebbe comportato, quindi, l'idea che ci fosse un altro regno di realtà separato ma non più fuori dell'ordinario, la realtà del ‘consenso speciale’.

Accettare come premessa fondamentale che la realtà del consenso speciale era un regno separato avrebbe spiegato sensatamente l'idea che gli incontri con gli alleati o con Mescalito avevano luogo in un regno che non era illusorio.

La realtà del consenso speciale ha valore pragmatico

 

 

Lo stesso procedimento del dirigere i livelli estrinseci e intrinseci dalla realtà non ordinaria, che sembrava aver creato il riconoscimento della realtà del consenso speciale come un campo separato, sembrava responsabile anche del mio percepire la realtà del consenso speciale come pratica e usabile. L'approvazione del consenso speciale per tutti gli stati di realtà non ordinaria e per tutti gli stati speciali di realtà ordinaria, era designata a consolidare la consapevolezza che essa fosse uguale alla realtà del consenso ordinario e quotidiano. Questa eguaglianza era basata sull'impressione che la realtà del consenso speciale non era un campo che potesse essere eguagliato ai sogni. Al contrario, aveva stabili elementi componenti soggetti ad accordo speciale. Era in realtà un campo in cui si poteva percepire l'ambiente circostante in una maniera deliberata. I suoi elementi componenti non erano soggettivi o bizzarri, ma aspetti o avvenimenti concisi la cui esistenza era testimoniata da tutto il nucleo degli insegnamenti.

L'implicazione dell'eguaglianza era chiara nel trattamento che don Juan accordava alla realtà del consenso speciale, un trattamento che era utilitario e conseguente; non fece mai riferimento a essa, né mi fu mai richiesto di comportarmi verso di essa in maniera che non fosse utilitaria e conseguente. Il fatto che le due aree fossero considerate uguali, tuttavia, non significava che ci si sarebbe potuti comportare in qualsiasi momento esattamente allo stesso modo in ciascuna delle due aree. Al contrario, il comportamento doveva essere differente dal momento che ciascuna area della realtà aveva qualità che la rendevano utilizzabile a suo modo. Il fattore definitorio in termini di significato sembra sia stata l'idea che tale eguaglianza poteva essere misurata in base all'utilità pratica. Quindi, uno stregone doveva credere che era possibile spostarsi avanti e indietro da un'area all'altra, che entrambe erano intrinsecamente utilizzabili, e che la sola disuguaglianza tra le due era la loro differente capacità di essere usate, vale a dire, i differenti scopi a cui servivano.

Tuttavia la loro separazione sembrava essere solo una disposizione appropriata, pertinente al mio particolare livello di noviziato, che don Juan usava per rendermi consapevole del fatto che poteva esistere un altro campo della realtà. Ma dai suoi atti, più che dalle sue affermazioni, ero indotto a credere che per uno stregone c'era un solo continuum di realtà che aveva due, o forse più parti da cui trarre deduzioni di valore pragmatico. L'adozione in buona fede dell'idea che la realtà del consenso speciale avesse valore pragmatico avrebbe dato al movimento una prospettiva dotata di significato.

Se avevo accettato l'idea che la realtà del consenso speciale era usabile perché possedeva proprietà utilizzabili intrinsecamente altrettanto pragmatiche quanto quelle della realtà del consenso quotidiano, allora sarebbe stato per me logico comprendere perché don Juan sfruttasse a tal punto la nozione del movimento nella realtà del consenso speciale. Dopo aver accettato l'esistenza pragmatica di un'altra realtà, la sola cosa che uno stregone doveva fare sarebbe stato di imparare la meccanica del movimento. Naturalmente, il movimento in quel caso doveva essere specializzato perché riguardava le proprietà intrinseche e pragmatiche della realtà del consenso speciale.

 


SOMMARIO

 

 

I punti della mia analisi sono stati i seguenti: Il frammento degli insegnamenti di don Juan che ho qui presentato consiste di due aspetti: l'ordine operativo, ossia la successione dotata di significato in cui erano collegati gli uni con gli altri tutti i concetti individuali dei suoi insegnamenti, e l'ordine concettuale o la matrice di significato in cui erano immersi tutti i concetti individuali del suo insegnamento.

L'ordine operativo ha quattro unità fondamentali con le loro rispettive idee componenti: 1) il concetto ‘uomo di conoscenza’; 2) l'idea che un uomo di conoscenza ha l'aiuto di un potere specializzato detto alleato; 3) l'idea che un alleato è governato da un complesso di disposizioni detto la regola; e 4) l'idea che la corroborazione della regola è soggetta a consenso speciale.

Queste quattro unità sono messe in relazione l'una con l'altra nella seguente maniera: il fine dell'ordine operativo è insegnare come diventare un uomo di conoscenza; un uomo di conoscenza è differente dagli uomini ordinati perché ha un alleato; un alleato è un potere specializzato, che ha una regola; si può acquistare o domare un alleato mediante il processo di verifica della sua regola nel regno della realtà non ordinaria e con l'ottenere consenso speciale su tale corroborazione.

