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Viaggio A Ixtlan - Carlos Castaneda (Testo integrale)




INTRODUZIONE.
 

Sabato 22 maggio 1971 andai a Sonora, in Messico, a trovare don Juan Matus, uno stregone indiano yaqui con cui ero stato in rapporto fin dal 1961. Pensavo che la mia visita di quel giorno non sarebbe stata diversa dalle tante altre dei dieci anni in cui ero stato suo discepolo. Gli avvenimenti di quel giorno e dei seguenti, invece, furono per me molto importanti. In quell'occasione il mio noviziato giunse alla fine. Non si trattò di un mio arbitrario ritiro, bensì di una conclusione in buona fede.

Ho già esposto il mio noviziato in due libri precedenti: "The Teachings of Don Juan" e "A Separate Reality" (1).

In entrambi i libri mia assunzione di base era che i punti cruciali del tirocinio di stregone fossero gli stati di realtà non ordinaria prodotti dall'ingerimento di piante psicotrope.

Da questo punto di vista don Juan era un esperto nell'uso di tre piante: "Datura inoxia", nota anche come erba del diavolo; "Lophophora williamsii", nota come peyote; e un fungo allucinogeno del genere "Psilocybe".

La mia percezione del mondo attraverso gli effetti di quelle piante psicotrope era stata così bizzarra e impressionante da costringermi a supporre che fossero le sole vie per comunicare e imparare ciò che don Juan tentava di insegnarmi.

Ma era una supposizione errata.

Al fine di evitare qualsiasi fraintendimento sul mio lavoro con don Juan vorrei chiarire a questo punto le seguenti questioni.

Finora non ho fatto alcun tentativo di situare don Juan in un "milieu" culturale. Il fatto che egli si consideri uno stregone yaqui non significa che la sua conoscenza della stregoneria sia nota agli yaqui in genere o sia da essi praticata.

Tutte le conversazioni che avemmo durante tutto il noviziato si svolsero in spagnolo, e solo grazie all'assoluta padronanza che don Juan aveva di quella lingua riuscii a ottenere spiegazioni complesse del suo sistema di convinzioni.

Ho mantenuto la pratica di indicare quel sistema come stregoneria e ho anche mantenuto la pratica di indicare don Juan come stregone, infatti erano quelle le categorie da lui usate.

Avendo potuto trascrivere la maggior parte di ciò che fu detto al principio del noviziato e tutto ciò che fu detto nelle fasi successive, ho raccolto voluminosi appunti sul campo; ma per renderli leggibili e preservare tuttavia l'unità drammatica degli insegnamenti di don Juan, ho dovuto rimaneggiarli e limarli; credo però che le parti cancellate non abbiano importanza per le questioni che voglio trattare.

Nel caso del mio lavoro con don Juan ho limitato i miei sforzi esclusivamente a vederlo come stregone e ad entrare come "membro" nella sua conoscenza.

Al fine di presentare la mia trattazione devo innanzitutto spiegare le premesse di base della stregoneria come don Juan le ha presentate a me. Don Juan mi disse che per uno stregone il mondo della vita quotidiana non è reale, o qui intorno a noi, come crediamo. Per lo stregone la realtà, o il mondo che noi tutti conosciamo, è solo una descrizione.

Per convalidare questa premessa, don Juan concentrò i suoi sforzi migliori per convincermi oltre ogni possibilità di dubbio che il mondo da me ritenuto reale era semplicemente una descrizione del mondo: una descrizione inculcatami fin dal momento della mia nascita.

Don Juan osservò che chiunque venga in contatto con un bambino è un maestro che gli descrive incessantemente il mondo, fino al momento in cui il bambino è capace di percepire il mondo come gli è stato descritto. Secondo don Juan, non abbiamo alcun ricordo di quel portentoso momento, semplicemente perché nessuno di noi potrebbe mai aver avuto un qualsiasi punto di riferimento per confrontarlo. Da quel momento in avanti, tuttavia, il bambino è un "membro". Conosce la descrizione del mondo; e la sua "qualità di membro" diventa completa, suppongo, quando è capace di trarre tutte le appropriate interpretazioni percettuali che, conformandosi a quella descrizione, la convalidano.

Per don Juan, quindi, la realtà della nostra vita quotidiana consiste in un interminabile flusso di interpretazioni percettuali che noi, gli individui che condividono una specifica appartenenza, abbiamo imparato in comune a trarre.

L'idea che le interpretazioni concettuali che costituiscono il mondo abbiano un flusso è conforme al fatto che esse scorrono ininterrottamente e sono raramente, o mai, suscettibili di discussione. In effetti, la realtà del mondo che conosciamo è data a tal punto per scontata che la premessa di base della stregoneria, che la nostra realtà è semplicemente una delle tante descrizioni, potrebbe difficilmente venir presa come una proposizione seria.

Per buona sorte, nel caso del mio noviziato, don Juan non si curò affatto se io prendevo o no sul serio la sua proposizione, e procedette a chiarire ciò che intendeva a dispetto della mia opposizione, incredulità e incapacità di comprendere ciò che diceva. Perciò, nella sua qualità di maestro di stregoneria, don Juan si sforzò di descrivermi il mondo fin dalla prima volta in cui parlammo insieme. La mia difficoltà di afferrare i suoi concetti e i suoi metodi nasceva dal fatto che le unità della sua descrizione erano estranee e incompatibili con le mie.

Sua affermazione era che egli mi insegnava a 'vedere' in quanto opposto al semplice 'guardare', e che 'fermare il mondo' era il primo passo del 'vedere'.

Per anni avevo considerato l'idea del 'fermare il mondo' come un'oscura metafora priva in realtà di significato. Fu solo durante una conversazione informale svoltasi verso la fine del mio noviziato che riuscii a comprenderne in pieno lo scopo e l'importanza come una delle principali proposizioni della conoscenza di don Juan.

Con don Juan avevamo parlato di cose disparate in tono rilassato e casuale. Gli avevo detto di un mio amico e del problema che aveva per suo figlio di nove anni. Il bambino era vissuto con la madre negli ultimi quattro anni e ora viveva col mio amico, e il problema era cosa farne? Secondo il mio amico, il bambino era uno spostato a scuola: mancava di concentrazione e non si interessava a nulla. Era facilmente vittima di attacchi di collera, di comportamento dissociato, e in quei momenti fuggiva di casa.

«E' certo un bel problema per il tuo amico», disse don Juan ridendo.

Volli continuare a raccontargli tutte le 'terribili' cose che il bambino aveva fatto, ma don Juan mi interruppe.

«E' inutile parlare ancora di quel povero bambino», disse. «Per te o per me è inutile considerare le sue azioni in un modo o in un altro».

Aveva parlato bruscamente e in tono fermo, ma subito dopo sorrise.

«Che può fare il mio amico?», chiesi.

«La cosa peggiore sarebbe costringere il bambino a esser d'accordo con lui», rispose.

«Che volete dire?».

«Voglio dire che quel bambino non dovrebbe essere sculacciato o spaventato dal padre quando non si comporta come il padre vorrebbe».

«Ma come potrebbe insegnargli qualcosa se non è severo con lui?».

«Il tuo amico dovrebbe fare in modo che sia un altro a sculacciare il figlio».

«Ma non permetterebbe a nessuno di toccare suo figlio!», esclamai, sorpreso da quel suggerimento.

Don Juan sembrò divertito dalla mia reazione e ridacchiò.

«Il tuo amico non è un guerriero», disse. «Se lo fosse, saprebbe che affrontare gli esseri umani bruscamente è la peggior cosa da fare».

«Cosa fa un guerriero, don Juan?».

«Un guerriero si comporta strategicamente».

«Ancora non capisco quello che volete dire».

«Voglio dire che se il tuo amico fosse un guerriero aiuterebbe suo figlio a "fermare il mondo"».

«Come potrebbe farlo il mio amico?».

«Avrebbe bisogno di potere personale. Dovrebbe essere uno stregone».

«Ma non lo è».

«In tal caso deve usare mezzi normali per aiutare suo figlio a cambiare la sua idea del mondo. Non è come "fermare il mondo", ma funzionerebbe altrettanto».

Gli chiesi di spiegarsi.

«Se fossi il tuo amico», disse don Juan, «incomincerei col prezzolare qualcuno perché sculacci il bambino. Andrei nei bassifondi e assumerei l'individuo più brutto che potessi trovare».

«Per spaventare un bambino?».

«Non solo per spaventare un bambino, sciocco. Quel ragazzino deve essere "fermato", ed essere sculacciato da suo padre non servirebbe.

«Se si vuole "fermare" i nostri simili, bisogna sempre essere al di fuori del cerchio che li comprime. In tal modo si può sempre dirigere la pressione».

Era un'idea strampalata, ma in certo qual modo mi attirava.

Don Juan stava col mento reclinato sul palmo della mano sinistra, il braccio sinistro appoggiato davanti al petto su una cassa di legno che fungeva da tavolino basso. Teneva gli occhi chiusi ma le pupille si muovevano. Sentii che mi guardava attraverso le palpebre chiuse e questo mi spaventò.

«Ditemi che altro dovrebbe fare il mio amico col suo bambino», chiesi.

«Digli di andare nei bassifondi e scegliere con molta attenzione un derelitto molto brutto», riprese. «Digli di sceglierne uno giovane, uno che abbia ancora forza».

Quindi don Juan prospettò una strana strategia. Dovevo spiegare al mio amico di fare in modo che l'uomo lo seguisse e lo aspettasse in un luogo dove sarebbe andato con suo figlio. L'uomo, seguendo un segnale prestabilito, da dare dopo un comportamento sconveniente da parte del bambino, avrebbe dovuto balzar fuori da un nascondiglio, afferrare il bambino e sculacciarlo di santa ragione.

«Quando l'uomo ha spaventato il bambino, il tuo amico lo deve aiutare a riacquistare la sua fiducia, con qualsiasi mezzo. Se segue questo procedimento tre o quattro volte, ti assicuro che il bambino cambierà il suo atteggiamento nei confronti di tutto. Cambierà la sua idea del mondo».

«E se lo spavento gli fa male?».

«Uno spavento non fa mai male a nessuno. Quello che fa male allo spirito è avere sempre qualcuno alle costole, che ti picchia, che ti insegna quello che devi e non devi fare.

«Quando il bambino è più obbediente, devi dire al tuo amico di fare per lui un'ultima cosa. Deve trovare il modo di arrivare a un bambino morto, magari in un ospedale o nello studio di un medico. Deve portarci suo figlio e fargli vedere il bambino morto. Deve fargli toccare il cadavere una sola volta con la mano sinistra, in qualsiasi punto del corpo tranne la pancia. Quando il bambino avrà fatto ciò sarà cambiato, per lui il mondo non sarà mai più lo stesso».

Compresi allora che negli ultimi anni passati insieme don Juan aveva impiegato con me, sebbene su scala differente, le stesse tattiche che il mio amico avrebbe dovuto usare con suo figlio. Glielo chiesi. Rispose che aveva sempre cercato di insegnarmi a 'fermare il mondo'.

«Non ci sei ancora riuscito», disse sorridendo. «Sembra che non ci sia modo, perché sei molto ostinato. Se tu fossi meno ostinato, tuttavia, ormai avresti probabilmente "fermato il mondo" con una qualunque delle tecniche che ti ho insegnato».

«Che tecniche, don Juan?».

«Tutto quello che ti ho detto di fare era una tecnica per "fermare il mondo"».

Qualche mese dopo questa conversazione don Juan portò a compimento quello che si era proposto di fare, insegnarmi a 'fermare il mondo'.

Quell'importantissimo avvenimento mi costrinse a riesaminare dettagliatamente il mio lavoro di dieci anni. Mi fu evidente che la mia originaria supposizione circa il ruolo delle piante psicotrope era erronea. Le piante non erano l'elemento essenziale della descrizione del mondo dello stregone, erano solo un aiuto per, diciamo così, cementare parti della descrizione che altrimenti sarei stato incapace di percepire. La mia insistenza sulla mia versione standard della realtà mi rendeva quasi cieco e sordo agli scopi di don Juan. Quella che li aveva impediti era stata perciò semplicemente la mia mancanza di sensibilità.

Riesaminando tutti i miei appunti sul campo mi accorsi che don Juan, proprio al principio del nostro sodalizio, mi aveva dato la maggior parte della nuova descrizione in quelle che chiamava 'tecniche per fermare il mondo'. Nei primi libri avevo scartato quelle parti dei miei appunti sul campo perché non avevano attinenza con l'uso delle piante psicotrope. Ora ho doverosamente reinsediato quelle parti entro la portata degli insegnamenti di don Juan, e comprendono i primi diciassette capitoli di questo libro. Gli ultimi tre capitoli sono gli appunti sul campo che abbracciano gli avvenimenti culminati nel mio 'fermare il mondo'.

Riassumendo, posso dire che quando incominciai il noviziato c'era un'altra realtà, per così dire, c'era una descrizione stregonesca del mondo che io non conoscevo.

Don Juan, come stregone e maestro, mi insegnò quella descrizione. I miei dieci anni di noviziato consistettero quindi nel costruire quella realtà sconosciuta svelandone la descrizione, aggiungendo parti sempre più complesse a mano a mano che procedevo.

Il termine del noviziato significava che avevo imparato una nuova descrizione del mondo in maniera convincente e autentica ed ero perciò capace di suscitare una nuova percezione del mondo, che si adattava alla sua nuova descrizione. In altre parole, ero diventato "membro".

Don Juan affermava che per poter arrivare a 'vedere' si doveva prima 'fermare il mondo'. 'Fermare il mondo' era davvero una traduzione appropriata di certi stati di consapevolezza in cui la realtà della vita quotidiana è alterata perché il flusso di interpretazione, che d'ordinario scorre ininterrottamente, è stato fermato da una serie di circostanze estranee a quel flusso. Nel mio caso la serie di circostanze estranee al mio normale flusso di interpretazione era la descrizione del mondo secondo la stregoneria. La condizione preliminare di don Juan per 'fermare il mondo' era che si doveva essere convinti: in altre parole, si doveva imparare la nuova descrizione in senso totale, al fine di opporla alla vecchia, e in quel modo infrangere la certezza dogmatica, da noi tutti condivisa, che la validità delle nostre percezioni o la nostra realtà del mondo non deve esser messa in discussione.

Dopo aver 'fermato il mondo', il passo successivo era 'vedere'; parola con cui don Juan intendeva ciò che vorrei definire «rispondere alle sollecitazioni percettuali di un mondo esterno alla descrizione che abbiamo imparato a chiamare realtà».

Voglio sostenere che tutti questi passi possono essere compresi solo in termini della descrizione a cui appartengono; e poiché era una descrizione che don Juan si sforzò di darmi fin dal principio, devo quindi lasciare che i suoi insegnamenti ne siano la sola via d'accesso. Ho perciò lasciato che le parole di don Juan parlassero da sole.


C. C.

1972.

 
1.
CONFERME DAL MONDO INTORNO A NOI.
 

«Ho sentito dire che sapete molte cose sulle piante, signore», dissi al vecchio indiano davanti a me.

Un amico mi aveva appena messo in contatto con lui, poi se n'era andato e avevamo dovuto presentarci da soli. Il vecchio aveva detto di chiamarsi Juan Matus.

«E' stato il tuo amico a dirtelo?», domandò in tono indifferente.

«Sì».

«Raccolgo le piante, o meglio le piante si lasciano raccogliere da me», disse dolcemente.

Eravamo nella sala d'aspetto di una stazione di autobus dell'Arizona. Gli chiesi in uno spagnolo molto formale se mi permetteva di interrogarlo. Dissi: «Mi permettereste, signore ["caballero"], di farvi qualche domanda?».

'Caballero', che deriva dalla parola '"caballo"', cavallo, significava in origine uomo a cavallo o un nobile sul cavallo.

Mi guardò interrogativamente.

«Sono un cavaliere senza cavallo», disse poi con un largo sorriso, quindi aggiunse: «Ti ho detto che il mio nome è Juan Matus».

Il suo sorriso mi piacque. Pensai che certo sapeva apprezzare la schiettezza e decisi arditamente di affrontarlo con una richiesta.

Gli dissi che mi interessavo alla raccolta e allo studio delle piante medicinali, e in particolare mi interessavano gli usi del cactus allucinogeno, il peyote, che avevo studiato estesamente all'università di Los Angeles.

Pensai che la mia presentazione fosse stata molto seria. Ero molto composto e sembravo a me stesso perfettamente credibile.

Il vecchio scosse il capo lentamente; incoraggiato dal suo silenzio aggiunsi che senza dubbio sarebbe convenuto a entrambi incontrarci per parlare del peyote.

Proprio in quel momento il vecchio sollevò il capo e mi guardò dritto negli occhi. Fu uno sguardo formidabile, eppure non era affatto minaccioso né incuteva sgomento: era uno sguardo che mi passava da parte a parte. La lingua mi si inceppò all'istante e non potei proseguire con le mie lodi su di me. Quella fu la fine del nostro incontro. Tuttavia don Juan lasciò una nota di speranza, disse che forse un giorno o l'altro avrei potuto andare a trovarlo a casa sua.

Sarebbe difficile valutare l'effetto dello sguardo di don Juan senza confrontare in qualche modo il mio inventario di esperienze con l'unicità di quell'episodio. Quando incominciai a studiare antropologia e quindi incontrai don Juan, ero già un esperto di 'espedienti'. Ero andato via da casa da molti anni e secondo il mio modo di vedere ciò significava che ero capace di badare a me stesso. Ogni volta che venivo mortificato sapevo di solito persuadere a modo mio o far concessioni, discutere, arrabbiarmi oppure, se non succedeva nulla, lagnarmi o commiserarmi; in altre parole, c'era sempre qualcosa che sapevo di poter fare nella determinata circostanza, e mai nella mia vita nessun essere umano aveva fermato il mio slancio con la prontezza e la decisione di don Juan quel pomeriggio. Ma non era solo il fatto di essere stato messo a tacere; altre volte non avevo potuto ribattere nulla al mio antagonista per via del rispetto che provavo per lui, però la mia collera o frustrazione si era manifestata nei miei pensieri. Invece lo sguardo di don Juan mi aveva annichilito al punto che non potevo nemmeno pensare coerentemente.

Ero rimasto completamente affascinato da quel suo sguardo stupendo e decisi di andarlo a cercare.

Dopo quel primo incontro mi preparai per sei mesi, leggendo degli usi del peyote tra gli indiani americani, in particolare del culto del peyote tra gli indiani delle pianure. Studiai ogni opera disponibile e quando mi sentii pronto tornai in Arizona.

 

Sabato 17 dicembre, 1960.

 

Trovai la casa dopo lunghe e spossanti ricerche tra gli indiani del luogo. Quando arrivai e mi parcheggiai era primo pomeriggio. Vidi don Juan seduto su una cassetta di legno per il latte. Sembrò riconoscermi e mi salutò mentre scendevo dall'automobile.

Ci scambiammo i convenevoli di prammatica e quindi gli confessai francamente che la prima volta che ci eravamo incontrati ero stato molto falso. Mi ero vantato di sapere molte cose sul peyote mentre in realtà non ne sapevo nulla. Don Juan mi fissò, i suoi occhi erano molto dolci.

Gli dissi che avevo studiato sei mesi per prepararmi al nostro incontro e che questa volta ne sapevo davvero molto di più.

Don Juan rise. Ovviamente nella mia affermazione c'era qualcosa che gli sembrava buffo. Rideva di me e mi sentii un po' confuso e offeso.

Evidentemente si accorse del mio disagio e mi assicurò che sebbene avessi avuto buone intenzioni, in realtà non c'era modo di prepararmi al nostro incontro.

Mi domandai se sarebbe stato conveniente chiedergli se la sua affermazione avesse un significato nascosto, ma non lo feci; tuttavia sembrò che don Juan avesse captato i miei sentimenti perché incominciò a spiegare quello che intendeva. Disse che i miei sforzi gli rammentavano una storia di certe persone che un re aveva perseguitato e ucciso tanto tempo fa. Disse che nella storia le persone perseguitate erano indistinguibili dai loro persecutori, solo che insistevano a pronunciare certe parole in una maniera particolare che era caratteristica soltanto loro; quell'errore, naturalmente, li tradiva. Il re aveva piazzato dei blocchi stradali nei punti strategici, dove un ufficiale faceva pronunciare una parola chiave a tutti quelli che passavano. Chi la sapeva dire come la pronunciava il re viveva, ma chi non sapeva era immediatamente messo a morte. Il centro della storia era che un giorno un giovane decise di prepararsi a passare il blocco stradale imparando a pronunciare la parola esattamente nel modo che piaceva al re.

Con un largo sorriso don Juan disse che il giovane impiegò ben 'sei mesi' per imparare alla perfezione quella pronuncia. Venne quindi il giorno della grande prova; il giovane si imbatté pieno di fiducia nel blocco stradale e aspettò che l'ufficiale gli chiedesse di pronunciare la parola.

A questo punto don Juan si interruppe molto drammaticamente e mi guardò. La pausa era molto studiata e mi sembrò un poco scadente, ma stetti al gioco. Avevo già sentito quella storia. Riguardava gli ebrei in Germania e il modo in cui si poteva riconoscere un ebreo da come pronunciava certe parole. Sapevo anche come andava a finire: il giovane sarebbe stato preso perché l'ufficiale aveva dimenticato la parola chiave e gli avrebbe chiesto di pronunciarne un'altra molto simile ma che il giovane non aveva imparato a dire correttamente.

Don Juan sembrava aspettare che gli chiedessi che cosa era accaduto; così feci.

«Che cosa gli accadde?», chiesi, cercando di apparire ingenuo e interessato alla storia.

«Il giovane, che era davvero astuto», riprese don Juan, «capì che l'ufficiale aveva dimenticato la parola chiave, e prima che potesse dire qualcosa confessò di essersi preparato per sei mesi».

Fece un'altra pausa e mi guardò con gli occhi che scintillavano maliziosamente. Questa volta mi aveva messo in imbarazzo. La confessione del giovane era un elemento nuovo e non sapevo più come sarebbe andata a finire la storia.

«Allora, cosa è successo?», chiesi, veramente interessato.

«Il giovane fu ucciso sull'istante, naturalmente», rispose don Juan scoppiando in una risata fragorosa.

Mi piacque molto il modo in cui aveva catturato il mio interesse; soprattutto mi era piaciuto come aveva collegato la storia al mio caso. Sembrava davvero che l'avesse costruita perché si adattasse a me. Don Juan si prendeva gioco di me in modo sottilissimo e artistico. Risi con lui.

Subito dopo gli dissi che per quanto stupido potessi apparire, ero davvero interessato ad apprendere qualcosa sulle piante.

«Mi piace camminare molto», disse.

Pensai che cambiasse deliberatamente discorso per evitare di rispondermi. Non volli oppormi con la mia insistenza.

Mi chiese se volevo andare con lui a fare una breve gita nel deserto. Gli risposi con slancio che mi sarebbe piaciuto molto passeggiare nel deserto.

«Non è un picnic», disse in tono di avvertimento.

Gli dissi che ero seriamente interessato a lavorare con lui. Dissi che avevo bisogno di informazioni, di qualunque tipo, sugli usi delle erbe medicinali, e che ero disposto a pagarlo per il suo tempo e la sua fatica.

«Lavorerete per me», dissi. «E vi pagherò».

«Quanto mi pagheresti?», chiese.

Individuai nella sua voce una nota di avidità.

«Qualsiasi somma pensiate sia appropriata».

«Pagami per il mio tempo... col tuo tempo», disse.

Pensai che fosse un tipo molto bizzarro. Gli dissi che non capivo quello che voleva dire. Mi rispose che sulle piante non c'era nulla da dire, perciò sarebbe stato per lui impensabile prendere il mio denaro.

Mi lanciò un'occhiata penetrante.

«Che stai facendo nella tua tasca?», chiese aggrottando le ciglia. «Stai giocando col tuo uccello?».

Si riferiva al fatto che io prendevo appunti su un piccolissimo taccuino dentro le enormi tasche della mia giacca a vento.

Quando gli dissi quello che facevo scoppiò a ridere di gusto.

Gli spiegai che non volevo disturbarlo scrivendo davanti a lui.

«Se vuoi scrivere, scrivi», disse. «Non mi disturbi affatto».

Camminammo nel deserto fino a quando fu quasi buio. Don Juan non mi mostrò nessuna pianta né parlò affatto di piante. Ci fermammo un momento a riposare vicino a certi grandi cespugli.

«Le piante sono molto strane», disse senza guardarmi. «Sono vive e sentono».

Proprio mentre pronunciava quelle parole una forte raffica di vento agitò la bassa vegetazione del deserto intorno a noi. I cespugli stormirono.

«Hai sentito?», mi chiese, portando la mano destra all'orecchio come per udire meglio. «Le foglie e il vento sono d'accordo con me».

Risi. L'amico che ci aveva messi in contatto mi aveva già avvertito di stare attento, perché il vecchio era molto eccentrico. Pensai che questo 'consenso delle foglie' fosse una delle sue eccentricità.

Camminammo ancora un po' ma don Juan non mi mostrò né colse nessuna pianta. Si limitò a passare attraverso i cespugli toccandoli delicatamente. Quindi si fermò, si mise a sedere su un sasso e mi disse di riposarmi e guardarmi intorno.

Insistei a parlare. Ancora una volta gli dissi che volevo tanto sapere delle piante, specialmente del peyote. Lo supplicai di diventare il mio informatore in cambio di qualche forma di ricompensa.

«Non mi devi pagare», rispose. «Puoi chiedermi tutto quello che vuoi. Ti dirò quello che so e poi ti dirò che cosa farne».

Mi chiese se l'accordo mi andava bene. Ne ero felice. Quindi aggiunse un'affermazione sibillina: «Forse sulle piante non c'è nulla da imparare, perché su di esse non c'è nulla da dire».

Non compresi quello che aveva detto o aveva voluto dire.

«Che avete detto?», domandai.

Ripeté tre volte la sua affermazione, e quindi tutta la zona fu scossa dal rombo di un reattore militare che volava a bassa quota.

«Ecco! Il mondo mi ha appena dato ragione», disse, portando la mano sinistra all'orecchio.

Lo trovai molto divertente. La sua risata era contagiosa.

«Siete dell'Arizona, don Juan?», chiesi, sforzandomi di mantenere la conversazione intorno al fatto che egli avrebbe dovuto essere il mio informatore.

Mi guardò e fece un cenno affermativo col capo. I suoi occhi parevano stanchi. Potei vedere il bianco sotto le sue pupille.

«Siete nato in questa località?».

Accennò di nuovo col capo senza rispondere. Sembrava un gesto affermativo, ma sembrava anche lo scatto nervoso di una persona che pensa.

«E tu da dove vieni?», chiese.

«Vengo dall'America del sud», risposi.

«E' un posto molto grande. Vieni da tutto quanto quel posto?».

I suoi occhi erano ridiventati penetranti mentre mi guardava.

Incominciai a spiegargli le circostanze della mia nascita, ma mi interruppe.

«Da questo punto di vista siamo uguali», disse. «Io vivo qui ora, ma in realtà sono uno yaqui di Sonora».

«Proprio così! Io invece sono di...».

Non mi lasciò terminare.

«Lo so, lo so», disse. «Tu sei chi sei, da qualsiasi parte tu provenga, come io sono uno yaqui di Sonora».

I suoi occhi si erano fatti molto scintillanti e la sua risata mi turbava stranamente. Mi fece sentire come se fossi stato colto a mentire. Provai un particolare senso di colpa, ebbi la sensazione che sapesse qualcosa che io non sapevo o non volevo dire.

Il mio strano imbarazzo crebbe. Don Juan doveva averlo notato perché si alzò in piedi e mi chiese se volevo andare a mangiare in un ristorante in città.

Ritornare a casa sua e quindi guidare fino in città mi fece sentire meglio, ma non ero ancora rilassato del tutto. Mi sentivo in certo qual modo minacciato, sebbene non potessi individuarne la ragione.

Al ristorante volli comprare per lui della birra, ma rispose che non beveva mai, nemmeno birra. Risi tra me. Non gli credevo; l'amico che ci aveva messi in contatto mi aveva detto che «per la maggior parte del tempo il vecchio non era in sé e parlava a vanvera». In realtà non mi importava se mi mentiva sulla sua abitudine di non bere. Mi piaceva; nella sua persona c'era qualcosa di molto confortante.

Dovevo avere sul volto un'espressione di dubbio perché don Juan spiegò subito che da giovane era abituato a bere, ma che un giorno aveva semplicemente smesso.

«La gente quasi mai capisce che possiamo tagliar via dalla nostra vita qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, proprio così». Schioccò le dita.

«Pensate che si possa smettere di fumare o di bere così facilmente?», chiesi.

«Sicuro!», rispose con grande convinzione. «Fumare e bere non sono nulla se vogliamo smettere».

Proprio in quel momento l'acqua che bolliva nella macchinetta del caffè emise un forte suono impertinente.

«Senti!», esclamò don Juan con gli occhi che brillavano. «L'acqua bollente è d'accordo con me».

Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Un uomo può ottenere consensi da tutto ciò che lo circonda».

Proprio in quell'istante cruciale la macchinetta del caffè mandò un suono gorgogliante davvero osceno.

Don Juan la guardò e disse dolcemente: «Grazie»; accennò col capo e scoppiò in una tonante risata.

Fui preso alla sprovvista. La sua risata era un po' troppo forte, ma ero veramente divertito da tutto quanto.

La mia prima vera seduta col mio 'informatore' terminò così. Mi disse arrivederci sulla porta del ristorante. Gli dissi che dovevo far visita ad alcuni amici e che avrei voluto tornare a trovarlo alla fine della settimana seguente.

«Quando sarete a casa?», chiesi.

Mi guardò con aria indagatrice.

«Ogni volta che verrai», rispose.

«Non so esattamente quando potrò venire».

«Allora vieni e non ti preoccupare».

«E se non ci sarete?»

«Ci sarò», disse sorridendo e si allontanò.

Lo rincorsi e gli chiesi se mi permetteva di portare una macchina fotografica per fotografare lui e la casa.

«Questo è fuori discussione», disse aggrottando le sopracciglia.

«E un registratore, vi darebbe fastidio?».

«Temo che neanche questo sia possibile».

Mi infastidii e incominciai ad arrabbiarmi. Dissi che non vedevo alcuna ragione logica per il suo rifiuto.

Don Juan scosse la testa negativamente.

«Scordatene», disse con forza. «E se vuoi vedermi ancora non parlarne più».

Inscenai un'ultima debole lamentela. Dissi che le fotografie e le registrazioni erano indispensabili per il mio lavoro. Don Juan rispose che c'era una sola cosa indispensabile per tutto ciò che facevamo. La chiamò 'lo spirito'.

«Non si può fare a meno dello spirito», disse. «E tu non ce l'hai. Preoccupati di questo e non delle fotografie»

«Che cosa...?».

Mi interruppe con un gesto della mano e arretrò di qualche passo.

«Fai in modo di tornare», disse dolcemente e mi salutò.

 

 2.
CANCELLAZIONE DELLA STORIA PERSONALE.
 

Giovedì 22 dicembre, 1960.

 

Don Juan era seduto per terra accanto alla porta di casa, con la schiena appoggiata al muro. Capovolse una cassetta di legno per il latte e mi invitò a sedere e a sentirmi come a casa mia. Gli offrii delle sigarette, ne avevo portato una stecca. Rispose che non fumava, ma accettò il dono. Parlammo del freddo delle notti nel deserto e di altri normali soggetti di conversazione.

Gli chiesi se interferivo con le sue abitudini. Mi guardò con una specie di cipiglio e rispose che non aveva abitudini fisse e che potevo restare con lui tutto il pomeriggio, se volevo.

Avevo preparato delle schede genealogiche e di parentela che volevo riempire col suo aiuto. Avevo anche compilato, basandomi sulla letteratura etnografica, un lungo elenco di tratti culturali che si presumeva appartenessero agli indiani di quella regione. Volevo scorrere l'elenco insieme a lui e segnare tutte le voci che gli fossero familiari.

Incominciai con le schede di parentela.

«Come chiamavate vostro padre?», chiesi.

«Lo chiamavo Papà», rispose in tono molto serio.

Mi sentii un po' seccato, ma pensai che non avesse capito bene.

Gli mostrai la scheda e spiegai che uno spazio era per il padre e un altro per la madre. Come esempio gli dissi le differenti parole usate in inglese e in spagnolo per indicare padre e madre.

Pensai che forse avrei dovuto incominciare dalla madre.

«Come chiamavate vostra madre?», chiesi.

«La chiamavo Mamma», rispose in tono candido.

«Voglio dire, quali altre parole usavate per chiamare vostro padre e vostra madre? Come li chiamavate?», dissi, cercando di essere paziente ed educato.

Si grattò il capo e mi guardò con un'espressione sciocca.

«Perdinci!», esclamò. «Hai ragione. Fammi pensare».

Dopo un istante di esitazione sembrò ricordare qualcosa e io mi preparai a scrivere.

«Bene», disse, come se fosse immerso in gravi pensieri, «in quale altro modo li chiamavo? Li chiamavo Ehi, ehi, Papà! Ehi, ehi, Mamma!».

Scoppiai a ridere pur non volendo. La sua espressione era veramente comica e in quel momento non sapevo se fosse un vecchio strampalato che si prendeva gioco di me o se fosse davvero un sempliciotto. Facendo ricorso a tutta la mia pazienza gli spiegai che erano domande serissime e che la compilazione di quelle schede era molto importante per il mio lavoro. Cercai di fargli capire l'idea di una genealogia e di una storia personale.

«Quali erano i nomi di vostro padre e di vostra madre?», chiesi.

Don Juan mi guardò con occhi dolci e limpidi.

«Non perdere tempo con questa merda», disse dolcemente ma con forza insospettata.

Non sapevo che dire; era come se fosse stato un altro a pronunciare quelle parole. Un momento prima era stato un goffo stupido indiano che si grattava la testa, poi aveva invertito le parti in un istante; lo stupido ero io, e lui mi fissava con uno sguardo indescrivibile che non era uno sguardo di arroganza, o di sfida, o di odio, o di disprezzo. I suoi occhi erano dolci, limpidi e penetranti.

«Non ho nessuna storia personale», disse dopo una lunga pausa. «Un giorno ho scoperto che la storia personale non mi era più necessaria e l'ho abbandonata, come il bere».

Non capivo bene quello che voleva dire; improvvisamente mi sentivo a disagio, minacciato. Gli ricordai che mi aveva assicurato che potevo fargli domande con tutta tranquillità. Ripeté che non gli importava affatto.

«Non ho più una storia personale», disse, lanciandomi un'occhiata indagatrice. «L'ho abbandonata un giorno quando ho sentito che non era più necessaria».

Lo fissai, cercando di scoprire i significati nascosti delle sue parole.

«Come si può abbandonare la propria storia personale?», domandai in tono polemico.

«Innanzitutto bisogna desiderare di abbandonarla», disse. «Quindi bisogna procedere armoniosamente a tagliarla via, a poco a poco».

«Ma perché si dovrebbe avere un simile desiderio?», esclamai.

Ero attaccatissimo alla mia storia personale. I miei legami con la famiglia erano profondi, sentivo onestamente che senza di essi la mia vita non avrebbe avuto continuità né scopo.

«Forse dovreste dirmi cosa intendete per abbandonare la propria storia personale», dissi.

«Toglierla di mezzo, è questo che voglio dire», rispose seccamente.

Insistei che probabilmente non avevo capito.

«Prendete il vostro caso, per esempio», dissi. «Voi siete uno yaqui. Questo non lo potete cambiare».

«Davvero lo sono?», chiese sorridendo. «Come lo sai?».

«E' vero!», esclamai. «Non posso saperlo con certezza a questo punto; ma voi lo sapete ed è questo che conta. E' questo che lo rende storia personale».

Sentii di aver colpito qualcosa.

«Il fatto che io sappia se sono o no uno yaqui non ne fa una storia personale», rispose. «Solo quando lo sa un altro diventa storia personale. E ti assicuro che nessuno lo saprà mai con certezza».

Avevo trascritto rozzamente tutto ciò che aveva detto; smisi di scrivere e lo guardai. Non riuscivo a figurarmi che tipo fosse. Ripercorsi mentalmente le mie impressioni su di lui: il modo misterioso e senza precedenti in cui mi aveva guardato nel nostro primo incontro, il suo fascino quando aveva affermato di ricevere consensi da tutto ciò che lo circondava, il suo irritante umorismo e la sua prontezza, la sua aria di stupidità in buona fede quando gli avevo chiesto del padre e della madre, e infine la forza insospettata delle sue asserzioni che mi avevano sconvolto.

«Tu non sai chi sono io, non è vero?», disse come se mi leggesse nel pensiero. «Non saprai mai chi o cosa sono, perché non ho una storia personale».

Mi chiese se avevo un padre. Risposi di sì. Disse che mio padre era un esempio di ciò che lui intendeva. Mi esortò a ricordare cosa pensava di me mio padre.

«Tuo padre conosce tutto di te», disse. «Perciò si è immaginato tutto di te. Sa quel che sei e ciò che fai, e non c'è potere sulla terra che possa fargli cambiare la sua opinione di te».

Don Juan disse che tutti quelli che mi conoscevano avevano un'idea di me, e che io continuavo ad alimentare tale idea con tutto ciò che facevo. «Non capisci?», chiese in tono drammatico. «Tu devi rinnovare la tua storia personale raccontando ai genitori, ai parenti e agli amici tutto ciò che fai. D'altra parte, se tu non avessi storia personale, non ci sarebbe bisogno di spiegazioni; nessuno sarebbe in collera o deluso per i tuoi atti. E soprattutto nessuno ti inchioderebbe con i suoi pensieri».

Improvvisamente l'idea mi fu chiara nella mente. Lo avevo quasi saputo da me, ma non l'avevo mai esaminato. Non avere storia personale era davvero un concetto attraente, per lo meno al livello intellettuale; mi dava però un senso di solitudine che trovavo minaccioso e sgradevole. Volli discutere con lui i miei sentimenti, ma mi trattenni; nella situazione c'era qualcosa di terribilmente assurdo. Mi pareva ridicolo cercare di impegnarmi in una discussione filosofica con un vecchio indiano che ovviamente non aveva la 'sofisticazione' di uno studente universitario. In qualche modo mi aveva distolto dalla mia intenzione originaria di interrogarlo sulla genealogia.

«Non so come siamo arrivati a questi discorsi, quando tutto quello che volevo era qualche nome per le mie schede», dissi, cercando di ricondurre la conversazione sull'argomento che volevo.

«E' semplicissimo», rispose. «Siamo finiti a parlare di questo perché ho detto che far domande sul passato di qualcuno è un mucchio di merda».

Il suo tono era fermo. Sentii che non c'era modo di smuoverlo, perciò cambiai tattica.

«Questa idea di non avere storia personale è una cosa che fanno gli yaqui?», chiesi.

«E' una cosa che faccio io».

«Dove l'avete imparata?».

«L'ho imparata nel corso della mia vita».

«Ve l'ha insegnata vostro padre?».

«No. Diciamo che l'ho imparata da me e ora te ne comunico il segreto, così oggi non te ne andrai a mani vuote».

Abbassò il tono della voce fino a un drammatico bisbiglio. Risi del suo istrionismo. Dovetti ammettere che recitava stupendamente. Per un attimo pensai di essere in presenza di un attore nato.

«Scrivi», mi disse in tono di protezione. «Perché no? Sembri più a tuo agio quando scrivi».

Lo guardai, e probabilmente gli occhi tradirono la mia confusione. Don Juan si batté le mani sulle cosce e rise con gran gusto.

«E' meglio cancellare tutta la storia personale», disse lentamente, come per darmi il tempo di scrivere nel mio goffo modo, «perché ciò ci libererebbe dall'ostacolo dei pensieri altrui».

Non riuscii a credere che lo avesse detto veramente. Provai un istante di grande imbarazzo. Don Juan doveva avermi letto sul viso la mia confusione interiore e la sfruttò immediatamente.

«Prendi te stesso, per esempio», riprese. «Proprio in questo momento non riesci a raccapezzarti, e questo perché ho cancellato la mia storia personale. A poco a poco ho creato una nebbia intorno a me e alla mia vita, e ora nessuno sa con certezza chi sono o cosa faccio».

«Ma voi, proprio voi, sapete chi siete, non è vero?», interloquii.

«Puoi scommetterci che... no», esclamò e si rotolò a terra, ridendo della mia espressione di sorpresa.

La sua pausa era stata abbastanza lunga da farmi credere che avrebbe detto di saperlo, come io prevedevo. Il suo sotterfugio mi pareva molto minaccioso; mi spaventai veramente.

«Ecco il piccolo segreto che oggi ti voglio confidare», disse a bassa voce. «Nessuno conosce la mia storia personale; nessuno sa chi sono o cosa faccio, nemmeno io».