Nel contesto degli insegnamenti di don Juan, diventare un uomo di conoscenza non era una realizzazione permanente, ma piuttosto un processo. Vale a dire, il fattore che costituiva un uomo di conoscenza non era unicamente il possesso di un alleato, ma la lotta di tutta una vita per mantenersi nei limiti di un sistema di convinzioni. Gli insegnamenti di don Juan, tuttavia, miravano a risultati pratici, e il suo fine pratico, in relazione all'insegnare come diventare un uomo di conoscenza, era insegnare come acquistare un alleato coll'impararne la regola. Quindi il fine dell'ordine operativo è fornire consenso speciale sugli elementi componenti percepiti nella realtà non ordinaria, che erano considerati la corroborazione della regola dell'alleato.

Per poter fornire consenso speciale alla corroborazione della regola dell'alleato, don Juan doveva fornire consenso spicciale agli elementi componenti di tutti gli stati di realtà non ordinaria e degli stati speciali di realtà ordinaria evocati nel corso dei suoi insegnamenti. Il consenso speciale, quindi, ha a che fare con fenomeni fuori dell'ordinario, un fatto che mi ha permesso l'ipotesi che qualsiasi novizio, accettando il consenso speciale, è spinto ad adottare l'ordine concettuale della conoscenza insegnata.

Dal punto di vista del mio personale stadio di apprendimento, potei dedurre che fino al momento in cui mi ritirai dal noviziato gli insegnamenti di don Juan avevano favorito l'adozione di due unità dell'ordine concettuale: 1) l'idea che ci fosse un regno separato di realtà, un altro mondo, che ho chiamato la 'realtà del consenso speciale'; 2) l'idea che la realtà del consenso speciale, o quell'altro mondo, fosse altrettanto utilizzabile quanto il mondo della vita quotidiana.

Quasi sei anni dopo aver cominciato il noviziato, la conoscenza di don Juan diventò per la prima volta un complesso coerente. Mi resi conto che egli tendeva a fornire un consenso in buona fede alle mie scoperte personali, e sebbene non continuassi perché non ero, né lo sarò mai, preparato a sottostare ai rigori di un tale addestramento, la mia maniera di incontrare i suoi standard di sforzo era il mio tentativo di comprendere i suoi insegnamenti. Sentivo come un compito inevitabile dimostrare, anche se solo a me stesso, che non erano una stravaganza.

Dopo aver disposto il mio schema strutturale, e dopo essere stato capace di scartare molti dati inservibili per il mio sforzo iniziale di scoprire la coerenza dei suoi insegnamenti, mi fu chiaro che questi avevano una coesione interna, una successione logica che mi consentiva di vedere l'intero fenomeno in una luce che scacciava il senso di bizzarria che costituiva il marchio di tutto ciò che avevo esperimentato. Mi fu allora ovvio che il mio noviziato era stato solo il principio di una lunghissima strada. E le ardue esperienze a cui mi ero sottomesso, che erano state per me così schiaccianti, non erano che un piccolo frammento di un sistema di pensiero logico da cui don Juan traeva deduzioni significative per la sua vita quotidiana, un sistema assai complesso di convinzioni in cui l'indagine era un'esperienza che conduceva all'esultanza.

 


APPENDICE A:
IL PROCESSO DI CONVALIDA DEL CONSENSO SPECIALE.

 

 

La convalida del consenso speciale implicava, in ogni punto, l'accumularsi degli insegnamenti di don Juan. Allo scopo di spiegare il processo cumulativo, ho disposto la convalida del consenso speciale in conformità alla successione in cui avevano luogo gli stati di realtà non ordinaria e di realtà ordinaria speciale. Non sembrava che don Juan avesse fissato in maniera esatta il processo del dirigere l'ordine intrinseco della realtà non ordinaria e della realtà ordinaria speciale, sembrava che avesse isolato in maniera piuttosto fluida le unità per la direzione.

Don Juan incominciò a preparare lo sfondo per il consenso speciale col produrre il primo stato speciale di realtà ordinaria attraverso il processo di manipolazione di suggerimenti riguardanti l'ambiente. Isolò con tale metodo certi elementi componenti dal campo della realtà ordinaria, e con l'isolarli mi guidò a percepire una progressione verso lo specifico, in questo caso la percezione dei colori che sembravano emanare da due piccole aree sul terreno. Con l'essere isolate, queste due aree di colorazione furono private di consenso ordinario; sembrava che solo io fossi in grado di vederle, e quindi creavano uno stato speciale di realtà ordinaria.

Isolare quelle due aree sul terreno col privarle di consenso ordinario servì a stabilire il primo legame tra la realtà ordinaria e quella non ordinaria. Don Juan mi guidò a percepire una posizione di realtà ordinaria in maniera inconsueta; vale a dire, cambiò certi elementi ordinari in dettagli che avevano bisogno di consenso speciale.

La conseguenza del primo stato speciale di realtà ordinaria fu la mia ricapitolazione dell'esperienza; da essa don Juan scelse la percezione di differenti aree di colorazione come le unità di risalto positivo. Isolò per risalto negativo il resoconto della mia paura e della mia fatica, e la possibilità della mia insufficiente perseveranza.

Durante il successivo periodo di preparazione applicò il grosso della sua speculazione alle unità che aveva isolato, e propose l'idea che era possibile scoprire più del consueto nell'ambiente circostante Dalle unità tratte dalla mia ricapitolazione don Juan introdusse inoltre alcuni dei concetti componenti dell'uomo di conoscenza.

Come secondo passo nella preparazione del consenso speciale alla corroborazione della regola, don Juan introdusse uno stato di realtà non ordinaria con la Lophophora williamsii. Il contenuto totale del primo stato di realtà non ordinaria fu piuttosto vago e dissociato, tuttavia gli elementi componenti erano definiti alla perfezione; ne percepii le caratteristiche di stabilità, singolarità, e mancanza di consenso ordinario quasi con altrettanta chiarezza quanto in stati successivi. Queste caratteristiche non erano così ovvie, forse a causa della mia mancanza di competenza; era la prima volta che esperimentavo la realtà non ordinaria.

Fu impossibile accertare l'effetto della precedente guida di don Juan sul vero e proprio corso dell'esperienza; tuttavia, da quel momento in poi, la sua padronanza nel dirigere il risultato dei successivi stati di realtà non ordinaria fu chiarissima.

Dalla mia ricapitolazione dell'esperienza scelse le unità per dirigere la progressione verso forme singole specifiche e risultati totali specifici. Prese il resoconto delle mie azioni con un cane e lo collegò con l'idea che Mescalito era un'entità visibile, era capace di adottare qualsiasi forma, soprattutto era un'entità esterna.

Il racconto delle mie azioni servì inoltre a don Juan per disporre la progressione verso un campo di apprezzamento più esteso; in questo caso la progressione era verso un campo dipendente. Don Juan diede risalto positivo alla nozione che io mi ero mosso e avevo agito nella realtà non ordinaria quasi come avrei fatto nella vita quotidiana.

La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria fu impostata dando risalto negativo al racconto della mia incapacità di prestare attenzione logica agli elementi componenti percepiti. Don Juan suggerì che mi sarebbe stato possibile esaminare gli elementi con distacco e precisione; questa idea portò alla luce due caratteristiche generali della realtà non ordinaria: che era pragmatica e che aveva elementi componenti valutabili sensorialmente.

La mancanza di consenso ordinario per gli elementi componenti fu rivelata drammaticamente da un gioco reciproco di risalto positivo e negativo dato alle opinioni di spettatori che osservarono il mio comportamento durante il corso di quel primo stato di realtà non ordinaria.

Il periodo di preparazione che seguì il primo stato di realtà non ordinaria durò più di un anno. Don Juan impiegò quel periodo di tempo per introdurre ulteriori concetti componenti dell'uomo di conoscenza, e per rivelare alcune parti della regola dei due alleati. Evocò anche un lieve stato di realtà non ordinaria per mettere alla prova la mia affinità con l'alleato contenuto nella Datura inoxia. Don Juan usò tutte le vaghe sensazioni che provai nel corso di quello stato superficiale per delineare le caratteristiche generali dell'alleato mettendole a confronto con ciò che aveva isolato come le caratteristiche percepibili di Mescalito.

Il terzo passo nel preparare il consenso speciale alla corroborazione della regola era evocare un altro stato di realtà non ordinaria con la Lophopbora williamsii. Sembra che le precedenti istruzioni di don Juan mi avessero guidato a percepire questo secondo stato di realtà non ordinaria nella seguente maniera: La progressione verso lo specifico creava la possibilità di visualizzare un'entità la cui forma era cambiata notevolmente, dalla forma familiare di un cane nel primo stato fino alla forma completamente estranea di un composto antropomorfico che esisteva, apparentemente, fuori di me stesso.

La progressione verso un campo di apprezzamento più esteso fu evidente nella mia percezione di un viaggio. Nel corso di quel viaggio il campo di apprezzamento fu sia dipendente che indipendente, sebbene una maggioranza degli elementi componenti dipendesse dall'ambiente del precedente stato di realtà ordinaria.

La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria fu forse l'aspetto più rilevante del mio secondo stato. Mi fu evidente, in una maniera complessa e dettagliata, che ci si poteva muovere nella realtà non ordinaria.

Esaminai inoltre gli elementi componenti con distacco e precisione. Percepii con molta chiarezza la loro stabilità, la loro singolarità, e la loro mancanza di consenso.

Dalla mia ricapitolazione dell'esperienza don Juan mise in risalto quanto segue: per la progressione verso lo specifico diede risalto positivo al mio racconto di aver visto Mescalito come un composito antropomorfico. Il grosso della speculazione su questa area fu centrato sull'idea che Mescalito era capace di essere un maestro, e anche un protettore.

Per poter dirigere la progressione verso un campo di apprezzamento più esteso, don Juan diede risalto positivo al resoconto del mio viaggio, che ovviamente aveva avuto luogo nel campo dipendente; diede inoltre risalto positivo alla mia versione di scene di visioni che avevo visto sulla mano di Mescalito, scene che sembravano indipendenti dagli elementi componenti della precedente realtà ordinaria.