Socchiuse gli occhi. Non guardava me ma al di là di me, sopra alla mia spalla destra. Era seduto a gambe incrociate, con la schiena diritta, e tuttavia sembrava molto rilassato. In quel momento era il ritratto stesso della ferocia. Fantasticai che fosse un capo indiano, un 'guerriero pellerossa' dei romantici racconti di frontiera della mia giovinezza. Mi lasciai trasportare dal mio romanticismo e mi sentii avvolgere da un'insidiosissima sensazione di ambivalenza. Potevo dire sinceramente che mi piaceva moltissimo e al tempo stesso dire che ne avevo un terrore mortale.

Don Juan conservò quell'espressione ancora un po'.

«Come posso sapere chi sono, quando sono tutto questo?», disse poi, accennando intorno a sé col capo.

Quindi mi guardò e sorrise.

«A poco a poco devi creare intorno a te una nebbia; devi cancellare tutto ciò che ti circonda finché non si possa dare più nulla per scontato, finché più nulla è certo o reale. Ora il tuo problema è che sei troppo reale. I tuoi sforzi sono troppo reali; i tuoi umori sono troppo reali. Non dar tanto per scontate le cose. Devi incominciare a cancellare te stesso».

«A che pro?», chiesi in tono bellicoso.

Allora mi fu chiaro che mi stava prescrivendo un comportamento. Per tutta la vita ero sempre andato in collera ogni volta che qualcuno tentava di dirmi quello che dovevo fare; il solo pensiero di sentirmi dire cosa dovevo fare mi metteva immediatamente sulla difensiva.

«Hai detto che volevi imparare a conoscere le piante», disse don Juan in tono calmo. «Vuoi avere qualcosa in cambio di nulla? Cosa pensi che sia questo? Eravamo d'accordo che tu mi avresti fatto delle domande e io ti avrei detto quello che so. Se non ti piace, non c'è altro che possiamo dirci».

La sua terribile schiettezza mi fece sentire importuno, e a malincuore ammisi che aveva ragione.

«Allora diciamo così», riprese. «Se vuoi imparare a conoscere le piante, siccome in realtà su di esse non c'è nulla da dire, tra le altre cose devi cancellare la tua storia personale».

«In che modo?», chiesi.

«Parti dalle cose semplici, come il non rivelare quello che fai veramente. Poi devi abbandonare tutti quelli che ti conoscono bene. Così creerai intorno a te una nebbia».

«Ma è assurdo», protestai. «Perché la gente non dovrebbe conoscermi? Che c'è di male?».

«C'è di male che una volta che ti conoscono tu sei una cosa data per scontata e da quel momento in avanti non sarai più capace di rompere i legami dei loro pensieri. Io personalmente amo la libertà ultima di essere sconosciuto. Nessuno mi conosce con certezza costante, il modo in cui la gente conosce te, per esempio».

«Ma sarebbe mentire».

«Io non mi curo di bugie o verità», rispose gravemente. «Le bugie sono bugie solo se si ha una storia personale».

Dissi che non mi piaceva mistificare o fuorviare di proposito. Mi rispose che comunque fuorviavo tutti.

Il vecchio aveva toccato una piaga dolorosa della mia vita. Non mi fermai a chiedere che cosa intendesse o come sapesse che avevo sempre mistificato la gente. Reagii semplicemente alla sua asserzione, difendendomi con una spiegazione. Dissi di essere dolorosamente consapevole del fatto che la mia famiglia e i miei amici mi consideravano inattendibile, mentre in realtà non avevo mai detto una sola bugia nella mia vita.

«Hai sempre saputo come si fa a mentire», disse don Juan. «La sola cosa che ti mancava era che non sapevi perché farlo. Ora lo sai».

Protestai.

«Non vedete che sono veramente stufo e stanco di sentirmi considerare inattendibile?», dissi.

«Ma tu sei inattendibile», rispose in tono convinto.

«No! Porca miseria!», esclamai.

Il mio umore, invece di costringerlo a diventar serio lo fece ridere istericamente. Lo disprezzai sinceramente per tutta la sua impertinenza; purtroppo, però, aveva ragione.

Dopo un po' mi calmai e don Juan riprese a parlare.

«Quando non si ha una storia personale», spiegò, «nulla di ciò che si dice può essere preso per una bugia. Il tuo problema è che devi spiegare tutto a tutti, in modo coatto, e al tempo stesso vuoi conservare la tua freschezza e la novità di ciò che fai. Perciò, non potendo conservare il tuo entusiasmo dopo aver spiegato tutto quello che hai fatto, mentisci per poter tirare avanti».

Ero veramente sconcertato dalla piega della conversazione. Trascrissi meglio possibile tutti i dettagli del nostro colloquio, concentrandomi su quello che diceva invece di soffermarmi a riflettere sui miei pregiudizi o sui suoi significati.

«D'ora in avanti», disse, «devi semplicemente mostrare alla gente solo ciò che ti importa mostrare, ma senza mai dire esattamente come l'hai fatto».

«Non sono capace di conservare i segreti!», esclamai. «Quello che mi dite è inutile».

«Allora cambia!», disse seccamente con un lampo di ferocia negli occhi.

Sembrava uno strano animale selvatico. Eppure era così coerente nei suoi pensieri e così appropriato nella scelta delle parole. Il mio senso di fastidio lasciò il posto a uno stato di irritante confusione.

«Vedi», riprese don Juan, «noi abbiamo due sole alternative: o prendiamo tutto per certo e reale, o no. Se seguiamo la prima, alla fine siamo annoiati a morte del mondo e di noi stessi. Se seguiamo la seconda, creiamo intorno a noi una nebbia, uno stato molto eccitante e misterioso in cui nessuno sa in che punto salterà fuori il coniglio, nemmeno noi».

Sostenni che cancellare la storia personale avrebbe solo accresciuto il nostro senso di insicurezza.

«Quando nulla è certo rimaniamo sul chi vive, perennemente attivi», replicò. «E' più eccitante non sapere dietro a quale cespuglio si nasconde il coniglio piuttosto che comportarci come se sapessimo tutto».

Per molto tempo non pronunciò più una parola; passò forse un'ora di silenzio totale. Non sapevo cosa chiedere. Alla fine don Juan si alzò e mi chiese di accompagnarlo in automobile alla città vicina.

Non sapevo perché, ma la nostra conversazione mi aveva inaridito. Avevo voglia di dormire. Lungo la via don Juan mi chiese di fermarmi e disse che se volevo rilassarmi dovevo salire sulla cima pianeggiante di una collinetta a fianco della strada e distendermi sulla pancia con la testa rivolta a est.

Mi sembrò di avvertire nella sua voce un tono di urgenza. Non volli discutere, o forse ero troppo stanco anche per parlare. Mi arrampicai sulla collinetta e feci come aveva detto.

Dormii solo due o tre minuti, ma furono sufficienti a ridarmi le mie energie.

Arrivammo in macchina fino al centro della città, dove don Juan mi disse di farlo scendere.

«Ritorna», disse scendendo dall'automobile. «Fai in modo di tornare».

 

 --

3.
PERDITA DELLA PRESUNZIONE.
 

Mi capitò di parlare delle mie precedenti visite a don Juan con l'amico che ci aveva messi in contatto. La sua opinione fu che perdevo tempo. Gli riferii in dettaglio tutte le nostre conversazioni; lui pensò tuttavia che esagerassi e romanticizzassi un povero vecchio svanito.

Non ero molto disposto a romanticizzare un vecchio così bizzarro. Sentivo sinceramente che le sue critiche alla mia personalità avevano minato gravemente la mia capacità di apprezzamento per lui; dovevo però ammettere che le sue osservazioni erano sempre state appropriate, precise e vere alla lettera.

A quel punto la croce del mio dilemma era che non volevo accettare che don Juan fosse capacissimo di distruggere tutti i miei preconcetti sul mondo, e al tempo stesso non volevo essere d'accordo col mio amico il quale credeva che «il vecchio indiano era proprio matto».

Prima di prendere una risoluzione mi sentii costretto a fare a don Juan un'altra visita.

 

Mercoledì 28 dicembre, 1960.

 

Immediatamente dopo il mio arrivo a casa sua don Juan mi portò a fare una camminata attraverso la bassa vegetazione del deserto. Non aveva degnato di uno sguardo il sacco di provviste che gli avevo portato. Sembrava che mi fosse stato ad aspettare.

Camminammo per ore. Don Juan non mi mostrò né colse nessuna pianta. Tuttavia mi insegnò una 'forma appropriata per camminare'. Disse che dovevo piegare delicatamente le dita mentre camminavo, così avrei mantenuto la mia attenzione sul sentiero e sull'ambiente circostante. Affermò che il mio normale modo di camminare era debilitante e che non si dovrebbe mai tenere nulla in mano. Se si volevano portare delle cose si doveva usare un tascapane o qualsiasi tipo di sporta o di zaino. La sua idea era che costringendo le mani in una posizione specifica si era capaci di maggior resistenza e maggior consapevolezza.

Mi sembrò inutile discutere, perciò piegai le dita come aveva detto e continuai a camminare. La mia consapevolezza non era minimamente diversa, e nemmeno la mia resistenza.

Incominciammo la nostra escursione al mattino e ci fermammo a riposare verso mezzogiorno. Sudavo e cercai di bere alla mia borraccia, ma don Juan mi fermò dicendo che era meglio prendere solo un sorso d'acqua. Staccò delle foglie da un piccolo cespuglio giallastro e le masticò. Me ne diede un po' e osservò che erano eccellenti, se le masticavo lentamente la mia sete sarebbe svanita. Non svanì, ma comunque non era sgradevole.

Sembrò che don Juan mi avesse letto nel pensiero, infatti spiegò che non avevo sentito i benefici del 'giusto modo di camminare' o del masticare le foglie perché ero giovane e forte e il mio corpo non notava nulla perché era un po' stupido.

Rise. Non avevo voglia di ridere e questo sembrò divertirlo ancor più. Corresse la sua precedente asserzione dicendo che il mio corpo non era veramente stupido, ma un po' addormentato.

In quel momento un corvo enorme volò proprio sopra di noi gracchiando. Trasalii e scoppiai a ridere. Pensavo che la circostanza richiedesse una risata, ma con mio gran stupore don Juan mi scosse il braccio vigorosamente e mi fece alzare. Aveva un'espressione molto seria.

«Non c'è niente da ridere», disse gravemente, come se sapessi di cosa parlava.

Gli chiesi una spiegazione. Gli dissi che era assurdo che la mia risata nel vedere il corvo lo facesse arrabbiare mentre lui aveva riso della macchinetta del caffè.

«Quello che hai visto non era un semplice corvo!», esclamò.

«Ma l'ho visto, ed era un corvo», insistei.

«Non hai visto niente, sciocco!», disse con voce aspra.

La sua durezza era ingiustificata. Gli dissi che non mi piaceva far arrabbiare la gente e che forse avrei fatto meglio ad andarmene, poiché non mi sembrava che lui fosse dell'umore adatto per avere compagnia.

Don Juan scoppiò a ridere fragorosamente, come se fossi stato un pagliaccio che si esibiva per lui. La mia irritazione e il mio imbarazzo crebbero in proporzione.

«Sei molto violento», commentò con aria indifferente. «Ti prendi troppo sul serio».

«Ma forse che voi non facevate lo stesso?», interloquii. «Non vi prendevate sul serio quando vi siete arrabbiato con me?».

Disse che arrabbiarsi con me era l'ultima cosa che gli passava per la mente. Mi trapassò con lo sguardo.

«Quello che hai visto non era un consenso del mondo», disse. «I corvi che volano o gracchiano non sono mai un consenso. Quello era un presagio!».

«Un presagio di cosa?».

«Un'importantissima indicazione su di te», rispose in tono sibillino.

Proprio in quell'istante il vento agitò il ramo secco di un cespuglio ai nostri piedi.

«Questo era un consenso!», esclamo guardandomi con gli occhi scintillanti e scoppiando in una grassa risata.

Ebbi la sensazione che volesse stuzzicarmi costruendo le regole del suo strano gioco a mano a mano che seguitavamo, perciò ridere andava benissimo per lui, ma non per me. La mia stizza crebbe ancora e gli dissi quello che pensavo di lui.

Non ne fu minimamente irritato o offeso. Rise, e la sua risata mi diede ancor più angoscia e frustrazione. Pensai che volesse umiliarmi di proposito. Decisi allora che ne avevo avuto abbastanza di 'ricerca sul campo'.

Mi alzai in piedi e dissi che volevo tornare a casa sua perché dovevo partire per Los Angeles.

«Siediti!», mi ordinò imperiosamente. «Ti stizzisci come una vecchia signora. Non te ne puoi andare ora, perché non abbiamo ancora finito».

Lo odiai. Pensai che fosse un uomo sprezzante. Allora don Juan incominciò a cantare una stupida canzone popolare messicana. Imitava palesemente un cantante famoso: allungava certe sillabe e ne contraeva altre, trasformando la canzone in una specie di farsa. Era così comico che finii col ridere.

«Vedi, ridi di questa stupida canzone», disse. «Ma l'uomo che la canta in questo modo e quelli che pagano per ascoltarlo non ridono; pensano che sia seria».

«Che intendete dire?», chiesi.

Pensai che avesse costruito l'esempio di proposito per dirmi che avevo riso del corvo perché non lo avevo preso sul serio. Ma mi sconcertò di nuovo. Disse che ero come quel cantante e la gente che amava le sue canzoni, presuntuoso e serissimo per delle assurdità cui nessuno con la mente a posto darebbe la minima importanza.

Poi ricapitolò, come per rinfrescarmi la memoria, tutto ciò che aveva detto sulla questione dell''imparare a conoscere le piante'.

Disse con enfasi che se volevo davvero imparare, dovevo rimodellare la maggior parte del mio comportamento.

Il mio senso di fastidio crebbe, fino al punto che dovevo fare uno sforzo supremo anche per prendere appunti.

«Ti prendi troppo sul serio», disse lentamente. «Ti senti troppo maledettamente importante, ma dovrai cambiare! Sei così maledettamente importante che ti senti in diritto di irritarti di tutto. Sei così maledettamente importante che ti puoi permettere di andartene se le cose non vanno a modo tuo. Immagino che penserai che sia prova di carattere. E' assurdo! Tu sei debole, e presuntuoso!».

Cercai di inscenare una protesta, ma don Juan non si smosse. Mi fece osservare che nel corso della mia vita non avevo mai finito nulla a causa di quel senso di sproporzionata importanza che attribuivo a me stesso.

Ero sbalordito dalla sicurezza delle sue affermazioni. Erano vere, naturalmente, e ciò mi fece sentire non solo in collera ma anche minacciato.

«La presunzione è un'altra cosa che deve essere abbandonata, come la storia personale», disse in tono drammatico.

Non volevo certo mettermi a discutere con lui. Era ovvio che la mia posizione fosse assai svantaggiosa; don Juan non sarebbe tornato a casa sua finché non ne avesse avuto voglia, e io non sapevo la strada. Dovevo restare con lui.

Fece un movimento strano e improvviso, come se fiutasse l'aria intorno; la sua testa si scosse leggermente e ritmicamente, sembrava in uno stato di insolita vigilanza. Si girò e mi fissò con un'espressione di sconcerto e curiosità. Con gli occhi mi esaminò il corpo su e giù come se cercasse qualcosa di specifico; quindi si alzò bruscamente mettendosi a camminare in fretta, quasi correndo. Lo seguii. Continuò per quasi un'ora ad andatura molto accelerata.

Alla fine si fermò presso una collinetta sassosa e ci sedemmo all'ombra di un cespuglio. Quella veloce camminata mi aveva esaurito completamente, sebbene il mio umore fosse migliorato. Il cambiamento era strano: mi sentivo quasi euforico, ma quando avevamo incominciato a camminare, dopo la nostra discussione, ero furioso con lui.

«E' molto strano», dissi, «ma mi sento veramente bene».

Sentii un corvo gracchiare in lontananza. Don Juan portò il dito all'orecchio destro e sorrise.

«Era un presagio», disse.

Un sassolino rotolò giù dalla collina e produsse un rumore scoppiettante atterrando tra i cespugli.

Don Juan rise forte e indicò nella direzione del suono.

«E quello era un consenso».

Quindi mi chiese se ero disposto a parlare della mia presunzione.

Scoppiai a ridere; il mio senso di rabbia sembrava così lontano che non riuscivo nemmeno a immaginare come avessi potuto prendermela tanto con lui.

«Non riesco a capire che cosa mi succede , dissi. Mi sono arrabbiato e ora, non so perché, non lo sono più».

«Il mondo intorno a noi è molto misterioso», rispose. «Non cede facilmente i suoi segreti».

Mi piacevano le sue affermazioni sibilline. Erano molto provocanti e misteriose. Non riuscivo a decidere se erano piene di significati nascosti o soltanto banali assurdità.

«Se mai tornerai qui nel deserto», riprese, «stai lontano da quella collina sassosa dove ci siamo fermati oggi. Evitala come la peste».

«Perché? Che c'è?».

«Non è questo il momento di spiegarlo», disse. «Ora ci occupiamo della perdita della presunzione. Finché penserai di essere la cosa più importante del mondo non potrai apprezzare veramente il mondo intorno a te. Sei come un cavallo coi paraocchi, tutto quello che vedi è te stesso distinto da tutto il resto».

Mi esaminò per un istante.

«Ora voglio parlare a questo mio piccolo amico», disse poi, indicando una pianticella.

Si inginocchiò davanti alla pianta mettendosi ad accarezzarla e a parlarle. Dapprima non capii quello che diceva, ma poi cambiò lingua e parlò alla pianta in spagnolo. Per un po' balbettò cose senza senso, poi si alzò.

«Quello che dici a una pianta non importa», disse. «Potresti benissimo inventarti le parole; l'importante è sentire di amarla e trattarla come un uguale».

Spiegò che un uomo che raccoglie piante deve scusarsi ogni volta per averle colte e deve assicurarle che un giorno il suo corpo servirà loro da nutrimento.

«Così, tutto considerato, le piante e noi siamo pari»; disse. «Né loro né noi siamo più o meno importanti.

«Avanti, parla alla pianticella», mi esortò. «Dille che non ti senti più importante».

Arrivai fino a inginocchiarmi davanti alla pianta, ma non riuscii a indurmi a parlarle. Mi sentivo ridicolo e scoppiai a ridere. Però non ero arrabbiato.

Don Juan mi diede un colpetto sulla schiena e disse che andava bene, che per lo meno avevo controllato il mio carattere.

«D'ora in poi parla alle pianticelle», disse. «Parla fino a perdere tutto il tuo senso di importanza. Parla finché ti riuscirà di farlo in presenza di altri.

«Vai su quelle colline lassù ed esercitati».

Gli domandai se potevo parlare alle piante in silenzio, nella mia mente.

«No!», disse. «Devi parlare a voce alta e chiara se vuoi che ti rispondano».

Mi avviai verso la zona indicata, ridendo tra me delle sue eccentricità. Cercai anche di parlare alle piante, ma la sensazione di ridicolo mi sopraffaceva.

Dopo un periodo di tempo che mi parve appropriato tornai dove mi aspettava don Juan. Ero certo che sapesse che non avevo parlato alle piante.

Non mi guardò. Mi fece segno di sedermi accanto a lui.

«Osservami attentamente», disse. «Sto per fare una chiacchierata col mio piccolo amico».

Si inginocchiò davanti a una pianticella e per qualche minuto mosse e contorse il corpo, parlando e ridendo.

Pensai che fosse uscito di senno.

«Questa pianticella mi ha detto di dirti che è buona da mangiare», disse alzandosi dalla sua posizione inginocchiata. «Ha detto che una sua manciata manterrebbe sano un uomo. Ha detto anche che qui ne cresce una quantità».

Indicò un punto su un pendio a circa duecento metri di distanza.

«Andiamo a cercare», disse.

Risi dei suoi istrionismi. Ero sicuro che avremmo trovato le piante, perché era un esperto del terreno e sapeva dove crescevano le piante commestibili e medicinali.

Mentre ci incamminavamo verso quel punto mi disse con aria indifferente che avrei dovuto prendere nota della pianta perché era a un tempo cibo e medicina.

Gli domandai, un po' per scherzo, se glielo aveva appena detto la pianta. Smise di camminare e mi squadrò con aria incredula. Scosse il capo da parte a parte.

«Ah!», esclamò ridendo. «La tua furbizia ti fa più sciocco di quel che pensassi. Come potrebbe quella pianticella dirmi ora ciò che ho saputo per tutta la vita?».

Si mise quindi a spiegare che conosceva tutte le differenti proprietà di quella specifica pianta, e che la pianta gli aveva appena detto che c'era un mucchio di piante come lei che crescevano nel punto da lui indicato, e che alla pianta non importava se me lo diceva.

Arrivando sul pendio della collina trovai tutto un gruppo delle stesse piante. Volevo ridere ma don Juan non mi diede il tempo. Volle che ringraziassi tutte le piante. Mi sentivo tormentosamente impacciato e non riuscii a indurmi a farlo.

Don Juan sorrise con benevolenza e fece un altra delle sue affermazioni sibilline. La ripeté tre o quattro volte come per darmi il tempo di immaginarne il significato.

«Il mondo intorno a noi è un mistero», disse, «E gli uomini non sono migliori di tutte le altre cose. Se una pianticella è gentile con noi dobbiamo ringraziarla, altrimenti forse non ci lascerebbe andare».

Don Juan scoppiò a ridere con sussulti controllati e calmi.

Camminammo un'altra ora e poi riprendemmo la via del ritorno. A un certo punto rimasi indietro e don Juan dovette aspettarmi. Mi controllò le dita per vedere se le avevo piegate. Non le avevo. Mi disse imperiosamente che ogni volta che camminavo con lui dovevo osservare e copiare i suoi atteggiamenti, oppure non venire affatto.

«Non posso starti ad aspettare come con un bambino», disse in tono di rimbrotto.

La sua affermazione mi riempi di imbarazzo e confusione. Com'era possibile che un uomo così anziano camminasse molto meglio di me? Pensavo di essere atletico e forte, eppure don Juan aveva dovuto letteralmente aspettare che lo raggiungessi.

Piegai le dita, e stranamente riuscii a mantenere senza sforzo il suo tremendo ritmo. In effetti, in certi momenti sentivo che le mani mi tiravano in avanti.

Mi sentii euforico. Ero contentissimo di camminare senza scopo con quello strano vecchio indiano. Incominciai a parlare e gli chiesi di mostrarmi qualche pianta di peyote. Mi guardò ma non disse una parola.

 

 4.
LA MORTE E' UN CONSIGLIERE.
 

Mercoledì 25 gennaio, 1961.

 

«Mi insegnerete mai qualcosa sul peyote?», domandai.

Don Juan non rispose e, come aveva fatto prima, si limitò a guardarmi come se fossi pazzo.

Già molte volte glielo avevo domandato durante le nostre normali conversazioni, e ogni volta si era accigliato e aveva scosso il capo. Non era un gesto di affermazione o negazione, era piuttosto un gesto di disperazione e incredulità.

Si alzò in piedi bruscamente. Eravamo a sedere per terra davanti a casa sua. Mi invitò a seguirlo con un cenno impercettibile del capo.

Ci inoltrammo tra i cespugli del deserto in direzione sud. Mentre camminavamo don Juan osservò ripetutamente che dovevo rendermi conto dell'inutilità della mia presunzione e della storia personale.

«I tuoi amici», disse volgendosi di scatto verso di me. «Quelli che ti hanno conosciuto per molto tempo, li devi abbandonare in fretta».

Pensai che fosse pazzo e la sua insistenza idiota, ma non dissi nulla. Don Juan mi scrutò e scoppiò a ridere.

Dopo una lunga camminata ci fermammo. Stavo per mettermi a sedere per riposarmi quando mi disse di arrivare ancora venti metri più in là e parlare a un gruppo di piante a voce alta e chiara. Mi sentivo a disagio e apprensivo. Le sue strane richieste erano più di quanto potessi tollerare e gli dissi ancora una volta che non potevo parlare alle piante, perché mi sentivo ridicolo. Il suo solo commento fu che il mio senso di presunzione era immenso. Sembrò prendere una decisione improvvisa e disse che non dovevo cercar di parlare alle piante finché non mi sentivo a mio agio e naturale.

«Vuoi imparare a conoscerle, però non vuoi fare nessuna fatica», disse in tono accusatore. «Che cosa cerchi di fare?».

La mia spiegazione era che volevo sinceramente delle informazioni sugli usi delle piante, perciò gli avevo chiesto di farmi da informatore. Gli avevo anche offerto di pagarlo per il suo tempo e il suo disturbo. «Dovreste accettare il denaro», dissi. «In questo modo ci sentiremmo meglio tutti e due. Allora potrei chiedervi tutto quello che voglio perché voi lavorereste per me e io vi pagherei per questo. Che ve ne pare?».

Mi guardò sprezzantemente e fece con la bocca un verso osceno, facendo vibrare il labbro inferiore e la lingua soffiando con gran forza. «Ecco che me ne pare», rispose, e rise istericamente dell'espressione di totale sorpresa che dovevo avere dipinta sulla faccia.

Mi era ovvio che con un simile uomo non si poteva combattere facilmente. Nonostante la sua età, era focoso e incredibilmente forte. Avevo avuto l'idea che, essendo così vecchio, sarebbe stato per me un perfetto 'informatore'. I vecchi, ero portato a credere, erano gli informatori migliori perché troppo deboli per fare qualsiasi altra cosa che non fosse parlare. Don Juan, però, era un pessimo elemento, lo sentivo intrattabile e pericoloso. L'amico che ci aveva presentati aveva ragione: era un vecchio indiano eccentrico; e sebbene non fosse sempre nelle nuvole, come mi aveva detto il mio amico, era ancora peggio, era pazzo. Provai il terribile senso di dubbio e apprensione che avevo avuto prima. Pensavo di averlo superato. In realtà non avevo faticato a convincermi che dovevo tornare a fargli visita. Tuttavia mi si era insinuato nella mente il pensiero che io stesso fossi un poco pazzo quando mi ero reso conto che mi piaceva stare con lui. La sua idea che il mio senso di presunzione fosse un ostacolo mi aveva veramente fatto effetto. Ma in apparenza era da parte mia soltanto tutto un esercizio intellettuale; nel momento in cui mi trovai davanti al suo bizzarro comportamento incominciai a provare un senso di apprensione e volli andarmene.

Dissi che credevo che fossimo così differenti che non c'era la possibilità di continuare insieme.

«Uno di noi deve cambiare», mi rispose don Juan fissando il suolo. «E tu sai chi».

Incominciò a canticchiare una canzone popolare messicana, poi sollevò bruscamente il capo e mi guardò. I suoi occhi erano feroci e brucianti. Volli distogliere o chiudere gli occhi; ma con mio completo stupore non riuscivo a staccarmi dal suo sguardo.

Mi chiese di dirgli che cosa avessi visto nei suoi occhi. Risposi che non avevo visto nulla, ma lui insisté che dovevo descrivere la sensazione che i suoi occhi mi avevano procurato. Mi sforzai di fargli capire che la sola cosa che i suoi occhi mi avevano fatto sentire era il mio imbarazzo, e che il modo in cui mi guardava mi metteva a disagio. Non smise, ma continuò a fissarmi ostinatamente. Non era uno sguardo apertamente minaccioso o sinistro, era piuttosto misterioso e sgradevole.

Mi chiese se mi faceva venire in mente un uccello.

«Un uccello?», esclamai.

Gorgogliò come un bambino e distolse gli occhi.

«Sì», disse dolcemente. «Un uccello, un uccello molto buffo».

Fissò ancora lo sguardo su di me e mi ordinò di ricordare. Disse con straordinaria convinzione di 'sapere' che io avevo visto prima quell'espressione.

Sul momento la mia sensazione era che il vecchio mi provocasse, contro il mio sincero desiderio, ogni volta che apriva la bocca. Gli restituii lo sguardo con un'ovvia espressione di sfida, ma invece di arrabbiarsi scoppiò a ridere. Si batté sulla coscia e urlò come se fosse in sella a un cavallo selvaggio. Poi tornò serio e mi disse che era importantissimo che smettessi di fargli resistenza e ricordassi il buffo uccello di cui parlava.

«Guardami negli occhi», disse.

I suoi occhi erano straordinariamente feroci. C'era in essi una sensazione che mi ricordava davvero qualcosa, ma non ero sicuro cosa fosse. Meditai un momento e quindi ebbi un'improvvisa illuminazione; non la forma degli occhi né quella della testa, ma una certa fredda ferocia del suo sguardo mi ricordava gli occhi di un falco. Proprio nel momento di quell'illuminazione don Juan mi guardava di traverso e per un istante la mia mente fu nel caos più totale. Pensai di aver visto le sembianze di un falco invece di quelle di don Juan. L'immagine era stata troppo fugace e io ero troppo turbato per prestarvi molta attenzione.

Gli dissi concitatamente che avrei potuto giurare di aver visto sulla sua faccia le sembianze di un falco. Ebbe un altro accesso di riso.

Conosco l'espressione degli occhi dei falchi; da ragazzo davo loro spesso la caccia e, secondo l'opinione di mio nonno, ci sapevo fare. Mio nonno aveva un allevamento di galline livornesi e i falchi erano una minaccia per il suo lavoro. Prenderli a fucilate non era solo utile ma anche 'giusto'. Fino a quel momento avevo dimenticato che la ferocia dei loro occhi mi aveva ossessionato per anni, ma era così lontano nel passato che pensavo di averne perso il ricordo.

«Un tempo andavo a caccia di falchi», dissi.

«Lo so», asserì don Juan.

Il suo tono esprimeva una tale certezza che scoppiai a ridere. Pensai che fosse un personaggio assurdo. Aveva la sfrontatezza di volermi far credere di sapere che io andavo a caccia di falchi. Provai per lui un supremo disprezzo.

«Perché ti arrabbi tanto?», mi chiese in tono di autentica preoccupazione.

Non sapevo perché. Don Juan incominciò a esaminarmi in modo molto insolito. Mi chiese di guardarlo ancora e di parlargli del 'buffissimo uccello' che lui mi aveva fatto venire in mente. Mi opposi e gli dissi sprezzantemente che non c'era nulla da dire. Allora mi sentii costretto a domandargli perché aveva detto di sapere che andavo a caccia di falchi. Invece di rispondermi fece un'altra osservazione sul mio comportamento: disse che ero un tipo violento, capace di farmi venire 'la bava alla bocca' per un nonnulla. Protestai che non era vero; avevo sempre pensato di essere abbastanza accomodante e di buon carattere. Dissi che era colpa sua perché mi costringeva a perdere il controllo con le sue parole e azioni insospettate.

«Perché questa rabbia?», chiese.

Passai in rassegna i miei sentimenti e le mie reazioni. In realtà non c'era necessità di arrabbiarmi con lui.

Insisté ancora che dovevo guardarlo negli occhi e dirgli dello 'strano falco'. Aveva cambiato definizione; prima aveva detto 'un uccello molto buffo', poi lo sostituì con 'strano falco'. Il cambiamento di definizione corrispose a un cambiamento del mio umore. Ero improvvisamente diventato triste.

Don Juan socchiuse gli occhi fino a farli diventare due fessure e quindi, in tono assai drammatico, disse di 'vedere' uno stranissimo falco. Ripeté tre volte la sua affermazione come se vedesse davvero il falco davanti a sé.

«Non te lo ricordi?», chiese.

Non ricordavo nulla del genere.

«Che c'è di strano nel falco?», domandai.

«Me lo devi dire tu», rispose.

Insistei che non potevo sapere a cosa alludeva, perciò non potevo dire nulla.

«Non far resistenza a me!», disse. «Resisti contro la tua pigrizia e ricorda».

Per un momento mi sforzai seriamente di immaginare che cosa volesse. Non mi venne in mente che invece avrei potuto cercar di ricordare.

«C'è stata una volta in cui hai visto moltissimi falchi», disse don Juan come per suggerirmi.

Gli dissi che da bambino vivevo in una fattoria e avevo dato la caccia a centinaia di uccelli.

Don Juan disse che in tal caso non mi sarebbe stato difficile ricordare tutti gli strani uccelli che avevo cacciato.

Mi guardò con un'espressione interrogativa negli occhi, come se mi avesse appena dato l'ultimo indizio.

«Ho dato la caccia a tanti di quegli uccelli», dissi, «che non mi posso ricordare niente».

«Questo uccello è speciale», rispose quasi con un bisbiglio. «Questo uccello è un falco».

Di nuovo mi concentrai cercando di capire dove voleva arrivare. Mi stava stuzzicando? Parlava sul serio? Dopo un lungo intervallo mi esortò di nuovo a ricordare. Sentii che era inutile cercar di mettere fine al suo gioco; non mi restava altra alternativa che collaborare con lui.

«Parlate di un falco cui ho dato la caccia?», chiesi.

«Sì», bisbigliò con gli occhi chiusi.

«Allora è successo quando ero un ragazzo?».

«Sì».

«Ma avete detto che vedete un falco di fronte a voi, ora?».

«Lo vedo».

«Che cosa cercate di farmi fare?».

«Sto cercando di farti ricordare».

«Cosa? Per amor del cielo!».

«Un falco rapido come la luce», disse, guardandomi negli occhi.

Sentii che il cuore mi si era fermato.

«Ora guardami», disse.

Ma non lo guardai. Sentivo la sua voce come un debole suono. Ero completamente preso da ricordi stupendi. Il falco bianco!

Tutto era cominciato con l'esplosione di collera di mio nonno una volta che aveva contato i suoi pulcini livornesi. Scomparivano in modo regolare e sconcertante. Mio nonno aveva personalmente organizzato e condotto una meticolosa sorveglianza, e dopo giorni di assidua vigilanza vedemmo finalmente un grande uccello bianco che volava via con un pulcino livornese negli artigli. L'uccello volava rapido ed evidentemente conosceva la sua strada. Era piombato giù da dietro alcuni alberi, aveva afferrato il pulcino volando poi via attraverso un varco tra due rami. Era accaduto così in fretta che mio nonno non l'aveva quasi visto, ma io l'avevo visto e sapevo che era davvero un falco. Mio nonno disse che se era così si trattava di un albino.

Incominciammo una campagna contro il falco albino, e per due volte pensai di averlo preso. Lasciò anche cadere la preda, ma volò via. Era troppo veloce per me. Era anche molto intelligente; non tornò più a razziare nella fattoria di mio nonno.

Lo avrei dimenticato se mio nonno non mi avesse stimolato a dare la caccia all'uccello. Per due mesi inseguii il falco albino per tutta la valle in cui viveva. Imparai le sue abitudini e sapevo quasi intuire la rotta del suo volo, tuttavia la sua velocità e la fulmineità delle sue apparizioni mi eludevano sempre. Potevo vantarmi di avergli impedito di prendere la sua preda, forse ogni volta che ci eravamo incontrati, ma non ero mai riuscito a catturarlo.

Nei due mesi della mia strana guerra contro il falco albino riuscii ad arrivargli vicino solo una volta. Avevo cacciato tutto il giorno ed ero stanco, mi ero seduto a riposare e mi ero addormentato sotto un alto eucalipto. Improvvisamente fui risvegliato dal grido di un falco. Aprii gli occhi senza fare nessun altro movimento e vidi un uccello biancastro appollaiato sui rami più alti dell'eucalipto. Era il falco albino. La caccia era finita. Sarebbe stato un colpo difficile; ero disteso sulla schiena e l'uccello era voltato dall'altra parte. Sfruttai un'improvvisa folata di vento per nascondere il rumore del mio 22 a canna lunga mentre prendevo la mira. Volli attendere che si fosse girato o incominciasse a volare così che non lo potessi mancare, ma l'uccello albino rimaneva immobile. Per prendere una mira migliore avrei dovuto muovermi, ma il falco era troppo veloce per consentirmi di farlo. Pensai che la mia migliore alternativa fosse aspettare. E aspettai, a lungo, interminabilmente. Forse ciò che mi influenzò fu la lunga attesa, o forse la solitudine del luogo; fatto sta che improvvisamente sentii un brivido su per la spina dorsale e mi comportai in modo assolutamente assurdo: mi alzai e me ne andai. Non guardai neppure per vedere se l'uccello era volato via.

Non avevo mai attribuito alcun significato a quel mio ultimo atto col falco albino. Tuttavia era molto strano che non gli avessi sparato. Prima di allora avevo sparato a dozzine di falchi. Nella nostra fattoria era normalissimo sparare agli uccelli o dare la caccia a qualsiasi tipo di animale.

Don Juan aveva ascoltato attentamente la storia del falco albino. «Come avete fatto a sapere del falco bianco», gli domandai quando ebbi terminato.

«L'ho visto», rispose.

«Dove?».

«Proprio qui davanti a te».

Non avevo più voglia di discutere. «Che significa tutto ciò?», chiesi.

Don Juan disse che un uccello bianco come quello era un presagio, e che non sparargli era la sola cosa giusta da fare.

«La tua morte ti ha dato un piccolo avvertimento», disse in tono misterioso. «Arriva sempre come un brivido».

«Di che state parlando?», chiesi nervosamente.

Mi faceva davvero innervosire con quei suoi lugubri discorsi.

«Tu sai moltissime cose sugli uccelli», disse. «Ne hai uccisi fin troppi. Sai aspettare. Hai aspettato pazientemente per ore. Lo so. Lo vedo».

Le sue parole fecero nascere in me una grande agitazione. Pensavo che ciò che mi infastidiva maggiormente di lui fosse la sua certezza. Non potevo sopportare la sua dogmatica sicurezza in cose della mia vita di cui non ero sicuro nemmeno io. Mi immersi nei miei sentimenti di depressione e non lo vidi piegarsi su di me finché non mi ebbe bisbigliato qualcosa all'orecchio. Da principio non capii, e lo ripeté. Mi disse di voltarmi come per caso e di guardare un macigno alla mia sinistra. Disse che la mia morte era lì che mi fissava e che se mi voltavo quando lui mi faceva segno sarei riuscito a vederla.

Mi fece segno con gli occhi. Mi voltai e mi parve di vedere un guizzo sopra al macigno. Un brivido mi corse per il corpo, i muscoli del mio addome si contrassero involontariamente e sentii una scossa, uno spasmo. Dopo un istante recuperai il mio sangue freddo e mi spiegai l'ombra guizzante come un'illusione ottica causata dall'aver girato la testa così bruscamente.

«La morte è la nostra eterna compagna», disse don Juan in tono molto grave. «E' sempre alla nostra sinistra, a un passo di distanza. Ti stava osservando mentre spiavi il falco bianco; ti ha sussurrato all'orecchio e hai sentito il suo gelo, come lo hai sentito oggi. Ti è sempre stata a osservare. Ti osserverà sempre fino al giorno in cui ti toccherà».

Protese il braccio e mi toccò lievemente sulla spalla e al tempo stesso produsse con la lingua un profondo suono stridulo. L'effetto fu disastroso; fui sul punto di dar di stomaco.

«Tu sei il ragazzo che inseguiva la selvaggina e aspettava pazientemente, come aspetta la morte; tu sai benissimo che la morte è alla nostra sinistra, al modo stesso in cui tu eri alla sinistra del falco bianco».

Le sue parole ebbero lo strano potere di sprofondarmi in un terrore ingiustificato; la mia sola difesa era che mi sentivo costretto a scrivere tutto ciò che diceva.

«Come ci si può sentire tanto importanti quando sappiamo che la morte ci dà la caccia?», chiese.

Ebbi la sensazione che in realtà non era necessario rispondere. Comunque non avrei potuto dire nulla. Un nuovo stato d'animo si era impadronito di me.

«La cosa da fare quando sei impaziente», continuò don Juan, «è voltarti a sinistra e chiedere consiglio alla tua morte. Ti sbarazzi di un'enorme quantità di meschinità se la tua morte ti fa un gesto, o se ne cogli una breve visione, o se soltanto hai la sensazione che la tua compagna è lì che ti sorveglia».

Si piegò ancora in avanti e mi bisbigliò all'orecchio che se mi voltavo improvvisamente a sinistra, al suo segnale, avrei potuto vedere ancora la mia morte sul macigno.

I suoi occhi mi diedero un segnale quasi impercettibile, ma non osai guardare.

Gli dissi che gli credevo e che non c'era bisogno di insistere ulteriormente, perché ero atterrito. Scoppiò in una delle sue grasse risate fragorose.

Quindi rispose che non si insisteva mai abbastanza sulla questione della nostra morte. Sostenni che per me non avrebbe avuto significato dilungarmi sulla mia morte, perché un tale pensiero mi avrebbe dato soltanto disagio e paura.

«Sei proprio un disastro!», esclamò. «La morte è il solo saggio consigliere che abbiamo. Ogni volta che senti, come a te capita sempre, che tutto va male e che stai per essere annientato, voltati verso la tua morte e chiedile se è vero. La tua morte ti dirà che hai torto; che nulla conta veramente al di fuori del suo tocco. La tua morte ti dirà: 'Non ti ho ancora toccato'».