Il resoconto del mio viaggio e le scene viste sulla mano di Mescalito consentirono inoltre a don Juan di dirigere la progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria. In primo luogo tirò fuori l'idea che era possibile ottenere direzione; in secondo, interpretò le scene che riguardavano il giusto modo di vivere.

Alcune aree della mia ricapitolazione che avevano a che fare con la percezione di composti superflui non furono affatto messe in risalto, perché non erano utili per impostare la direzione dell'ordine intrinseco.

Il successivo stato di realtà non ordinaria, il terzo, fu indotto per la corroborazione della regola con l'alleato contenuto nella Datura inoxia. Il periodo di preparazione fu per la prima volta importante e notevole. Don Juan presentò le tecniche di manipolazione e rivelò che lo scopo specifico che io dovevo corroborare era la divinazione.

La sua precedente direzione dei tre aspetti dell'ordine intrinseco sembrò aver prodotto i seguenti risultati: la progressione verso lo specifico era manifestata nella mia capacità di percepire un alleato come una qualità; cioè, verificai l'asserzione che un alleato non era affatto visibile. La progressione verso lo specifico produsse inoltre la particolare percezione di una serie di immagini molto simili a quelle che avevo visto sulla mano di Mescalito. Don Juan interpretò queste scene come divinazione, o la corroborazione dello scopo specifico della regola.

La percezione di quelle scene comportò inoltre una progressione verso un campo di apprezzamento più esteso. Questa volta il campo era indipendente dall'ambiente della precedente realtà ordinaria. Le scene non sembravano sovrimposte agli elementi componenti, come lo erano le immagini che avevo visto sulla mano di Mescalito; in effetti, non c'erano altri elementi componenti oltre a quelli che facevano parte delle scene. In altre parole, l'intero campo di apprezzamento era indipendente.

La percezione di un campo completamente indipendente rivelò inoltre una progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria. La divinazione implicava che si poteva dare un valore utilitario a qualunque cosa fosse stata vista.

Allo scopo di dirigere la progressione verso lo specifico, don Juan diede risalto positivo all'idea che era impossibile muoversi coi propri mezzi nel campo di apprezzamento indipendente. Spiegò il movimento in tale campo come indiretto, e come compiuto, in questo particolare caso, dalle lucertole in qualità di strumenti. Per potei impostare la direzione del secondo aspetto del livello intrinseco, la progressione verso un campo di apprezzamento più esteso, centrò il grosso della sua speculazione sull'idea che le scene che avevo percepito, che erano le risposte alla divinazione, potevano essere state esaminate ed estese fin quanto volevo. Per guidare la progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria, don Juan diede risalto positivo all'idea che l'argomento da divinare doveva essere semplice e diretto per ottenere un risultato utilizzabile.

Anche il quarto stato di realtà non ordinaria fu evocato per la corroborazione della regola dell'alleato contenuto nella Datura inoxia. Lo scopo specifico della regola da corroborare aveva a che fare con il volo fisico in quanto costituiva un altro aspetto del movimento.

Un risultato del dirigere la progressione verso lo specifico può essere stata la percezione di librarsi col corpo nell'aria. Tale sensazione fu acuta, anche se mancava della profondità di tutte le precedenti percezioni di atti che avevo presumibilmente compiuto nella realtà non ordinaria. Sembrava che il volo con il corpo avesse avuto luogo in un campo di apprezzamento dipendente, e sembrava che avesse comportato il muoversi con il proprio potere, il che può essere stato il risultato di una progressione verso un campo di apprezzamento più ampio.

Due altri aspetti della sensazione di librarsi nell'aria possono essere stati il prodotto del dirigere la progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria. Erano, primo, la percezione della distanza, una percezione che creava la sensazione di un vero e proprio volo, e secondo, la possibilità di acquistare la direzione nel corso di quel movimento supposto.

Durante il successivo periodo di preparazione don Juan speculò sulla ipotetica natura deleteria dell'alleato contenuto nella Datura inoxia, e isolò le seguenti aree del mio resoconto. Per dirigere la progressione verso lo specifico, diede risalto positivo al mio ricordo di essermi librato attraverso l'aria. Sebbene non avessi percepito gli elementi componenti di quello stato di realtà non ordinaria con la chiarezza ormai consueta, la mia sensazione del movimento fu molto definita, e don Juan se ne servì per rinforzare il risultato specifico del movimento. La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria fu stabilita centrando il grosso della speculazione sull'idea che gli stregoni potevano percorrere in volo distanze enormi, una speculazione che dava origine alla possibilità che ci si potesse muovere nel campo di apprezzamento dipendente e quindi spostare tale movimento nella realtà ordinaria.

Il quinto stato di realtà non ordinaria fu prodotto dall'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana. Era la prima volta che usavo la pianta, e lo stato che seguì fu più simile a un esame che a un tentativo di corroborare la regola. Durante il periodo di preparazione don Juan presentò solo una tecnica di manipolazione; poiché non rivelò lo scopo specifico da verificare non credetti che lo stato fosse evocato per verificare la regola. Tuttavia la direzione del livello intrinseco di realtà non ordinaria disposto in precedenza sembrò terminare nei seguenti risultati.

Che la progressione venisse diretta verso risultati totali specifici produsse in me la percezione che i due alleati fossero differenti l'uno dall'altro, e che ciascuno dei due fosse differente da Mescalito. Percepii l'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana come una qualità, senza forma e invisibile, e che produceva una sensazione di incorporeità. La progressione verso un campo di apprezzamento più esteso risultò nella sensazione che l'ambiente totale della precedente realtà ordinaria, che rimaneva nell'ambito della mia consapevolezza, era usabile nella realtà non ordinaria; vale a dire, sembrava che l'espansione del campo dipendente avesse coperto tutto. La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria produsse in me la particolare percezione di poter passare attraverso agli elementi componenti entro il campo di apprezzamento dipendente, a dispetto del fatto che sembrassero elementi ordinari della vita quotidiana.

Don Juan non pretese la consueta ricapitolazione dell'esperienza; era come se l'assenza di uno scopo specifico avesse reso questo stato di realtà non ordinaria soltanto un prolungato stadio di transizione. Durante il successivo periodo preparatorio, tuttavia, speculò su certe osservazioni da lui fatte sul mio comportamento durante il corso dell'esperienza.

Diede risalto negativo all'impasse logica che mi impediva di credere che si potesse passare attraverso alle cose o alle persone. Con tale speculazione guidò la progressione verso un risultato totale specifico di movimento attraverso gli elementi componenti della realtà ordinaria percepita entro il campo di apprezzamento dipendente.

Don Juan usò quelle stesse osservazioni per dirigere il secondo aspetto del livello intrinseco, un campo di apprezzamento più esteso. Se era possibile il movimento attraverso le cose e le persone, allora il campo dipendente doveva espandersi in conformità; doveva abbracciare l'intero ambiente della precedente realtà ordinaria che era entro la propria consapevolezza in qualsiasi momento dato, poiché il movimento comportava un costante cambiamento dell'ambiente circostante. Nella medesima speculazione era inoltre implicito che la realtà non ordinaria poteva essere usata in una maniera più pragmatica. Muoversi attraverso le cose e le persone implicava un definito punto di vantaggio inaccessibile a uno stregone nella realtà ordinaria.

Don Juan usò quindi una serie di tre stati di realtà non ordinaria, evocati dalla Lophophora williamsii, per preparare ulteriormente il consenso speciale alla corroborazione della regola. Questi tre stati sono qui trattati come una singola unità perché ebbero luogo durante quattro giorni consecutivi, e nelle poche ore trascorse negli intervalli tra di essi non ebbi alcuna comunicazione con don Juan. L'ordine intrinseco dei tre stati è stato inoltre considerato una singola unità con le seguenti caratteristiche. La progressione verso lo specifico produsse la percezione di Mescalito come un’entità visibile e antropomorfica, capace di insegnare. La capacità di dare lezioni implicava in Mescalito una capacità attiva nei confronti delle persone.

La progressione verso un campo di apprezzamento più esteso raggiunse un punto in cui percepii entrambi i campi nello stesso tempo, e fui incapace di stabilire la differenza tra di essi se non in termini di movimento. Nel campo dipendente mi era possibile muovermi con i miei propri mezzi e con la mia volontà, ma nel campo indipendente potevo muovermi solo con l'aiuto di Mescalito come strumento. Per esempio, le lezioni di Mescalito comprendevano una serie di scene che potei soltanto osservare. La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria era implicita nell'idea che Mescalito poteva realmente dare lezioni sulla giusta maniera di vivere.

Durante il periodo di preparazione che seguì l'ultimo stato di realtà non ordinaria in questa serie, don Juan scelse le seguenti unità. Per la progressione verso lo specifico diede risalto positivo all'idea che Mescalito era un mezzo nel far muovere una persona attraverso il campo di apprezzamento indipendente, e che Mescalito era un'entità didattica capace di impartire lezioni col permettere di entrare in un mondo di visioni. Speculò inoltre sull'implicazione che Mescalito aveva pronunciato il suo nome e che mi aveva insegnato due canzoni; questi due casi furono considerati come esempi della capacità di Mescalito di essere un protettore. E il fatto che avessi percepito Mescalito come una luce fu messo in risalto come la possibilità che questi alla fine avrebbe potuto adottare per me una forma astratta e permanente.

Mettere in rilievo queste stesse unità servì inoltre a don Juan per dirigere la progressione verso un campo di apprezzamento più esteso. Durante il corso dei tre stati di realtà non ordinaria percepii chiaramente che il campo dipendente e quello indipendente erano due aspetti separati ugualmente importanti della realtà non ordinaria. Il campo indipendente era l'area in cui Mescalito impartiva le sue lezioni, e dal momento che si supponeva che questi stati di realtà non ordinaria dovessero essere evocati solo per ricercare tali lezioni, il campo indipendente era, logicamente, un'area di speciale importanza. Mescalito era un protettore e un maestro, il che significava che era visibile; ma la sua forma non aveva nulla a che fare con il precedente stato di realtà ordinaria. D'altra parte, si supponeva che si dovesse viaggiare, che ci si dovesse muovere nella realtà non ordinaria, per ricercare le lezioni di Mescalito, un'idea che implicava l'importanza del campo dipendente.