Don Juan scosse il capo e sembrò aspettare la mia risposta. Non avevo nulla da rispondere. I miei pensieri correvano all'impazzata. Don Juan aveva sferrato un tremendo colpo al mio egotismo. La meschinità della mia irritazione nei suoi confronti era mostruosa alla luce della mia morte.

Ebbi la sensazione che si rendesse perfettamente conto del mio cambiamento di umore. Aveva invertito la situazione a suo vantaggio. Sorrisele incominciò a canticchiare una canzone messicana.

«Sì», disse dolcemente dopo una lunga pausa. «Uno di noi deve cambiare, e presto. Uno di noi due deve imparare di nuovo che la morte è il cacciatore e che è sempre alla nostra sinistra. Uno di noi due deve chiedere consiglio alla morte e sbarazzarsi delle maledette meschinerie proprie degli uomini che vivono come se la morte non dovesse mai toccarli».

Rimanemmo in silenzio per più di un'ora, quindi riprendemmo a camminare. Girovagammo per ore tra i bassi cespugli del deserto. Non gli domandai se nel nostro vagabondaggio ci fosse uno scopo, non importava. In qualche modo don Juan mi aveva fatto recuperare un'antica sensazione, qualcosa che avevo completamente dimenticato, la pura gioia del semplice movimento senza nessuno scopo intellettuale.

Volli che mi lasciasse dare un'occhiata a quello che, qualunque cosa fosse, avevo visto sul macigno.

«Lasciatemi vedere ancora quell'ombra», dissi.

«Vuoi dire la tua morte, non è vero?», rispose con una sfumatura di ironia nella voce.

Per un attimo mi sentii riluttante a pronunciare la parola.

«Sì», dissi alla fine. «Lasciatemi vedere ancora una volta la mia morte».

«Non ora», disse. «Sei troppo compatto».

«Come avete detto?».

Scoppiò a ridere, e per qualche ragione sconosciuta la sua risata non era più offensiva e insidiosa come in precedenza. Non pensai che fosse differente, dal punto di vita del tono, o della forza, o dello spirito; l'elemento nuovo era il mio stato d'animo. Davanti alla mia morte che incombeva, le mie paure e la mia irritazione apparivano assurde.

«Allora lasciatemi parlare alle piante», dissi.

Scoppiò a ridere fragorosamente.

«Ora sei troppo buono», disse, sempre ridendo. «Vai da un estremo all'altro. Stai calmo. Non c'è alcun bisogno di parlare alle piante se non si vogliono conoscere i loro segreti, e per fare questo hai bisogno di un intento inflessibile. Perciò risparmia i tuoi buoni propositi. Non c'è nemmeno bisogno che tu veda la tua morte. E' sufficiente che ne senta la presenza intorno a te».

 

 5.
ASSUMERSI LA RESPONSABILITA'.
 

Martedì 11 aprile, 1961.

 

Arrivai a casa di don Juan domenica 9 aprile, di buon mattino.

«Buon giorno, don Juan», dissi. «Sono felice di vedervi!».

Mi guardò e scoppiò in una risatina. Si era avvicinato all'automobile e mi teneva aperto lo sportello mentre raccoglievo dei pacchi di provviste acquistate per lui.

Ci avviammo verso la casa e ci mettemmo a sedere accanto alla porta.

Era la prima volta che mi rendevo veramente conto di quello che facevo lì. Per tre mesi avevo veramente sperato di poter ritornare sul 'campo'. Era come se dentro di me fosse esplosa una bomba a orologeria e avessi improvvisamente ricordato qualcosa di importantissimo. Avevo ricordato che una volta nella mia vita ero stato molto paziente e molto efficiente.

Prima che don Juan potesse dire una sola parola gli posi la domanda che mi aveva assillato la mente. Per tre mesi ero stato ossessionato dal ricordo del falco albino. Come aveva fatto don Juan a sapere di quell'episodio quando io stesso l'avevo dimenticato?

Don Juan rise ma non rispose. Lo supplicai di dirmi come aveva fatto.

«Non era niente», disse col suo solito tono convinto. «Chiunque potrebbe capire che sei strano. Sei soltanto intorpidito, tutto qui».

Sentii che mi stava di nuovo disorientando, sospingendomi in un angolo in cui non volevo andare a finire.

«E' possibile vedere la nostra morte?», domandai, cercando di restare in argomento.

«Certo», rispose ridendo. «E' qui con noi»

«Come fate a saperlo?».

«Sono vecchio; con l'età si impara ogni tipo di cose».

«Conosco moltissimi vecchi, ma non hanno mai imparato. Voi come avete fatto?».

«Bene, diciamo che conosco ogni tipo di cose perché non ho una storia personale, e perché non mi sento più importante di nessuna altra cosa, e perché la mia morte è seduta con me proprio qui».

Protese il braccio sinistro e mosse le dita come se stesse veramente accarezzando qualcosa.

Scoppiai a ridere. Sapevo dove mi voleva portare. Quel vecchio demonio stava per tormentarmi ancora, probabilmente a motivo della mia presunzione, ma questa volta non mi importava. Il ricordo di aver avuto una volta un'enorme pazienza mi riempiva di una strana e tranquilla euforia che aveva scacciato quasi tutti i miei sentimenti di nervosismo e intolleranza verso don Juan; quella che provavo invece era una sensazione di meraviglia per i suoi atti. «Chi siete veramente?», chiesi.

Sembrò sorpreso. Spalancò enormemente gli occhi e ammiccò come un uccello, chiudendo le palpebre come una saracinesca. Le palpebre continuavano ad andare su e giù, ma i suoi occhi rimanevano a fuoco. Quella manovra mi fece sobbalzare e indietreggiare, mentre don Juan rideva lasciandosi andare come un bambino.

«Per te io sono Juan Matus e sono al tuo servizio», rispose con esagerata cortesia.

Allora formulai la mia seconda domanda bruciante: «Che cosa mi avete fatto il primo giorno che ci siamo incontrati?».

Mi riferivo allo sguardo che mi aveva lanciato quella volta.

«Io? Niente», rispose con aria innocente.

Gli descrissi quel che avevo provato quando mi aveva guardato e come fosse stato assurdo per me che il suo sguardo mi avesse inceppato la lingua.

Rise fino a farsi scendere le lacrime giù per le guance. Provai di nuovo un impeto di animosità verso di lui, pensai che io ero così serio e riflessivo e lui così 'indiano' nei suoi modi grossolani.

Evidentemente si era accorto del mio stato d'animo e smise improvvisamente di ridere.

Dopo una lunga esitazione gli dissi che la sua risata mi aveva irritato perché volevo capire sul serio quello che mi era capitato.

«Non c'è niente da capire», mi rispose imperturbabile.

Ricapitolai per lui la successione di avvenimenti insoliti che erano accaduti da quando lo avevo incontrato, a partire dallo sguardo misterioso che mi aveva lanciato, fino a ricordare il falco albino e la visione dell'ombra sul macigno, che lui aveva detto essere la mia morte.

«Perché mi avete fatto tutto questo?», domandai.

Non c'era bellicosità nella mia domanda. Ero solo curioso di sapere perché proprio a me.

«Mi hai chiesto di dirti quello che so sulle piante», rispose.

Notai nella sua voce una sfumatura di sarcasmo. Sembrava che volesse assecondarmi.

«Ma quello che mi avete detto finora non ha nulla a che fare con le piante», protestai.

La sua risposta fu che ci voleva tempo per imparare. Ebbi la sensazione che discutere con lui fosse inutile. Allora mi resi conto della totale idiozia delle facili e assurde risoluzioni che avevo preso. A casa mia mi ero ripromesso di non perdere mai la calma e di non irritarmi con don Juan. Nella realtà della situazione, invece, nell'istante in cui mi aveva mortificato avevo avuto un altro attacco di stizza. Sentivo che per me non c'era modo di entrare in rapporto con lui, e questo mi mandava in collera.

«Ora pensa alla tua morte», mi disse don Juan improvvisamente. «E' a un metro di distanza. Ti può toccare in qualsiasi momento, perciò non hai proprio tempo per pensieri e umori stupidi. Nessuno di noi ne ha il tempo.

«Vuoi sapere cosa ti ho fatto il primo giorno che ti ho incontrato? Ti ho "visto", e ho "visto" che pensavi che mi stavi mentendo. Ma in realtà non mi stavi mentendo».

Gli dissi che la sua spiegazione mi confondeva ancor più. Rispose che era quella la ragione per cui non voleva spiegare i suoi atti, e le spiegazioni non erano necessarie. Disse che la sola cosa che contava era l'azione, agire invece di parlare.

Tirò fuori una stuoia di paglia e si stese, appoggiando la testa a un fagotto. Si mise comodo e quindi mi disse che c'era un'altra cosa che dovevo fare se volevo davvero imparare a conoscere le piante.

«Quello che non andava in te quando ti ho "visto", e quello che non va in te ora, è che non ti piace prenderti la responsabilità di ciò che fai», disse lentamente, come per darmi il tempo di capire le sue parole. «Quando mi dicevi tutte quelle cose, là nella stazione d'autobus, ti rendevi conto che erano bugie. Perché mentivi?».

Gli spiegai che il mio obiettivo era stato di trovare un 'informatore' per il mio lavoro.

Don Juan sorrise e si mise a canticchiare una canzone messicana.

«Quando un uomo decide di fare una determinata cosa, deve andare fino in fondo», disse, «ma deve prendersi la responsabilità di quello che fa. Qualunque cosa faccia, deve prima sapere perché lo fa, e poi deve andare avanti con le sue azioni senza dubbi o rimorsi».

Mi scrutò. Non sapevo cosa dire. Alla fine azzardai un'opinione, quasi come una protesta.

«E' una cosa impossibile!», dissi.

Mi chiese perché; gli risposi che forse, idealmente, era quello che tutti pensavano di dover fare. In pratica, però, non c'era modo di evitare dubbi o rimorsi.

«E' ovvio che un modo c'è», mi rispose con convinzione. «Guardami», disse. «Io non ho dubbi o rimorsi. Tutto quello che faccio è mia decisione e mia responsabilità. La cosa più semplice che faccio, portarti a fare una passeggiata nel deserto, per esempio, può benissimo significare la mia morte. La morte mi dà la caccia, perciò non mi resta spazio per dubbi o rimorso. Se devo morire per averti portato a fare una passeggiata, allora devo morire.

«Tu, d'altra parte, ti senti immortale, e le decisioni di un uomo immortale possono essere cancellate o rimpiante o dubitate. In un mondo in cui la morte è il cacciatore, amico mio, non c'è tempo per rimpianti o dubbi. C'è solo tempo per le decisioni».

Sostenni sinceramente che a mio parere era un mondo irreale, perché era costruito arbitrariamente prendendo una forma di comportamento idealizzata e affermando che quello era il modo di procedere. Gli raccontai la storia di mio padre, il quale era solito farmi discorsi interminabili sulle meraviglie di una mente sana in un corpo sano, dicendo che i giovani dovrebbero temprare i propri corpi nelle fatiche e nelle competizioni atletiche. Era un uomo giovane; quando io avevo otto anni lui ne aveva soltanto ventisette. Durante l'estate, di regola, veniva dalla città, dove insegnava in una scuola, a passare almeno un mese con me nella fattoria dei miei nonni, dove vivevo. Per me era un mese d'inferno. Raccontai a don Juan un esempio del comportamento di mio padre che pensavo sarebbe stato adatto alla situazione di cui parlavamo.

Quasi immediatamente dopo il suo arrivo alla fattoria, mio padre insisteva a fare una lunga passeggiata con me al fianco, così potevamo parlare; e mentre parlavamo faceva progetti per andare a nuotare insieme, ogni giorno alle sei del mattino. La sera metteva la sveglia alle cinque e mezza per avere tempo in abbondanza, perché alle sei in punto dovevamo essere in acqua. E quando la mattina la sveglia suonava, mio padre balzava dal letto, si metteva gli occhiali, andava alla finestra e guardava fuori.

«Uhum... Un po' di nuvole oggi. Senti, ora mi rimetto giù ancora per cinque minuti. Va bene? Solo cinque e non di più! Solo per stirarmi i muscoli e svegliarmi del tutto».

Invariabilmente ripiombava nel sonno e non si svegliava fino alle dieci, certe volte fino a mezzogiorno.

Dissi a don Juan che quello che mi irritava di mio padre era il rifiuto di rinunciare alle sue risoluzioni false. Ripeteva questo rituale tutte le mattine finché io alla fine ferivo i suoi sentimenti rifiutandomi di mettere la sveglia.

«Non erano false risoluzioni», disse don Juan, schierandosi ovviamente dalla parte di mio padre. «Semplicemente non sapeva alzarsi dal letto, tutto qui».

«In ogni caso», dissi, «le risoluzioni irreali mi mettono sempre in sospetto».

«Ma quale sarebbe una risoluzione reale?», chiese don Juan con un sorriso malizioso.

«Se mio padre avesse detto a se stesso che non poteva andare a nuotare alle sei di mattina, ma che forse avrebbe potuto andarci alle tre del pomeriggio».

«Le tue risoluzioni fanno torto allo spirito», disse don Juan con aria di grande serietà.

Pensai anche di aver individuato nella sua voce una nota di tristezza. Rimanemmo in silenzio a lungo. Il mio cattivo umore era svanito. Pensavo a mio padre.

«Non voleva andare a nuotare alle tre del pomeriggio. Capisci?», disse don Juan.

Le sue parole mi fecero sussultare.

Gli dissi che mio padre era debole, e debole era il suo mondo di atti ideali mai realizzati. Quasi gridavo.

Don Juan non disse una parola. Scosse il capo lentamente in modo ritmico. Mi sentii terribilmente triste. Pensare a mio padre mi dà sempre una sensazione struggente.

«Tu pensi di essere stato più forte, non è vero?», chiese don Juan in tono casuale.

Dissi di sì, quindi presi a raccontargli tutto lo scompiglio emotivo che mio padre mi aveva fatto passare. Ma don Juan mi interruppe.

«Per te era spregevole?», chiese.

«No».

«Era meschino con te?».

«No».

«Ha fatto per te tutto quello che poteva?»

«Sì».

«Allora cosa c'era in lui che non andava?».

Ricominciai a gridare che mio padre era debole, ma mi ripresi e abbassai il tono della voce. Mi sentivo un po' ridicolo a essere esaminato a quel modo da don Juan.

«A che servono tutte queste domande?», dissi. «Non dovevamo parlare di piante?».

Mi sentivo più irritato e scoraggiato che mai. Gli dissi che non toccava a lui giudicare il mio comportamento, che non aveva la minima qualifica per farlo. Don Juan scoppiò in una grassa risata.

«Quando ti arrabbi ti senti sempre virtuoso, non è vero?», disse, e ammiccò come un uccello.

Aveva ragione. Avevo la tendenza di sentirmi giustificato nella mia collera.

«Non parliamo di mio padre», dissi, simulando un umore allegro. «Parliamo di piante».

«No, parliamo di tuo padre», insiste don Juan. «E' da qui che dobbiamo incominciare oggi. Se pensi di essere stato tanto più forte di lui, perché non te ne sei andato a nuotare alle sei di mattina al suo posto?».

Gli dissi che non riuscivo a credere che me lo domandasse seriamente. Avevo sempre pensato che nuotare alle sei del mattino fosse una cosa che riguardava mio padre, non me.

«Riguardava anche te, dal momento che accettavi la sua idea», mi investì don Juan.

Dissi che non l'avevo mai accettata, che avevo sempre saputo che mio padre non era sincero con se stesso. Don Juan mi chiese senza mezzi termini perché non avevo espresso allora le mie opinioni a mio padre.

«Non si possono dire cose del genere al proprio padre», dissi, come debole spiegazione.

«Perché no?».

«A casa mia non si faceva, tutto qui».

«A casa tua hai fatto cose peggiori», dichiarò, come un giudice dal suo seggio. «La sola cosa che non hai mai fatto è stato illuminare il tuo spirito».

Le sue parole erano cariche di una tale forza devastante che mi rimbombarono nella mente. Abbatterono tutte le mie difese. Non potevo discutere con lui. Mi rifugiai negli appunti che prendevo nel mio taccuino.

Tentai un'ultima debole spiegazione e dissi che in tutta la mia vita avevo incontrato persone del tipo di mio padre, che, come mio padre, mi avevano in certo qual modo inchiodato nei loro schemi, e di regola ero sempre lasciato a metà.

«Ti stai lamentando», disse don Juan dolcemente. «Ti sei lamentato per tutta la vita perché non ti assumi la responsabilità delle tue decisioni. Se ti fossi assunto la responsabilità dell'idea di tuo padre di andare a nuotare alle sei del mattino, saresti andato a nuotare, da solo se necessario, oppure gli avresti detto di andare all'inferno la prima volta che apriva bocca dopo che avevi imparato a conoscere i suoi espedienti. Ma non hai mai detto nulla. Perciò, eri debole come tuo padre.

«Assumersi la responsabilità delle proprie decisioni significa essere pronti a morire per esse».

«Un momento, un momento!», dissi. «State cambiando le carte in tavola».

Non mi lasciò terminare. Volevo dirgli che avevo usato mio padre solo come esempio di un modo di agire non realistico, e che nessuno sano di mente sarebbe disposto a morire per una cosa così idiota.

«Non importa quale sia la decisione», disse. «Non c'è cosa che sia più o meno seria di un'altra. Non capisci? In un mondo in cui la morte è il cacciatore non ci sono decisioni grandi o piccole. Ci sono solo decisioni che prendiamo di fronte alla nostra morte inevitabile».

Non potei dire nulla. Passò forse un'ora. Don Juan era perfettamente immobile sulla sua stuoia, sebbene non dormisse.

«Perché mi dite tutto questo, don Juan?», chiesi. «Perché mi fate questo?».

«Sei venuto da me», rispose. «No, non è stato così. Tu sei stato portato a me. E io ti ho fatto un gesto».

«Come dite?».

«Tu avresti potuto fare un gesto con tuo padre nuotando per lui, ma non l'hai fatto, forse perché eri troppo giovane. Io sono vissuto più a lungo di te. Non ho nulla in sospeso. Non c'è fretta nella mia vita, perciò posso ben compiere un gesto con te».

Nel pomeriggio uscimmo a camminare. Mantenni facilmente il suo passo e di nuovo fui meravigliato della sua stupenda destrezza fisica. Camminava così agevolmente e con passi così sicuri che accanto a lui ero come un bambino. Andammo in direzione est. Mi accorsi che non gli piaceva parlare mentre camminava; se gli parlavo, smetteva di camminare per rispondermi.

Dopo un paio d'ore arrivammo a una collina; don Juan si mise a sedere e mi fece segno di sedermi accanto a lui. In tono falsamente drammatico annunciò che mi avrebbe raccontato una storia.

C'era una volta un giovane, disse, un povero indiano che viveva tra gli uomini bianchi in una città. Non aveva casa, parenti, amici. Era venuto in città a cercar fortuna e aveva trovato solo infelicità e dolore. Di quando in quando, lavorando come un mulo, guadagnava pochi centesimi che a stento gli bastavano per un boccone di cibo; altrimenti doveva mendicare o rubare per mangiare.

Don Juan disse che un giorno il giovane andò nella piazza del mercato. Passeggiò confuso su e giù per la piazza, con gli occhi che impazzivano alla vista di tutte le cose buone là riunite. Era così frenetico che non vide dove metteva i piedi e finì coll'inciampare in certi canestri cadendo addosso a un vecchio.

Il vecchio trasportava quattro enormi zucche e si era appena seduto per riposare e mangiare. Don Juan sorrise intenzionalmente e disse che al vecchio era parso molto strano che il giovane fosse inciampato su di lui. Non era arrabbiato per essere stato disturbato, ma stupito che proprio quel giovane fosse caduto su di lui. Il giovane, d'altra parte, era arrabbiato e disse al vecchio di togliersi dai piedi. Non si preoccupava affatto della causa del loro incontro. Non si era accorto che le loro vie si erano veramente incrociate.

Don Juan imitò i movimenti di una persona che corre dietro a qualcosa che rotola. Disse che le zucche del vecchio si erano rovesciate e rotolavano giù per la strada. Quando il giovane le vide pensò di aver trovato il cibo per la giornata.

Aiutò il vecchio a tirar su le pesanti zucche e insisté ad aiutarlo a trasportarle. Il vecchio gli disse che andava a casa sua sulle montagne e il giovane insisté ad accompagnarlo, almeno per una parte della strada.

Il vecchio prese la via delle montagne, e mentre camminavano diede al giovane parte del cibo che aveva acquistato al mercato. Il giovane mangiò di gusto e quando fu pienamente soddisfatto incominciò ad accorgersi di quanto pesassero le zucche e le afferrò ben strette.

Don Juan aprì gli occhi, sorrise con un ghigno diabolico e disse che il giovane domandò: «Che cosa trasportate in queste zucche?». Il vecchio non rispose, ma disse che gli avrebbe mostrato un compagno o amico che poteva alleviare le sue pene e dargli consiglio e saggezza sulle cose del mondo.

Don Juan fece un gesto maestoso con entrambe le mani e disse che il vecchio evocò il cervo più bello che il giovane avesse mai visto. Il cervo era così mansueto che andò da lui e gli camminò intorno. Il cervo scintillava e splendeva. Il giovane rimase affascinato e capì immediatamente che era uno 'spirito cervo'. Il vecchio gli disse che se voleva avere come amico quel cervo e la sua saggezza, tutto quello che doveva fare era lasciar andare le zucche.

Il ghigno di don Juan esprimeva un sentimento di ambizione; disse che nel sentire una simile richiesta l'avidità del giovane si risvegliò. Gli occhi di don Juan divennero piccoli e diabolici mentre ripeteva la domanda del giovane: «Cosa avete in queste quattro enormi zucche?».

Don Juan disse che il vecchio aveva risposto molto serenamente di trasportare cibo: "pinole" (2) e acqua. A questo punto don Juan interruppe il racconto e si mise a camminare in cerchio un paio di volte. Non sapevo cosa faceva, ma evidentemente era parte della storia. Il cerchio raffigurava le meditazioni del giovane.

Don Juan disse poi che naturalmente il giovane non aveva creduto una sola parola. Immaginò che se il vecchio, ovviamente uno stregone, era disposto a dare uno 'spirito cervo' per le sue zucche, allora le zucche dovevano essere piene di un potere impensabile.

Don Juan contorse di nuovo la faccia in un ghigno diabolico e disse che il giovane dichiarò che voleva avere le zucche. Ci fu una lunga pausa che sembrò segnare la fine della storia. Don Juan rimase in silenzio, eppure ero certo che voleva che lo interrogassi, e lo interrogai. «Che è successo al giovane?».

«Si prese le zucche», rispose con un sorriso di soddisfazione. Ci fu un'altra lunga pausa. Risi. Pensai che quella fosse una vera 'storia indiana'.

Gli occhi di don Juan scintillavano mentre mi sorrideva. In lui c'era un'aria di innocenza. Incominciò a ridere con lievi sussulti e mi domandò: «Non vuoi sapere delle zucche?».

«Certo che lo voglio sapere. Pensavo che la storia fosse finita».

«Oh, no», disse con una luce maliziosa negli occhi. «Il giovane prese le sue zucche, se ne fuggì in un luogo isolato e le aprì».

«Cosa trovò?».

Don Juan mi guardò di sottecchi ed ebbi la sensazione che si rendesse conto delle mie ginnastiche mentali. Scosse il capo e ridacchiò. «Allora», lo incalzai. «Erano vuote?».

«Dentro le zucche c'era soltanto cibo e acqua», rispose. «E il giovane, in un impeto di collera, le schiacciò contro le rocce».

Dissi che la sua reazione era stata più che naturale; chiunque al suo posto avrebbe fatto lo stesso.

La risposta di don Juan fu che il giovane era uno sciocco che non sapeva che cosa cercava. Non sapeva cosa fosse il 'potere', perciò non poteva capire se l'aveva trovato o no. Non si era preso la responsabilità della propria decisione, perciò era furente per la propria stupidità. Si aspettava di ottenere qualcosa e invece non aveva avuto nulla. Don Juan considerò che se io fossi stato al posto di quel giovane e avessi seguito le mie inclinazioni sarei stato furente e pieno di rimorso e senza dubbio avrei passato il resto della vita a compiangermi per quello che avevo perduto.

Quindi spiegò il comportamento del vecchio. Aveva accortamente nutrito il giovane così da dargli la 'baldanza di uno stomaco soddisfatto', perciò il giovane, trovando solo cibo nelle zucche, le aveva schiacciate in un impeto di collera.

«Se fosse stato consapevole della propria decisione, assumendosene la responsabilità», disse don Juan, «avrebbe preso il cibo e ne sarebbe stato più che soddisfatto. E forse avrebbe perfino potuto capire che quel cibo era anche potere».

 

 6.
DIVENTARE UN CACCIATORE.
 

Venerdì 23 giugno, 1961.

 

Appena fui seduto bombardai don Juan di domande. Non mi rispose e fece con la mano un gesto di impazienza perché tacessi. Sembrava di umore serio.

«Stavo pensando che non sei cambiato affatto in tutto questo tempo in cui hai cercato di imparare a conoscere le piante», mi disse in tono di accusa.

Incominciò a passare in rassegna a voce alta tutti i cambiamenti di personalità che mi aveva raccomandato. Gli risposi che avevo considerato la questione molto seriamente e avevo scoperto che non mi era possibile realizzare quei cambiamenti perché ognuno di essi andava contro ai miei impulsi più intimi. Mi rispose che considerarli semplicemente non era abbastanza, e che tutto quello che mi aveva detto non l'aveva detto solo per scherzo. Insistei ancora che, sebbene avessi fatto pochissimo per adattare la mia vita personale alle sue idee, volevo veramente imparare gli usi delle piante.

Dopo un lungo silenzio, in cui mi sentii a disagio, mi feci coraggio e gli domandai: «Don Juan, vorreste insegnarmi gli usi del peyote?».

Rispose che le mie intenzioni da sole non erano abbastanza, e che conoscere il peyote - lo chiamò per la prima volta 'Mescalito' - era una faccenda seria. Sembrava non ci fosse altro da dire.

Nelle prime ore della sera, tuttavia, don Juan mi sottopose a un esame; mi propose un problema senza darmi alcun indizio per la soluzione: trovare un posto o luogo benefico proprio davanti alla sua porta, lì dove eravamo sempre seduti a parlare, un posto dove si presumeva che avrei potuto sentirmi perfettamente felice e pieno di forza. Nel corso della notte, mentre tentavo di trovare il 'posto' rotolando sul terreno, individuai per due volte un cambiamento di colore nello spiazzo di terra battuta uniformemente scura della zona designata.

Il problema mi aveva spossato e piombai nel sonno in uno dei punti in cui avevo individuato un cambiamento di colore. Al mattino don Juan mi svegliò e mi annunziò che la mia esperienza era stata coronata da successo. Non solo avevo trovato il posto benefico che cercavo ma avevo anche trovato il suo opposto, un posto nemico o negativo e i colori associati a entrambi.

 

Sabato 24 giugno, 1961.

 

Ci inoltrammo tra i cespugli del deserto di prima mattina. Mentre camminavamo don Juan mi spiegò che per un uomo che vive in un ambiente selvaggio era molto importante saper individuare un posto 'benefico' o 'nemico'. Volevo portare la conversazione sul peyote, ma don Juan rifiutò chiaramente di parlarne. Mi avvertì che non lo si doveva nemmeno menzionare, a meno che lui stesso non avesse proposto l'argomento.

Ci sedemmo a riposare all'ombra di alcuni alti cespugli in una zona in cui la vegetazione cresceva folta. La bassa vegetazione del deserto intorno a noi non era ancora del tutto inaridita; era una giornata calda e le mosche mi molestavano con insistenza ma non sembravano infastidire don Juan. Mi domandai se le ignorava semplicemente, ma quindi notai che non si posavano affatto sulla sua faccia.

«Qualche volta è necessario trovare in fretta un posto benefico, quando si è fuori all'aperto», riprese don Juan. «O forse è necessario determinare in fretta se il posto su cui stiamo per metterci a riposare è cattivo o no. Una volta ci siamo seduti a riposare presso una collina, e tu ti sei sentito molto arrabbiato e turbato. Quel posto era tuo nemico. Un piccolo corvo ti ha dato un avvertimento, ricordi?».

Ricordai che si era preoccupato di avvertirmi di evitare quella zona in futuro. Ricordai anche che mi ero arrabbiato perché non mi aveva permesso di ridere.

«Avevo pensato che il corvo che volava sopra di noi fosse un presagio solo per me», disse. «Non avrei mai sospettato che i corvi fossero amichevoli anche con te».

«Di che state parlando?».

«Il corvo era un presagio», proseguì. «Se tu conoscessi i corvi avresti evitato quel luogo come la peste. I corvi, però, non sono sempre lì a dare avvertimenti, e devi imparare da solo a trovare un posto adatto per accamparti o riposare».

Dopo una lunga pausa si volse improvvisamente verso di me e disse che per trovare il posto adatto per riposare dovevo soltanto incrociare gli occhi. Mi guardò con aria saputa e aggiunse in tono confidenziale che proprio quello avevo fatto quando mi ero rotolato sotto il portico di casa sua, perciò ero riuscito a trovare i due posti e i loro colori. Mi fece capire che era stato impressionato dal mio successo. «Davvero non so cosa ho fatto», dissi.

«Hai incrociato gli occhi», mi rispose con enfasi. «La tecnica è questa; devi averlo fatto, anche se non ricordi».

Don Juan descrisse quindi la tecnica, che, disse, richiedeva anni per essere perfetta e consisteva nel forzare gradualmente gli occhi a vedere separatamente la stessa immagine. L'assenza di conversione dell'immagine comportava una duplice percezione del mondo; tale duplice percezione, secondo don Juan, dava l'opportunità di giudicare quei cambiamenti dell'ambiente circostante che gli occhi erano ordinariamente incapaci di percepire.

Don Juan mi esortò a provare. Mi assicurò che non faceva male alla vista. Disse che avrei dovuto incominciare a guardare con brevi occhiate, quasi con la coda dell'occhio. Mi indicò un grosso cespuglio e mi mostrò come dovevo fare. Provavo una strana sensazione nel vedere gli occhi di don Juan che lanciavano al cespuglio occhiate incredibilmente rapide. I suoi occhi mi ricordavano quelli di un animale sfuggente che non può guardare diritto.

Camminammo per un'ora circa, e camminando cercavo di non mettere a fuoco la vista su nulla. Quindi don Juan mi disse di incominciare a separare le immagini percepite da ciascun occhio. Dopo un'altra ora mi prese un terribile mal di testa e dovetti smettere.

«Pensi di poter trovare, da solo, un posto adatto per riposarci?», mi chiese don Juan.

Non avevo alcuna idea del criterio da usare per trovare un 'posto adatto'. Don Juan mi spiegò pazientemente che guardare con brevi occhiate permetteva agli occhi di cogliere visioni insolite. «Di che genere?», chiesi.

«Non sono propriamente visioni», rispose. «Assomigliano più a sensazioni. Se guardi un cespuglio o un albero o una roccia dove potresti voler riposare, i tuoi occhi possono farti sentire se quello è o no il posto migliore per riposare».

Di nuovo lo supplicai di descrivermi come fossero quelle sensazioni ma o non le poteva descrivere o semplicemente non voleva. Disse che dovevo esercitarmi scegliendo un posto e indi lui mi avrebbe detto se i miei occhi funzionavano o no.

A un certo momento vidi quello che pensai essere un ciottolo che rifletteva la luce. Non lo potevo vedere se mettevo gli occhi a fuoco su di esso, ma se spazzavo la zona con rapide occhiate potevo individuare una specie di debole luccichio. Indicai il punto a don Juan. Era in mezzo a uno spazio pianeggiante senza ombra e senza cespugli folti. Don Juan rise fragorosamente e quindi mi chiese perché avessi scelto proprio quel posto. Gli spiegai che vedevo un luccichio.

«Non mi importa quello che vedi», disse. «Potresti vedere un elefante. L'importante è quello che senti».

Non sentivo proprio nulla. Don Juan mi lanciò uno sguardo misterioso e disse che desiderava potermi assecondare e sedersi a riposare lì con me, ma che si sarebbe seduto da un'altra parte mentre io mettevo alla prova la mia scelta.

Mi misi a sedere e intanto lui mi guardava curiosamente da una decina di metri di distanza. Dopo qualche minuto incominciò a ridere forte. In certo modo la sua risata mi rendeva nervoso, mi irritava. Sentivo che si prendeva gioco di me e andai in collera. Incominciai a domandarmi cosa facevo là. C'era qualcosa di nettamente sbagliato nel modo in cui procedeva tutto il mio sforzo con don Juan. Sentivo di essere solo una pedina nelle sue mani.

All'improvviso don Juan mi caricò, a tutta velocità, e mi tirò per il braccio trascinandomi a forza per tre o quattro metri. Mi aiutò ad alzarmi e si asciugò qualche goccia di sudore dalla fronte. Mi accorsi che si era sforzato all'estremo. Mi diede un colpetto sulla schiena e disse che avevo scelto il posto sbagliato e che lui aveva dovuto precipitarsi a salvarmi perché aveva visto che il posto su cui sedevo stava per prendere il sopravvento sui miei sentimenti. Scoppiai a ridere. L'immagine di don Juan che mi caricava era molto buffa: si era messo a correre come un giovanotto, i suoi piedi si erano mossi come se artigliassero il soffice terriccio rossastro del deserto per catapultarsi su di me. Lo avevo visto ridere di me e qualche istante dopo mi stava trascinando per il braccio.

Dopo un po' don Juan mi esortò a continuare a cercare un posto adatto per riposare. Continuammo a camminare ma non scoprii né 'sentii' nulla. Forse se fossi stato più rilassato avrei notato o sentito qualcosa. Tuttavia non ero più in collera con lui. Alla fine don Juan mi indicò alcune rocce e ci fermammo.

«Non sentirti deluso», mi disse. «Ci vuole molto tempo per allenare gli occhi».

Non dissi nulla. Non sarei stato certo deluso da una cosa che non comprendevo affatto. Tuttavia dovevo ammettere che già tre volte, da quando avevo incominciato a far visita a don Juan, mi ero sentito molto in collera e mi ero turbato fino quasi a sentirmi male mentre sedevo su posti che lui chiamava cattivi.

«Il trucco sta nel sentire con gli occhi», proseguì don Juan. «Il tuo problema ora è che non sai che cosa sentire. Ma ci riuscirai, con la pratica».

«Forse, don Juan, dovreste dirmi cosa dovrei sentire.»

«Impossibile».

«Perché?»

«Nessuno potrebbe dirti quello che dovresti sentire. Non è calore, o luce, o riverbero, o colore. E' qualcos'altro».

«Potete descriverlo?».

«No. Tutto quello che posso fare è comunicarti la tecnica. Una volta che hai imparato a separare le immagini e a vedere tutto sdoppiato, devi concentrare l'attenzione nel punto tra le due immagini. Qualsiasi cambiamento degno di nota avverrà lì, in quel punto».

«Che tipo di cambiamenti sono?».

«Questo non è importante, quella che conta è la tua sensazione. Ogni uomo è diverso. Oggi hai visto un luccichio, ma quello non significava nulla perché mancava la sensazione. Non ti posso dire come si fa a sentire, lo devi imparare da solo».

Riposammo in silenzio per un po' di tempo. Don Juan si coprì la faccia col cappello e rimase immobile come se dormisse. Mi concentrai sugli appunti che stavo scrivendo, finché un improvviso movimento di don Juan mi fece sobbalzare. Si era tirato su a sedere bruscamente e mi guardava con aria accigliata.

«Tu hai un talento per la caccia», disse. «Ed è questo che dovresti imparare, la caccia. Non parleremo più di piante».

Sbuffò tra i denti per un istante, quindi aggiunse con aria candida: «Mi sembra comunque che non ne abbiamo mai parlato, non è vero?», e rise.

Passammo il resto della giornata camminando in ogni direzione mentre don Juan mi dava spiegazioni incredibilmente dettagliate sui serpenti a sonagli: il modo in cui fanno il nido, come si muovono, le loro abitudini stagionali, i loro sbalzi di comportamento. Quindi si dedicò a mettere alla prova tutto ciò che mi aveva insegnato e alla fine catturò e uccise un grosso serpente; gli tagliò la testa, ne ripulì i visceri, lo spellò e ne arrostì la carne. I suoi movimenti avevano una tale grazia e abilità che il solo essergli accanto mi dava un puro piacere. Ero stato ad ascoltarlo e osservarlo, affascinato. La mia concentrazione era così completa che avevo praticamente dimenticato il resto del mondo.

Ripiombai bruscamente nel mondo di sempre quando si trattò di mangiare il serpente. Appena incominciai a masticare un pezzetto di quella carne fui colto dalla nausea. La mia ripugnanza non aveva fondamento perché la carne era deliziosa, ma sembrava che il mio stomaco fosse un'unità del tutto indipendente. Quasi non riuscivo a inghiottire. Pensai che dal gran ridere don Juan stesse per avere un attacco di cuore.

Dopo mangiato ci sedemmo comodamente a riposare all'ombra di alcune rocce. Mi misi a lavorare ai miei appunti e dalla loro mole mi resi conto della stupefacente quantità di informazioni che don Juan mi aveva dato sui serpenti a sonagli.

«Ti è tornato il tuo spirito di cacciatore», mi disse a un tratto don Juan con volto serio. «Ora sei inchiodato».

«Come sarebbe a dire?».

Volevo che spiegasse la sua affermazione, che io ero inchiodato, ma si limitò a ridere e la ripeté.

«Come sono inchiodato?», insistei.

«I cacciatori vanno sempre a caccia», rispose. «Anch'io sono un cacciatore».

«Volete dire che cacciate per vivere?».

«Io vado a caccia per vivere. Posso vivere all'aperto, dovunque».

Indicò con la mano tutta la regione circostante.

«Essere un cacciatore significa conoscere moltissime cose», riprese. «Significa che si può vedere il mondo in differenti maniere. Per essere un cacciatore bisogna essere in perfetto equilibrio con ogni altra cosa, altrimenti cacciare diventerebbe un lavoro senza senso. Per esempio, oggi abbiamo preso un serpentello. Ho dovuto chiedergli scusa di avergli tolto la vita così improvvisamente e definitivamente; ho fatto quel che ho fatto sapendo che anche la mia vita mi sarà tolta un giorno in modo molto simile, improvvisamente e definitivamente. Perciò, tutto sommato, noi e i serpenti siamo pari. Oggi un serpente ci ha fatto da cibo».

«Quando andavo a caccia non avevo mai immaginato un equilibrio di questo tipo», dissi.

«Non è vero. Quello che facevi non era solo uccidere animali. Tu e tutta la tua famiglia mangiavate la cacciagione».

Le sue affermazioni avevano il tono convinto di uno che fosse stato presente. Naturalmente aveva ragione. C'erano state delle volte in cui avevo fornito alla mia famiglia carne di selvaggina.

Dopo un attimo di esitazione chiesi: «Come lo sapevate?».

«Ci sono certe cose che io so», rispose. «Ma non ti posso dire come le so».

Gli dissi che le mie zie e i miei zii chiamavano molto seriamente 'fagiani' tutti gli uccelli che acchiappavo.

Don Juan disse che poteva benissimo immaginarseli a chiamare 'piccolo fagiano' un passero, e aggiunse una comica imitazione di come lo avrebbero masticato. Gli straordinari movimenti delle sue mascelle mi davano la sensazione che stesse veramente masticando un uccello tutto intero, ossa e tutto.

«Penso davvero che tu abbia un'attitudine per la caccia», disse fissandomi. «E finora abbiamo battuto il sentiero sbagliato. Forse sarai più disposto a cambiare il tuo modo di vita per diventare un cacciatore.

Mi rammentò che avevo scoperto, con solo un piccolo sforzo da parte mia, che nel mondo c'erano per me posti buoni e cattivi; e aggiunse che avevo anche trovato i rispettivi colori loro associati.

«Questo significa che hai un talento per la caccia», dichiarò. «Non tutti quelli che tentano trovano nello stesso tempo i loro colori e i loro posti».

Essere un cacciatore sembrava molto bello e romantico, ma a me sembrava un'assurdità, dal momento che cacciare non mi importava particolarmente.

«Non devi preoccuparti di cacciare o di amare la caccia», ribatté don Juan. «Tu hai un'inclinazione naturale. Penso che ai migliori cacciatori non piaccia mai cacciare; lo fanno bene, tutto qui».

Avevo la sensazione che don Juan fosse sempre capace di far trionfare il proprio punto di vista in qualsiasi discussione, e tuttavia sostenne che non gli piaceva parlare.