La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria fu impostata dedicando il grosso della speculazione alle lezioni di Mescalito. Don Juan concepì tali lezioni come indispensabili per la vita di un uomo; era una chiara deduzione che indicava che la realtà non ordinaria poteva essere usata in una maniera più pragmatica per trarre punti di riferimento che avessero valore nella realtà ordinaria. Era la prima volta che don Juan esprimeva a parole tale implicazione.

Il successivo stato di realtà non ordinaria, il nono nel corso degli insegnamenti, fu indotto per corroborare la regola dell'alleato contenuto nella Datura inoxia. Lo scopo specifico da corroborare in quello stato riguardava la divinazione, e la precedente direzione del livello intrinseco terminava nei seguenti punti. La progressione verso un risultato totale specifico creava la percezione di una coerente serie di scene, che si pretendeva fosse la voce della lucertola che narrava gli avvenimenti da divinare, e la sensazione di una voce che realmente descriveva tali scene. La progressione verso un campo di apprezzamento dipendente risultò nella percezione di un campo indipendente esteso e chiaro che era libero dall'influenza estranea della realtà ordinaria. La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria terminava nelle possibilità utilitaristiche di sfruttamento del campo indipendente. Quella particolare tendenza fu iniziata dalla speculazione di don Juan sulla possibilità di trarre punti di riferimento dal campo indipendente e usarli nella realtà ordinaria. Quindi le scene di divinazione avevano un ovvio valore pragmatico, perché si pensava che rappresentassero una visione di atti compiuti da altri, atti a cui non si avrebbe avuto accesso alcuno con mezzi ordinari.

Nel periodo preparatorio seguente don Juan diede risalto ad altri temi componenti dell'uomo di conoscenza. Sembrava che si stesse preparando a spostarsi alla ricerca di uno solo dei due alleati, l'alleato humito. Tuttavia diede risalto positivo all'idea che io avessi una stretta affinità con l'alleato contenuto nella Datura inoxia, perché quest'ultimo mi aveva permesso di assistere a un caso di elasticità della regola quando avevo fatto un errore nell’eseguire una tecnica di manipolazione. La mia assunzione che don Juan fosse pronto ad abbandonare l'insegnamento della regola dell'alleato contenuto nella Datura inoxia era alimentata dal fatto che egli non isolò nessuna area della mia ricapitolazione per spiegare la direzione del livello intrinseco dei successivi stati di realtà non ordinaria.

Venne poi una serie di tre stati di realtà non ordinaria evocati per corroborare la regola dell'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana. Sono stati trattati qui come una singola unità. E sebbene tra di essi fosse trascorso un periodo di tempo considerevole, durante gli intervalli don Juan non fece alcun tentativo di speculare su qualche aspetto del loro ordine intrinseco.

Il primo stato della serie fu vago; terminò rapidamente e i suoi elementi componenti non furono precisi. Sembrò più uno stadio di transizione che non un vero e proprio stato di realtà non ordinaria.

Il secondo stato ebbe una maggiore profondità. Per la prima volta percepii separatamente lo stadio di transizione nella realtà non ordinaria. Durante il corso di quel primo stadio di transizione don Juan rivelò che lo scopo specifico della regola, che io dovevo corroborare, aveva a che fare con un altro aspetto del movimento, un aspetto che richiedeva la sua completa supervisione; ho descritto tale aspetto come ‘muoversi adottando una forma sostitutiva’. Come conseguenza diventarono evidenti per la prima volta due aspetti del livello estrinseco della realtà non ordinaria: gli stadi di transizione, e la supervisione del maestro.

Don Juan usò la sua supervisione durante quel primo stadio di transizione per definire la successiva direzione dei tre aspetti del livello intrinseco. I suoi sforzi furono diretti, in primo luogo, a produrre un risultato totale specifico col guidarmi a sperimentare la precisa sensazione di avere adottato la forma di un corvo.

La possibilità di adottare una forma sostitutiva per acquistare il movimento nella realtà non ordinaria comportava a sua volta una espansione del campo di apprezzamento dipendente, la sola area in cui poteva aver luogo tale movimento.

L'uso pragmatico della realtà non ordinaria fu determinato guidandomi a mettere a fuoco la mia attenzione su certi elementi componenti del campo dipendente, per poterli usare come punti di riferimento per muovermi.

Durante il periodo di preparazione che seguì il secondo stato della serie, don Juan rifiutò di speculare su qualsiasi parte della mia esperienza. Trattò il secondo stato come se fosse stato semplicemente un altro prolungato stadio di transizione.

Il terzo stato della serie, tuttavia, fu di somma importanza negli insegnamenti. Fu uno stato in cui il processo di direzione del livello intrinseco culminò nei seguenti risultati. La progressione verso lo specifico creò la facile percezione che io avevo adottato una forma sostitutiva in maniera così completa che essa addirittura induceva precisi adattamenti nel modo in cui mettevo a fuoco gli occhi e nel mio modo di vedere. Un risultato di tali adattamenti fu la mia percezione di un nuovo aspetto del campo di apprezzamento dipendente — le minuzie che formavano gli elementi componenti — e quella percezione dilatò definitamente il campo di apprezzamento. La progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria culminò nella mia consapevolezza che fosse possibile muoversi nel campo dipendente altrettanto pragmaticamente come quando si cammina nella realtà ordinaria.