«E' come quello che ti ho detto dei cacciatori», affermò. «Non mi piace necessariamente parlare. Ho solo un talento per parlare, e lo faccio bene».

Trovai davvero divertente la sua agilità mentale. «I cacciatori devono essere individui eccezionalmente duri» riprese. «Un cacciatore lascia pochissimo al caso. Ho cercato continuamente di convincerti che devi imparare a vivere in modo diverso. Finora non ci sono riuscito, non c'era nulla a cui tu avresti potuto aggrapparti. Ora è diverso. Ti ho restituito il tuo vecchio spirito di cacciatore, forse servirà a farti cambiare».

Protestai che non volevo diventare un cacciatore. Gli rammentai che al principio avevo solo voluto che mi parlasse delle piante medicinali, ma lui mi aveva fatto talmente deviare dal mio proposito originario che non sapevo più ricordare con chiarezza se avevo o no veramente voluto imparare gli usi delle piante.

«Molto bene», disse. «Molto bene davvero. Se non hai un'idea chiara di quello che vuoi veramente, puoi diventare più umile.

«Diciamo così. Per i tuoi scopi non importa veramente se impari a conoscere le piante o se impari a cacciare. Me lo hai detto proprio tu.

A te interessa tutto quello che una qualsiasi persona può dire. E' vero?».

Questo glielo avevo detto per cercare di definire la portata dell'antropologia e per ingaggiarlo come mio informatore.

Don Juan ridacchiò, ovviamente consapevole di aver messo sotto controllo la situazione.

«Io sono un cacciatore», disse, come se mi leggesse nel pensiero. «Io lascio pochissimo al caso. Forse ti dovrei spiegare che ho imparato a essere un cacciatore. Non sono sempre vissuto come vivo ora. A un certo momento della vita ho dovuto cambiare. Ora ti sto indicando la direzione. Ti sto guidando. So di cosa parlo; qualcuno mi ha insegnato tutto questo. Non me lo sono immaginato per conto mio».

«Intendete dire che avete avuto un maestro, don Juan?».

«Diciamo che qualcuno mi ha insegnato a cacciare nel modo che ora voglio insegnare a te», disse e cambiò argomento rapidamente.

«Penso che un tempo cacciare fosse uno degli atti più grandi che un uomo potesse compiere», disse. «Tutti i cacciatori erano uomini potenti. In effetti, un cacciatore doveva essere potente per sopportare le durezze di quella vita».

Tutto a un tratto mi sentii incuriosito. Si riferiva a un tempo forse antecedente alla conquista spagnola? Incominciai a sondarlo.

«Quando era il tempo di cui parlate?».

«Un tempo».

«Quando? Che significa 'un tempo'?».

«Significa un tempo, o forse significa ora, oggi. Non importa. Un tempo tutti sapevano che un cacciatore era il migliore degli uomini. Ora non tutti lo sanno, ma c'è un numero sufficiente di persone che lo sa. Io lo so, un giorno lo saprai tu. Capisci quello che voglio dire?».

«E' questa l'idea che hanno dei cacciatori gli indiani yaqui? E' questo che voglio sapere».

«Non necessariamente».

«E gli indiani pima?».

«Non tutti. Ma qualcuno».

Nominai vari gruppi di indiani che vivevano nelle vicinanze. Volevo che don Juan si impegnasse ad affermare che la caccia era una fede e una pratica condivisa da qualche specifica popolazione. Ma evitò di rispondermi direttamente, perciò cambiai argomento.

«Perché fate tutto questo per me, don Juan?», chiesi.

Si tolse il cappello e si grattò le tempie fingendo di essere imbarazzato.

«Sto compiendo un gesto con te», disse dolcemente. «Altre persone hanno fatto con te un gesto simile; un giorno tu stesso farai il medesimo gesto con altri. Diciamo che questa è la mia volta. Un giorno ho scoperto che se volevo essere un cacciatore degno di autorispetto dovevo cambiare il mio modo di vita. Ero solito lagnarmi e lamentarmi molto. Avevo buoni motivi per sentirmi defraudato: sono un indiano e gli indiani sono trattati come cani. Non potevo farci niente, perciò rimanevo col mio dolore. Ma poi la mia buona sorte mi risparmiò e qualcuno mi insegnò a cacciare. E capii che la vita che conducevo non meritava di essere vissuta... perciò la cambiai».

«Ma io sono contento della mia vita, don Juan. Perché dovrei cambiarla?».

Don Juan si mise a cantare una canzone messicana, molto dolcemente, quindi ne canticchiò il motivo a bocca chiusa. Il capo gli dondolava su e giù mentre seguiva il ritmo della canzone.

«Pensi che tu e io siamo uguali?», chiese con voce brusca.

La sua domanda mi colse di sorpresa. Avevo sentito un brusio nelle orecchie come se don Juan avesse urlato quelle parole, ma in realtà non aveva urlato; nella sua voce c'era stato però un suono metallico che mi era rimbombato nelle orecchie.

Mi grattai l'interno dell'orecchio sinistro col mignolo della mano sinistra. Le orecchie mi prudevano sempre e avevo preso l'abitudine di strofinarmi ritmicamente e nervosamente l'interno dell'orecchio col mignolo di una mano. Il movimento era più propriamente una scossa di tutto il mio braccio.

Don Juan mi osservava, apparentemente affascinato.

«Allora... siamo uguali?», chiese.

«Certo che siamo uguali», risposi.

Era ovvio che mi sentissi condiscendente. Provavo molto calore nei suoi confronti, anche se a volte non sapevo cosa pensare di lui; tuttavia nella mia mente ritenevo sempre, anche se non lo avevo mai detto, che io, studente universitario, uomo del sofisticato mondo occidentale, fossi superiore a un indiano.

«No», disse calmo, «non lo siamo».

«Perché?», protestai. «Lo siamo certamente».

«No», disse con voce dolce. «Non siamo uguali. Io sono un cacciatore e un guerriero, e tu sei un ruffiano».

Rimasi a bocca aperta. Non riuscivo a credere che don Juan l'avesse veramente detto. Lasciai cadere il taccuino e lo fissai sbalordito, poi, naturalmente, mi infuriai.

Don Juan mi guardava con occhi calmi e composti. Evitai il suo sguardo. Allora incominciò a parlare. Pronunciava le parole chiaramente, gli scivolavano dalla bocca limpide e implacabili. Disse che facevo il ruffiano per conto di qualcun altro. Che non combattevo le mie battaglie ma le battaglie di qualche persona sconosciuta. Che non volevo imparare a conoscere le piante, né a cacciare, né niente. E che il suo mondo di precisi atti, sentimenti e decisioni era infinitamente più efficace di quella goffa idiozia che chiamavo 'la mia vita'.

Quando finì di parlare ero paralizzato. Aveva parlato senza bellicosità o sicumera, ma con una tale forza, e tuttavia con una tale calma, che non ero più in collera.

Rimanemmo in silenzio. Mi sentivo imbarazzato e non riuscivo a pensare nulla di appropriato da dire. Aspettai che fosse lui a rompere il silenzio. Passarono le ore. Don Juan diventò immobile per gradi, finché il suo corpo acquistò una rigidità strana, quasi terrificante; era sempre più difficile distinguere il suo profilo a mano a mano che calava l'oscurità, e alla fine, quando intorno a noi fu buio come la pece, sembrò che don Juan si fosse fuso nel nero delle rocce. Il suo stato di immobilità era così totale da far pensare che non esistesse più.

Era mezzanotte quando alla fine mi resi conto che don Juan avrebbe potuto rimanere lì immobile in quel deserto, su quelle rocce, forse per sempre, se avesse dovuto. Il suo mondo di precisi atti, sentimenti e decisioni era veramente superiore.

Lo toccai pian piano sul braccio e le lacrime mi inondarono la faccia.

 

 7.
ESSERE INACCESSIBILE.
 

Giovedì 29 giugno, 1961.

 

Di nuovo don Juan, come aveva fatto per quasi una settimana, mi affascinò con la sua conoscenza di specifici dettagli sul comportamento della selvaggina. Dapprima spiegò e poi mise in pratica un certo numero di tattiche venatorie basate su quelli che chiamava «i guizzi delle quaglie». Ero così preso dalle sue spiegazioni che trascorse una giornata intera e non mi accorsi del passar del tempo. Avevo anche dimenticato di pranzare. Don Juan osservò scherzando che era molto insolito che io saltassi un pasto.

Alla fine della giornata aveva catturato cinque quaglie con una trappola ingegnosissima, che mi aveva insegnato a costruire e montare.

«Due bastano per noi», disse, e ne lasciò libere tre.

Mi insegnò quindi come si arrostisce una quaglia. Io volevo tagliare degli arbusti e preparare un forno da campo, come mi aveva insegnato mio nonno, rivestito di rami verdi e foglie e spalmato di terra, ma don Juan disse che non c'era bisogno di danneggiare i cespugli, dal momento che avevamo già fatto del male alle quaglie.

Una volta finito di mangiare ci avviammo senza fretta verso una zona rocciosa. Ci sedemmo su un pendio di arenaria e io dissi che se mi avesse lasciato fare avrei cucinato tutte e cinque le quaglie, e che cucinate nel mio forno avrebbero avuto un sapore molto migliore del suo arrosto.

«Senza dubbio», rispose. «Ma se lo avessi fatto, avremmo potuto non uscire da qui tutti interi».

«Che volete dire?», chiesi. «Cosa ce lo avrebbe impedito?».

«I cespugli, le quaglie, tutto quello che ci sta intorno avrebbe potuto contribuire».

«Non so mai quand'è che parlate sul serio», dissi.

Don Juan fece un gesto di simulata impazienza e schioccò le labbra.

«Hai una strana nozione di ciò che significhi parlare sul serio», disse. «Io rido molto perché mi piace ridere, eppure tutto ciò che dico è terribilmente serio, anche se tu non lo capisci. Perché il mondo dovrebbe essere solo come pensi che sia? Chi ti ha dato l'autorità di dirlo?».

«Non esiste prova che il mondo sia altrimenti», risposi.

Stava calando l'oscurità. Mi chiedevo se era ora di tornare a casa, ma don Juan sembrava non avere fretta e io mi divertivo.

Il vento era freddo. Improvvisamente don Juan si alzò e mi disse che dovevamo arrampicarci sulla cima della collina e rimanere in piedi in una zona libera dai cespugli.

«Non aver paura», mi disse. «Sono tuo amico e baderò che non ti accada nulla di male».

«Che intendete dire?», chiesi allarmato.

Don Juan riusciva nel modo più insidioso possibile a farmi passare dal più puro godimento al più puro terrore.

«Il mondo è molto strano in questo momento del giorno», disse. «E' questo che intendo dire. Qualunque cosa tu veda, non aver paura».

«Cosa vedrò?».

«Ancora non lo so», rispose scrutando in lontananza verso sud.

Non sembrava preoccupato. Anch'io continuai a guardare nella medesima direzione.

Improvvisamente don Juan si drizzò su se stesso e con la mano sinistra indicò una zona oscura tra i cespugli del deserto.

«Ecco», disse, come se avesse atteso qualcosa che dovesse apparire improvvisamente.

«Cos'è?», chiesi.

«Ecco», ripeté. «Guarda! Guarda!».

Non vedevo niente, tranne i cespugli.

«E' qui ora», disse don Juan con un tono di grande premura nella voce. «E' qui».

In quell'istante un'improvvisa folata di vento mi colpì e mi fece bruciare gli occhi. Fissai la zona in questione, non c'era assolutamente nulla di fuori dell'ordinario.

«Non vedo niente», dissi.

«L'hai appena sentito», rispose. «Proprio ora. Ti è entrato negli occhi e ti ha impedito di vedere».

«Di che state parlando?».

«Ti ho condotto deliberatamente sulla cima di una collina», disse. «Qui siamo molto visibili e qualcosa sta venendo da noi».

«Cosa? Il vento?».

«Non solo il vento», disse severamente. «Può sembrarti il vento perché il vento è tutto quello che conosci».

Mi sforzai gli occhi fissando tra gli arbusti del deserto. Don Juan stette in silenzio accanto a me per un momento, quindi si avviò verso la bassa vegetazione che cresceva lì intorno e incominciò a strappare dei grossi rami dai cespugli; ne riunì otto e ne fece un fascio. Mi ordinò di fare lo stesso e di scusarmi a voce alta con le piante per averle mutilate.

Quando avemmo due fasci me li fece prendere e correre sulla cima della collina, quindi mi fece stendere sulla schiena tra due grossi macigni. Con grandissima rapidità dispose i rami del mio fascio in modo da coprirmi tutto il corpo, poi coprì se stesso allo stesso modo e attraverso le foglie mi sussurrò di osservare come il cosiddetto vento avrebbe cessato di soffiare una volta che fosse diventato impercettibile.

A un certo momento, con mio assoluto stupore, il vento cessò veramente di soffiare come don Juan aveva predetto. Era avvenuto così gradualmente che non avrei osservato il cambiamento se non lo avessi aspettato deliberatamente. Per un po' il vento aveva sibilato attraverso le foglie sulla mia faccia, e quindi tutto si era gradualmente acquietato intorno a noi.

Bisbigliai a don Juan che il vento era cessato e lui mi mormorò di rimando che non dovevo far nessun rumore o movimento, perché quello che chiamavo vento non era affatto un vento ma qualcosa che aveva una sua volontà e poteva veramente riconoscerci.

Risi nervosamente.

Con voce attutita don Juan richiamò la mia attenzione sulla calma intorno a noi e mormorò che stava per alzarsi in piedi e che dovevo imitarlo, scansando molto delicatamente i rami con la mano sinistra.

Ci alzammo in piedi contemporaneamente. Don Juan fissò per un momento in lontananza verso sud, quindi si volse bruscamente e guardò a ovest.

«Sospetto. Veramente sospetto», borbottò, indicando un punto verso sud-ovest.

«Guarda! Guarda!», mi esortò.

Fissai con tutta l'intensità di cui ero capace. Volevo vedere quello di cui parlava, ma non notai nulla. O piuttosto non notai nulla che non avessi visto prima; c'erano solo cespugli che sembravano agitati da un leggero vento; i cespugli ondeggiavano.

«E' qui», disse don Juan.

In quel momento sentii una ventata d'aria sulla faccia. Sembrava che il vento avesse veramente incominciato a soffiare dopo che ci eravamo alzati in piedi. Non potevo crederlo; ci doveva essere una spiegazione logica.

Don Juan ridacchiò dolcemente e disse di non sforzarmi il cervello per trovare una ragione.

«Raccogliamo un'altra volta gli arbusti», disse. «Non mi piace far ciò a queste pianticelle, ma dobbiamo "fermarti"».

Raccolse i rami che avevamo usato per coprirci e ci ammonticchiò sopra piccoli sassi e terra. Poi, ripetendo gli stessi movimenti di prima, raccogliemmo altri otto rami ciascuno. Intanto il vento continuava a soffiare senza tregua. Don Juan mormorò che una volta che mi avesse coperto non dovevo fare il minimo movimento o rumore. Mi mise i rami sul corpo in tutta fretta, quindi si distese e si coprì a sua volta.

Rimanemmo in quella posizione per circa venti minuti e in quel periodo di tempo accadde un fenomeno straordinario: il vento cambiò ancora da una continua raffica violenta a una lieve vibrazione.

Trattenni il fiato, aspettando il segnale di don Juan. A un certo momento don Juan scansò delicatamente i rami. Lo imitai e ci alzammo in piedi. La sommità della collina era molto tranquilla. C'era solo una lieve, dolce vibrazione di foglie nei cespugli circostanti.

Gli occhi di don Juan guardavano fissamente un punto tra i cespugli a sud di noi.

«Eccolo di nuovo!», esclamò a voce alta.

Sobbalzai involontariamente, perdendo quasi l'equilibrio, e don Juan, con voce alta e imperiosa, mi ordinò di guardare.

«Cosa dovrei vedere?», chiesi disperatamente.

Disse che quello, il vento o qualunque cosa fosse, era come una nuvola o una spirale molto in alto al di sopra dei cespugli, che turbinava e avanzava verso la cima della collina dove eravamo noi.

Vidi incresparsi i cespugli in lontananza.

«Eccolo che arriva», mi disse don Juan all'orecchio. «Guarda come ci cerca».

Proprio in quell'istante una forte raffica di vento mi colpì la faccia, come me l'aveva colpita prima. Questa volta, però, la mia reazione fu diversa. Ero atterrito. Non avevo visto quello che don Juan aveva descritto, ma avevo visto una misteriosissima onda piegare i cespugli. Non volevo soccombere alla paura e cercai deliberatamente una qualsiasi spiegazione. Mi dicevo che in quella zona dovevano esserci continue correnti d'aria e don Juan, conoscendo alla perfezione tutta la regione, non solo ne era al corrente ma sapeva anche calcolare mentalmente quando si sarebbero prodotte. Tutto quello che doveva fare era stendersi, contare e aspettare che il vento scemasse; e una volta che si era alzato in piedi doveva solo aspettare che si producesse di nuovo.

La voce di don Juan mi riscosse dalle mie elucubrazioni mentali.

Mi diceva che era ora di andare via. Tergiversai; volevo rimanere per accertarmi che il vento scemasse.

«Non ho visto niente, don Juan», dissi.

«Però hai notato qualcosa di insolito».

«Forse dovreste dirmi ancora che cosa avrei dovuto vedere».

«Te l'ho già detto», rispose. «Qualcosa che si nasconde nel vento e assomiglia a una spirale, a una nuvola, a una nebbia, a una faccia che turbina».

Don Juan fece con le mani un gesto per descrivere un moto orizzontale e verticale.

«Si muove in una direzione specifica, riprese. Avanza disordinatamente o turbina. Un cacciatore deve conoscere tutto questo per muoversi correttamente».

Volevo assecondarlo, ma sembrava così preso dal tentativo di affermare ciò che intendeva che non osai. Mi guardò per un istante e io distolsi gli occhi.

«Credere che il mondo sia soltanto come pensi tu è stupido», disse. «Il mondo è un luogo misterioso. Specialmente al crepuscolo».

Indicò col mento nella direzione del vento.

«Ci può seguire», disse. «Può stancarci o potrebbe anche ucciderci».

«Quel vento?».

«In questo momento della giornata, al crepuscolo, non c'è vento. In questo momento c'è solo potere».

Rimanemmo un'ora seduti sulla cima della collina. Il vento soffiò forte e costante per tutto il tempo.

 

Venerdì 30 giugno, 1961.

 

Nel tardo pomeriggio, dopo aver mangiato, ci trasferimmo sullo spiazzo davanti alla casa. Io mi misi a sedere sul mio 'posto' e mi dedicai ai miei appunti. Don Juan si distese, sulla schiena con le mani ripiegate sullo stomaco. Eravamo rimasti tutto il giorno vicino alla casa per via del 'vento'; don Juan mi spiegò che lo avevamo disturbato deliberatamente e che era meglio non starsene in giro a oziare. Mi era anche toccato dormire coperto di rami.

Un'improvvisa folata di vento fece alzare don Juan con un balzo incredibilmente agile.

«Maledizione», disse. «Il vento ti sta cercando»

«Questa non la bevo, don Juan», dissi ridendo. «Proprio non la bevo».

Non mi stavo intestardendo, solo mi era impossibile accettare l'idea che il vento avesse una sua volontà e mi stesse cercando, o che ci aveva veramente individuati e si era precipitato contro di noi sulla cima della collina. Dissi che l'idea di un 'vento dotato di intenzionalità' denotava un'idea del mondo un po' semplicistica.

«Allora che cosa è il vento?», mi chiese don Juan in tono provocatorio.

Gli spiegai pazientemente che le masse di aria calda e fredda producevano differenti pressioni e che la pressione faceva muovere le masse d'aria verticalmente e orizzontalmente. Mi ci volle molto per spiegargli tutti i particolari della meteorologia elementare.

«Vuoi dire che tutto quello che c'è nel vento è aria calda e fredda?», chiese in tono confuso.

«Temo di sì», risposi, godendomi in silenzio il mio trionfo.

Don Juan sembrava ammutolito dalla sorpresa. Ma poi mi guardò e scoppiò a ridere fragorosamente.

«Le tue opinioni sono opinioni definitive», disse con una nota di sarcasmo. «Sono l'ultima parola, non è vero? Per un cacciatore, invece, le tue opinioni non valgono una cicca. Non fa nessuna differenza se la pressione è uno, o due o dieci; se tu vivessi qui fuori nel deserto sapresti che al crepuscolo il vento diventa potere. Un cacciatore che vale il pane che mangia lo sa, e agisce in conseguenza».

«Come agisce?».

«Usa il crepuscolo e quel potere nascosto nel vento».

«Come?».

«Se gli conviene, il cacciatore si nasconde al potere coprendosi e rimanendo immobile fino a che il crepuscolo se ne è andato e il potere lo ha sigillato nella sua protezione».

Don Juan fece un gesto come se volesse racchiudere qualcosa con le mani.

«La sua protezione è come un...».

Si fermò cercando la parola e io suggerii 'bozzolo'.

«Giusto», disse. «La protezione del potere ti racchiude come in un bozzolo. Un cacciatore può rimanere fuori allo scoperto e nessun puma o coyote o verme che sia lo può toccare. Un leone di montagna può arrivare fin sotto il naso del cacciatore e annusarlo, e se il cacciatore non si muove il leone se ne andrà. Te lo posso garantire.

«Se invece il cacciatore vuole essere notato, tutto quello che deve fare è mettersi in piedi sulla cima di una collina al momento del crepuscolo, e il potere lo tormenterà e lo cercherà per tutta la notte. Perciò, se un cacciatore vuole viaggiare di notte o vuole rimanere sveglio deve esporsi al vento.

«Qui sta il segreto dei grandi cacciatori. Esporsi e sottrarsi a ogni svolta della strada».

Mi sentivo un po' confuso e gli chiesi di ricapitolare. Don Juan spiegò con molta pazienza che aveva usato il crepuscolo e il vento per indicare l'importanza cruciale del rapporto reciproco tra il nascondersi e il mostrarsi.

«Devi imparare a esporti e sottrarti deliberatamente», disse. «Così come è ora la tua vita, sei continuamente esposto senza volerlo».

Protestai. La mia sensazione era che la mia vita stesse diventando sempre più segregata. Mi rispose che non lo avevo capito, e che sottrarsi non significava nascondersi o essere segregati, ma essere inaccessibili.

«In altre parole», continuò pazientemente. «Non fa nessuna differenza nascondersi se tutti sanno che ti nascondi.

«I tuoi problemi di ora nascono proprio da questo. Quando ti nascondi, tutti sanno che ti nascondi, e quando non ti nascondi, sei esposto a tutti quelli che ti vogliono mettere le mani addosso».

Incominciavo a sentirmi minacciato e cercai in fretta di difendermi.

«Non spiegarti», mi disse don Juan seccamente. «Non ce n'è bisogno. Siamo degli sciocchi, tutti, e tu non puoi essere differente. A un certo momento della mia vita, come te, mi sono esposto sempre più finché di me non restava nulla per nulla tranne forse che per piangere. E questo ho fatto, proprio come te».

Don Juan mi misurò con lo sguardo per un minuto e quindi emise un profondo sospiro.

«Ero però più giovane di te», riprese, «ma un giorno ne ho avuto abbastanza e ho cambiato. Diciamo che un giorno, quando stavo diventando un cacciatore, ho imparato il segreto dell'esporsi e del sottrarsi».

Gli dissi che il senso delle sue parole mi sfuggiva. Non riuscivo veramente a capire cosa intendesse per esporsi. Aveva usato le espressioni spagnole "ponerse al alcance e ponerse en el medio del camino": mettersi fuori della portata e mettersi nel mezzo di una strada piena di traffico.

«Devi toglierti di mezzo», spiegò. «Devi toglierti dal centro di una strada piena di traffico. Tutto il tuo essere è qui, perciò è inutile nascondersi; potresti soltanto immaginare di essere nascosto. Essere nel mezzo della strada significa che tutti quelli che passano possono osservare il tuo andare e venire».

La sua metafora era interessante, ma al tempo stesso anche oscura. «Parlate per enigmi», dissi.

Mi guardò fissamente a lungo e quindi incominciò a canticchiare una canzone. Raddrizzai la schiena e mi sedetti ad ascoltare con attenzione. Quando don Juan canticchiava una canzone messicana, lo sapevo, stava per intrappolarmi.

«Ehi», disse sorridendo e mi scrutò. «Che ne è stato di quella tua amica bionda? Quella ragazza che ti piaceva veramente».

Dovevo averlo guardato con un'espressione idiota e disorientata perché scoppiò a ridere con grande piacere. Non sapevo cosa dire.

«Me ne avevi parlato», disse in tono rassicurante.

Io però non ricordavo di avergli mai raccontato nulla di nessuno, tanto meno di una bionda.

«Non vi ho mai raccontato nulla del genere», dissi.

«Certo che me ne hai parlato», disse come per rifiutare la discussione.

Volevo protestare, ma don Juan mi interruppe dicendo che non importava come avesse fatto a sapere della ragazza, che l'importante era che mi fosse piaciuta.

Sentii crescere dentro di me un'onda di animosità nei suoi confronti.

«Non tergiversare», disse don Juan seccamente. «Questo è un momento in cui dovresti tagliar via i tuoi sentimenti di importanza.

«Una volta hai avuto una donna, una donna che ti era molto cara, e poi un giorno l'hai perduta».

Incominciai a chiedermi se avessi mai parlato di quella donna a don Juan. Conclusi che non c'era mai stata occasione di parlarne. Eppure dovevo avergliene parlato. Ogni volta che viaggiavamo in macchina insieme avevamo sempre parlato incessantemente di tutto. Non ricordavo tutte le cose di cui avevamo parlato perché non potevo prendere appunti guidando. Mi sentivo un po' tranquillizzato dalle mie conclusioni. Gli dissi che aveva ragione. Nella mia vita c'era stata una bionda molto importante.

«Perché non è con te?», chiese.

«Se ne è andata».

«Perché?».

«Per tante ragioni».

«Non erano poi tante, era una ragione sola: ti sei esposto troppo».

Volevo sapere sinceramente che cosa intendeva. Di nuovo mi aveva colpito. Sembrò rendersi conto dell'effetto del suo colpo e spinse in avanti le labbra per nascondere un sorriso malizioso.

«Tutti sapevano di voi due», disse con aria di convinzione incrollabile.

«Che c'era di male?».

«Era terribilmente male. Era una bella ragazza».

Espressi il sincero sentimento che il suo tirare a indovinare alla cieca mi era odioso, in particolare detestavo che facesse sempre le sue affermazioni col tono sicuro di una persona che fosse stata presente alla scena e l'avesse vista tutta.

«Ma è vero», disse con un candore disarmante. «Ho "visto" tutto. Era una bella ragazza».

Sapevo che discutere non sarebbe servito a niente, ma mi sentivo in collera con lui perché aveva toccato quella piaga dolorosa della mia vita, perciò dissi che la ragazza in questione non era dopo tutto così bella, che a mio parere non era un gran che.

«Anche tu», mi disse don Juan calmo. «Ma questo non importa. Quello che conta è che l'hai cercata dappertutto; questo fa di lei una persona speciale del tuo mondo, e per una persona speciale si dovrebbero avere solo buone parole».

Mi sentii imbarazzato; una grande tristezza incominciava a impadronirsi di me.

«Che cosa mi fate, don Juan?», chiesi. «Riuscite sempre a farmi sentire triste. Perché?».

«Ora stai indulgendo al sentimentalismo», mi disse in tono accusatore.

«Qual è lo scopo di tutto questo, don Juan?».

«Essere inaccessibile è lo scopo», dichiarò. «Ho richiamato il ricordo di quella persona per mostrarti direttamente ciò che non ti ho potuto mostrare col vento.

«L'hai perduta perché eri accessibile; eri sempre alla sua portata e la tua vita era meccanica».

«No!», dissi. «Vi sbagliate, la mia vita non è mai stata meccanica».

«Era ed è meccanica», rispose dogmaticamente. «E' meccanica in modo insolito e questo ti dà l'impressione che non lo sia, ma ti assicuro che lo è».

Volevo tenergli il broncio e immergermi nel malumore, ma in certo modo i suoi occhi mi davano un senso di inquietudine; sembravano spingermi sempre più avanti.

«L'arte di un cacciatore è diventare inaccessibile», riprese. «Nel caso di quella bionda avrebbe significato che dovevi diventare un cacciatore e incontrarla moderatamente. Non come hai fatto tu. Sei rimasto con lei un giorno dopo l'altro, finché il solo sentimento che restava era la noia. E' vero?».

Non gli risposi. Sentivo che non dovevo dire niente. Aveva ragione.

«Essere inaccessibile significa toccare il mondo intorno a te moderatamente. Non mangiare cinque quaglie; mangiane una. Non danneggiare le piante solo per costruire un forno da campo Non esporti al potere del vento a meno che non sia inevitabile. Non usare e spremere la gente fino a ridurla a nulla, specialmente le persone che ami».

«Non ho mai usato nessuno», dissi sinceramente.

Ma don Juan sostenne che l'avevo fatto, e perciò potevo dire sinceramente di essere stanco e annoiato della gente.

«Essere inaccessibile significa evitare deliberatamente di esaurire te stesso e gli altri», proseguì. «Significa non essere affamato e disperato, come il povero bastardo che pensa che non mangerà mai più e divora tutto il cibo che può, tutte e cinque le quaglie!».

Don Juan mi aveva tirato un vero colpo basso. Risi, e questo parve fargli piacere. Mi toccò delicatamente sulla schiena.

«Un cacciatore sa di poter sempre attirare la selvaggina nelle sue trappole, perciò non si preoccupa. Preoccuparsi vuol dire diventare accessibile, accessibile senza volerlo. E una volta che ti preoccupi ti afferri a tutto per disperazione; e una volta che ti afferri sei destinato a esaurire tutti o tutto ciò cui ti afferri».

Gli dissi che nella mia vita quotidiana era inconcepibile essere inaccessibile. Volevo fargli capire che per funzionare dovevo essere a portata di tutti quelli che avevano qualcosa a che fare con me.

«Ti ho già detto che essere inaccessibile non significa nascondersi o segregarsi», disse con calma. «Non significa neppure che tu non debba aver rapporti con gli altri. Un cacciatore usa il mondo moderatamente e con tenerezza, senza badare se il mondo possa essere cose, o piante, o animali, o persone, o potere. Un cacciatore tratta intimamente col proprio mondo eppure è inaccessibile a quello stesso mondo».

«Questa è una contraddizione», dissi. «Non può essere inaccessibile se è nel suo mondo, ora dopo ora, giorno dopo giorno».

«Non hai capito», disse don Juan pazientemente. «Il cacciatore è inaccessibile perché non spreme il mondo fino a deformarlo. Lo tocca lievemente, rimane quanto deve e quindi si allontana agilmente, lasciando appena un segno».

 
8.
INFRANGERE LE ABITUDINI DELLA VITA.
 

Domenica 16 luglio, 1961.

 

Per tutta la mattina osservammo certi roditori che sembravano grassi scoiattoli; don Juan li chiamava topi d'acqua. Mi mostrò che erano molto rapidi nel sottrarsi al pericolo, ma quando erano sfuggiti a un animale da preda avevano la cattiva abitudine di fermarsi, o anche di arrampicarsi su una roccia, ergendosi sulle zampe posteriori per guardarsi intorno e rassettarsi.

«Hanno buonissimi occhi», mi disse don Juan. «Devi muoverti solo quando sono in fuga, quindi, devi imparare a prevedere quando e dove si fermano, perché anche tu possa fermarti nello stesso istante».

Mi dedicai all'osservazione di quei roditori ed ebbi quella che sarebbe stata una giornata campale per cacciatori, perché ne scoprii moltissimi. E alla fine potevo prevedere quasi ogni volta i loro movimenti.

Quindi don Juan mi insegnò a costruire trappole per catturarli. Spiegò che un cacciatore doveva prender tempo per osservare i luoghi in cui quegli animali mangiavano o facevano il nido, per determinare il posto dove collocare le sue trappole; doveva disporle durante la notte e l'indomani non c'era che da spaventare i roditori per farli fuggire e incappare nei congegni di cattura.

Raccogliemmo dei bastoncelli e ci accingemmo a costruire i dispositivi per la caccia. Avevo quasi ultimato il mio e mi stavo domandando eccitatamente se avrebbe funzionato o no, quando a un tratto don Juan si fermò e si guardò il polso sinistro, come per controllare un orologio che non aveva mai avuto, e disse che secondo il suo orologio era ora di pranzo. Avevo in mano un lungo bastone che cercavo di trasformare in un anello piegandolo in tondo; lo lasciai cadere automaticamente insieme al resto dei miei arnesi da caccia.

Don Juan mi guardò con un'espressione di curiosità, quindi emise il suono lamentoso di una sirena di fabbrica all'ora di pranzo: un'imitazione perfetta. Mi diressi verso di lui e mi accorsi che mi fissava. Scosse il capo da una parte all'altra.

«Che diavolo...», disse.

«Che c'è che non va?», chiesi.

Emise di nuovo il lungo suono lamentoso di una sirena di fabbrica.

«Il pranzo è finito», disse. «Torna al lavoro».

Per un istante mi sentii confuso, ma poi pensai che stesse scherzando, forse perché in realtà non avevamo nulla da mangiare per pranzo. Ero stato tanto preso dai roditori che avevo dimenticato che non avevamo provviste. Ripresi in mano il bastone e cercai di piegarlo. Dopo un momento don Juan suonò di nuovo la sua 'sirena'.

«Ora di andare a casa», disse.

Esaminò il suo orologio immaginario, quindi mi guardò e ammiccò.

«Sono le cinque», disse con l'aria di uno che rivelasse un segreto. Pensai che si fosse improvvisamente stancato della caccia e volesse rimandare l'intera faccenda. Misi semplicemente tutto giù e incominciai a prepararmi a partire. Non lo guardai, presumevo che anche lui si preparasse ad andar via. Quando fui pronto guardai in su e lo vidi seduto qualche metro più in là a gambe incrociate.

«Sono pronto», dissi. «Possiamo andare quando volete».

Si alzò e salì su una roccia, dove rimase a guardarmi a quasi due metri dal suolo. Si mise le mani ai due lati della bocca ed emise un suono molto prolungato e penetrante. Sembrava una magnifica sirena di fabbrica. Girò completamente su se stesso emettendo quel suono lamentoso.

«Che state facendo, don Juan?», chiesi.

Disse che stava dando a tutto il mondo il segnale di andare a casa. Ero completamente disorientato, non riuscivo a capire se scherzava o se era semplicemente uscito di senno. Lo osservai attentamente e cercai di mettere ciò che stava facendo in relazione a qualcosa che poteva aver detto prima. Non avevamo quasi parlato durante la mattinata e non riuscivo a ricordare nulla di importante.

Don Juan stava ancora in piedi in cima alla roccia. Mi guardò, sorrise e ammiccò nuovamente. All'improvviso mi spaventai. Don Juan si mise le mani ai due lati della bocca ed emise un altro lungo suono ululante.

Disse che erano le otto di mattina e che dovevo riprendere il lavoro perché avevamo un'intera giornata davanti a noi.

Ero ormai completamente disorientato. In pochi istanti la mia paura crebbe fino a un desiderio irresistibile di fuggire dalla scena. Pensai che don Juan fosse pazzo. Stavo per scappare quando scivolò giù dalla roccia e venne verso di me, sorridendo.

«Pensi che io sia pazzo, non è vero?», chiese.

Gli risposi che mi stava spaventando a morte col suo comportamento inaspettato.

Rispose che eravamo pari. Non capii quello che diceva, ero profondamente turbato dal pensiero che i suoi atti sembravano completamente folli. Mi spiegò che aveva cercato deliberatamente di spaventarmi a morte con la pesantezza del suo comportamento inaspettato, perché io stesso lo facevo andare in bestia con la pesantezza del mio comportamento prevedibile. Aggiunse che le mie abitudini fisse erano pazze come la sua sirena.

Fui turbato e protestai che in realtà non avevo nessuna abitudine fissa. Gli dissi che credevo che la mia vita fosse un vero caos per la mancanza di sane abitudini regolari.

Don Juan rise e mi fece segno di mettermi a sedere accanto a lui. Di nuovo tutta la situazione era misteriosamente cambiata. La mia paura era svanita non appena si era messo a parlare.

«Quali sono le mie abitudini fisse?», chiesi.

«Tutto quello che fai è abitudine».

«Non siamo tutti così?».

«Non tutti. Io non faccio le cose per abitudine».

«Da che è venuto fuori tutto questo, don Juan? Che ho fatto o detto che vi ha spinto a comportarvi in quel modo?».

«Ti preoccupavi del pranzo».

«Non vi ho detto nulla; come avete fatto a sapere che mi preoccupavo del pranzo?».

«Ti preoccupi di mangiare ogni giorno verso mezzogiorno, e verso le sei di sera, e verso le otto di mattina», disse con un ghigno malizioso. «Ti preoccupi di mangiare a quelle ore anche se non hai fame.

«Per mostrarti il tuo spirito abitudinario mi è bastato suonare la mia sirena. Il tuo spirito è allenato a lavorare seguendo un segnale».

Mi fissò con un'espressione interrogativa negli occhi. Non mi potevo difendere.

«Ora ti stai preparando a trasformare la caccia in un'abitudine», riprese. «Hai già stabilito il tuo ritmo nella caccia; parli a un determinato momento, mangi a un determinato momento e ti addormenti a un determinato momento».

Non avevo niente da dire. Don Juan aveva descritto le mie abitudini nel mangiare secondo il modello che usavo in tutto nella mia vita. Eppure sentivo profondamente che la mia vita era meno abitudinaria di quella della maggior parte dei miei amici e conoscenti.

«Ora sai molte cose sulla caccia», continuò don Juan. «Ti sarà facile capire che un buon cacciatore conosce soprattutto una cosa: conosce le abitudini della sua preda. E' questo che fa di lui un buon cacciatore. «Se tu ricordassi come ti ho insegnato a cacciare, forse capiresti quello che voglio dire. Innanzitutto ti ho insegnato a costruire e disporre le trappole, poi ti ho insegnato le abitudini della selvaggina che volevi prendere, e alla fine abbiamo messo alla prova le trappole con le abitudini della selvaggina. Queste parti sono le forme esterne della caccia.

«Ora devo insegnarti l'ultima parte, quella di gran lunga la più difficile. Forse passeranno degli anni prima che tu possa dire di capirla e di essere un cacciatore».

Don Juan fece una pausa come per darmi tempo. Si tolse il cappello e imitò i caratteristici movimenti dei roditori che avevamo osservato. Mi sembrava molto buffo. La sua testa rotonda lo faceva assomigliare a uno di quegli animali.

«Essere un cacciatore non significa soltanto prendere in trappola la selvaggina», riprese. «Un cacciatore che vale il pane che mangia non prende la selvaggina perché mette trappole o perché conosce le abitudini della sua preda, ma perché lui stesso non ha abitudini. E' questo il suo vantaggio. Non è come tutti gli animali cui dà la caccia, fissato da pesanti abitudini e guizzi prevedibili; è libero, fluido, imprevedibile».

Quello che don Juan diceva mi sembrava un'idealizzazione arbitraria e irrazionale. Non potevo immaginare una vita senza abitudini regolari. Volevo essere molto onesto con lui e non limitarmi a dire se ero d'accordo o no. Sentivo che la sua concezione era impossibile da mettere in pratica per me e per chiunque altro.

«Non mi importa quello che senti», disse don Juan. «Per essere un cacciatore devi infrangere le abitudini regolari della tua vita. Sei andato bene nella caccia. Hai imparato in fretta e ora puoi vedere che sei come la tua preda, facile da prevedere».

Gli chiesi di essere specifico e darmi esempi concreti.

«Sto parlando della caccia», rispose con calma. «Perciò mi occupo di quello che fanno gli animali; i luoghi in cui mangiano; dove, come e quando dormono; dove fanno il nido; come vanno in giro. Queste sono le abitudini che ti mostro affinché tu possa rendertene conto nel tuo stesso essere.

«Hai osservato le abitudini degli animali del deserto. Mangiano o bevono in certi luoghi, fanno il nido in posti specifici; in effetti, tutto quello che fanno può essere previsto e ricostruito da un buon cacciatore».

«Come ti ho detto prima, ai miei occhi ti comporti come la tua preda. Una volta nella mia vita qualcuno mi ha fatto osservare la stessa cosa, perciò non sei l'unico. Tutti noi ci comportiamo come la preda cui diamo la caccia. Questo, naturalmente, fa anche di noi la preda di qualcosa o qualcun altro. Ora, la preoccupazione di un cacciatore, che sappia tutto ciò, è smettere di essere lui stesso una preda. Capisci quello che voglio dire?».

Espressi nuovamente l'opinione che la sua proposizione era insostenibile.

«Ci vuole tempo», disse don Juan. «Potresti incominciare col non pranzare tutti i giorni alle dodici in punto».

Mi guardò sorridendo con benevolenza. La sua espressione era molto buffa e mi fece ridere.

«Ci sono però degli animali impossibili da seguire», riprese. «Ci sono certi tipi di cervi, per esempio, che un cacciatore fortunato potrebbe incontrare, per pura fortuna, una sola volta nella vita».

Don Juan fece una pausa molto drammatica e mi guardò con occhi penetranti. Sembrava che aspettasse una mia domanda, ma io non avevo nulla da chiedere.

«Cosa pensi li renda così difficili da trovare e così unici?», chiese.

Mi strinsi nelle spalle perché non sapevo cosa rispondere.

«Non hanno abitudini», disse don Juan con tono di rivelazione. «E' questo che li rende magici».

«Un cervo deve dormire la notte», dissi. «Questa non è forse un'abitudine?».

«Certamente, se il cervo dorme ogni notte a un'ora specifica e in un solo specifico luogo. Ma quegli esseri magici non si comportano così. Anzi, un giorno te ne potrai sincerare da te stesso. Forse il tuo destino ti farà cacciare uno di quegli animali per il resto della tua vita».

«Che intendete dire?».

«A te piace cacciare; forse un giorno, in qualche parte del mondo, il tuo sentiero si incontrerà con quello di un essere magico e tu potrai inseguirlo.

«Un essere magico è una visione da contemplare. Io sono stato tanto fortunato da incrociare il cammino di uno di questi esseri. Il nostro incontro è avvenuto dopo che avevo appreso e messo in pratica molte conoscenze di caccia. Un giorno ero in una foresta fitta di alberi nel Messico centrale, quando a un tratto udii un lieve sibilo. Quel suono mi era sconosciuto, in tutti i miei anni di vagabondaggi in zone selvagge non avevo mai udito un suono simile. Non riuscii a individuarne la provenienza sul terreno; sembrava venire da luoghi differenti. Pensai che forse ero circondato da un branco o da un'orda di animali sconosciuti.

«Sentii ancora una volta quel sibilo assillante sembrava venire da tutto intorno. Allora capii la mia fortuna. Seppi che era un essere magico, un cervo. Sapevo anche che un cervo magico conosce le abitudini degli uomini comuni e quelle dei cacciatori.

«E' molto facile immaginare cosa farebbe un uomo comune in una situazione simile. Innanzitutto la sua paura lo trasformerebbe immediatamente in una preda. Una volta divenuto una preda gli restano due tipi di azione: o scappa o si prepara a difendersi. Se non è armato in genere fugge all'aperto e corre per salvarsi la vita. Se è armato appronta l'arma e quindi si prepara a resistere immobilizzandosi sul posto o lasciandosi cadere al suolo.

«Un cacciatore, d'altra parte, quando va a caccia nei luoghi selvaggi non si addentra mai in nessun posto senza immaginarsi in anticipo i possibili ripari, perciò si metterebbe immediatamente al coperto. Potrebbe lasciar cadere a terra il poncho oppure appenderlo a un ramo come esca e poi nascondersi e aspettare la prossima mossa della selvaggina.

«Perciò, in presenza del cervo magico, non mi sono comportato in nessuno dei due modi. Mi sono messo rapidamente a testa in giù e piedi in su e ho incominciato a gemere piano; mi uscivano veramente le lacrime e singhiozzai così a lungo che stavo quasi per svenire. Improvvisamente percepii un lieve soffio; qualcosa mi annusava i capelli dietro l'orecchio destro. Cercai di voltare la testa per vedere cosa fosse e mi capovolsi tirandomi su a sedere in tempo per vedere una creatura risplendente che mi fissava. Il cervo mi guardava e io gli dissi che non gli avrei fatto del male. E il cervo mi parlò».

Don Juan si interruppe e mi guardò. Sorrisi involontariamente. L'idea di parlare a un cervo era quanto mai incredibile, a dir poco.

«Mi ha parlato», disse don Juan con un ghigno.

«Il cervo ha parlato?».

«Sì».

Don Juan si alzò in piedi e raccolse il suo fascio di arnesi da caccia.

«Ha parlato davvero?», chiesi in tono perplesso.

Don Juan scoppiò a ridere.

«Che cosa ha detto?», chiesi un po' per scherzo.

Pensavo che mi stesse prendendo in giro. Don Juan rimase un momento silenzioso, come se cercasse di ricordare, poi i suoi occhi si accesero mentre ripeteva quello che aveva detto il cervo.

«Il cervo magico disse: 'Ehi amico'», continuò. «Io gli risposi: 'Ehi'. Poi mi chiese, 'Perché piangi?' e io risposi, 'Perché sono triste'. Allora la magica creatura mi si accostò all'orecchio e mi disse così chiaramente come ti parlo ora: 'Non essere triste'».

Don Juan mi fissava negli occhi. Sul suo volto c'era un lampo di vera malizia. Scoppiò a ridere fragorosamente.

Gli dissi che il suo dialogo col cervo era stato una stupidaggine.

«Cosa ti aspettavi?», mi chiese sempre ridendo. «Sono un indiano».

Il suo senso dell'umorismo era così stravagante che non potevo fare a meno di ridere con lui.

«Tu non credi che un cervo magico parli, non è vero?».

«Mi spiace ma proprio non posso credere che cose del genere accadano», risposi.

«Non ti biasimo», mi disse in tono rassicurante. «E una delle cose più maledettamente strane».

 
9.
L'ULTIMA BATTAGLIA SULLA TERRA.
 

Lunedì 24 luglio, 1961.

 

Verso la metà del pomeriggio, dopo aver girovagato per ore nel deserto, don Juan scelse un posto per riposare in una zona ombreggiata. Non appena fummo seduti incominciò a parlare. Disse che avevo imparato moltissime cose sulla caccia, ma che non ero cambiato quanto lui desiderava.

«Non basta saper costruire e collocare trappole», disse. «Un cacciatore deve vivere come un cacciatore per ottenere il massimo dalla propria vita. Purtroppo, i cambiamenti sono difficili e molto lenti; a volte ci vogliono anni prima che un uomo si convinca del bisogno di cambiare. A me ci sono voluti degli anni, ma forse non avevo un talento per la caccia. Penso che per me la cosa più difficile fosse voler veramente cambiare».

Lo rassicurai che avevo capito quello che intendeva. In effetti, fin da quando aveva incominciato a insegnarmi a cacciare, avevo incominciato anch'io a riconsiderare le mie azioni. Forse la scoperta per me più drammatica era stato accorgermi che i modi di don Juan mi piacevano. Mi piaceva don Juan come persona. C'era qualcosa di solido nel suo comportamento; il modo in cui si conduceva non lasciava dubbi quanto alla sua supremazia, eppure non aveva mai esercitato il suo vantaggio per esigere nulla da me. Il suo interesse per il cambiamento del mio modo di vita, sentivo, era simile a un suggerimento impersonale, o forse era come un autorevole commento sui miei fallimenti. Mi aveva fatto prendere coscienza dei miei fallimenti, eppure non riuscivo a capire come i suoi modi avrebbero potuto rimediare a nulla in me. Credevo sinceramente che, alla luce di quanto volevo fare nella vita, i suoi modi mi avrebbero procurato soltanto infelicità e privazioni, perciò mi sentivo in un vicolo cielo. Avevo però imparato a rispettare la sua supremazia, sempre espressa in termini di bellezza e precisione.

«Ho deciso di cambiare tattica», disse.

Gli chiesi di spiegarsi; la sua affermazione era vaga e non ero sicuro se alludeva a me o no.

«Un buon cacciatore cambia i propri modi ogni volta che è necessario», replicò. «Lo sai anche tu».

«Cosa intendete, don Juan?».

«Un cacciatore deve conoscere non solo le abitudini della preda, deve anche sapere che su questa terra ci sono dei poteri che guidano gli uomini e gli animali e tutto ciò che vive».

Si interruppe. Aspettai, ma pareva che fosse arrivato alla fine di quello che voleva dire.

«Di che tipo di poteri state parlando?», chiesi dopo una lunga pausa.

«Poteri che guidano la nostra vita e la nostra morte».

Don Juan si interruppe ancora, sembrava che gli fosse terribilmente difficile decidere quello che doveva dire. Si stropicciò le mani e scosse il capo, spingendo in fuori le mascelle. Per due volte mi fece cenno di tacere mentre stavo per chiedergli di spiegare le sue affermazioni sibilline.

«Non sei capace di fermarti facilmente», mi disse alla fine. «So che sei ostinato, ma questo non importa. Quanto più sei ostinato, tanto meglio sarà quando alla fine riuscirai a cambiare te stesso».

«Cerco di fare del mio meglio», dissi.

«No. Non son d'accordo. Non cerchi di fare del tuo meglio. Lo hai appena detto perché ti sembra bene; in realtà hai detto la stessa cosa di tutto quello che fai. Hai cercato per anni di far del tuo meglio senza alcun vantaggio. Bisogna far qualcosa per rimediare».

Come al solito mi sentii costretto a difendermi. Don Juan sembrava mirare, di regola, ai miei punti più deboli. Ricordai allora che ogni volta che avevo tentato di difendermi contro le sue critiche mi ero sentito alla fine uno sciocco, e mi arrestai nel bel mezzo di un lungo discorso di spiegazione.

Don Juan mi esaminò con curiosità e rise. In tono molto dolce disse di avermi già spiegato che tutti noi siamo sciocchi: io non facevo eccezione.

«Ti senti sempre obbligato a spiegare i tuoi atti, come se sulla terra tu fossi il solo uomo che sbaglia», disse. «E' il tuo antico senso di importanza. Ne hai troppa; hai anche troppa storia personale. D'altra parte, non ti assumi la responsabilità dei tuoi atti; non usi la morte come tuo consigliere, e soprattutto sei troppo accessibile. In altre parole, la tua vita è nella stessa confusione in cui era prima che ti incontrassi.

Provai di nuovo un vero impeto di orgoglio e volli sostenere che aveva torto. Con un gesto mi avvertì di tacere.

«Bisogna assumersi la responsabilità di esistere in un mondo strano», disse. «Siamo in un mondo strano, lo sai».

Feci cenno di sì col capo.

«Non stiamo parlando della stessa cosa», disse. «Per te il mondo è strano perché se non ti irrita sei con esso in disaccordo. Per me il mondo è strano perché è stupendo, imponente, misterioso, insondabile; ho cercato di convincerti che ti devi assumere la responsabilità dell'essere qui, in questo mondo meraviglioso, in questo tempo meraviglioso. Ho voluto convincerti che devi imparare a far contare ogni atto, dal momento che resterai in questo mondo solo per breve tempo, troppo breve in verità per assistere a tutte le sue meraviglie».

Insistei che essere annoiato dal mondo o non essere d'accordo col mondo era la condizione umana.

«Allora cambiala», rispose seccamente. «Se non rispondi a questa sfida è come se tu fossi morto».

Mi sfidò a nominare una cosa qualsiasi della mia vita che avesse assorbito tutti i miei pensieri. L'arte, dissi. Avevo sempre voluto essere un artista e per anni avevo esercitato la mano a quello scopo. Conservavo ancora il ricordo doloroso del mio fallimento.

«Non ti sei mai preso la responsabilità di esistere in questo mondo», disse in tono accusatore. «Perché non sei mai stato un artista, e forse non sarai mai un cacciatore».

«Faccio del mio meglio, don Juan».

«No. Tu non sai cosa sia il tuo meglio».

«Faccio tutto quello che posso».

«Hai ancora torto. Puoi fare di meglio. In te c'è una sola semplice cosa sbagliata: pensi di avere tempo in abbondanza».

Fece una pausa e mi guardò come se aspettasse la mia reazione.

«Pensi di avere tempo in abbondanza», ripeté.

«Abbondanza di tempo per cosa, don Juan?».

«Tu pensi che la tua vita debba durare per sempre».

«No. Non lo penso».

«Allora, se non pensi che la tua vita debba durare per sempre, che cosa aspetti? Perché questa esitazione davanti al cambiamento?».

«Don Juan, vi è mai venuto in mente che io potrei non voler cambiare?».

«Sì, mi è venuto in mente. Anch'io non volevo cambiare, proprio come te. Tuttavia non mi piaceva la mia vita; ne ero stanco, proprio come te. Ora non ne sono più stufo».

Asserii con veemenza che la sua insistenza sul cambiamento del mio modo di vita era spaventosa e arbitraria. Dissi che in realtà ero d'accordo con lui, a un certo livello, ma il semplice fatto che fosse sempre lui a comandare le mosse mi rendeva la situazione insostenibile.

«Non hai tempo per questa esibizione, sciocco», disse in tono severo. «Questo, qualunque cosa tu stia facendo ora, può essere il tuo ultimo atto sulla terra. Può essere benissimo la tua ultima battaglia. Nessun potere potrebbe garantirti che vivrai un altro minuto».

«Lo so», dissi, trattenendo un senso di collera.

«No. Non lo sai. Se lo sapessi saresti un cacciatore».

Sostenni che ero consapevole della mia morte incombente ma che era inutile parlarne o pensarci, dal momento che non potevo far niente per evitarla. Don Juan rise e disse che gli sembravo un commediante che ripete meccanicamente gli stessi atti.

«Se questa fosse la tua ultima battaglia sulla terra, direi che sei un idiota», disse con calma. «Stai sprecando il tuo ultimo atto sulla terra in qualche stupido umore».

Rimanemmo in silenzio per un momento. I miei pensieri correvano all'impazzata. Naturalmente don Juan aveva ragione.

«Non hai tempo, amico mio, non hai tempo. Nessuno di noi ha tempo», disse.

«Sono d'accordo, don Juan, ma...».

«Non basta essere d'accordo con me», mi investì. «Invece di essere d'accordo con tanta facilità, devi agire. Accetta la sfida. Cambia».

«E come?».

«Giusto. Il cambiamento di cui parlo non avviene mai per gradi; accade improvvisamente. E tu non ti stai preparando a quell'atto improvviso che recherà un cambiamento totale».

Credetti che stesse esprimendo una contraddizione. Gli spiegai che se mi fossi preparato al cambiamento sarei certo cambiato per gradi.

«Tu non sei cambiato affatto», disse. «E' per questo che credi di cambiare a poco a poco. Tuttavia, forse un giorno ti accorgerai con sorpresa di essere cambiato improvvisamente e senza un singolo avvertimento. So che è così, e perciò non perdo di vista il mio interesse nel convincerti».

Non potevo persistere nella mia argomentazione; non ero sicuro di quello che volevo dire veramente. Dopo un momento di pausa don Juan riprese a spiegare quello che intendeva.

«Forse dovrei esprimermi diversamente», disse. «Quello che ti raccomando è osservare che non abbiamo nessuna garanzia che le nostre vite debbano continuare indefinitamente. Ho appena detto che il cambiamento arriva improvvisamente e inaspettatamente, e altrettanto fa la morte. Cosa pensi che ci possiamo fare?».

Pensai che la sua fosse una domanda retorica, ma fece un movimento con le sopracciglia per esortarmi a rispondere.

«Vivere più felicemente possibile», risposi.

«Giusto! Ma tu conosci qualcuno che viva felicemente?».

Il mio primo impulso fu di rispondere di sì; pensavo di poter citare come esempio un buon numero di persone. Ripensandoci, tuttavia, seppi che il mio sforzo sarebbe stato soltanto un vuoto tentativo di scansare il problema.

«No», dissi. «Non ne conosco davvero».

«Io sì», disse don Juan. «Ci sono delle persone che sono attentissime alla natura dei propri atti. La loro felicità è agire nella piena conoscenza di non avere tempo; perciò i loro atti hanno un particolare potere; i loro atti hanno un senso di...».

Sembrava che don Juan fosse rimasto a corto di parole. Si grattò le tempie e sorrise. Poi improvvisamente si alzò in piedi come se avessimo concluso la nostra conversazione. Lo supplicai di terminare quello che mi stava dicendo. Si mise a sedere e arricciò le labbra.

«Gli atti hanno potere», disse. «Specialmente quando la persona che agisce sa che quegli atti sono la sua ultima battaglia. C'è una strana e struggente felicità nell'agire sapendo perfettamente che tutto quello che si fa può essere benissimo l'ultimo atto sulla terra. Ti raccomando di riconsiderare la tua vita e forse i tuoi atti in questa luce».

Non ero d'accordo con lui. Per me la felicità era immaginare che ci fosse una continuità intrinseca ai miei atti e che sarei stato capace di continuare a fare, a volontà, tutto quello che stavo facendo al momento, specialmente se lo godevo. Gli dissi che il mio disaccordo non nasceva da un motivo banale ma dalla convinzione che il mondo e me stesso avessero una continuità determinabile.

Don Juan sembrava divertirsi ai miei sforzi di cercare una spiegazione ragionevole. Rideva, scuoteva il capo, si grattava i capelli, e alla fine, quando parlai di una 'continuità determinabile', buttò in terra il cappello e lo calpestò.

Non potei evitare di ridere delle sue buffonate.

«Non hai tempo, amico mio», disse. «E' questa la disgrazia degli esseri umani. Nessuno di noi ha tempo sufficiente, e la tua continuità non ha senso in questo mondo imponente e misterioso.

«La tua continuità ti fa soltanto timoroso», continuò. «I tuoi atti non possono avere il gusto, il potere, la forza imperativa degli atti compiuti da un uomo che sa di combattere la sua ultima battaglia sulla terra. In altre parole, la tua continuità non ti rende felice o potente».

Ammisi di aver paura di pensare che sarei morto e lo accusai di provocare in me una grande apprensione con i suoi costanti discorsi e interessamenti per la morte.

«Ma tutti dobbiamo morire», disse.

Indicò delle colline in lontananza.

«C'è qui fuori qualcosa che mi aspetta, questo è sicuro; e io lo andrò a raggiungere, anche questo è sicuro. Ma forse tu sei differente e la morte non ti aspetta affatto».

Rise del mio gesto di disperazione.

«Non ci voglio pensare, don Juan».

«Perché no?».

Non ha senso. Se è qui fuori che mi aspetta, perché dovrei preoccuparmene?».

«Non ho detto che te ne devi preoccupare».

«Allora che dovrei fare?».

«Usala. Concentra la tua attenzione sul legame tra te e la tua morte, senza rimorso, tristezza o inquietudine. Metti a fuoco la tua attenzione sul fatto che non hai tempo e lascia che i tuoi atti scorrano in conseguenza. Lascia che ciascuno dei tuoi atti sia la tua ultima battaglia sulla terra. Solo a queste condizioni i tuoi atti avranno il loro legittimo potere. Altrimenti saranno, finché vivrai, gli atti di un timoroso».

«E' così terribile essere un timoroso?».

«No. Non lo sarebbe se tu fossi immortale, ma se devi morire non c'è tempo per il timore, semplicemente perché il timore ti fa afferrare a qualcosa che esiste solo nei tuoi pensieri. Ti tranquillizza finché tutto è calmo, ma poi il mondo imponente e misterioso aprirà la sua bocca per prenderti, come si aprirà per prendere ognuno di noi, e allora comprenderai che i tuoi modi sicuri non erano affatto sicuri. Essere timorosi ci impedisce di esaminare e sfruttare la nostra sorte di uomini».

«Non è naturale vivere con l'idea costante della nostra morte, don Juan».

«La nostra morte ci aspetta e questo stesso atto che eseguiamo adesso può ben essere la nostra ultima battaglia sulla terra», replicò con voce solenne. «La chiamo battaglia perché è una lotta. Gli uomini quasi tutti passano da atto ad atto senza alcuna lotta o pensiero. Un cacciatore, al contrario, valuta ogni atto; e poiché ha una conoscenza intima della propria morte, procede con giudizio, come se ogni atto fosse la sua ultima battaglia. Solo uno sciocco non noterebbe il vantaggio di un cacciatore sugli altri uomini. Un cacciatore dà alla sua ultima battaglia il dovuto rispetto. Perciò è naturale che il suo ultimo atto sulla terra debba essere il meglio di lui stesso. In tal modo diventa piacevole. Attenua la morsa della sua paura».

«Avete ragione», ammisi. «E' proprio difficile da accettare».

«Ti ci vorranno degli anni per convincerti e poi ti ci vorranno degli anni perché tu agisca conformemente. Spero soltanto che te ne rimanga il tempo».

«Mi spavento quando parlate così», dissi.

Don Juan mi esaminò con un'espressione seria sul viso.

«Te l'ho detto, questo è un mondo strano», disse. «Le forze che guidano gli uomini sono imprevedibili, incutono rispetto, eppure il loro splendore è una cosa da osservare».

Si interruppe e mi guardò di nuovo. Sembrava sul punto di svelarmi qualcosa, ma si controllò e sorrise.

«C'è qualcosa che ci guida?», chiesi.

«Certamente. Ci sono dei poteri che ci guidano».

«Potete descriverli?».

«Non esattamente, se non per chiamarli forze, spiriti, arie, venti, o qualsiasi cosa del genere».

Volevo interrogarlo ulteriormente, ma prima che potessi chiedere altro si alzò in piedi. Lo fissai sbalordito. Si era alzato con un unico movimento; il suo corpo aveva fatto semplicemente uno scatto e lui era in piedi.

Stavo ancora meditando sull'insolita abilità che ci voleva per muoversi a una tale rapidità quando in tono secco di comando mi disse di stanare un coniglio, catturarlo, ucciderlo, spellarlo e arrostirne la carne prima del crepuscolo.

Guardò in alto verso il cielo e disse che potevo avere tempo a sufficienza.

Mi mossi automaticamente e feci come avevo fatto tante volte. Don Juan mi camminò al fianco e seguì i miei movimenti con uno sguardo indagatore. Ero calmissimo e mi muovevo con cura e non ebbi alcuna difficoltà nel catturare un coniglio maschio.

«Ora uccidilo», mi disse don Juan seccamente.

Introdussi la mano nella trappola per afferrare il coniglio. Lo tenevo per le orecchie e lo stavo tirando fuori quando fui invaso da un'improvvisa sensazione di terrore. Per la prima volta, da quando don Juan aveva incominciato a insegnarmi a cacciare, mi veniva in mente che non mi aveva mai insegnato a uccidere la selvaggina. Nelle tante volte che avevamo scorrazzato per il deserto lui stesso aveva ucciso solamente un coniglio, due quaglie e un serpente a sonagli.

Lasciai cadere il coniglio e guardai don Juan.

«Non lo posso uccidere», dissi.

«Perché no?».

«Non l'ho mai fatto».

«Ma hai ucciso centinaia di uccelli e altri animali».

«Col fucile, non a mani nude».

«Che differenza fa? L'ora di questo coniglio è venuta».

Il tono di don Juan mi diede una scossa; era così autoritario, così sicuro di sé, non mi lasciava dubbi sul fatto che lui sapesse che l'ora di quel coniglio era venuta.

«Uccidilo!», mi ordinò con un'espressione di ferocia negli occhi.

«Non posso».

Mi urlò che quel coniglio doveva morire. Disse che le sue scorribande in quel bellissimo deserto erano arrivate alla fine. Non serviva a niente tergiversare, perché il potere o lo spirito che guida i conigli aveva condotto proprio quel coniglio nella mia trappola, giusto al limitare del crepuscolo.

Fui sopraffatto da una serie di pensieri e sentimenti confusi, come se i sentimenti fossero stati lì fuori ad aspettarmi. Sentii con angosciosa chiarezza la tragedia del coniglio, essere incappato nella mia trappola. In un istante ripercorsi con la mente i momenti cruciali della mia vita, le molte volte in cui io stesso ero stato il coniglio.

Lo guardai, e il coniglio mi guardò; era rinculato contro il fianco della gabbia; si era quasi appallottolato, silenziosissimo e immobile. Ci scambiammo un'occhiata triste e quell'occhiata, immaginai, cementava una completa identificazione da parte mia.

«All'inferno», dissi forte. «Non ucciderò niente. Questo coniglio è libero».

Una profonda emozione mi faceva rabbrividire. Le braccia mi tremavano mentre cercavo di afferrare il coniglio per le orecchie; si mosse rapidamente e lo mancai. Tentai ancora e me lo lasciai sfuggire un'altra volta. Provai un senso di disperazione. Ebbi una sensazione di nausea e in fretta diedi un calcio alla gabbia per infrangerla e liberare il coniglio. La gabbia era insospettatamente robusta e non si ruppe come pensavo che avrebbe fatto. La mia disperazione crebbe fino a un intollerabile sentimento di angoscia. Usando tutta la mia forza pestai il piede destro sul bordo della gabbia. I legni si schiantarono con fragore. Tirai fuori il coniglio. Ebbi un istante di sollievo, che però fu annientato l'istante successivo. Il coniglio penzolava come uno straccio dalla mia mano; era morto.

Non sapevo cosa fare. Mi preoccupai di scoprire come era morto. Mi voltai verso don Juan che mi fissava. Una sensazione di terrore mi mandò un brivido per il corpo.

Mi misi a sedere presso alcune rocce; avevo un terribile mal di testa. Don Juan mi mise la mano sul capo e mi sussurrò all'orecchio che dovevo spellare il coniglio e arrostirlo prima che il crepuscolo fosse passato.

Mi sentivo la nausea. Don Juan mi parlò con molta pazienza come a un bambino. Disse che i poteri che guidano gli uomini o gli animali avevano condotto a me quel particolare coniglio, al modo stesso in cui avrebbero condotto me alla mia morte. Disse che la morte del coniglio era stata un dono per me esattamente allo stesso modo in cui la mia morte sarebbe stata un dono per qualcosa o qualcun altro.

Mi sentivo girare la testa. I semplici avvenimenti di quel giorno mi avevano schiacciato. Tentai di pensare che era solo un coniglio; ma non riuscii a scuotere l'irreale identificazione con l'animale.

Don Juan disse che dovevo mangiare un po' della sua carne, anche solo un boccone, per convalidare quello che avevo scoperto.

«Non posso farlo», protestai debolmente.

«Noi siamo feccia nelle mani di quelle forze», mi investì. «Perciò abbandona la tua presunzione e usa appropriatamente questo dono».

Raccolsi il coniglio; era ancora caldo.

Don Juan si piegò in avanti e mi sussurrò all'orecchio: «La tua trappola è stata la sua ultima battaglia sulla terra. Te l'ho detto, aveva finito le sue scorribande in questo meraviglioso deserto».

 
10.
DIVENTARE ACCESSIBILE AL POTERE.
 

Giovedì 17 agosto, 1961.

 

Appena sceso dalla macchina mi lagnai con don Juan di non sentirmi bene.

«Siediti, siediti», mi disse con dolcezza guidandomi quasi per mano fin sotto al suo portico. Sorrise e mi diede un corpetto sulla schiena.

Due settimane prima, il 4 agosto, don Juan, come aveva detto, aveva cambiato tattica e mi aveva permesso di ingerire alcuni boccioli di peyote. Nel culmine della mia esperienza allucinatoria avevo giocato con un cane che stava nella casa in cui si era svolta la seduta del peyote. Don Juan aveva interpretato il mio gioco col cane come un avvenimento specialissimo. Sostenne che nei momenti di potere, come quello che avevo vissuto allora, il mondo delle cose ordinarie non esiste e nulla può esser dato per scontato, che il cane non era in realtà un cane ma l'incarnazione di Mescalito, il potere o la divinità contenuto nel peyote.

Gli effetti secondari di quell'esperienza furono un senso generale di stanchezza e melanconia, e inoltre sogni e incubi eccezionalmente vividi.

«Dov'è il tuo attrezzo per scrivere?», mi chiese don Juan mentre mi sedevo sotto il portico.

Avevo lasciato il taccuino in macchina. Don Juan tornò alla macchina e tirò fuori premurosamente la mia cartella e me la mise al fianco.

Mi chiese se d'abitudine portavo in mano la cartella mentre camminavo. Risposi di sì.

«Questa è follia», disse. «Ti ho detto di non tenere mai niente in mano mentre cammini. Prenditi uno zaino».

Scoppiai a ridere. L'idea di portarmi appresso i miei appunti in uno zaino era grottesca. Gli dissi che ordinariamente indossavo abiti con giacca e panciotto, e che uno zaino su un abito simile sarebbe stato ridicolo.

«Allora indossa la giacca sopra allo zaino», mi disse. «E' meglio che la gente ti creda gobbo piuttosto che rovinarti il corpo portando in giro tutta questa roba».

Mi esortò a tirar fuori il taccuino e a scrivere. Sembrava facesse uno sforzo deliberato per mettermi a mio agio.

Mi lagnai ancora del senso di disagio fisico e della strana sensazione di infelicità che provavo.

Don Juan scoppiò a ridere e disse: «Stai incominciando a imparare».

Facemmo allora una lunga conversazione. Don Juan disse che Mescalito, permettendomi di giocare con lui, mi aveva indicato come un 'prescelto' e che, sebbene lui fosse sconcertato dal presagio non essendo io un indiano, mi avrebbe trasmesso una conoscenza segreta. Disse che anche lui aveva avuto un 'benefattore' che gli aveva insegnato a diventare un 'uomo di conoscenza'.

Sentii che stava per accadere qualcosa di terrificante. La rivelazione che io fossi il suo prescelto, unita all'indiscutibile stranezza dei suoi modi e all'effetto disastroso del peyote su di me, creavano uno stato di intollerabile apprensione e indecisione. Ma don Juan non tenne conto dei miei sentimenti e mi raccomandò di pensare soltanto alla meraviglia di Mescalito che giocava con me.

«Non devi pensare a nient'altro», mi disse. «Il resto ti arriverà da sé».

Si alzò in piedi e mi diede un colpetto sulla testa dicendo con voce molto dolce: «Sto per insegnarti a diventare un guerriero allo stesso modo in cui ti ho insegnato a cacciare. Ti devo però avvertire che aver imparato a cacciare non ha fatto di te un cacciatore, né imparare a diventare un guerriero farà di te un guerriero».

Provai un senso di frustrazione, un disagio fisico affine all'angoscia. Mi lagnai dei vividi sogni e incubi che avevo. Don Juan sembrò meditare per un momento, poi si rimise a sedere.

«Sono sogni strani», dissi.

«Hai sempre fatto sogni strani», ribatté.

«Vi dico che questa volta sono davvero più strani di qualsiasi sogno che abbia mai fatto».

«Non ti preoccupare, sono soltanto sogni. Come i sogni di qualsiasi sognatore, non hanno potere. Perciò, a che serve preoccuparsene o parlarne?».

«Mi disturbano, don Juan. Non c'è qualcosa che potrei fare per farli smettere?».

«Non c'è niente da fare, lasciali passare», disse. «Ormai è ora che tu divenga accessibile al potere, e dovrai incominciare con l'affrontare il "sognare"».

Il tono di voce che usò quando disse sognare mi fece pensare che avesse usato la parola in un modo molto particolare. Stavo cercando una domanda appropriata quando parlò ancora.

«Non ti ho mai parlato del "sognare", perché finora mi preoccupavo soltanto di insegnarti a essere un cacciatore», disse. «Un cacciatore non si cura della manipolazione del potere, perciò i suoi sogni sono soltanto sogni. Possono essere vivi ma non sono "sognare".

«Un guerriero, d'altra parte, cerca il potere, e una delle principali vie che portano al potere è "sognare". Potresti dire che la differenza tra un cacciatore e un guerriero è che il guerriero è sulla via che conduce al potere, mentre il cacciatore non ne sa nulla o assai poco.

«La decisione su chi può essere un guerriero o chi può essere soltanto un cacciatore non spetta a noi. Tale decisione è nel regno dei poteri che guidano gli uomini. Perciò il fatto che tu abbia giocato con Mescalito è stato un presagio tanto importante. Quelle forze ti hanno guidato a me; ti hanno condotto a quella stazione di autobus, ricordi? Un buffone ti ha portato a me: un presagio perfetto, essere mostrati da un buffone. Così, ti ho insegnato a essere un cacciatore. E poi l'altro presagio perfetto: Mescalito stesso che ha giocato con te. Capisci quello che voglio dire?».

La sua strana logica era schiacciante. Le sue parole creavano visioni di me stesso soccombente a qualcosa di imponente e ignoto, qualcosa che non mi ero aspettato e di cui non avevo immaginato l'esistenza, nemmeno nelle mie fantasie più pazze.

«Cosa proponete che dovrei fare?», chiesi.

«Diventa accessibile al potere; affronta i tuoi sogni», rispose. «Li chiami sogni perché non hai potere. Un guerriero, che è un uomo che cerca il potere, non li chiama sogni, li chiama reali».

«Intendete dire che un guerriero prende i propri sogni come se fossero realtà?».

«Non prende niente per nient'altro. Quelli che tu chiami sogni, per un guerriero sono reali. Devi capire che un guerriero non è uno sciocco. Un guerriero è un cacciatore senza macchia che va in caccia del potere; non è ubriaco, o pazzo, e non ha il tempo né la voglia di barare, o di mentire a se stesso, o di fare una mossa sbagliata. La posta è troppo alta. La posta in palio è la sua vita ben ordinata che per tanto tempo lui ha condotto così ordinata e perfetta. Non è disposto a gettarla via con qualche stupido errore di calcolo, prendendo qualcosa per qualcos'altro.

«"Sognare" è reale per il guerriero perché nel sognare può agire deliberatamente, può scegliere e respingere, può scegliere tra una varietà di cose quelle che portano al potere, e quindi le può manipolare e usare, mentre in un sogno ordinario non si può agire deliberatamente».

«Allora volete dire, don Juan, che "sognare" è reale?».

«Naturalmente è reale».

«Reale come quello che stiamo facendo ora?».

«Se vuoi fare un confronto, ti posso dire che forse è più reale. Nel "sognare" tu hai potere; puoi cambiare le cose; puoi scoprire innumerevoli fatti nascosti; puoi controllare tutto quello che vuoi».

Le premesse di don Juan mi avevano sempre attratto a un certo livello. Potevo capire facilmente come gli piacesse l'idea che nei sogni si potesse fare qualsiasi cosa, ma non lo potevo prendere sul serio. Il salto era troppo grande.

Ci guardammo a vicenda per un momento. Le sue asserzioni erano folli eppure lui era, per quel che ne sapevo, uno degli uomini più equilibrati che avessi mai incontrato.

Gli dissi che non riuscivo a credere che prendesse i propri sogni per la realtà. Ridacchiò, come se sapesse bene quanto fosse insostenibile la mia posizione, poi si alzò in piedi senza dire una parola ed entrò in casa.

Rimasi seduto a lungo in uno stato di torpore finché don Juan mi chiamò da dietro la casa. Aveva preparato della farinata di grano e me ne porse una scodella.

Gli chiesi del momento in cui si è svegli. Volevo sapere se lo chiamava in qualche modo in particolare. Ma non mi rispose o non volle rispondere.

«Come lo chiamate questo, questo che stiamo facendo ora?», chiesi, intendendo che ciò che stavamo facendo era realtà, in contrapposizione ai sogni.

«Lo chiamo mangiare», rispose trattenendo la sua risata.

«Io lo chiamo realtà», dissi. «Perché il nostro mangiare sta avendo luogo realmente».

«Anche "sognare" ha luogo realmente», rispose ridacchiando. «E lo stesso è per cacciare, camminare, ridere».

Non insistei a discutere. Tuttavia non potevo, nemmeno sforzandomi oltre i miei limiti, accettare la sua premessa. Don Juan sembrava deliziato della mia disperazione.

Appena finito di mangiare don Juan disse come per caso che saremmo andati a fare una camminata, ma non avremmo girovagato per il deserto come avevamo fatto prima.

«Questa volta è differente», disse. «D'ora in avanti andremo in luoghi di potere; tu imparerai a renderti accessibile al potere».

Espressi nuovamente il mio turbamento. Dissi che non ero qualificato per quel compito.

«Suvvia, stai indulgendo a sciocche paure, disse a bassa voce, dandomi dei colpetti sulla schiena e sorridendo con benevolenza. «Ho soddisfatto il tuo spirito di cacciatore. Ti piace scorrazzare con me in questo bellissimo deserto. Per te è troppo tardi per smettere».

Si incamminò tra i cespugli del deserto facendomi segno col capo di seguirlo. Avrei potuto dirigermi verso la macchina e andarmene, senonché mi piaceva scorrazzare con lui in quel bellissimo deserto. Mi piaceva la sensazione, che provavo solo in sua compagnia, che questo mondo era davvero un mondo imponente, misterioso e tuttavia bellissimo. Come aveva detto lui, ero inchiodato.

Don Juan mi condusse fino alle colline a est. Fu una lunga camminata. Era una giornata calda; tuttavia, mentre ordinariamente il caldo mi sarebbe stato insopportabile, questa volta in certo modo non me ne accorgevo.

Camminammo molto a lungo in un canyon finché don Juan si fermò e si mise a sedere all'ombra di alcuni macigni. Tolsi dei "crackers" dal mio zaino, ma don Juan mi disse di lasciarli stare.

Disse che dovevo sedere in un posto ben visibile. Mi indicò un macigno isolato quasi rotondo, a tre o quattro metri di distanza, e mi aiutò ad arrampicarmi sulla sua sommità. Pensai che anche lui si sarebbe seduto lassù, ma invece si arrampicò solo a metà per porgermi qualche pezzo di carne secca. Con espressione terribilmente seria mi disse che era carne di potere e che doveva essere masticata molto lentamente e non mescolata con altro cibo. Poi retrocedé fino alla zona ombreggiata e si mise a sedere, con la schiena contro un sasso. Pareva rilassato, quasi assonnato. Rimase in quella stessa posizione finché non ebbi finito di mangiare. Poi si tirò su a sedere diritto e piegò il capo verso destra. Sembrava ascoltare con attenzione. Mi guardò due o tre volte, si alzò in piedi bruscamente e si mise a scrutare i dintorni con gli occhi, come farebbe un cacciatore. Mi irrigidii automaticamente sul posto e mossi solamente gli occhi per seguire i suoi movimenti. Con molta cautela don Juan girò dietro ad alcune rocce, come se si aspettasse della selvaggina che dovesse uscire fuori nella zona in cui eravamo. Allora mi accorsi che eravamo in un'ansa concava del canyon asciutto, circondata da macigni di arenaria.

Don Juan uscì improvvisamente da dietro alle rocce e mi sorrise. Protese le braccia, sbadigliò e si incamminò verso il macigno su cui ero. Mi rilassai e mi misi a sedere.

«Che è successo?», chiesi in un bisbiglio.

Urlando mi rispose che lì intorno non c'era nulla di cui dovessimo preoccuparci.

Sentii immediatamente un sussulto nello stomaco. La sua risposta era inappropriata e mi pareva inconcepibile che urlasse, a meno che non avesse un motivo specifico.

Incominciai a lasciarmi scivolare giù dal macigno, ma don Juan mi urlò che dovevo rimanere lassù ancora per un poco. «Che state facendo?», chiesi.

Si mise a sedere e si nascose tra due sassi alla base del macigno su cui ero, quindi a voce molto alta disse che era stato solo a dare un'occhiata in giro, perché gli pareva di aver udito qualcosa.

Gli chiesi se gli era parso di udire un grosso animale. Si mise la mano all'orecchio e mi gridò che non riusciva a sentirmi e che dovevo urlare le mie parole. Mi sentivo a disagio a gridare, ma a voce alta don Juan mi esortò a gridare forte. Urlai che volevo sapere cosa succedeva, lui mi gridò in risposta che lì intorno non c'era proprio nulla. Urlando mi chiese se riuscivo a vedere nulla di insolito dalla sommità del macigno. Dissi di no, allora mi chiese di descrivergli il terreno verso sud.

Per un po' ci parlammo a vicenda urlando, quindi don Juan mi fece segno di scendere. Lo raggiunsi e lui mi sussurrò all'orecchio che urlare era necessario per far conoscere la nostra presenza, perché mi dovevo rendere accessibile al potere di quella specifica pozza d'acqua.

Guardai in giro ma non vidi la pozza d'acqua. Don Juan mi indicò che c'eravamo sopra.

«Qui c'è acqua», disse in un bisbiglio, «e anche potere. Qui c'è uno spirito e noi dobbiamo attirarlo fuori; forse ti seguirà».

Volli saperne di più sul presunto spirito, ma don Juan insisté in un silenzio totale. Mi consigliò di rimanere perfettamente immobile e di non emettere un bisbiglio né fare il minimo movimento per tradire la nostra presenza.

Evidentemente per lui era facile rimanere per ore in perfetta immobilità; per me, invece, era una vera tortura: le gambe mi si addormentavano, la schiena mi faceva male e la tensione mi si concentrava intorno alla nuca e alle spalle. Tutto il mio corpo si intorpidiva e si raffreddava. Ero terribilmente a disagio quando finalmente don Juan si alzò. Non fece che balzare in piedi e tendermi la mano per aiutarmi ad alzarmi.