Nel periodo di preparazione che seguì l'ultimo stato di realtà non ordinaria, don Juan introdusse un differente tipo di riepilogo. Scelse le aree da rievocare prima ancora di aver ascoltato il mio resoconto; vale a dire, volle ascoltare solo i resoconti che si riferivano all'uso pragmatico della realtà non ordinaria e al movimento.

Da questi resoconti impostò la progressione verso lo specifico dando risalto positivo alla mia versione di come avevo sfruttato la mia forma di corvo. Tuttavia diede importanza solo all'idea del movimento dopo aver adottato quella forma. Il movimento fu l'area del mio riepilogo alla quale diede un gioco reciproco di risalto positivo e negativo. Diede risalto positivo al resoconto quando questo valorizzava l'idea della natura pragmatica della realtà non ordinaria, o quando aveva a che fare con la percezione di elementi componenti che mi avevano permesso di ottenere un senso generale di orientamento, pur muovendomi apparentemente nel campo di apprezzamento dipendente. Diede risalto negativo alla mia incapacità di ricordare con precisione la natura o la direzione di tale movimento.

Nel dirigere la progressione verso un più ampio campo di apprezzamento, don Juan centrò la sua speculazione sul mio resoconto della particolare maniera in cui avevo percepito le minuzie che formavano gli elementi componenti che erano entro il campo dipendente. La sua speculazione mi spinse all'ipotesi che, se era possibile vedere il mondo come lo vede un corvo, il campo di apprezzamento dipendente doveva espandersi in profondità e doveva estendersi fino ad abbracciare l'intera gamma della realtà ordinaria.

Per dirigere la progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria, don Juan spiegò il mio particolare modo di percepire gli elementi componenti come la maniera in cui un corvo vede il mondo. E logicamente, quella maniera di vedere presupponeva l'ingresso in un campo di fenomeni che era al di là delle possibilità normali nella realtà ordinaria.

L'ultima esperienza registrata nei miei appunti sul campo fu uno stato speciale di realtà ordinaria; don Juan lo produsse isolando elementi componenti della realtà ordinaria attraverso il processo del suggerimento riguardante il proprio comportamento.

I processi generali usati nel dirigere il livello intrinseco della realtà non ordinaria produssero i seguenti risultati durante il corso del secondo stato speciale di realtà ordinaria. La progressione verso lo specifico risultò nel facile isolamento di molti elementi della realtà ordinaria. Nel primo stato speciale di realtà ordinaria, i pochissimi elementi componenti isolati attraverso il processo del suggerimento riguardante l'ambiente furono trasformati inoltre in forme non familiari private di consenso ordinario; tuttavia, nel secondo stato speciale di realtà ordinaria i suoi elementi componenti furono numerosi, e, anche se non persero la loro qualità di elementi familiari, possono aver perso la loro capacità di consenso ordinario. Tali elementi componenti coprivano, forse, l'intero ambiente nell'ambito della mia consapevolezza.

Don Juan può aver prodotto questo secondo stato speciale per rinforzare il legame tra realtà ordinaria e non ordinaria sviluppando la possibilità che la maggior parte degli elementi componenti della realtà ordinaria, se non tutti, potevano perdere la loro capacità di ottenere consenso ordinario.

Dal mio punto di vista, tuttavia, quell'ultimo stato speciale fu la somma finale del mio noviziato. La formidabile scossa di terrore sulla mia coscienza in condizioni di sobrietà ebbe il particolare effetto di minare alla base la mia certezza che la realtà della vita quotidiana fosse implicitamente reale, la certezza che io, in fatto di realtà ordinaria, potevo provvedermi indefinitamente di consenso. Fino a quel punto il corso del mio noviziato sembrò essere stato un continuo costruire per arrivare al crollo di quella certezza. Don Juan usò ogni sfumatura del suo sforzo drammatico per realizzare il crollo durante quell'ultimo stato speciale, un fatto che mi spinse a credere che il crollo completo di quella certezza, avrebbe rimosso l'ultima barriera che mi impediva di accettare l'esistenza di una realtà separata: la realtà del consenso speciale.

 

 


APPENDICE B:
SCHEMA DI ANALISI STRUTTURALE.

 

 

 

L'ORDINE OPERATIVO

 

 

LA PRIMA UNITÀ: UOMO DI CONOSCENZA.

 

Diventare un uomo di conoscenza è un fatto di apprendimento. 

Non vi sono requisiti manifesti.

Vi sono alcuni requisiti non manifesti.

Un novizio è scelto da un potere impersonale.

Colui che è stato scelto (escogito). Le decisioni del potere sono indicate attraverso presagi.

 

Un uomo di conoscenza ha un intento inflessibile. 

Sobrietà.

Sicurezza di giudizio.

Mancanza di libertà di innovare.

 

Un uomo di conoscenza ha lucidità mentale. 

Libertà di cercare un sentiero.

Conoscenza dello scopo specifico.

Essere fluido.