Mentre cercavo di distendere le gambe mi resi conto dell'inconcepibile facilità con cui don Juan era balzato in piedi dopo ore di immobilità. Ci volle un bel po' di tempo prima che i miei muscoli riacquistassero l'elasticità necessaria per camminare.

Don Juan prese la via del ritorno a casa. Camminava con estrema lentezza. Stabilì che nel seguirlo dovevo osservare una distanza di tre passi. Procedé serpeggiando intorno alla direzione regolare e la incrociò quattro o cinque volte in differenti direzioni; quando alla fine arrivammo era pomeriggio inoltrato.

Cercai di interrogarlo sugli avvenimenti della giornata. Mi spiegò che parlare non era necessario. Per il momento dovevo astenermi dal far domande finché eravamo in un posto di potere.

Morivo dalla voglia di sapere che cosa voleva intendere e cercai di mormorare una domanda, ma lui mi ricordò, con un'occhiata fredda e severa, che faceva sul serio.

Rimanemmo per ore seduti sotto il portico. Io lavoravo ai miei appunti. Di quando in quando don Juan mi porgeva un pezzo di carne secca; alla fine fu troppo buio per scrivere. Cercai di pensare ai nuovi sviluppi, ma una parte di me stesso si rifiutava e mi addormentai.

 

Sabato 19 agosto, 1961.

 

La mattina del giorno precedente andammo in città con la macchina a fare la prima colazione in un ristorante. Don Juan mi aveva consigliato di non cambiare troppo drasticamente le mie abitudini nel mangiare.

«Il tuo corpo non è abituato alla carne di potere», aveva detto. «Ti ammaleresti se non mangiassi il tuo solito cibo».

Anche lui mangiò di gusto. Quando scherzai sul suo appetito mi rispose semplicemente: «Al mio corpo piace tutto».

Verso mezzogiorno ritornammo a piedi al canyon dell'acqua. Incominciammo a farci notare dallo spirito con 'discorsi rumorosi' e con un silenzio forzato che durò per ore.

Quando lasciammo quel luogo, invece di dirigersi verso casa don Juan prese la direzione delle montagne. Raggiungemmo prima dei lievi pendii e quindi salimmo sulla cima di alcune alte colline. Là don Juan scelse un posto per riposare all'aperto, in una zona senza ombra. Mi disse che dovevamo attendere il crepuscolo e che mi dovevo comportare nel modo più naturale, il che includeva fare tutte le domande che volevo.

«So che lo spirito si nasconde qui intorno», disse a voce molto bassa.

«Dove?»

«Qui intorno, nei cespugli».

«Che tipo di spirito è?».

Mi guardò con espressione canzonatoria e ribatté: «Quanti tipi ce ne sono?».

Scoppiammo tutti e due a ridere. Facevo domande solo perché ero nervoso.

«Uscirà fuori al crepuscolo», disse don Juan. «Dobbiamo soltanto aspettare».

Rimasi in silenzio; avevo esaurito le mie domande.

«Questo è il momento in cui dobbiamo continuare a parlare», disse don Juan. «La voce umana attira gli spiriti. Ora ce n'è uno che si nasconde qui intorno. Dobbiamo renderci accessibili a quello spirito, perciò continua a parlare».

Provai uno sciocco senso di vuoto. Non riuscivo a pensare a nulla da dire. Don Juan scoppiò a ridere e mi diede un colpetto sulla schiena.

«Sei un vero impiastro», disse. «Quando devi parlare ti va via la lingua. Avanti, sbatti le gengive».

Fece allegramente il gesto di sbattere insieme le gengive, aprendo e chiudendo la bocca a grande rapidità.

«Ci sono certe cose di cui parleremo d'ora in avanti solo nei luoghi di potere», riprese. «Ti ho portato qui perché questa è la tua prima prova. Questo è un posto di potere e qui possiamo parlare solo di potere».

«Veramente non so cosa sia il potere», dissi.

«Il potere è qualcosa con cui ha a che fare un guerriero», rispose. «Da principio è una cosa incredibile, approssimativa; è difficile anche da immaginare. E' questo che ti sta accadendo ora. Poi il potere diventa una cosa seria; si può non averlo, oppure non rendersi nemmeno pienamente conto che esista, e tuttavia si sa che c'è qualcosa, qualcosa che prima non era percettibile. Successivamente il potere si manifesta come qualcosa che ci arriva incontrollabilmente. Non mi è possibile dire come viene o come è veramente. Non è nulla, eppure fa apparire meraviglie proprio davanti ai tuoi occhi. E infine il potere è qualcosa in se stesso, qualcosa che controlla i tuoi atti eppure obbedisce al tuo comando».

Ci fu una breve pausa. Don Juan mi chiese se avevo capito. Mi pareva ridicolo rispondere di sì. Sembrò che avesse notato il mio imbarazzo, perché ridacchiò.

«Adesso, proprio qui, ti insegnerò il primo passo che conduce al potere», disse come se mi stesse dettando una lettera. «Ti insegnerò come "sviluppare il sognare"».

Mi guardò e di nuovo mi chiese se sapevo che cosa intendeva. Non lo sapevo. Facevo fatica a seguirlo. Spiegò che 'sviluppare il sognare' significava avere un controllo conciso e pragmatico sulla situazione generale di un sogno, paragonabile al controllo che si ha su qualsiasi scelta nel deserto, come scalare una collina o rimanere all'ombra di un canyon.

«Devi incominciare con qualcosa di molto semplice», disse. «Stanotte, nei tuoi sogni, devi guardarti le mani».

Scoppiai a ridere forte. Il suo tono era stato così positivo da far pensare che avesse detto qualcosa di ovvio.

«Perché ridi?», mi chiese con sorpresa.

«Come posso guardarmi le mani nei sogni?».

«Semplicissimo, metti a fuoco gli occhi sulle mani, proprio così».

Piegò in avanti il capo e si fissò le mani a bocca aperta. La sua espressione era così comica che non potei fare a meno di ridere.

«Sul serio, come potete aspettarvi che lo faccia?», chiesi.

«Devi fare come ti ho detto», mi investì. «Naturalmente puoi guardare tutto quello che diavolo ti pare: le dita dei piedi, o la pancia, o il naso, quanto a questo. Ti ho detto di guardarti le mani perché è stata per me la cosa più facile da guardare. Non pensare che sia uno scherzo. "Sognare" è serio quanto "vedere" o morire o qualsiasi altra cosa di questo mondo imponente e misterioso.

«Pensalo come qualcosa di piacevole. Immagina tutte le cose inconcepibili che hai saputo compiere. Un uomo che va in caccia del potere non ha quasi limiti nel suo "sognare"».

Gli chiesi di darmi qualche indicazione.

«Non ci sono indicazioni», disse. «Devi soltanto guardarti le mani».

«Deve esserci altro che mi potreste dire», insistei.

Scosse il capo e socchiuse gli occhi, fissandomi con brevi occhiate.

«Ognuno di noi è diverso», disse alla fine. «Quelle che tu chiami indicazioni sarebbero soltanto quello che ho fatto io stesso quando imparavo. Non siamo uguali; non siamo neppure vagamente simili».

«Forse qualunque cosa voi diciate potrebbe aiutarmi».

«Sarebbe più semplice se ti limitassi a incominciare a guardarti le mani».

Sembrò organizzare i suoi pensieri e mosse la testa su e giù.

«Ogni volta che guardi una cosa nei tuoi sogni questa cambia forma», disse dopo un lungo silenzio. «Il trucco dell'imparare a "sviluppare il sognare" consiste ovviamente non solo nel guardare le cose ma nel continuare a guardarle. Sognare è reale quando si è riusciti a mettere tutto a fuoco. Quindi non c'è differenza tra ciò che fai quando dormi e quando non dormi. Capisci quello che intendo?».

Confessai che sebbene capissi quello che aveva detto, tuttavia non potevo accettare la sua premessa. Sostenni che in un mondo civilizzato c'erano moltissime persone che avevano allucinazioni e non sapevano distinguere tra ciò che accadeva nel mondo reale e ciò che accadeva nelle loro fantasie. Dissi che queste persone erano senza dubbio malate di mente, e il mio disagio cresceva ogni volta che lui mi raccomandava di agire come un pazzo.

Dopo la mia lunga spiegazione don Juan fece un comico gesto di disperazione mettendosi le mani sulle guance e sospirando rumorosamente.

«Lascia in pace il tuo mondo civilizzato», disse. «Così sia! Nessuno ti chiede di comportarti come un pazzo. Te l'ho già detto, un guerriero deve essere perfetto per poter trattare col potere di cui va in caccia; come puoi immaginare che un guerriero non saprebbe distinguere una cosa dall'altra?

«D'altra parte, tu, amico mio, che sai cosa è il mondo reale, annasperesti e moriresti in un istante se dovessi dipendere dalla tua abilità nel giudicare ciò che è reale e ciò che non lo è».

Ovviamente non avevo espresso quello che intendevo veramente. Ogni volta che protestavo non facevo altro che esprimere l'insopportabile frustrazione della mia posizione insostenibile.

«Non sto tentando di trasformarti in un uomo malato e pazzo», riprese don Juan. «Lo puoi fare da solo senza il mio aiuto. Ma le forze che ci guidano ti hanno condotto a me e io mi sono sforzato di insegnarti a cambiare i tuoi stupidi modi e a vivere la vita forte e schietta del guerriero. Poi le forze ti hanno guidato ancora e mi hanno detto che dovresti imparare a vivere la vita impeccabile del guerriero. Apparentemente non puoi. Ma chi può dirlo? Noi siamo misteriosi e imponenti come questo mondo insondabile, perciò chi può dire di cosa sei capace?».

In fondo alla sua voce c'era un tono di tristezza. Volli scusarmi, ma lui riprese a parlare.

«Non devi necessariamente guardarti le mani», disse. «Come ti ho detto, scegli qualunque cosa. Ma scegli una cosa in anticipo e trovala nei tuoi sogni. Avevo detto di guardarti le mani perché saranno sempre là.

«Quando incominciano a cambiar forma devi distogliere la vista e scegliere qualcos'altro, e quindi guardarti ancora le mani. Ci vuole molto tempo per perfezionare questa tecnica».

Ero così immerso nella scrittura dei miei appunti da non accorgermi che si stava facendo buio. Il sole era già scomparso all'orizzonte. Il cielo era nuvoloso e il crepuscolo imminente. Don Juan si alzò in piedi e lanciò occhiate furtive verso sud.

«Andiamo», disse. «Dobbiamo camminare verso sud fino a quando lo spirito della pozza d'acqua non si mostra».

Camminammo per forse mezz'ora. Il terreno cambiò bruscamente e giungemmo in una zona spoglia. C'era una grande collina rotonda su cui la vegetazione era bruciata, sembrava una testa calva. Ci dirigemmo verso quella collina. Pensai che don Juan volesse salire su per il lieve pendio, ma invece si fermò e rimase immobile con un'espressione molto attenta. Il suo capo sembrò tendersi come una singola unità e vibrò per un istante. Quindi don Juan si rilassò ancora e rimase in piedi, rilasciato. Non potevo immaginare come il suo corpo potesse rimanere così eretto mentre i muscoli erano così rilassati.

In quel momento una fortissima raffica di vento mi fece sussultare. Il corpo di don Juan si volse nella direzione del vento, verso ovest. Non usò i muscoli per voltarsi, o per lo meno non li usò nel modo in cui io avrei usato i miei per voltarmi. Sembrava piuttosto che il suo corpo fosse stato spinto dall'esterno. Era come se un altro gli avesse sistemato il corpo per fargli guardare in una nuova direzione.

Continuai a fissarlo. Mi guardava con la coda dell'occhio. Aveva sul volto un'espressione di determinazione, di risolutezza. Tutto il suo essere era attento e lo fissai pieno di meraviglia. Non mi ero mai trovato in nessuna situazione che richiedesse una simile strana concentrazione.

Improvvisamente il suo corpo rabbrividì come se fosse stato investito da un'improvvisa doccia fredda. Ebbe un altro sussulto e quindi si mise a camminare come se non fosse successo nulla.

Lo seguii. Fiancheggiammo le aride colline a est finché ci trovammo in mezzo; lì don Juan si fermò, rivolto a ovest.

Da dove eravamo, la sommità della collina non era così rotonda e levigata come era parsa da lontano. Vicino alla sommità c'era una caverna, o un buco. Lo guardai fissamente perché don Juan stava facendo lo stesso. Un'altra forte raffica di vento mi fece correre un brivido per la spina dorsale. Don Juan si voltò verso sud ed esaminò la zona con lo sguardo.

«Ecco!», disse in un sussurro e indicò un oggetto sul terreno.

Mi sforzai di vedere cosa fosse. C'era qualcosa sul terreno, a sei o sette metri di distanza. Era di colore marrone chiaro e mentre lo guardavo vibrava. Mi concentrai con tutta la mia attenzione. L'oggetto era quasi rotondo e sembrava raggomitolato; in effetti sembrava un cane accovacciato.

«Cos'è?», sussurrai a don Juan.

«Non lo so», mi sussurrò in risposta mentre scrutava l'oggetto. «Cosa ti pare che sia?».

Gli dissi che sembrava un cane.

«Troppo grande per essere un cane», rispose positivamente.

Feci un paio di passi verso l'oggetto, ma don Juan mi arrestò dolcemente. Lo fissai di nuovo. Era senza dubbio un animale addormentato o morto. Potevo quasi vederne la testa; le orecchie sporgevano come quelle di un lupo. In quel momento fui certissimo che fosse un animale raggomitolato. Pensai che potesse essere un vitello bruno. Lo sussurrai a don Juan. Rispose che era troppo massiccio per essere un vitello, inoltre aveva le orecchie a punta.

L'animale tremò ancora e allora mi accorsi che era vivo. Potei effettivamente vedere che stava respirando, tuttavia non sembrava respirare ritmicamente. I respiri che mandava assomigliavano più a brividi irregolari. In quel momento ebbi un'improvvisa intuizione.

«E' un animale che sta morendo», sussurrai a don Juan. «Hai ragione», mi sussurrò in risposta. «Ma che tipo di animale?». Non riuscivo a distinguere i lineamenti specifici. Don Juan fece un paio di cauti passi verso l'animale. Lo seguii. Era ormai buio e dovemmo fare altri due passi per osservarlo.

«Stai in guardia», mi sussurrò don Juan all'orecchio. «Se è un animale morente ci può saltare addosso con le sue ultime forze».

L'animale, quale che fosse, sembrava all'estremo: il suo respiro era irregolare, il corpo si scuoteva spasmodicamente, ma non cambiava la sua posizione raggomitolata. A un certo momento, tuttavia, uno spasmo tremendo lo sollevò letteralmente dal suolo. Udii un urlo inumano e l'animale protese le zampe; gli artigli non erano soltanto spaventosi, erano nauseanti. L'animale piombò sul fianco dopo aver disteso le zampe e quindi rotolò sulla schiena.

Udii un grugnito formidabile e la voce di don Juan che urlava: «Scappa! Scappa!».

E fu proprio quello che feci. Arrancai verso la sommità della collina con una velocità e agilità incredibile. Quando fui a mezza via guardai indietro e vidi don Juan fermo allo stesso posto. Mi fece segno di scendere e corsi giù per la collina. «Che è successo?», chiesi senza fiato. «Penso che l'animale sia morto», disse.

Avanzammo con cautela verso l'animale. Era disteso sulla schiena. Mentre mi avvicinavo quasi urlai dalla paura; mi parve che non fosse ancora completamente morto. Il suo corpo tremava ancora, le gambe, diritte in aria, si agitavano selvaggiamente. L'animale era senza dubbio negli ultimi spasimi.

Avanzai precedendo don Juan. Un nuovo sussulto mosse il corpo dell'animale e potei vederne la testa. Mi voltai inorridito verso don Juan. A giudicare dal corpo l'animale era ovviamente un mammifero, tuttavia, aveva un becco, come un uccello.

Lo fissai in preda a un orrore assoluto e completo. La mia mente rifiutava di crederlo. Ero sbigottito. Non riuscivo nemmeno ad articolare una parola. Mai in tutta la mia esistenza avevo contemplato nulla del genere. Lì davanti ai miei occhi c'era qualcosa di inconcepibile. Volli chiedere a don Juan di spiegarmi l'incredibile animale, ma potei solamente farfugliare. Don Juan mi fissava. Guardai verso di lui e guardai l'animale, e allora qualcosa in me ricompose il mondo e seppi all'istante cos'era l'animale. Mi diressi verso l'animale e lo tirai su. Era un grosso ramo di un albero. Era bruciato, e probabilmente il vento aveva soffiato dei detriti bruciati che si erano attaccati al ramo secco dandogli così l'apparenza di un grosso animale accovacciato. Il colore dei detriti bruciati lo faceva apparire marrone chiaro in contrasto con la vegetazione verde.

Risi della mia idiozia e concitatamente spiegai a don Juan che il vento che soffiava attraverso il ramo lo aveva fatto sembrare un animale vivo. Pensai che don Juan sarebbe stato lieto del modo in cui avevo risolto il mistero, invece girò su se stesso e si avviò verso la sommità della collina. Lo seguii. Strisciò dentro la depressione che sembrava una caverna. Non era un buco ma una leggera cavità nell'arenaria.

Don Juan prese dei ramoscelli e se ne servì per spazzar via il terriccio che si era accumulato al fondo della depressione. «Dobbiamo sbarazzarci delle zecche», disse.

Mi fece segno di mettermi a sedere e mi disse di mettermi comodo perché avremmo passato lì la notte.

«Incominciai a parlare del ramo, ma lui mi zittì.

«Quello che hai fatto non è un trionfo», disse. «Hai sprecato un bellissimo potere, un potere che soffiava la vita in quel ramo secco».

Disse che per me un vero trionfo sarebbe stato liberare e seguire il potere finché il mondo avesse cessato di esistere. Non sembrava in collera con me né deluso da quanto avevo fatto. Affermò ripetutamente che quello era solo il principio, che per maneggiare il potere ci voleva tempo. Mi diede un colpetto sulla spalla e in tono scherzoso disse che solo il giorno prima io ero la persona che sapeva cosa fosse reale e cosa no.

Mi sentii imbarazzato. Incominciai a scusarmi della mia tendenza di essere sempre così sicuro di quello che dicevo o facevo.

«Non importa», disse. «Quel ramo era un animale vero ed era vivo al momento in cui lo ha toccato il potere. Dal momento che ciò che lo teneva in vita era il potere, il trucco era, come nel "sognare", sostenerne la vista. Capisci cosa voglio dire?».

Volevo chiedere ancora qualcosa, ma don Juan mi zittì e disse che dovevo rimanere in perfetto silenzio ma sveglio per tutta la notte, e che lui soltanto avrebbe parlato un po'.

Disse che lo spirito avrebbe potuto essere ammansito dal suono della sua voce, che conosceva, e ci avrebbe lasciati in pace. Spiegò che l'idea di rendersi accessibili al potere aveva delle connotazioni serie. Il potere era una forza distruttrice che poteva facilmente condurre alla morte e andava trattato con gran cura. Bisognava rendersi accessibili al potere in modo sistematico, ma sempre con gran cautela.

Ciò comportava il rendere ovvia la propria presenza con una contenuta esibizione di chiacchiere ad alta voce o qualsiasi altro tipo di attività rumorosa, e poi era obbligatorio osservare un silenzio prolungato e totale. Uno scoppio controllato e una quiete controllata erano il segno che contraddistingueva il guerriero. Disse che in realtà avrei dovuto sostenere un po' più a lungo la vista del mostro vivo. In modo controllato, senza perdermi d'animo o sconvolgermi per l'eccitazione o la paura, avrei dovuto sforzarmi di 'fermare il mondo'. Mi fece osservare che dopo che ero fuggito a gambe levate su per la collina ero nello stato perfetto per 'fermare il mondo'. In quello stato si combinavano paura, rispetto, potere e morte; disse che un tale stato era assai difficile da ripetere.

Gli sussurrai all'orecchio: «Che cosa intendete per 'fermare il mondo'?».

Mi lanciò un'occhiata feroce, prima di rispondermi che era una tecnica praticata da coloro che vanno in caccia del potere, una tecnica in virtù della quale il mondo così come lo conosciamo veniva fatto crollare.

 

 

 11.
LO STATO D'ANIMO DEL GUERRIERO.
 

Arrivai con la macchina a casa di don Juan giovedì 31 agosto 1961; prima che avessi avuto l'opportunità di salutarlo lui infilò il capo attraverso il finestrino dell'automobile, mi sorrise e disse: «Abbiamo molta strada da fare in macchina per arrivare a un posto di potere, ed è quasi mezzogiorno».

Aprì lo sportello, si mise a sedere accanto a me sul sedile anteriore e mi guidò in direzione sud per circa settanta miglia; voltammo quindi a est per una strada bianca e la seguimmo fino a raggiungere le pendici delle montagne. Parcheggiai fuori della strada in una depressione che don Juan aveva scelto perché abbastanza profonda da nascondere la macchina alla vista. Di là andammo direttamente sulla cima delle basse colline, attraversando una vasta regione pianeggiante e desolata.

Quando calò l'oscurità don Juan scelse un posto per dormire. Pretese un silenzio completo.

Il giorno dopo facemmo un pasto frugale e continuammo il nostro viaggio in direzione est. La vegetazione non era più costituita dagli arbusti del deserto ma da fitti cespugli verdi di montagna e alberi.

Verso la metà del pomeriggio ci inerpicammo sulla cima di una gigantesca barriera di conglomerato che pareva un muro. Don Juan si mise a sedere e mi fece segno di imitarlo.

«Questo è un luogo di potere», disse dopo un momento di pausa. «E' il posto in cui tanto tempo fa venivano sepolti i guerrieri».

In quell'istante un corvo volò sulle nostre teste gracchiando. Don Juan ne seguì il volo con lo sguardo fisso.

Esaminai la roccia e mi stavo domandando come e dove fossero stati seppelliti i guerrieri, quando don Juan mi batté leggermente sulla spalla.

«Non qui, sciocco», disse sorridendo. «Laggiù».

Indicò il terreno sotto di noi ai piedi della barriera, verso est; spiegò che quel terreno era circondato da un recinto naturale di macigni. Da dove ero seduto vedevo una zona di forse cento metri di diametro, in apparenza di forma perfettamente circolare. Fitti cespugli ne coprivano la superficie, dissimulando i macigni. Non ne avrei notato la forma perfettamente rotonda se don Juan non me l'avesse mostrata. Disse che di posti come quello ce n'erano moltissimi sparsi nel vecchio mondo degli indiani. Non erano esattamente posti di potere, come certe colline o formazioni geologiche in cui dimoravano gli spiriti, ma piuttosto luoghi di illuminazione dove si poteva ricevere un insegnamento, dove si poteva trovare la soluzione dei dilemmi.

«Tutto quello che devi fare è venire qui», disse. «O passare la notte su questa roccia per ricomporre i tuoi sentimenti».

«Passeremo la notte qui?».

«Pensavo di sì, ma un piccolo corvo mi ha appena detto di non farlo».

Cercai di saperne di più sul corvo, ma don Juan mi zittì con un cenno impaziente della mano.

«Guarda quel cerchio di macigni», disse. «Fissatelo nella memoria e poi un giorno un corvo ti condurrà a un altro di questi luoghi. Quanto più è perfetta la sua forma rotonda, tanto è maggiore il suo potere».

«Le ossa dei guerrieri sono ancora seppellite qui?».

Don Juan assunse una comica espressione di sgomento e quindi fece un largo sorriso.

«Questo non è un cimitero», disse. «Non c'è sepolto nessuno. Ho detto che un tempo qui c'erano sepolti i guerrieri. Volevo intendere che i guerrieri usavano venire qui a seppellirsi per una notte, o per due giorni o per qualsiasi periodo di tempo volessero. Non intendevo dire che qui siano sepolte le ossa di persone morte. Non mi interesso dei cimiteri, in essi non c'è potere. C'è potere nelle ossa dei guerrieri, comunque, ma non sono mai nei cimiteri. E c'è anche più potere nelle ossa di un uomo di conoscenza, tuttavia sarebbe praticamente impossibile trovarle».

«Chi è un uomo di conoscenza, don Juan?».

«Qualunque guerriero potrebbe diventare un uomo di conoscenza. Come ti ho detto, un guerriero è un cacciatore impeccabile che va in caccia del potere; se ha successo nella sua caccia può essere un uomo di conoscenza».

«Che cosa...».

Don Juan interruppe la mia domanda con un cenno della mano. Si alzò in piedi, mi fece segno di seguirlo e incominciò a discendere il ripido pendio orientale della barriera. Nella faccia quasi perpendicolare c'era un sentiero ben visibile che conduceva alla sottostante spianata circolare.

Lentamente e a fatica discendemmo per il pericoloso sentiero e quando raggiungemmo il fondo don Juan, senza fermarsi affatto, mi condusse attraverso i fitti cespugli fino al centro del cerchio. Là prese dei rami secchi e ripulì uno spiazzo perché mi potessi sedere. Anche lo spiazzo che aveva ripulito era perfettamente rotondo.

«Avevo intenzione di seppellirti qui per tutta la notte», disse. «Ma adesso so che non è ancora ora. Tu non hai potere. Ti seppellirò solo per poco».

L'idea di essere rinchiuso mi rendeva molto nervoso e gli domandai come intendeva seppellirmi. Ridacchiò come un bambino e si mise a raccogliere rami secchi. Non permise che lo aiutassi e disse che dovevo sedermi e aspettare.

Don Juan gettò i rami che andava raccogliendo dentro il cerchio che aveva pulito. Poi mi fece stendere, con la testa rivolta a est, mettendomi la giacca sotto la testa, e mi costruì un'impalcatura intorno al corpo. La costruì conficcando nel terreno soffice pezzi di rami lunghi un'ottantina di centimetri; i rami, che terminavano con una biforcazione, servivano da supporto a certi lunghi bastoni che davano alla gabbia un'ossatura e l'apparenza di una bara aperta. Chiuse la gabbia come una scatola ponendo ramoscelli e foglie sui lunghi bastoni, rinchiudendomi dalle spalle in giù. Mi lasciò sporgere fuori la testa con la giacca come cuscino.

Prese quindi un grosso pezzo di legno secco e, usandolo come un bastone da scavo, sbriciolò il terriccio intorno a me e se ne servì per coprire la gabbia.

L'intelaiatura era così solida e le foglie così ben sistemate che nella gabbia non cadde neanche un granello di terra. Potevo muovere le gambe liberamente e potevo realmente scivolare dentro e fuori.

Don Juan disse che ordinariamente un guerriero costruiva la gabbia, poi vi scivolava dentro e la sigillava dall'interno.

«E gli animali?», domandai. «Non possono grattar via la superficie di terriccio, introdursi nella gabbia e far del male all'uomo?».

«No, non è una cosa che preoccupi un guerriero. E' una cosa che preoccupa te perché non hai potere. Il guerriero, d'altra parte, è guidato dal suo scopo inflessibile e può difendersi da tutto. Nulla lo può importunare, né un topo, né un serpente, né un leone di montagna».

«Perché si seppelliscono, don Juan?».

«Per ottenere l'illuminazione e il potere».

Provai una piacevolissima sensazione di pace e di soddisfazione; il mondo in quel momento sembrava sereno. La quiete era perfetta e al tempo stesso snervante. Non ero abituato a quel tipo di silenzio. Cercai di parlare ma don Juan mi zittì. Dopo un po' la tranquillità del luogo influenzò il mio umore. Incominciai a pensare alla mia vita e alla mia storia personale e provai una familiare sensazione di tristezza e rimorso. Dissi a don Juan che non ero degno di stare lì, che il suo mondo era forte e leale e io debole, e che il mio spirito era stato deformato dalle circostanze della mia vita.

Don Juan rise e minacciò di coprirmi la testa di terra se continuavo a parlare su quel tono. Disse che ero un uomo, e come ogni uomo meritavo tutto ciò che era sorte dell'uomo - gioia, dolore, tristezza e lotta - e che la natura dei nostri atti non contava finché si agiva come un guerriero.

Abbassando la voce fin quasi a un mormorio disse che se veramente sentivo che il mio spirito era deformato dovevo semplicemente fissarlo - purgarlo, renderlo perfetto - perché in tutta la nostra vita non c'era altro compito che fosse più degno. Non fissare lo spirito significava cercare la morte, ed era lo stesso che non cercare nulla, dal momento che la morte ci avrebbe sopraffatti senza tener conto di nulla.

Rimase a lungo silenzioso, quindi, in tono di profonda convinzione, disse: «Cercare la perfezione dello spirito del guerriero è il solo degno compito della nostra condizione di uomini».

Le sue parole ebbero l'effetto di un catalizzatore. Sentii il peso delle mie azioni passate come un fardello intollerabile e fastidioso. Ammisi che per me non c'era speranza. Incominciai a piangere, parlando della mia vita. Dissi che era da tanto tempo che me ne andavo in giro per il mondo da solo che ero diventato insensibile al dolore e alla tristezza, tranne certe occasioni in cui mi rendevo conto della mia solitudine e impotenza.

Don Juan non disse nulla; mi afferrò per le ascelle e mi tirò fuori dalla gabbia. Mi misi a sedere quando mi lasciò andare. Anche lui si mise a sedere. Tra noi si stabilì un silenzio pesante. Pensai che volesse darmi il tempo di ricompormi. Presi il mio taccuino e incominciai scribacchiare nervosamente.

«Ti senti come una foglia in balia del vento, non è vero?», disse alla fine guardandomi fisso.

Era esattamente come mi sentivo. Don Juan sembrava provar comprensione per me. Disse che il mio umore gli rammentava quello di una canzone e incominciò a cantarla in tono sommesso; la sua voce era molto piacevole e i versi mi rapirono: «Sono tanto lontano dal cielo sotto il quale sono nato. Un'immensa nostalgia invade i miei pensieri. Ora che sono così solo e triste come una foglia al vento, qualche volta voglio piangere, qualche volta voglio ridere di struggimento» ("Que lejos estoy del cielo donde he nacido. Inmensa nostalgia invade mi pensamiento. Ahora que estoy tan solo y triste cual hoja al viento, quisiera llorar, quisiera reir de sentimiento").

Rimanemmo a lungo senza parlare. Alla fine don Juan ruppe il silenzio.

«Dal giorno in cui sei nato, in un modo o l'altro, qualcuno ti ha fatto qualcosa», disse.

«Giusto», risposi.

«E ti hanno fatto qualcosa contro la tua volontà».

«E' vero».

«E adesso ti senti impotente, come una foglia al vento».

«Giusto. E' così».

Dissi che alcune volte le circostanze della mia vita erano state disastrose. Mi ascoltò attentamente ma non riuscii a capire se era soltanto consenziente o veramente interessato, finché non mi accorsi che cercava di nascondere un sorriso.

«Non importa quanto ti piaccia provare dolore per te stesso, è una cosa che devi cambiare», disse in tono dolce. «Non si addice alla vita di un guerriero».

Rise e cantò di nuovo la sua canzone, distorcendo però l'intonazione di alcune parole; il risultato fu un lamento ridicolo. Mi fece osservare che il motivo per cui mi era piaciuta la canzone era che in tutta la mia vita non avevo fatto altro che cercare difetti in tutto e lamentarmi. Non potevo discutere con lui, aveva ragione. Tuttavia credevo di avere motivi sufficienti per giustificare la mia sensazione di essere come una foglia al vento.

«La cosa più difficile al mondo è assumere lo stato d'animo di un guerriero», disse. «Non serve a nulla essere tristi, lagnarsi e sentire di essere giustificati nel farlo, credere che qualcuno ci faccia sempre qualcosa. Nessuno fa nulla a nessuno, tanto meno a un guerriero.

«Tu sei qui, con me, perché vuoi essere qui. Dovresti ormai essertene assunto la piena responsabilità; perciò l'idea che tu sia in balia del vento è inammissibile».

Si alzò in piedi e incominciò a smontare la gabbia. Riportò il terriccio dove lo aveva preso e sparpagliò con cura tutti i legni tra i cespugli. Poi ricoprì di detriti il cerchio che aveva pulito, lasciando la zona come se nulla l'avesse mai toccata.

Lodai la sua perizia. Rispose che un buon cacciatore avrebbe saputo che eravamo stati lì, per quanto accurato egli fosse, perché le tracce degli uomini non potevano essere cancellate completamente.

Si mise seduto a gambe incrociate e mi disse di sedermi il più comodamente possibile, fronteggiando il punto in cui mi aveva sepolto, e di rimanere immobile finché il mio stato d'animo triste non si fosse dissipato.

«Un guerriero si seppellisce per trovare il potere, non per piangere di autocommiserazione», disse.

Tentai di spiegare ma mi arrestò con un cenno impaziente del capo. Disse che aveva dovuto tirarmi fuori in fretta dalla gabbia perché il mio umore era diventato intollerabile e aveva temuto che il luogo si irritasse per la mia debolezza e potesse farmi del male.

«L'autocommiserazione non si addice al potere», disse. «Lo stato d'animo di un guerriero richiede il controllo su se stesso e al tempo medesimo richiede l'abbandono di se stesso».

«Come può essere?», chiesi. «Come ci si può controllare e abbandonare al tempo stesso?».

«E' una tecnica difficile», disse.

Sembrava che stesse decidendo se continuare o no a parlare. Per due volte fu sul punto di dire qualcosa, ma si controllò e sorrise.

«Non hai ancora vinto la tua tristezza», disse. «Ti senti ancora debole e non servirebbe a niente parlare ora dello stato d'animo di un guerriero».

Trascorse quasi un'ora di silenzio completo. Quindi don Juan mi chiese bruscamente se ero riuscito a imparare le tecniche del 'sognare' che lui mi aveva insegnato. Mi ero esercitato assiduamente e dopo uno sforzo monumentale ero riuscito a ottenere una certa misura di controllo sui miei sogni. Don Juan aveva ben ragione quando aveva detto che si potevano interpretare gli esercizi come se fossero un divertimento. Era la prima volta nella mia vita che non vedevo l'ora di andare a dormire.

Gli feci un resoconto dettagliato dei miei progressi. Mi era stato relativamente facile imparare a mantenere l'immagine delle mie mani dopo che avevo imparato a comandarmi di guardarle. Le mie visioni, sebbene non sempre delle mie mani, duravano un tempo apparentemente lungo, finché alla fine perdevo il controllo e mi immergevo nei comuni sogni imprevedibili. Il momento in cui davo a me stesso il comando di guardarmi le mani, o di guardare qualsiasi altro dettaglio del sogno, non dipendeva dalla mia volontà. Accadeva soltanto. A un certo momento ricordavo che dovevo guardarmi le mani e quindi guardare ciò che mi circondava. C'erano poi delle notti in cui non potevo ricordare assolutamente di averlo fatto.

Don Juan parve soddisfatto e volle sapere quali fossero i dettagli che incontravo di solito nei miei sogni. Non riuscii a ricordare nulla in particolare e incominciai a dilungarmi su un sogno da incubo che avevo fatto la notte prima.

«Sii meno fantasioso», mi disse seccamente.

Gli dissi che avevo registrato tutti i dettagli dei miei sogni. Da quando avevo incominciato a esercitarmi a guardarmi le mani i miei sogni erano diventati quanto mai irresistibili e la mia capacità di ricordare era aumentata al punto che potevo ricordare dettagli minimi. Mi disse che seguirli era una perdita di tempo, perché dettagli e nitidezza non erano affatto importanti.

«I sogni ordinari diventano molto nitidi non appena incominci a "sviluppare il sognare"», disse. «Quella nitidezza e quella chiarezza costituiscono una barriera formidabile, e tu sei peggio di tutti quelli che ho mai incontrato nella mia vita. Hai la mania peggiore, scrivi tutto quello che puoi».

Credevo in tutta onestà che quello che facevo fosse appropriato. Tenere una meticolosa registrazione dei miei sogni mi consentiva un certo grado di chiarezza sulla natura delle visioni che avevo dormendo.

«Piantala!», mi disse imperiosamente. «Non serve a niente. Tutto quello che fai è distratti dallo scopo del "sognare", che è controllo e potere».

Si mise disteso coprendosi gli occhi col cappello e mi parlò senza guardarmi.

«Ora ti rammenterò tutte le tecniche che devi esercitare», disse. «Innanzitutto, come punto di partenza, devi mettere a fuoco lo sguardo sulle mani. Quindi devi spostare lo sguardo su altri dettagli e guardarli con brevi occhiate. Metti a fuoco lo sguardo su quante cose vuoi. Ricorda che se dai soltanto brevi occhiate le immagini non si muovono. Poi torna alle tue mani.

«Ogni volta che ti guardi le mani rinnovi il potere necessario per sognare, perciò al principio non guardare troppe cose. Saranno sufficienti quattro dettagli ogni volta. Più tardi puoi progredire fino ad abbracciare tutto quello che vuoi, ma non appena le immagini incominciano a muoversi e senti che stai perdendo il controllo, torna alle tue mani.

«Quando sentirai di poter contemplare le cose indefinitamente sarai pronto per una nuova tecnica. Ora ti insegnerò questa nuova tecnica, voglio però che tu la metta in atto solo quando sarai pronto».

Rimase in silenzio per circa quindici minuti. Alla fine si tirò su a sedere e mi guardò.

«Il passo successivo dello "sviluppare il sognare" consiste nell'imparare a viaggiare», disse. «Nello stesso modo in cui hai imparato a guardarti le mani potrai desiderare di muoverti, di andare nei luoghi. Innanzitutto devi stabilire un luogo in cui vuoi andare. Scegli un luogo che conosci bene - per esempio la tua scuola, o un giardino, o la casa di un amico - quindi devi voler intensamente andare là.

«Questa tecnica è molto difficile. Devi eseguire due compiti: devi desiderare intensamente di andare nella specifica località; e poi, quando hai padroneggiato quella tecnica, devi imparare a controllare la durata esatta del tuo viaggio».

Mentre trascrivevo le sue parole avevo la sensazione di essere veramente pazzo. Stavo realmente inghiottendo istruzioni folli, riducendomi a mal partito per seguirle. Provai un'ondata di rimorso e di imbarazzo.

«Che mi state facendo, don Juan?», domandai senza averne veramente l'intenzione.

Don Juan parve sorpreso. Mi guardò fisso per un istante e quindi sorrise.

«Mi fai sempre la stessa domanda», disse. «Io non ti sto facendo niente, sei tu che ti rendi accessibile al potere; gli dai la caccia e io ti sto solo guidando».

Chinò la testa di lato e mi studiò. Mi prese il mento con una mano e la nuca con l'altra e quindi mi mosse la testa avanti e indietro. Avevo i muscoli del collo molto tesi e quel movimento ridusse la tensione.

Don Juan guardò il cielo per un momento e sembrò vederci qualcosa.

Camminammo in direzione est finché giungemmo a un gruppo di alberelli, in una valle tra due grandi colline. Erano ormai quasi le cinque del pomeriggio; don Juan disse come per caso che avremmo potuto passare la notte in quel luogo, indicò gli alberi e disse che lì intorno c'era dell'acqua.

Tese il corpo e si mise a fiutare l'aria come un animale. Potevo vedere i muscoli del suo stomaco contrarsi in brevi velocissimi spasmi mentre soffiava e inalava attraverso il naso in rapida successione. Mi esortò a fare altrettanto e a scoprire da me dove fosse l'acqua. Cercai con riluttanza di imitarlo. Dopo cinque o sei minuti di rapida respirazione mi girava la testa, ma le narici si erano aperte straordinariamente e potei veramente individuare l'odore dei salici acquatici, non riuscivo però a indovinare dove fossero.

Don Juan mi disse di riposarmi qualche minuto e quindi mi fece ricominciare a fiutare. Questa seconda volta fiutai più intensamente e potei effettivamente distinguere l'odore dei salici acquatici che veniva dalla mia destra. Avanzammo in quella direzione e dopo un buon quarto di miglio incontrammo una zona paludosa con acqua stagnante. Costeggiammo l'acqua giungendo a una "mesa" pianeggiante che si elevava di poco sul terreno circostante. Sopra e intorno alla "mesa" la vegetazione era molto fitta.

«Questo posto pullula di leoni di montagna e altri gatti minori», disse don Juan in tono casuale, come se fosse un'osservazione banale.

Corsi al suo fianco e lui scoppiò a ridere.

«Di solito non vengo affatto qui», disse. «Ma il corvo ha indicato questa direzione. Ci deve essere qualcosa di speciale».

«Dobbiamo davvero stare qui, don Juan?».

«Dobbiamo. Altrimenti avrei evitato questo posto».

Mi sentivo estremamente nervoso. Don Juan mi disse di ascoltare attentamente quello che diceva.

«La sola cosa che si possa fare in questo posto è cacciare i leoni», disse. «Perciò ora ti insegnerò come si fa.

«C'è un modo speciale per costruire una trappola per i topi acquatici che vivono intorno alle pozze d'acqua. I topi servono da esca. Si costruisce una gabbia coi fianchi ribaltabili e lungo i lati si mettono delle punte molto aguzze. Quando la trappola è montata le punte sono nascoste e innocue finché qualcosa non cade sulla trappola, nel qual caso i fianchi si abbattono e le punte trafiggono ciò che ha urtato la trappola».

Non riuscivo a capire, ma don Juan disegnò sul terreno un diagramma mostrandomi che se i paletti laterali della gabbia erano posti su appoggi cavi che fungevano da perno, la gabbia sarebbe crollata da entrambi i lati se qualcosa avesse premuto sulla sua sommità.

Le punte erano schegge aguzze di legno duro, poste e fissate tutto intorno all'intelaiatura.

Don Juan disse che di solito si metteva un pesante carico di sassi su un graticcio di bastoni, connessi alla gabbia e sospesi in alto sopra di essa. Quando il leone di montagna arrivava alla trappola innescata coi topi d'acqua, di solito cercava di sfondarla colpendola con tutta la sua forza; allora le schegge gli avrebbero trafitto le zampe e il gatto, furibondo, sarebbe balzato in alto facendosi precipitare addosso una valanga di sassi.

«Un giorno o l'altro potrai dover catturare un leone di montagna», mi disse. «Hanno speciali poteri. Sono terribilmente furbi e il solo modo di catturarli è ingannarli col dolore e con l'odore dei salici acquatici

Con rapidità e abilità sorprendenti don Juan mise insieme una trappola e dopo una lunga attesa catturò tre roditori grassottelli simili a scoiattoli.

Mi disse di prendere una manciata di foglie di salice dal bordo della palude e mi ci fece strofinare gli abiti. Lo stesso fece lui. Quindi, rapidamente e con grande abilità, intrecciò due semplici reti di giunco, trasse dalla palude un grosso malloppo di piante verdi e fango e lo portò alla "mesa", dove si nascose.

Nel frattempo i roditori simili a scoiattoli si erano messi a squittire forte.

Dal suo nascondiglio don Juan mi disse di prendere l'altra rete e raccogliere una buona porzione di fango e piante, e quindi di arrampicarmi sui rami inferiori di un albero vicino alla trappola che racchiudeva i roditori.

Disse che non voleva far del male al gatto né ai roditori, perciò avrebbe lanciato del fango sul leone se fosse venuto alla trappola. Mi disse di stare all'erta e di scagliare il mio fagotto sul gatto dopo di lui, per spaventarlo e farlo fuggire. Mi raccomandò di fare molta attenzione a non cadere dall'albero. Le sue ultime istruzioni furono di rimanere così immobile da fondermi coi rami.

Non riuscivo a vedere dove fosse don Juan. I roditori squittivano sempre più forte e alla fine fu così buio che a stento potevo distinguere i contorni generali del terreno. Udii il rumore improvviso e vicino di morbidi passi e un'attutita esalazione felina, poi un grugnito molto lieve; i roditori tacquero immediatamente. Fu in quell'istante che vidi la massa oscura di un animale proprio sotto il mio albero. Prima ancora che fossi sicuro che si trattava di un leone di montagna, l'ombra caricò contro la trappola, ma prima che la raggiungesse qualcosa la colpì e la fece rinculare. Scagliai il mio fagotto come don Juan mi aveva detto di fare. Mancai il colpo, ma l'animale ruggì molto forte. In quell'istante don Juan lanciò una serie di urli penetranti che mi mandarono un brivido per la spina dorsale, e il gatto, con agilità straordinaria, balzò sulla "mesa" e scomparve.

Don Juan continuò ancora per un po' a emettere i suoi urli penetranti, quindi mi disse di scendere dall'albero, raccogliere la gabbia con gli scoiattoli, correre alla "mesa" e salire a raggiungerlo più presto che potevo.

Impiegai un tempo incredibilmente breve e fui di nuovo accanto a lui. Mi disse di imitare le sue urla meglio che potevo per tenere lontano il leone mentre lui smontava la gabbia e liberava i roditori.

Incominciai a urlare ma non riuscivo a produrre lo stesso effetto. Avevo la voce rauca per l'eccitazione.

Don Juan disse che dovevo abbandonarmi e gridare con vero sentimento, perché il leone era ancora in giro. All'improvviso mi resi pienamente conto della situazione: il leone era reale. Emisi una magnifica serie di urla laceranti.

Don Juan rideva fragorosamente.

Mi lasciò urlare ancora per un momento e quindi disse che dovevamo abbandonare il luogo più silenziosamente possibile, perché il leone non era uno sciocco e probabilmente stava ritornando sui suoi passi per venire dove eravamo noi.

«Ci seguirà di sicuro», disse. «Possiamo stare attenti finché vogliamo, ma lasceremo sempre una traccia grande come un'autostrada».

Gli camminai vicinissimo; di quando in quando si fermava per un istante e ascoltava. A un certo momento si mise a correre nel buio e io lo seguii con le braccia protese davanti agli occhi per difendermi dai rami.

Alla fine giungemmo ai piedi della barriera sulla cui sommità eravamo stati in precedenza. Don Juan disse che se fossimo riusciti a salire in cima senza venir molestati dal leone saremmo stati salvi. Salì lui per primo mostrandomi la strada, e incominciammo ad arrampicarci al buio. Non so come, ma lo seguii con passi sicurissimi. Quando fummo vicini alla cima udii uno strano grido di un animale; sembrava quasi il muggito di una mucca, solo che era un po' più prolungato e aspro.

«Su! Su!», urlò don Juan.

Mi arrampicai sulla cima al buio completo, passando davanti a don Juan. Quando lui raggiunse a sua volta la cima pianeggiante della barriera, io ero già lì seduto che riprendevo fiato.

Don Juan rotolò al suolo. Per un istante pensai che lo sforzo gli fosse stato eccessivo, invece rideva della velocità con cui mi ero arrampicato.

Rimanemmo in completo silenzio per un paio d'ore e quindi ci avviammo verso l'automobile.

 

Domenica 3 settembre, 1961.

 

Don Juan non era in casa quando mi svegliai. Lavorai ai miei appunti e prima che tornasse ebbi il tempo di andare a raccogliere della legna da ardere tra gli arbusti circostanti. Quando don Juan entrò in casa stavo mangiando. Si mise a ridere di quella che chiamava la mia abitudine fissa di mangiare a mezzogiorno, ma si servì dei miei panini.

Gli dissi che l'episodio del leone di montagna mi sconcertava. Se ci ripensavo mi sembrava tutto irreale: era come se tutto fosse stato messo in scena a mio beneficio; la successione degli avvenimenti era stata così rapida che non avevo avuto davvero il tempo di essere spaventato; avevo avuto tempo sufficiente per agire, ma non per considerare le circostanze. Mentre scrivevo i miei appunti mi era venuto da chiedermi se avevo veramente visto il leone di montagna. Il ricordo del ramo secco era ancora vivo.

«Era un leone di montagna», disse don Juan imperiosamente.

«Era un vero animale in carne e ossa?».

«Naturalmente».

Gli dissi che la facilità di tutto l'episodio aveva risvegliato i miei sospetti. Era come se il leone fosse stato là ad aspettarci e fosse stato addestrato a fare esattamente quello che don Juan aveva progettato.

Don Juan non si scompose per la mia opposizione di osservazioni scettiche. Rise di me.

«Sei un tipo buffo», disse. «Hai visto e udito il gatto. Era proprio sotto il tuo albero. Non ti ha fiutato e non ti è saltato addosso per via dei salici d'acqua che annullano ogni altro odore, anche per i gatti. Tu ne avevi in grembo una manciata».

Gli dissi che non era che dubitassi di lui, ma che quella notte tutto era stato estremamente diverso dagli avvenimenti della mia vita quotidiana. Per un istante, mentre scrivevo i miei appunti, avevo persino avuto la sensazione che il ruolo del leone potesse esser stato interpretato da don Juan. Tuttavia avevo dovuto scartare l'idea, perché ricordavo di aver visto veramente la forma scura di un animale a quattro zampe che caricava contro la gabbia e quindi balzava sulla "mesa".

«Perché ti agiti tanto?», mi disse. «Era solo un gattone. Devono esserci migliaia di gatti su quelle montagne, che vuoi che sia? Come al solito ti concentri sui dettagli sbagliati. Non fa nessuna differenza se era un leone o i miei calzoni, quello che contava erano i tuoi sentimenti in quel momento».

In tutta la mia vita non avevo mai visto né sentito un gattone selvaggio in cerca di preda. Quando ci ripensavo non riuscivo a raccapezzarmi che fosse stato solo a un metro da me.

Don Juan mi ascoltò pazientemente mentre rievocavo tutta l'esperienza.

«Perché tanto timore di quel gattone?», mi chiese con un'espressione inquisitrice. «Sei stato vicino alla maggioranza degli animali che vivono qui e non hai mai avuto timore di loro. Ti piacciono i gatti?».

«No, non mi piacciono».

«E allora dimenticatelo. Comunque la lezione non riguardava il modo di cacciare i leoni».

«Cosa riguardava?».

«Il piccolo corvo mi ha indicato quel punto specifico, e in quel punto ho visto l'opportunità di farti capire come si agisce mentre si è nello stato d'animo del guerriero.

«L'altra notte hai fatto tutto in uno stato d'animo appropriato: quando sei saltato giù dall'albero per prendere la gabbia e correre su da me, eri controllato e al tempo stesso abbandonato, non eri paralizzato dalla paura; e poi, vicino alla cima della barriera, quando il leone ha ruggito, ti sei mosso benissimo. Son sicuro che non crederesti a quello che hai fatto se guardassi la barriera alla luce del giorno. Hai avuto un buon grado di abbandono, e al tempo stesso un buon grado di controllo su di te. Non hai mollato e non te la sei fatta nei calzoni, eppure hai mollato e ti sei arrampicato su quel muro nel buio completo. Avresti potuto mancare il sentiero e ucciderti. Per salire su quel muro nel buio completo bisognava che ti tenessi e ti lasciassi andare allo stesso tempo. E' questo che io chiamo lo stato d'animo di un guerriero».

Dissi che, qualunque cosa avessi fatto quella notte, era stato il prodotto della mia paura e non il risultato di nessuno stato d'animo di controllo e abbandono.

«Lo so», disse sorridendo. «E ho voluto mostrarti che puoi spronare te stesso oltre i tuoi limiti se sei nello stato d'animo adatto. Un guerriero costruisce il proprio stato d'animo. Tu non lo sapevi. La paura ti ha messo nello stato d'animo del guerriero, ma ora che lo sai, tutto può servire a fartici entrare».

Volli discutere con lui, ma le mie ragioni non erano chiare. Provavo un inesplicabile senso di fastidio.

«E' conveniente agire sempre in tale stato d'animo», continuò don Juan. «Ti libera da tutto e ti lascia purificato. E' stata una grande sensazione quando hai raggiunto la cima della barriera, non è vero?».

Gli risposi che comprendevo quello che voleva dire, però sentivo che sarebbe stato idiota cercar di applicare quello che mi stava insegnando alla mia vita quotidiana.

«Ci vuole lo stato d'animo del guerriero per ogni singolo atto», disse. «Altrimenti si diventa deformati e brutti. Non c'è potere in una vita che manchi di questo stato d'animo. Guardati: tutto ti offende e ti turba. Ti lagni e ti lamenti e senti che tutti ti fanno ballare alla loro musica. Sei una foglia in balia del vento. Non c'è potere nella tua vita. Che brutta sensazione deve essere!

«Un guerriero, d'altra parte, è un cacciatore. Il guerriero calcola tutto. Questo è controllo. Ma una volta terminati i suoi calcoli, agisce, lascia andare. Questo è abbandono. Un guerriero non è una foglia in balia del vento. Nessuno lo può spingere; nessuno può fargli fare nulla contro la sua volontà o contro il suo giudizio. Il guerriero è programmato per sopravvivere, e sopravvive nel migliore dei modi possibili».

Mi piacque la sua affermazione, sebbene non la ritenessi realistica.

Sembrava troppo semplicistica per il complesso mondo in cui vivevo io.

Don Juan rise delle mie argomentazioni e io insistei che lo stato d'animo del guerriero non avrebbe potuto aiutarmi a vincere la sensazione di essere offeso o realmente ferito dalle azioni dei miei simili, come nel caso ipotetico dell'essere fisicamente molestato da una persona crudele e maligna che occupa una posizione di superiorità.

Don Juan rise fragorosamente e ammise che l'esempio era appropriato.

«Un guerriero potrebbe essere ferito ma non offeso», disse. «Per il guerriero non c'è nulla di offensivo negli atti dei suoi simili finché lui stesso agisce entro lo stato d'animo appropriato.

«L'altra notte tu non sei stato offeso dal leone. Il fatto che ci abbia dato la caccia non ti ha irritato. Non ti ho sentito maledirlo né ti ho sentito dire che non aveva il diritto di inseguirci. Per quel che ne sapevi avrebbe potuto essere un leone crudele e maligno. Ma tu non hai fatto una simile considerazione mentre cercavi di sfuggirgli. La sola cosa pertinente era sopravvivere, e l'hai fatto benissimo.

«Se tu fossi stato solo e il leone ti avesse preso e sbranato a morte, non ti sarebbe mai venuto in mente di lamentarti o di sentirti offeso dai suoi atti.

«Lo stato d'animo del guerriero non è così impossibile per il tuo mondo né per il mondo di nessuno. Tu ne hai bisogno per sbarazzarti di tutto quanto».

Gli spiegai il mio modo di ragionare. Il leone e i miei simili non erano sullo stesso piano, perché conoscevo gli intimi sotterfugi degli uomini mentre non sapevo nulla del leone. Quello che mi offendeva nei miei simili era che agivano malignamente e con consapevolezza.

«Lo so, lo so», disse pazientemente don Juan. «Raggiungere lo stato d'animo del guerriero non è cosa semplice. E' una rivoluzione. Considerare uguali il leone, i topi d'acqua e i nostri simili è un magnifico atto dello spirito del guerriero. Per farlo ci vuole potere».

 

 

 12.
UNA BATTAGLIA DI POTERE.
 

Giovedì 28 dicembre, 1961.

 

La mattina molto presto partimmo per un viaggio. Con la macchina ci dirigemmo a sud e quindi a est verso le montagne. Don Juan aveva portato delle zucche piene di cibo e acqua. Mangiammo in macchina prima di incominciare a camminare.

«Stammi molto vicino», mi disse don Juan. «Questa regione ti è sconosciuta e non c'è bisogno di correre rischi. Stai andando in cerca del potere e tutto quello che fai conta. Osserva il vento, specialmente verso la fine della giornata. Osserva quando cambia direzione e modifica la tua posizione in modo da essere sempre protetto da me contro il vento».

«Che cosa siamo venuti a fare in queste montagne, don Juan?».

«Devi dare la caccia al potere».

«Voglio dire, che dobbiamo fare in particolare?».

«Quando si tratta di dar la caccia al potere non esiste piano. Andare a caccia di potere o di selvaggina è la stessa cosa. Un cacciatore caccia tutto quello che gli si presenta, perciò deve essere sempre all'erta.

«Tu sai del vento, e ora puoi dar la caccia al potere nel vento da solo. Ma ci sono altre cose di cui non sai, che, come il vento, sono il centro del potere in certi momenti e in certi luoghi.

«Il potere è una faccenda molto particolare», continuò. «E' impossibile inchiodarlo e dire che cosa è veramente. E' una sensazione che si ha per certe cose. Il potere è impersonale, appartiene solo a se stessi. Il mio benefattore, per esempio, poteva far ammalare mortalmente una persona solo guardandola. Le donne deperivano dopo che aveva messo gli occhi su di loro. Tuttavia non faceva ammalare la gente sempre, ma solo quando c'era di mezzo il suo potere personale».

«Come sceglieva chi doveva far ammalare?».

«Non lo so, non lo sapeva nemmeno lui. Il potere è così: ti comanda e tuttavia ti obbedisce.

«Un cacciatore di potere lo prende in trappola e quindi lo mette in serbo come sua scoperta personale. Perciò, il potere personale cresce, e puoi incontrare il caso di un guerriero che abbia tanto potere personale da diventare un uomo di conoscenza».

«Come si mette in serbo il potere, don Juan?».

«Questa è un'altra sensazione ancora, dipende dal tipo di persona che è il guerriero. Il mio benefattore era un uomo di natura violenta; accumulava il potere con la violenza, tutto ciò che faceva era forte e diretto. Mi ha lasciato il ricordo di qualcosa che si muoveva con tumulto. E tutto quello che gli accadeva avveniva in quel modo».

Gli dissi che non riuscivo a capire come il potere potesse esser messo in serbo attraverso un sentimento.

«Non c'è modo di spiegarlo», mi rispose dopo una lunga pausa. «Devi farlo da te».

Tirò su la zucca col cibo e se la legò sulla schiena. Mi porse uno spago cui erano legati otto pezzi di carne secca e mi disse di appendermelo al collo.

«Questo è cibo di potere», disse.

«Che cosa lo rende cibo di potere, don Juan?».

«E' la carne di un animale che aveva potere. Un cervo, un cervo unico. E' stato condotto a me dal mio potere personale. Questa carne ci sostenterà per settimane, per mesi se necessario. Masticane qualche pezzetto per volta, e masticali completamente. Lascia che il potere si immerga lentamente nel tuo corpo».

Incominciammo a camminare. Erano quasi le undici di mattina. Don Juan mi ricordò ancora una volta il procedimento da seguire.

«Osserva il vento», disse. «Non farti sorprendere dal vento e non permettere che ti stanchi. Mastica il tuo cibo di potere e proteggiti dietro al mio corpo. A me non può nuocere; ci conosciamo a vicenda molto bene».

Don Juan mi condusse a un sentiero che saliva diritto verso le alte montagne. La giornata era nuvolosa e sembrava che stesse per piovere. Potevo vedere le basse nuvole gonfie di pioggia e la nebbia scendere verso di noi dalle montagne.

Camminammo in completo silenzio fin quasi alle tre del pomeriggio. Masticare la carne secca mi rinvigoriva veramente. Sorvegliar gli improvvisi cambiamenti di direzione del vento divenne una faccenda misteriosa, al punto che tutto il mio corpo sembrava sentirli prima che avessero luogo veramente. Avevo la sensazione di poter individuare le onde del vento come una specie di pressione sulla parte superiore del torace, sui bronchi. Ogni volta che stavo per sentire una folata di vento il petto e la gola mi prudevano.

Don Juan si fermò per un momento e si guardò intorno come per orientarsi, quindi si voltò a destra. Notai che anche lui masticava la carne secca. Mi sentii molto fresco e per nulla stanco. I cambiamenti del vento mi avevano talmente assorbito che non mi ero reso conto del passare del tempo.

Ci inoltrammo in una gola profonda e quindi ne risalimmo un lato giungendo a un piccolo pianoro sul fianco nudo di un'enorme montagna. Eravamo molto alti, quasi sulla cima della montagna.

Don Juan salì su un'enorme roccia all'estremità del pianoro e mi aiutò a salire a mia volta. La roccia era situata in modo da guardare come una cupola su una valle scoscesa. Ne facemmo lentamente il giro. Alla fine dovetti muovermi intorno alla roccia stando seduto, tenendomi alla sua superficie con le mani e coi piedi. Ero fradicio di sudore e dovevo asciugarmi le mani ripetutamente.

All'altra estremità del pianoro potevo scorgere una grandissima caverna poco profonda, vicino alla cima della montagna. Sembrava una grande sala scavata nella roccia; era di arenaria erosa dal tempo fino a prendere la forma di una specie di balcone con due colonne.

Don Juan disse che ci saremmo accampati là, che era un posto molto sicuro perché troppo poco profondo per essere una tana di leoni o altre bestie da preda, troppo ampio per essere un nido di topi e troppo ventoso per ospitare insetti. Rise e disse che era un posto ideale per gli uomini, dal momento che nessun'altra creatura vivente poteva resisterci.

Ci si arrampicò come una capra di montagna. Rimasi meravigliato dalla sua grande agilità.

Lentamente e a fatica scivolai giù dalla roccia sulla schiena e poi cercai di correre su per il fianco della montagna per raggiungere il ciglione. Gli ultimi metri mi tolsero il fiato. In tono faceto chiesi a don Juan quanti anni avesse veramente; pensavo che per arrampicarsi su quel ciglione come aveva fatto lui bisognasse essere estremamente in forma e giovani.

«Sono giovane quanto voglio essere», mi rispose. «Anche questo è un fatto di potere personale. Se metti in serbo il potere, il tuo corpo può compiere imprese incredibili. D'altra parte, se dissipi il potere sarai un vecchio grasso in pochissimo tempo».

Il ciglione era orientato per la lunghezza secondo una linea est-ovest. Il lato aperto della formazione simile a un balcone guardava a sud. Mi incamminai verso l'estremità ovest. La vista era meravigliosa.

La pioggia ci aveva aggirati. Sembrava uno strato di materiale trasparente sospeso sulla pianura.

Don Juan disse che avevamo tempo a sufficienza per costruire un riparo. Mi disse di accumulare tutti i sassi che potevo trasportare sul ciglione, mentre lui raccoglieva dei rami per costruire un tetto.

In un'ora aveva innalzato sul lato orientale del ciglione un muro spesso una trentina di centimetri, lungo una sessantina di centimetri e alto quasi un metro. Intrecciò e legò dei fasci di rami che aveva raccolto e preparò un tetto, assicurandolo a due lunghi pali che terminavano a forca. Un altro palo di identica lunghezza era fissato al tetto stesso e lo sosteneva dal lato opposto del muro. La struttura sembrava un grande tavolo a tre zampe.

Don Juan si mise a sedere a gambe incrociate sotto la sua costruzione. Mi disse di sedermi accanto a lui, alla sua destra. Rimanemmo per un po' in silenzio.

A un certo momento don Juan ruppe il silenzio. Mi sussurrò che dovevamo comportarci come se nulla fosse fuori dell'ordinario. Gli domandai se c'era qualcosa che dovevo fare in particolare. Rispose che dovevo tenermi occupato a scrivere e farlo in modo tale che sembrasse che fossi alla mia scrivania senza altri pensieri al mondo che scrivere. A un certo momento mi avrebbe dato una gomitata e allora dovevo guardare dove lui indicava con gli occhi. Mi avvertì che qualunque cosa vedessi non dovevo pronunciare una sola parola. Lui solo poteva parlare impunemente, perché era conosciuto da tutti i poteri di quelle montagne.

Seguii le sue istruzioni e scrissi per più di un'ora. Mi ero sprofondato nei miei appunti. Improvvisamente sentii un colpetto sul braccio e vidi don Juan accennare con gli occhi e col capo verso un banco di nebbia lontano circa duecento metri, che scendeva dalla cima della montagna. In tono a stento udibile anche da così vicino, don Juan mi sussurrò all'orecchio:

«Muovi gli occhi avanti e indietro lungo il banco di nebbia, ma non lo guardare direttamente. Socchiudi gli occhi e non metterli a fuoco sulla nebbia. Quando vedi una macchia verde nel banco di nebbia, indicamela con gli occhi».

Mossi gli occhi da destra a sinistra lungo il banco di nebbia che scendeva lentamente verso di noi. Passò forse mezz'ora. Stava calando l'oscurità e la nebbia si muoveva molto lentamente. A un certo momento ebbi l'improvvisa sensazione di aver scoperto un debole chiarore alla mia destra. Dapprima pensai di aver visto una macchia di arbusti verdi attraverso alla nebbia. Quando guardavo direttamente non notavo nulla, ma quando guardavo senza mettere a fuoco gli occhi potevo distinguere una zona vagamente verdastra.

La indicai a don Juan. Socchiuse gli occhi e la fissò.

«Metti gli occhi a fuoco su quel punto», mi sussurrò all'orecchio. «Guarda senza chiudere gli occhi finché "vedi"».

Volli chiedere che cosa avrei dovuto vedere, ma don Juan mi squadrò con gli occhi come per ricordarmi che non dovevo parlare.

Fissai ancora. La porzione di nebbia discesa dall'alto pendeva come un pezzo di materia solida. Si stratificava proprio nel punto in cui avevo notato la tinta verde. Quando gli occhi mi si stancarono e sbattei le palpebre, vidi dapprima la porzione di nebbia sovrapposta al banco e quindi una sottile striscia di nebbia che sembrava un'esile struttura senza sostegno, un ponte che congiungeva la montagna sopra di me e il banco di nebbia davanti a me. Per un istante pensai di poter vedere la nebbia trasparente, sospinta dal vento giù dalla cima della montagna, scorrere sul ponte senza disturbarlo. Era come se il ponte avesse una sua solidità. A un determinato istante il miraggio divenne così completo che potei realmente distinguere l'oscurità della parte sotto al ponte vero e proprio, contrapposta al lieve colore di arenaria del suo fianco.

Fissai il ponte, sbalordito. E quindi mi sollevai al suo livello, o fu il ponte che si abbassò al mio. Improvvisamente mi accorsi di guardare un trave diritto di fronte a me. Era un trave immensamente lungo, stretto e senza ringhiere, ma largo abbastanza per camminarci sopra.

Don Juan mi scosse vigorosamente per il braccio. Sentii la testa che mi si scuoteva su e giù e quindi mi accorsi che gli occhi mi prudevano terribilmente. Me li strofinai del tutto inconsciamente. Don Juan continuò a scuotermi fino a che li riaprii. Si versò dell'acqua dalla zucca nel cavo della mano e mi spruzzò la faccia. La sensazione fu quanto mai sgradevole, l'acqua era così fredda che le gocce mi bruciavano sulla pelle come tagli. Mi accorsi allora di avere il corpo molto caldo. Avevo la febbre.

Don Juan mi fece bere in fretta un po' d'acqua e quindi mi spruzzò orecchie e collo.

Sentii il grido di un uccello, fortissimo, misterioso e prolungato. Don Juan ascoltò attentamente per un istante e quindi spinse col piede i sassi del muro facendo crollare il tetto. Gettò il tetto nei cespugli e scagliò tutti i sassi, a uno a uno, giù per il fianco della montagna. «Bevi un po' d'acqua e mastica la tua carne secca», mi sussurrò all'orecchio. «Non possiamo rimanere più qui. Quel grido non era di un uccello».

Scendemmo giù dal ciglione e ci mettemmo a camminare in direzione est. In pochi istanti fu così buio che mi pareva di avere una cortina davanti agli occhi, la nebbia era come una barriera impenetrabile. Non mi ero reso conto di quanto fosse paralizzante la nebbia di notte e non riuscivo a immaginare come facesse don Juan a camminare; mi tenevo al suo braccio come un cieco.

Avevo, non so come, la sensazione di camminare sull'orlo di un precipizio. Le gambe si rifiutavano di muoversi. La mia ragione si fidava di don Juan e razionalmente volevo camminare, ma il mio corpo no, e don Juan dovette trascinarmi nel buio totale.

Doveva conoscere il terreno alla perfezione. A un certo punto si fermò e mi fece sedere, ma non osai lasciar andare il suo braccio. Il mio corpo sentiva, oltre ogni ombra di dubbio, di essere seduto su una nuda montagna a forma di cupola e che se mi muovevo di un centimetro a destra avrei perso irrimediabilmente l'equilibrio precipitando in un abisso. Ero assolutamente certo di essere seduto sul fianco curvo di una montagna, perché il mio corpo si muoveva inconsciamente verso destra. Pensai che si muovesse a quel modo per mantenere la sua verticalità, perciò cercai di compensare il movimento appoggiandomi a sinistra contro don Juan, più che potevo.

Don Juan si scansò da me improvvisamente e senza il sostegno del suo corpo caddi al suolo. Quando toccai terra ritrovai il mio senso dell'equilibrio: ero steso su un terreno pianeggiante. Incominciai a esplorare a tastoni ciò che mi circondava, riconobbi foglie secche e ramoscelli.

Improvvisamente un lampo illuminò tutta la zona, seguito da un tremendo tuono. Vidi don Juan seduto alla mia sinistra, vidi degli immensi alberi e una grotta a pochi passi dietro di lui.

Don Juan mi disse di entrare nella cavità. Strisciai dentro e mi misi a sedere con la schiena contro la roccia.

Sentii don Juan piegarsi verso di me e sussurrarmi che dovevo rimanere in perfetto silenzio.

Ci furono tre lampi, uno dopo l'altro; al loro bagliore vidi don Juan seduto alla mia sinistra con le gambe incrociate. La grotta era una formazione concava abbastanza grande da contenere due o tre persone sedute, sembrava che il buco fosse stato scavato alla base di un macigno. Capii che avevo fatto veramente bene a strisciarci dentro, perché se avessi camminato avrei urtato la testa nella roccia.

Il bagliore dei lampi mi diede un'idea di quanto fosse spesso il banco di nebbia. Notai i tronchi di alberi enormi stagliarsi oscuri contro la massa opaca e grigio chiaro della nebbia.

Don Juan mi sussurrò che la nebbia e i lampi facevano lega tra loro e dovevo accingermi a una veglia spossante, perché ero impegnato in una battaglia di potere. In quel momento un lampo stupendo rese fantasmagorica tutta la scena. La nebbia era come un filtro bianco che congelava la luce della scarica elettrica e la diffondeva uniformemente; era come una densa sostanza biancastra sospesa tra gli alti alberi, ma proprio davanti a me, al livello del terreno, la nebbia si assottigliava. Distinsi facilmente gli aspetti del terreno. Eravamo in una pineta, circondati da alberi altissimi, così alti che avrei potuto giurare che fossero sequoie se non avessi saputo in che regione eravamo.

Ci fu una scarica di lampi che durò alcuni minuti. Ogni lampo mi faceva distinguere meglio gli aspetti della zona che già avevo osservato. Proprio davanti a me vidi un sentiero chiaramente tracciato, privo di vegetazione. Sembrava sfociare in una zona senza alberi.

Ci furono tanti lampi che non potei distinguere da dove venissero. La scena, però, si era illuminata così profusamente che mi sentii molto più a mio agio. Le mie paure e incertezze erano svanite non appena ci fu abbastanza luce da sollevare la pesante cortina di tenebre. Perciò, quando ci fu una lunga pausa tra un lampo e l'altro non fui più disorientato dal buio che mi circondava.

Don Juan mi sussurrò che probabilmente avevo osservato abbastanza, e che dovevo concentrare la mia attenzione sul rumore del tuono. Con mio stupore mi accorsi che non avevo affatto prestato attenzione al tuono, sebbene fosse stato davvero tremendo. Don Juan aggiunse che dovevo seguirne il suono e guardare nella direzione da cui pensavo che provenisse.

Non ci furono più scariche di lampi e tuoni, ma solo sporadici balenii di luce intensa e fragori. Il tuono sembrava venire sempre dalla mia destra. La nebbia si sollevava e io, ormai abituato all'oscurità nera come la pece, potevo distinguere masse di vegetazione. I lampi e i tuoni continuarono e improvvisamente tutto il lato destro si aprì e potei vedere il cielo.

La tempesta elettrica sembrava spostarsi verso la mia destra. Ci fu un altro lampo e vidi una montagna in lontananza alla mia destra. La luce del lampo illuminò lo sfondo, facendo stagliare la massa compatta della montagna. Vidi degli alberi sulla cima; sembravano nitidi ritagli neri sovrapposti al cielo di un bianco brillante. Vidi anche dei cumuli di nuvole sulle montagne.

Intorno a noi la nebbia si era diradata completamente Soffiava un vento costante e potevo udire lo stormire delle foglie tra i grandi alberi alla mia sinistra. La tempesta elettrica era troppo lontana per illuminare gli alberi, ma se ne potevano distinguere le masse scure. Tuttavia la luce del temporale mi permise di stabilire che alla mia destra c'era una catena di montagne in lontananza e che la foresta era limitata al lato sinistro. Mi sembrava di guardare in giù verso una valle oscura, che non potevo vedere affatto. Il piano su cui infuriava la tempesta elettrica era sul lato opposto della valle.

Quindi incominciò a piovere. Mi spinsi più che potei contro le rocce. Il cappello mi proteggeva bene, ero seduto con le ginocchia strette contro il petto e mi bagnavo solamente le caviglie e le scarpe.

Piovve a lungo. La pioggia era tiepida, me la sentivo scorrere sui piedi. Poi mi addormentai.

Fui risvegliato dal canto degli uccelli. Mi guardai intorno cercando don Juan: non c'era. Ordinariamente mi sarei domandato se mi avesse lasciato lì solo, ma l'ambiente che mi circondava mi diede una scossa che quasi mi paralizzò.

Mi alzai in piedi. Avevo le gambe bagnate fradice, la tesa del mio cappello era umida e conteneva ancora un po' d'acqua che mi piovve addosso. Non ero affatto in una grotta, ma sotto a dei fitti cespugli. Ebbi un momento di confusione senza pari. Mi trovavo in un terreno pianeggiante tra due piccole colline coperte di cespugli. Non c'erano alberi alla mia sinistra né una valle alla mia destra. Proprio davanti a me, dove avevo visto il sentiero nella foresta, cresceva un cespuglio gigantesco.

Mi rifiutavo di credere ai miei occhi. L'incongruenza delle mie due versioni della realtà mi fece cercare disperatamente una spiegazione qualsiasi. Mi venne in mente che era possibilissimo che don Juan mi avesse trasportato sulle spalle in un altro posto senza svegliarmi.

Esaminai il punto in cui avevo dormito. Il terreno sotto di me era asciutto, come pure nel punto vicino, dove era stato don Juan.

Chiamai don Juan un paio di volte e in preda all'angoscia urlai il suo nome più forte che potei. Don Juan sbucò dai cespugli e immediatamente capii che sapeva quello che stava accadendo. Il suo sorriso era così malizioso che finii per sorridere anch'io.

Non volli perder tempo a scherzare con lui e gli dissi senza indugio quello che mi succedeva. Gli spiegai più accuratamente possibile tutti i dettagli delle mie allucinazioni della notte precedente. Don Juan mi ascoltò senza interrompermi, tuttavia non riuscì a mantenere un'espressione seria e scoppiò due volte a ridere, ma recuperò immediatamente la sua compostezza.

Due o tre volte gli chiesi i suoi commenti; ma si limitò a scuotere la testa come se tutta la faccenda fosse incomprensibile anche per lui.

Quando ebbi concluso il mio resoconto mi guardò e disse: «Hai un aspetto orribile. Forse hai bisogno di andare dietro ai cespugli».

Ridacchiò per un istante e quindi aggiunse che avrei dovuto togliermi i vestiti e strizzarli per farli asciugare.

La luce del sole era brillante, c'erano pochissime nuvole, era una giornata ventosa e frizzante.

Don Juan si allontanò, dicendo che sarebbe andato a raccogliere certe piante e che io dovevo ricompormi e mangiare qualcosa e non chiamarlo finché non mi fossi sentito calmo e forte.

Avevo i vestiti letteralmente fradici e mi misi a sedere al sole per asciugarmi. Sentivo che l'unico modo per rilassarmi sarebbe stato tirar fuori il mio taccuino e scrivere. Mentre lavoravo ai miei appunti mangiai qualcosa.

Dopo un paio d'ore mi sentii più rilassato e chiamai don Juan. Mi rispose da un punto vicino alla cima della montagna e mi disse di raccogliere le zucche e salire a raggiungerlo. Quando arrivai lo trovai seduto su un sasso levigato. Aprì le zucche e si servì di cibo. Mi porse due grossi pezzi di carne.

Non sapevo da che parte incominciare: le cose che volevo chiedere erano tante. Don Juan sembrò aver capito il mio stato d'animo e rise di vero piacere.

«Come ti senti?», chiese in tono faceto.

Non volli dire nulla. Ero ancora turbato.

Don Juan mi esortò a sedere sulla lastra di pietra levigata. Disse che la pietra era un oggetto di potere e che se vi restavo seduto per un po' mi sarei sentito rigenerato.

«Siediti», mi ordinò seccamente.

Non sorrideva. I suoi occhi erano penetranti. Automaticamente mi misi a sedere.

Disse che agivo con trascuratezza verso il potere con il mio comportamento tetro, e che dovevo smetterla altrimenti il potere si sarebbe rivoltato contro di noi e non saremmo mai usciti vivi da quelle colline desolate.

Dopo un momento di pausa mi chiese in tono casuale: «Come va il tuo "sognare"?».

Gli spiegai quanto mi fosse diventato difficile comandarmi di guardarmi le mani. Da principio era stato relativamente facile, forse a causa della novità del concetto. Rammentarmi di guardarmi le mani non mi aveva dato nessun problema, ma l'eccitazione mi aveva esaurito e certe notti non avevo potuto farlo.

«Quando dormi devi portare una fascia intorno alla testa», mi disse. Quello della fascia è un ottimo espediente. Io non te la posso dare, perché te ne devi fare una da solo senza aiuto. Ma non te la puoi fare finche non ne hai avuto la visione "sognando" Capito? La fascia deve essere fatta in base a una specifica visione, e deve avere un nastro che la tenga ben stretta sulla cima della testa, oppure può essere come un berretto da notte. "Sognare" è più facile quando si ha in testa un oggetto di potere. Dovresti metterti il cappello o un cappuccio, come un frate, e andare a dormire; ma queste cose ti procurerebbero soltanto sogni intensi, non ti procurerebbero il "sognare"».

Rimase in silenzio per un momento, quindi prese a raccontarmi, con un fuoco di fila di parole, che la visione della fascia poteva presentarsi non solo 'sognando' ma anche in stati di veglia e come risultato di qualsiasi avvenimento improvviso e privo di riferimento, come osservare il volo degli uccelli, i movimenti dell'acqua, le nuvole e così via.

«Un cacciatore di potere osserva tutto», proseguì. «E tutto gli racconta qualche segreto».

«Ma come si può essere sicuri che le cose raccontino dei segreti?», chiesi.

Pensavo che forse aveva una formula specifica che gli permetteva di trarre interpretazioni 'giuste'.

«Il solo modo per essere sicuri è seguire tutte le istruzioni che ti ho dato, a partire dal primo giorno in cui sei venuto a trovarmi», disse. «Per avere il potere si deve vivere con il potere».

Mi sorrise con benevolenza. Sembrava che avesse perduto la sua asprezza; mi diede anche un colpetto sul braccio. «Mangia il tuo cibo di potere», mi esortò.

Incominciai a masticare un po' di carne secca e in quel momento immaginai improvvisamente che forse la carne secca conteneva una sostanza psicotropa, da cui derivavano le mie allucinazioni. Per un istante mi sentii sollevato. Se don Juan mi aveva messo qualcosa nella carne, allora i miei miraggi erano perfettamente comprensibili. Gli chiesi di dirmi se nella 'carne di potere' ci fosse qualcosa.

Don Juan scoppiò a ridere, ma non mi rispose direttamente. Insistei, assicurandolo che non ero arrabbiato e nemmeno infastidito, ma che lo dovevo sapere per spiegare con mia soddisfazione gli avvenimenti della notte precedente. Cercai di persuaderlo, lo blandii e alla fine lo supplicai di dirmi la verità.

«Sei proprio pazzo», mi disse finalmente scuotendo il capo con un'espressione di incredulità. «Hai una tendenza insidiosa. Insisti a cercar di spiegare tutto in modo di esserne soddisfatto. Nella carne non c'è nulla, tranne il potere. Il potere non c'è stato messo da me né da nessuno ma dal potere stesso. E' la carne secca di un cervo e quel cervo è stato un dono per me, al modo stesso in cui un certo coniglio lo è stato per te non molto tempo fa. Né tu né io abbiamo messo nulla nel coniglio. Non ti ho detto di far seccare la carne di quel coniglio perché per farlo ci voleva più potere di quanto tu ne abbia, però ti ho detto di mangiarla; non ne hai mangiata molta per colpa della tua stupidità.

«Quello che ti è successo la notte scorsa non è stato né uno scherzo né una burla. La nebbia, l'oscurità, il lampo, il tuono e la pioggia facevano tutti parte di una grande battaglia di potere. Hai avuto la classica fortuna del principiante. Un guerriero avrebbe dato chissà cosa per una simile battaglia».

Sostenni che tutto l'episodio non poteva essere stato una battaglia di potere perché non era reale.

«E cosa è reale?», mi chiese don Juan con molta calma.

«Questo, ciò che stiamo guardando, è reale», dissi, additando ciò che ci circondava.

«Ma lo era anche il ponte che hai visto la scorsa notte, e anche la foresta e tutto il resto».

«Ma se erano reali dove sono ora?».

«Sono qui. Se tu avessi abbastanza potere potresti farli tornare. Adesso non puoi farlo perché pensi che sia tanto utile continuare a dubitare e brontolare. Non serve a niente, amico mio, non serve a niente. Proprio qui di fronte a noi ci sono mondi su mondi, e non sono cosa da ridere, niente affatto. Se la notte scorsa non ti tenevo per il braccio ti mettevi a camminare su quel ponte, volente o no. E prima ho dovuto proteggerti dal vento che ti cercava».