 

Diventare un uomo di conoscenza è un fatto di strenuo sforzo. 

Sforzo drammatico.

Efficacia.

Sfida.

 

Un uomo di conoscenza è un guerriero. 

Deve avere rispetto.

Deve avere timore.

Deve essere vigile.

Consapevolezza di intento. Consapevolezza del cambiamento aspettato.

Deve essere sicuro di sé.

 

Diventare un uomo di conoscenza è un processo senza sosta

Deve rinnovare la ricerca del diventare un uomo di conoscenza.

È precario.

Deve seguire il sentiero che ha un cuore.

 

 

LA SECONDA UNITÀ: UN UOMO DI CONOSCENZA HA UN ALLEATO.

 

Un alleato è senza forma.

 

Un alleato è percepito come una qualità.

L'alleato contenuto nella Datura inoxia:

È femminile. È possessivo. È violento. È imprevedibile. Ha un effetto deleterio sul carattere dei suoi seguaci. È un dispensatore di potere superfluo.

L'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana:

È maschile. È imparziale. È dolce. È prevedibile. È benefico per il carattere dei suoi seguaci. È un dispensatore di estasi.

 

Un alleato può essere domato.

Un alleato è un veicolo.

L'alleato contenuto nella Datura inoxia è imprevedibile. L'alleato contenuto nella Psilocybe mexicana è prevedibile.

Un alleato è un aiutante.

 

 

LA TERZA UNITÀ: UN ALLEATO HA UNA REGOLA.

 

La regola è Inflessibile.

Eccezione dovuta al diretto intervento dell'alleato.

 

La regola è non cumulativa.

 

La regola è corroborata nella realtà ordinaria.

 

La regola è corroborata nella realtà non ordinaria.

Gli stati di realtà non ordinaria.

La realtà non ordinaria è utilizzabile. La realtà non ordinaria ha elementi componenti. Gli elementi componenti hanno stabilità. Hanno singolarità. Mancano di consenso ordinario.

Gli scopi specifici della regola.

Primo scopo specifico, mettere alla prova (Datura inoxia). Tecnica di manipolazione, ingerimento. Secondo scopo specifico, divinazione (Datura inoxia). Tecnica di manipolazione, ingerimento-assorbimento. Terzo scopo specifico, volo fisico (Datura inoxia). Tecnica di manipolazione, ingerimento-assorbimento. Quarto scopo specifico, mettere alla prova (Psilocybe mexicana). Tecnica di manipolazione, ingerimento-inalazione. Quinto scopo specifico, movimento (Psilocybe mexicana). Tecnica di manipolazione, ingerimento-inalazione. Sesto scopo specifico, movimento mediante l'adozione di una forma sostitutiva (Psilocybe mexicana). Tecnica di manipolazione, ingerimento-inalazione.

 

 

LA QUARTA UNITÀ: LA REGOLA È CORROBORATA MEDIANTE CONSENSO SPECIALE.

 

Il benefattore.

 

Preparazione del consenso speciale. 

Gli altri stati di realtà non ordinaria.

Sono prodotti da Mescalito. È contenuto. Il contenitore è il potere stesso. Non ha una regola. Non ha bisogno di noviziato. È un protettore. È un maestro. Ha una forma definita. La realtà non ordinaria è utilizzabile. La realtà non ordinaria ha elementi componenti.

Gli stati speciali di realtà ordinaria.

Sono prodotti dal maestro. Suggerimento riguardante l'ambiente. Suggerimento riguardante il comportamento.

Il riepilogo dell'esperienza.

La rievocazione degli avvenimenti. La descrizione degli elementi componenti Risalto. Risalto positivo. Risalto negativo. Mancanza di risalto.

Guida del consenso speciale.

 

Il livello estrinseco della realtà non ordinaria.

 

Il periodo preparatorio.

Il periodo precedente alla realtà non ordinaria. Il periodo seguente la realtà non ordinaria.

Gli stati di transizione.

La supervisione del maestro.

 

Il livello intrinseco della realtà non ordinaria.

 

Progressione verso lo specifico.

Forme singole specifiche. Progressiva complessità dei dettagli percepiti. Progressione dalle forme familiari a quelle non familiari. Risultati totali specifici.

Progressione verso un campo di apprezzamento più esteso.

Campo dipendente. Campo indipendente.

Progressione verso un uso più pragmatico della realtà non ordinaria.

 

Progressione verso lo specifico in stati speciali di realtà ordinaria.

 

 

L'ORDINE CONCETTUALE

 

 

 

Il novizio.

 

L'adozione fallace dell'ordine concettuale.

L'adozione in buona fede dell'ordine concettuale.

La realtà del consenso speciale. La realtà del consenso speciale ha valore pragmatico.

 


1) Bull-roarer: tavoletta vibrante fatta ruotare mediante una corda, il cui caratteristico rumore è sfruttato presso molti gruppi primitivi per simulare la presenza di un essere potente e misterioso. [N.d.T.].  ↵

2) Si veda l'Appendice B per una esposizione schematica delle unità della mia analisi strutturale.  ↵

3) Per il processo di convalida del consenso speciale si veda l'Appendice A.  ↵

 


 


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