«Che sarebbe successo se non mi aveste protetto?».

«Il vento, siccome tu non hai abbastanza potere, ti avrebbe fatto perdere la strada e forse ti avrebbe anche ucciso spingendoti in un precipizio. Ma quello che contava la notte scorsa era la nebbia. Avresti potuto attraversare il ponte fino all'altro capo oppure precipitare e ammazzarti. Dal potere potevano dipendere entrambe le cose. Una, però, sarebbe successa di sicuro: se non ti avessi protetto, avresti dovuto camminare su quel ponte incurante di tutto. E' questa la natura del potere. Come ti ho detto prima, ti comanda eppure è al tuo comando. Ieri notte, per esempio, il potere ti avrebbe costretto ad attraversare il ponte e poi sarebbe stato al tuo comando per sostenerti mentre camminavi. Ti ho fermato perché sapevo che non hai i mezzi per usare il potere, e senza potere il ponte sarebbe crollato».

«Anche voi avete visto il ponte, don Juan?».

«No io ho soltanto "visto" potere. Potrebbe essere stato qualsiasi cosa. Per te, questa volta, il potere era un ponte. Perché un ponte non lo so. Siamo creature molto misteriose».

«Avete mai visto un ponte nella nebbia, don Juan?».

«Mai. Ma non l'ho visto perché non sono come te; ho visto altre cose, le mie battaglie di potere sono molto diverse dalle tue».

«Cosa avete visto, don Juan? Potete dirmelo?».

«Ho visto i miei nemici durante la mia prima battaglia di potere nella nebbia. Tu non hai nemici, tu non odi la gente. Io la odiavo a quel tempo, mi abbandonavo all'odio per la gente; ora non lo faccio più. Ho vinto il mio odio, ma a quel tempo il mio odio mi aveva quasi distrutto.

«La tua battaglia di potere, invece, è stata limpida; non ti ha consumato. Ti stai consumando ora con i tuoi stupidi dubbi e pensieri. E' questo il tuo modo di abbandonarti a te stesso.

«La nebbia è stata impeccabile con te, tu hai un'affinità con lei. Ti ha dato un ponte stupendo e quel ponte sarà nella nebbia d'ora in poi, si rivelerà a te moltissime volte, finché un giorno lo dovrai attraversare.

«Da oggi in poi ti raccomando vivamente di non andare in giro da solo nelle zone nebbiose, finché non saprai quello che fai.

«Il potere è una faccenda molto strana; per averlo e comandarlo bisogna avere innanzitutto il potere. E' però possibile immagazzinarlo, a poco a poco, finché se ne ha a sufficienza per sostenersi in una battaglia di potere».

«Cos'è una battaglia di potere?».

«Quello che ti è successo la notte scorsa era l'inizio di una battaglia di potere. Le scene che hai contemplato erano la sede del potere. Un giorno avranno senso per te; quelle scene sono molto significative».

«Potete dirmi voi il loro significato, don Juan?».

«No. Quelle scene sono una tua conquista personale che non puoi condividere con nessuno. Ma quello che è successo la notte scorsa era solo l'inizio, una scaramuccia. La vera battaglia avverrà quando attraverserai quel ponte. Che c'è dall'altra parte? Solo tu lo saprai. E tu solo saprai cosa c'è alla fine di quel sentiero attraverso la foresta. Ma tutto questo è qualcosa che può accaderti o no. Per viaggiare per quei sentieri e ponti sconosciuti bisogna avere abbastanza potere proprio».

«Che succede se non si ha abbastanza potere?».

«La morte è sempre in agguato, e quando il potere del guerriero svanisce la morte non fa altro che prenderlo. Perciò, avventurarsi nell'ignoto senza avere nessun potere è stupido: si incontra solo la morte».

Non lo stavo ad ascoltare veramente. Continuavo a trastullarmi con l'idea che potesse essere stata la carne secca a causarmi le allucinazioni, e quel pensiero mi tranquillizzava.

«Non sforzarti la mente a cercare di immaginarlo», disse don Juan come se mi avesse letto nei pensieri. «Il mondo è un mistero. Questo, che stai guardando, non è tutto quello che c'è. Nel mondo c'è molto di più, tanto di più, in effetti, che è senza fine. Perciò, quando cerchi di immaginarlo, tutto quello che fai in realtà è cercare di renderti familiare il mondo. Tu e io siamo proprio qui, nel mondo che chiami reale, semplicemente perché tutti e due lo conosciamo. Tu non conosci il mondo del potere, quindi non te ne puoi fare una scena familiare».

«Sapete benissimo che non posso discutere con voi», dissi. «Ma comunque la mia mente non lo può accettare».

Don Juan rise e mi toccò lievemente sul capo.

«Sei veramente pazzo», disse. «Ma non c'è niente di strano, so quanto sia difficile vivere come un guerriero. Se avessi seguito le mie istruzioni e compiuto tutti gli atti che ti ho insegnato, avresti ormai abbastanza potere per attraversare quel ponte. Abbastanza potere per "vedere" e per "fermare il mondo"».

«Ma perché dovrei volere il potere, don Juan?».

«Ora non puoi immaginare una ragione. Quando avrai immagazzinato potere a sufficienza, però, il potere stesso ti mostrerà una buona ragione. Sembra folle, non è vero?».

«Perché neanche voi volevate il potere, don Juan?».

«Io sono come te; non lo volevo, non riuscivo a trovare una ragione per averlo. Avevo tutti i dubbi che hai tu e non seguivo mai le istruzioni che ricevevo, o non pensavo mai di averlo fatto; eppure, a dispetto della mia stupidità ho accumulato abbastanza potere, e un giorno il mio potere personale ha fatto crollare il mondo».

«Ma perché si dovrebbe desiderare di "fermare il mondo"?».

«Nessuno lo desidera, questo è il punto. Capita soltanto. E una volta che sai cosa sia "fermare il mondo", capirai che c'è una ragione. Vedi, una delle arti del guerriero consiste nel far crollare il mondo per una ragione specifica e quindi ricondurlo all'ordine, per continuare a vivere».

Gli dissi che forse il modo più sicuro per aiutarmi sarebbe stato darmi un esempio di una specifica ragione per far crollare il mondo.

Don Juan rimase in silenzio, sembrava pensasse cosa dire.

«Non posso», disse alla fine. «Ci vuole troppo potere per saperlo. Un giorno vivrai come un guerriero, a dispetto di te stesso; allora forse avrai immagazzinato abbastanza potere personale per rispondere da solo a questa domanda.

«Ti ho insegnato quasi tutto quello che un guerriero deve sapere per incominciare nel mondo, accumulando il potere da solo. Tuttavia so che non lo puoi fare e devo essere paziente con te. So per certo che ci vuole una battaglia di tutta una vita per trovarsi da soli nel mondo del potere».

Don Juan guardò il cielo e le montagne. Il sole stava già scendendo verso ovest e sulle montagne si formavano nuvole piene di pioggia. Non sapevo che ora fosse; avevo dimenticato di caricare l'orologio. Chiesi a don Juan se sapeva l'ora, causandogli un tale attacco di risate da farlo scivolare giù dal sasso nei cespugli.

Quindi si alzò in piedi e distese le braccia, sbadigliando.

«E' presto», disse. «Dobbiamo aspettare finché la nebbia si raccoglierà sulla cima della montagna e allora dovrai rimanere da solo su questa lastra di pietra e ringraziare la nebbia dei suoi favori. Lascia che venga e che ti avvolga. Io ti sarò vicino per assisterti, se necessario».

La prospettiva di rimanere solo nella nebbia mi terrorizzava. Mi sentivo idiota a reagire in quel modo irrazionale.

«Non puoi lasciare queste montagne desolate senza fare i tuoi ringraziamenti», disse don Juan in tono fermo. «Un guerriero non volta mai le spalle al potere senza aver ringraziato per i favori ricevuti». Si stese sulla schiena con le mani dietro alla testa e si coprì la faccia col cappello.

«Come devo aspettare l'arrivo della nebbia?», chiesi. «Che devo fare?».

«Scrivi!», mi rispose attraverso il cappello. «Ma non chiudere gli occhi e non voltare la schiena».

Cercai di scrivere ma non riuscivo a concentrarmi. Mi alzai in piedi e incominciai a muovermi con irrequietezza. Don Juan sollevò il cappello e mi guardò con aria seccata.

«Siediti!», mi ordinò.

Disse che la battaglia di potere non era ancora finita e che dovevo insegnare al mio spirito a essere impassibile. Nulla doveva tradire i miei sentimenti, a meno che non volessi rimanere intrappolato in quelle montagne.

Si mise a sedere e scosse il capo con un gesto di urgenza. Disse che dovevo agire come se nulla fosse fuori dell'ordinario, perché i luoghi di potere come quello potevano svuotare le persone turbate e quindi si potevano sviluppare legami strani e pericolosi con una località.

«Questi legami ancorano un uomo a un luogo di potere, qualche volta per tutta la vita», disse. «E questo non è il posto per te; non lo hai trovato da solo, perciò stringiti la cintura e non ti perdere i pantaloni».

I suoi ammonimenti agirono come un incantesimo. Scrissi per ore senza interruzione.

Don Juan si rimise a dormire; quando la nebbia fu lontana circa un centinaio di metri, scendendo dalla cima della montagna, si svegliò, si alzò in piedi ed esaminò i dintorni. Io guardai in giro senza muovere la schiena. La nebbia aveva già invaso la pianura scendendo dalle montagne alla mia destra. Alla mia sinistra la scena era limpida; il vento, tuttavia, sembrava soffiare dalla mia destra e sospingere la nebbia nella pianura come per circondarci.

Don Juan mormorò che dovevo rimanere impassibile, restare dove ero senza chiudere gli occhi, e non voltarmi finché la nebbia non mi avesse circondato completamente; solo allora era possibile incominciare la nostra discesa.

Si nascose ai piedi di alcune rocce a poco più di un metro dietro di me.

Il silenzio in quelle montagne era qualcosa di magnifico e nello stesso tempo incuteva timore. Il lieve vento che sospingeva la nebbia mi dava la sensazione che la nebbia stessa mi fischiasse nelle orecchie. Grossi banchi scendevano come masse solide di materia bianchiccia che rotolava su di me. Fiutai la nebbia, aveva un odore particolare, un miscuglio di profumo pungente e fragrante. E quindi ne fui avvolto.

Ebbi a un tratto l'impressione che la nebbia agisse sulle mie palpebre. Me le sentivo pesanti e volli chiudere gli occhi. Avevo freddo. La gola mi prudeva e volevo tossire, ma non osai. Spinsi il mento in su e stesi il collo per dar sollievo alla gola e mentre guardavo in alto ebbi la sensazione di poter veramente vedere lo spessore del banco di nebbia. Sembrava che i miei occhi potessero valutarne lo spessore passandoci attraverso. Gli occhi incominciarono a chiudermisi e non riuscivo a scacciare il desiderio di dormire. Sentivo che stavo per crollare al suolo. In quell'istante don Juan balzò su, mi afferrò le braccia e mi scosse. Il sussulto bastò a rendermi la mia lucidità.

Don Juan mi mormorò all'orecchio che dovevo correre verso la pianura più forte che potevo. Lui sarebbe venuto dietro di me perché non voleva farsi schiacciare dai sassi che avrei potuto far precipitare. Disse che il capo ero io, perché era la mia battaglia di potere, e che dovevo essere lucido e abbandonato per guidarci in salvo fuori di lì.

«Così è», disse con voce forte. «Se non hai lo stato d'animo del guerriero, non lascerai mai la nebbia».

Esitai per un momento. Non ero sicuro di poter trovare la via che scendeva da quelle montagne.

«Corri, coniglio, corri!», gridò don Juan sospingendomi dolcemente giù per il pendio.

 

 

 13.
L'ULTIMA DANZA DEL GUERRIERO.
 

Domenica 28 gennaio, 1962.

 

Verso le dieci di mattina don Juan entrò in casa. Era uscito all'alba. Lo salutai. Ridacchiò, mi strinse la mano con fare clownesco e ricambiò cerimoniosamente il mio saluto.

«Faremo un viaggetto», disse. «Ci porterai con la macchina in un posto specialissimo in cerca del potere».

Tirò fuori due sporte di rete e in ciascuna mise due zucche piene di cibo, le legò con una cordicella e mi porse una delle due.

Corremmo senza fretta verso nord per circa quattrocento miglia, quindi abbandonammo la "Pan American Highway" e prendemmo una strada sassosa che andava verso ovest. Sembrava che la mia macchina fosse la sola su per quella strada. Mentre continuavo a guidare mi accorsi di non riuscire a vedere attraverso il parabrezza. Mi sforzai disperatamente di guardarmi intorno, ma era troppo buio e il parabrezza era ricoperto di insetti spiaccicati e di polvere.

Dissi a don Juan che mi dovevo fermare per pulire il parabrezza, ma lui mi ordinò di continuare a guidare anche a costo di strisciare a due miglia all'ora sporgendo la testa dal finestrino per vedere davanti a me. Disse che non potevamo fermarci finché non fossimo giunti a destinazione.

A un certo momento mi fece voltare a destra. Era così buio e c'era tanta polvere che anche i fari non servivano a molto. Abbandonai la strada con molta trepidazione, avevo paura di rimanere impantanato; ma il terreno era compatto.

Guidai per un centinaio di metri alla minima velocità possibile, tenendo aperto lo sportello per guardare fuori. Alla fine don Juan mi disse di fermare. Disse che dovevo parcheggiarmi proprio dietro a una enorme roccia che avrebbe nascosto la macchina alla vista.

Scesi dalla macchina e feci un giro intorno alla luce dei fari. Volevo esaminare i dintorni perché non avevo idea di dove fossimo, ma don Juan spense i fari. Disse a voce alta che non c'era tempo da perdere, che dovevo chiudere la macchina così che potessimo avviarci.

Mi porse la mia rete con le zucche. C'era una tale oscurità che inciampai e quasi le lasciai cadere. In tono dolce don Juan mi ordinò di mettermi a sedere fino a che gli occhi non mi si abituavano all'oscurità. Ma il problema non erano gli occhi: una volta uscito dalla macchina potevo vedere abbastanza bene, quello che non andava era uno strano nervosismo che mi faceva agire come se fossi stato lontano con la mente. Toglievo importanza a tutto.

«Dove andiamo?», chiesi.

«Cammineremo nel buio completo per arrivare a un posto speciale», mi rispose.

«Perché?».

«Per scoprire con certezza se sei capace o no di continuare a cacciare il potere».

Gli chiesi se quello che proponeva era un esame, e se fallivo l'esame se avrebbe ancora parlato con me della sua conoscenza.

Mi ascoltò senza interrompermi. Disse che quello che facevamo non era un esame, che aspettavamo un presagio, e se il presagio non veniva la conclusione sarebbe stata che non ero riuscito a dare la caccia al potere, nel qual caso sarei stato libero da qualsiasi ulteriore imposizione, libero di essere stupido quanto volevo. Disse che qualunque cosa mi fosse successa, lui era sempre mio amico e avrebbe sempre parlato con me.

Sapevo in qualche modo che avrei fallito.

«Il presagio non arriverà», dissi in tono scherzoso. «Lo so. Ho un po' di potere».

Don Juan rise e mi diede un colpetto sulla spalla.

«Non preoccuparti», ribatté. «Il presagio arriverà. Lo so. Ho più potere di te».

Trovò divertente la sua stessa affermazione. Si batté sulle cosce, batté le mani e rise rumorosamente.

Poi mi legò la rete sulla schiena e mi disse di camminare a un passo di distanza da lui, seguendo il più possibile le sue orme.

«Questa è una camminata per il potere», mi sussurrò in tono molto drammatico. «Perciò tutto conta».

Disse che se camminavo sulle orme dei suoi passi il potere che lui dissipava mentre camminava si sarebbe trasmesso a me.

Guardai l'orologio: erano le undici di sera.

Don Juan mi fece mettere sull'attenti come un soldato. Poi mi spinse in avanti la gamba destra e mi fece rimanere come se avessi appena fatto un passo avanti. Si mise davanti a me nella stessa posizione e quindi incominciò a camminare, dopo avermi ripetuto di cercar di calcare le sue orme alla perfezione. In un bisbiglio, ma molto chiaramente, disse che dovevo curarmi esclusivamente di camminare sui suoi passi. Non dovevo guardare avanti né di lato, ma il terreno su cui camminavo.

Partì di un passo molto rilassato e non facevo nessuna fatica a tenergli dietro; camminavamo su un terreno relativamente duro. Per circa trenta metri mantenni il suo ritmo e mi attenni alla perfezione ai suoi passi; poi guardai di lato per un istante e subito dopo mi accorsi di aver urtato contro di lui.

Don Juan ridacchiò e mi assicurò che non gli avevo fatto male alla caviglia con le mie grosse scarpe, ma se intendevo continuare in quel modo stordito uno di noi due si sarebbe ritrovato zoppo la mattina dopo. Ridendo, a voce bassissima ma ferma, disse che non intendeva farsi ferire per colpa della mia stupidità e mancanza di concentrazione, e che se gli calpestavo ancora una volta il calcagno avrei dovuto camminare scalzo.

«Non posso camminare scalzo», dissi a voce alta e stridula.

Don Juan si piegò in due per le risate e dovemmo aspettare che finisse di ridere.

Mi assicurò ancora una volta che parlava sul serio. Eravamo alla ricerca del potere e le cose dovevano essere perfette.

La prospettiva di camminare nel deserto senza scarpe mi spaventava incredibilmente. Don Juan mi prese in giro dicendo che probabilmente la mia era una famiglia di quei contadini che non si levano le scarpe nemmeno per andare a letto. Naturalmente aveva ragione. Non avevo mai camminato scalzo e camminare nel deserto senza scarpe mi sembrava un suicidio.

«Il deserto trasuda potere», mi mormorò don Juan all'orecchio. «Non c'è tempo per essere paurosi».

Ripartimmo. Don Juan manteneva un ritmo agevole. Dopo un poco mi accorsi che avevamo abbandonato il terreno duro e camminavamo sulla sabbia soffice. I piedi di don Juan ci affondavano dentro lasciando tracce profonde.

Camminammo per ore prima che don Juan si fermasse. Non si arrestò improvvisamente ma mi avvertì in anticipo che ci saremmo fermati, per evitare che inciampassi in lui. Il terreno era ridiventato duro e sembrava che salissimo su per un declivio.

Don Juan mi disse che se avevo bisogno di andare dietro ai cespugli dovevo farlo, perché da quel momento in poi ci aspettava un'unica tirata senza pause. Guardai l'orologio: era l'una di notte.

Dopo dieci o quindici minuti di riposo don Juan mi fece rimettere in posizione e riprendemmo il cammino. Aveva ragione, era una tirata terribile, non avevo mai fatto nulla che richiedesse tanta concentrazione; il ritmo era così rapido e la tensione che mi veniva dal sorvegliare ogni passo crebbe a tal punto che a un certo momento persi la sensazione di camminare. Non mi potevo sentire i piedi né le gambe, era come se camminassi sull'aria e una forza mi sospingesse sempre avanti. La mia concentrazione era stata così totale da non farmi accorgere del graduale cambiamento di luce e all'improvviso mi resi conto di poter vedere don Juan davanti a me: potevo vedere i suoi piedi e le sue impronte invece di indovinarli a metà come avevo fatto per quasi tutta la notte.

A un certo momento don Juan balzò inaspettatamente di lato, e io continuai ad avanzare ancora per una ventina di metri trasportato dallo slancio. Quando mi arrestai le gambe mi si indebolirono e presero a tremare finché crollai a terra.

Guardai in alto: don Juan mi esaminava con calma, non sembrava stanco. Io respiravo affannosamente ed ero madido di sudore freddo.

Mi fece roteare su me stesso tirandomi per un braccio. Disse che se volevo recuperare le forze dovevo stendermi col capo rivolto a est. A poco a poco mi rilassai e riposai il mio corpo dolorante e alla fine ebbi sufficiente energia per alzarmi in piedi. Volli guardare l'orologio ma don Juan me lo impedì mettendomi una mano sul polso. Mi fece girare molto dolcemente in modo che fossi rivolto verso est e disse che non c'era nessun bisogno del mio dannato orologio, che eravamo in un momento magico e che avremmo scoperto definitivamente se ero capace o no di perseguire il potere.

Mi guardai intorno. Eravamo sulla cima di un'enorme collina. Volli dirigermi verso qualcosa che sembrava una sporgenza o una fenditura nella roccia, ma don Juan mi trattenne con un balzo.

Mi ordinò imperiosamente di rimanere dove ero caduto finché il sole non fosse uscito da dietro alcune vette oscure a poca distanza da noi.

Indicò verso est e attirò la mia attenzione su un pesante banco di nuvole sull'orizzonte. Disse che sarebbe stato un buon presagio se il vento avesse spazzato via le nuvole in tempo perché i primi raggi del sole colpissero il mio corpo sulla collina.

Mi disse di rimanere immobile con la gamba destra in avanti, come se camminassi, e non guardare direttamente l'orizzonte ma guardare senza mettere a fuoco.

Le gambe mi diventarono molto rigide e i polpacci mi dolevano. Era una posizione tormentosa e i muscoli mi facevano troppo male per sostenermi. Tenni duro finché mi fu possibile ma ero sul punto di crollare. Le gambe mi tremavano incontrollabilmente quando don Juan interruppe tutto aiutandomi a sedere.

I banchi di nuvole non si erano mossi e non avevamo visto il sole sorgere sull'orizzonte.

Il solo commento di don Juan fu: «Molto male».

Non volli chiedere subito quale fosse la vera implicazione del mio fallimento, ma, conoscendo don Juan, ero sicuro che avrebbe seguito il verdetto dei suoi presagi; e quella mattina presagi non ce n'erano stati. Il dolore mi svanì dai polpacci e sentii un'ondata di benessere. Mi misi a trotterellare per sciogliermi i muscoli. Don Juan mi disse molto dolcemente di correre su una collina adiacente, raccogliere le foglie di uno specifico cespuglio e strofinarmici le gambe per alleviare il dolore muscolare.

Dal punto in cui ero potevo vedere benissimo un grande cespuglio verde lussureggiante le cui foglie sembravano molto umide. Le avevo usate altre volte prima di allora; non mi era mai parso che mi avessero aiutato ma don Juan aveva sempre sostenuto che l'effetto delle piante veramente amichevoli era così sottile che difficilmente lo si poteva notare, tuttavia producevano sempre i risultati voluti.

Corsi giù dalla collina e salii sull'altra. Quando raggiunsi la cima mi accorsi che lo sforzo mi era stato quasi eccessivo. Faticavo a riprendere fiato e avevo lo stomaco sottosopra. Mi afflosciai e poi mi rannicchiai un momento finché mi sentii rilassato. Quindi mi alzai in piedi e mi accinsi a cogliere le foglie che mi aveva detto don Juan, ma non riuscii a trovare il cespuglio. Mi guardai intorno; ero sicuro di essere nel posto giusto, ma in quel punto della collina non c'era nulla che rassomigliasse anche vagamente a quella particolare pianta. Eppure il punto in cui l'avevo vista doveva essere quello. Qualsiasi altro posto sarebbe stato fuori portata per chiunque guardasse da dove ero stato prima con don Juan.

Abbandonai la ricerca e ritornai sull'altra collina. Don Juan sorrise con benevolenza mentre gli spiegavo il mio sbaglio.

«Perché lo chiami uno sbaglio?», chiese.

«Ovviamente il cespuglio non c'è», dissi.

«Ma lo hai visto, non è vero?».

«Pensavo di sì».

«Cosa vedi ora in quel punto?».

«Niente».

Non c'era vegetazione nel punto in cui avevo pensato di vedere la pianta. Tentai di spiegare quel che avevo visto come una distorsione visiva, una specie di miraggio. Prima mi ero sentito veramente spossato, e forse il mio esaurimento mi aveva fatto credere di vedere qualcosa che mi aspettavo che ci fosse ma che non c'era assolutamente.

Don Juan ridacchiò dolcemente e mi guardò per un breve istante.

«Non vedo nessuno sbaglio», disse. «La pianta è là sulla cima di quella collina».

Ora toccava a me ridere. Scrutai con cura tutta la zona. Non potevo vedere nessuna pianta del genere e quel che avevo provato era stato, per quanto potevo sapere, un'allucinazione.

Con molta calma don Juan incominciò a discendere la collina e mi fece segno di seguirlo. Ci arrampicammo insieme sulla cima dell'altra collina e ci fermammo esattamente dove avevo pensato di vedere il cespuglio.

Ridacchiai, con l'assoluta certezza di avere ragione. Anche don Juan ridacchiò.

«Vai fino all'altra parte della collina», mi disse. «Là troverai la pianta».

Eccepii che l'altra parte della collina era stata fuori del mio campo visivo, che avrebbe potuto benissimo esserci una pianta, ma questo non avrebbe significato nulla.

Don Juan mi fece segno di seguirlo con un movimento del capo. Girò intorno alla cima della collina invece di valicarla direttamente e si fermò in posa drammatica davanti a un cespuglio verde, senza guardarlo.

Si voltò e guardò verso di me. La sua occhiata era stranamente penetrante.

«Devono esserci centinaia di piante come questa qui intorno», dissi.

Con molta pazienza don Juan discese l'altro fianco della collina; lo seguii. Cercammo dovunque un cespuglio simile, ma non ne vedemmo nessuno. Camminammo per circa un quarto di miglio prima di incontrare un'altra pianta.

Senza dire una parola don Juan mi ricondusse alla cima della prima collina. Rimanemmo là fermi per un momento e quindi mi guidò in un'altra escursione alla ricerca della pianta, ma in direzione opposta. Setacciammo la zona e trovammo altri due cespugli, lontano circa un miglio. Erano cresciuti insieme e spiccavano come una macchia di verde ricco e intenso, più lussureggianti di tutti gli altri cespugli dei dintorni.

Don Juan mi guardò con un'espressione seria. Non sapevo cosa pensare.

«E' un presagio molto strano», disse.

Ritornammo sulla cima della prima collina compiendo un ampio giro per raggiungerla da una nuova direzione. Sembrava che don Juan avesse fatto quella digressione per mostrarmi che lì intorno crescevano pochissime piante di quel tipo. Non ne incontrammo nessuna sulla nostra strada. Quando fummo sulla cima della collina ci mettemmo a sedere in completo silenzio. Don Juan sciolse le sue zucche.

«Dopo mangiato ti sentirai meglio», disse.

Non riusciva a nascondere il suo divertimento. Aveva sul viso un ghigno raggiante e intanto mi dava dei corpetti sul capo. Mi sentivo disorientato. I nuovi sviluppi mi turbavano, ma ero troppo affamato e stanco per meditarli veramente.

Dopo mangiato mi sentivo molto assonnato. Don Juan mi esortò a cercare un posto per dormire sulla cima della collina dove avevo visto il cespuglio, usando la tecnica del guardare senza mettere a fuoco.

Scelsi un posto; don Juan ripulì il terreno e tracciò un cerchio delle dimensioni del mio corpo. Strappò delicatamente alcuni rami freschi dai cespugli e spazzò l'interno del cerchio. Fece solo il movimento di spazzare, non toccò realmente il terreno coi rami. Poi tolse tutti i sassi dall'interno del cerchio e li mise nel centro, meticolosamente, dividendoli secondo la grandezza in due mucchi di uguale numero.

«Cosa fate con quei sassi?», chiesi.

«Non sono sassi», disse. «Sono lacci. Terranno sospeso il tuo posto».

Prese i sassi più piccoli e con essi segnò la circonferenza del cerchio. Li spaziò uniformemente e con l'aiuto di un bastone assicurò ogni sasso al terreno, come un muratore.

Non mi permise di entrare nel cerchio ma mi disse di camminare intorno e osservare quello che faceva. Contò diciotto sassi, seguendo una direzione antioraria.

«Ora corri ai piedi della collina e aspetta», disse. «Io verrò a vedere se stai sul posto giusto».

«Che farete?».

«Ti lancerò tutti questi lacci», disse, indicando il mucchio di sassi più grossi. «E dovrai porli nel terreno nel punto che ti indicherò, nello stesso modo in cui ho posto gli altri.

«Devi fare infinitamente attenzione, quando si tratta col potere bisogna essere perfetti. Qui gli errori sono mortali, ognuno di questi sassi è un laccio, un laccio che potrebbe ucciderci se lo lasciassimo pendere libero; perciò non puoi commettere errori. Devi fissare lo sguardo sul punto in cui getterò il laccio. Se ti lasci distrarre da una cosa qualsiasi, il laccio diventerà un comune sasso e non riuscirai a distinguerlo dalle altre rocce intorno».

Suggerii che sarebbe stato più facile se avessi trasportato giù i 'lacci' uno alla volta.

Don Juan rise e scosse il capo negativamente.

«Questi sono lacci», insiste. «E devono essere lanciati da me e raccolti da te».

Ci vollero due ore per portare a compimento quello che aveva detto. Il grado di concentrazione necessario era tormentoso. Don Juan mi ricordò ogni volta di fare attenzione e concentrare lo sguardo. Aveva ragione, riconoscere un sasso specifico che scendeva rotolando giù per la china, spostando altri sassi sul suo cammino, era davvero una cosa da far impazzire.

Quando, completato il cerchio, risalii sulla cima della collina, pensavo di dover cadere morto. Don Juan aveva colto dei ramoscelli e li aveva usati per ricoprire il cerchio. Mi porse un mazzetto di foglie dicendomi di mettermele nei pantaloni, contro la pelle della regione ombelicale. Disse che mi avrebbero tenuto caldo e che non avrei avuto bisogno di coperta per dormire. Ruzzolai nel cerchio. I rami formavano un letto abbastanza soffice e mi addormentai istantaneamente.

Quando mi svegliai era pomeriggio inoltrato. C'era vento e si erano radunate le nuvole, che sulle nostre teste formavano cumuli compatti, ma verso ovest erano lievi cirri; il sole splendeva a tratti sulla terra.

Dormire mi aveva rimesso a nuovo: mi sentivo rinvigorito e felice. Il vento non mi dava fastidio, non faceva freddo. Mi puntellai la testa con le braccia e mi guardai intorno. Non l'avevo notato prima ma la cima della collina era molto alta. La vista verso ovest era impressionante, potevo vedere una vasta estensione di basse colline e quindi il deserto. Verso nord e est c'era una catena di montagne dai picchi marrone scuro, e verso sud si vedeva un'interminabile distesa di pianura e colline e montagne azzurre in lontananza.

Mi tirai su a sedere. Non riuscii a vedere don Juan da nessuna parte. Ebbi un improvviso attacco di paura, pensai che potesse avermi lasciato lì solo, e non sapevo la strada per tornare all'automobile. Mi ridistesi sullo strato di rami e, abbastanza stranamente, la mia apprensione svanì. Provai di nuovo un senso di quiete, uno squisito senso di benessere. Era una sensazione estremamente nuova; sembrava che i miei pensieri fossero stati cancellati. Ero felice. Mi sentivo sano. Mi sentii riempire da una tranquilla effervescenza. Un dolce vento soffiava da ovest e mi accarezzava tutto il corpo senza farmi provare freddo. Me lo sentivo sulla faccia e intorno alle orecchie, come una dolce onda d'acqua calda che mi bagnava, poi recedeva e mi bagnava ancora. Ero in uno strano stato di essere, mai provato prima nella mia vita affaccendata e disorganizzata. Incominciai a piangere, non di tristezza o autocommiserazione ma di una gioia ineffabile, inesplicabile.

Volevo rimanere là per sempre e lo avrei fatto se don Juan non fosse venuto a scrollarmi.

«Hai riposato abbastanza», disse tirandomi su.

Con molta calma mi fece camminare intorno al perimetro della collina. Camminavamo lentamente e in completo silenzio; don Juan sembrava interessato a farmi osservare il paesaggio tutto intorno a noi. Mi indicava le nuvole e le montagne con un cenno degli occhi o del mento.

A quell'ora del tardo pomeriggio il paesaggio era stupendo. Evocava in me sentimenti di sgomento e disperazione. Mi ricordava visioni della mia infanzia.

Salimmo fino al punto più elevato della collina, un picco di roccia vulcanica, e ci sedemmo comodamente con la schiena appoggiata alla roccia, guardando a sud. L'interminabile distesa verso sud era veramente maestosa.

«Fissati tutto questo nella memoria», mi sussurrò all'orecchio don Juan. «Questo posto è tuo. Questa mattina hai "visto", e quello era il presagio. Hai trovato questo posto "vedendo". Il presagio era inaspettato ma c'è stato. Andrai in caccia del potere, che tu lo voglia o no. Non è una decisione umana, né tua né mia.

«Ora, per meglio dire, questa collina è il tuo luogo, il tuo luogo caro; tutto ciò che è qui intorno è sotto la tua cura. Devi badare a tutto qui, e tutto a sua volta baderà a te».

Gli chiesi in tono scherzoso se era tutto mio. Mi rispose di sì in tono molto serio. Scoppiai a ridere e dissi che quello che facevamo mi ricordava la storia di come gli spagnoli che conquistarono il nuovo mondo avevano diviso la terra in nome del loro re. Salivano sulla cima di una montagna e si attribuivano tutta la terra che potevano vedere in ogni specifica direzione.

«E' una buona idea», disse don Juan. «Ti darò tutta la terra che puoi vedere, non in una sola direzione ma tutto intorno a te».

Si alzò in piedi e indicò con la mano protesa, girando su se stesso per compiere un cerchio completo.

«Tutta questa terra è tua», disse.

Scoppiai a ridere forte.

Anche don Juan ridacchiò e mi chiese: «Perché no? Perché non ti posso dare questa terra?».

«Perché non è vostra», risposi.

«E con ciò? Non era neanche degli spagnoli, eppure la dividevano e la distribuivano. Perché non ne potresti prendere possesso allo stesso modo?»

Lo scrutai cercando di scoprire il suo vero umore dietro al suo sorriso. Proruppe in uno scoppio di ilarità e quasi cadde dalla roccia.

«Tutta questa terra, fin dove puoi vedere, è tua», riprese, sempre ridendo. «Non da usare ma da ricordare. Questa collina, invece, è tua da usare per il resto della tua vita. Te la do perché tu stesso l'hai trovata. E' tua. Accettala».

Scoppiai a ridere, ma don Juan pareva molto serio. Se non fosse stato per il suo sorriso, sembrava che credesse veramente di potermi dare quella collina.

«Perché no?», chiese, come se mi leggesse nei pensieri.

«L'accetto», dissi tra il serio e il faceto.

Il suo sorriso scomparve. Socchiuse gli occhi mentre mi guardava.

«Ogni roccia e sasso e cespuglio di questa collina, specialmente sulla cima, è sotto la tua cura», disse. «Ogni verme che vive qui è tuo amico. Puoi usare tutto e tutto può usare te».

Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. I miei pensieri erano insolitamente confusi. Sentivo vagamente che il suo improvviso mutamento di umore presagiva qualcosa per me, ma non ero spaventato né apprensivo, semplicemente non volevo più parlare. Mi sembrava, in certo qual modo, che le parole fossero imprecise e i significati difficili da fissare. Non avevo mai provato una sensazione simile per quel che riguardava parlare, e quando mi resi conto del mio insolito stato d'animo mi affrettai a dire qualcosa.

«Ma che ne posso fare di questa collina, don Juan?».

«Fissatene nella memoria ogni aspetto. Questo è il luogo in cui verrai "sognando". Questo è il luogo in cui incontrerai i poteri, in cui un giorno ti si riveleranno i segreti.

«Tu dai la caccia al potere e questo è il tuo luogo, il luogo in cui metterai in serbo le tue risorse.

«Ora non ha significato per te. Perciò lascia che per il momento sia una cosa senza senso».

Scendemmo dalla roccia e don Juan mi guidò a una piccola depressione a forma di conca sul lato ovest della collina. Là ci sedemmo a mangiare.

Indubbiamente su quella collina c'era per me qualcosa di indescrivibilmente piacevole. Mangiare, come riposare, era una squisita sensazione sconosciuta.

La luce del sole al tramonto aveva uno splendore ricco, quasi color di rame, e tutta la zona circostante sembrava spalmata di una tinta dorata. Mi immersi completamente nell'osservazione del paesaggio; non volevo nemmeno pensare.

Don Juan mi parlò quasi in un bisbiglio. Mi disse di osservare ogni dettaglio per quanto piccolo o apparentemente insignificante, e di osservare specialmente gli aspetti più evidenti del paesaggio in direzione ovest. Disse che non dovevo mettere a fuoco la vista sul sole, ma guardarlo finché non fosse scomparso all'orizzonte.

Gli ultimi minuti di luce, immediatamente prima che il sole raggiungesse una cortina di nuvole basse o di nebbia, furono, in senso assoluto, magnifici. Era come se il sole incendiasse la terra, accendendola come un falò. Sentivo sulla faccia una sensazione di rosso.

«Alzati!», urlò don Juan tirandomi su.

Si scostò da me con un balzo e con voce imperiosa mi ordinò di trotterellare sul posto su cui ero.

Mentre saltellavo incominciai a sentire un calore che mi invadeva tutto il corpo. Era un calore come di rame. Lo sentivo nel palato e nella parte superiore degli occhi. Era come se la sommità della testa mi bruciasse di un fuoco freddo che irradiava un bagliore color rame.

Qualcosa in me mi fece saltellare sempre più in fretta finché il sole incominciò a scomparire. A un certo momento mi sentii veramente così leggero da poter volare via. Don Juan mi afferrò saldamente il polso sinistro. La pressione della sua mano mi ridiede un senso di sobrietà e sangue freddo. Caddi pesantemente al suolo e don Juan si sedette accanto a me.

Dopo qualche minuto di riposo si alzò tranquillamente, mi diede un colpetto sulla spalla e mi fece segno di seguirlo. Risalimmo sulla cima della roccia vulcanica dove eravamo stati a sedere prima. La roccia ci proteggeva dal vento freddo. Don Juan ruppe il silenzio.

«E' stato un buon presagio», disse. «Che strano! E' successo alla fine della giornata. Tu e io siamo così differenti. Tu sei più una creatura della notte. Io preferisco la giovane luminosità del mattino. O piuttosto è la luminosità del sole mattutino che mi cerca, ma si scansa da te. D'altra parte, il sole morente ti ha inondato. Le sue fiamme ti hanno scottato senza bruciarti. Che strano!».

«Perché strano?».

«Non l'ho mai visto succedere. Il presagio, quando c'è è sempre nel campo del sole giovane».

«Perché è così don Juan?».

«Non è questo il momento di parlarne», mi rispose seccamente. «La conoscenza è potere. Ci vuole molto tempo per domare abbastanza potere così da poterne anche solo parlare».

Cercai di insistere, ma don Juan cambiò bruscamente discorso. Mi chiese dei miei progressi nel 'sognare'.

Avevo incominciato a sognare luoghi specifici, come la scuola e le case di alcuni amici.

«Eri in quei luoghi durante il giorno o durante la notte?», mi chiese.

I miei sogni corrispondevano al momento del giorno in cui ordinariamente ero in quei luoghi: a scuola durante il giorno, a casa dei miei amici la sera.

Mi suggerì di provare a 'sognare' quando facevo un sonnellino durante il giorno e scoprire se riuscivo davvero a visualizzare il luogo scelto come era all'ora in cui 'sognavo'. Se 'sognavo' di notte, le mie visioni della località avrebbero dovuto essere notturne. Disse che quello che si esperimenta 'sognando' doveva essere appropriato al momento del giorno in cui si 'sognava'; altrimenti le visioni che si potevano avere non erano 'sognare' ma sogni ordinari.

«Per aiutarti dovresti scegliere un oggetto specifico che appartenga al luogo in cui vuoi andare e concentrare su quell'oggetto la tua attenzione», riprese. «Su questa collina qui, per esempio, hai ora uno specifico cespuglio che devi osservare finché non ha un posto nella tua memoria. Per tornare qui "sognando" devi semplicemente richiamare alla memoria quel cespuglio, o questa roccia su cui siamo a sedere, o qualsiasi altra cosa qui. Viaggiare "sognando" è più facile quando ci si può concentrare su un luogo di potere, come questo. Ma se non vuoi venire qui puoi usare qualsiasi altro luogo. Forse la tua scuola è per te un luogo di potere. Usala. Metti a fuoco la tua attenzione su qualsiasi oggetto che è là e quindi trovalo "sognando".

«Dallo specifico oggetto che rievochi, devi ritornare alle mani e quindi a un altro oggetto e così via.

«Ma ora devi mettere a fuoco la tua attenzione su tutto ciò che esiste sulla cima di questa collina, perché questo è il luogo più importante della tua vita».

Mi guardò come per giudicare l'effetto delle sue parole.

«Questo è il luogo dove morirai», disse con voce dolce.

Mi agitai nervosamente, cambiando ripetutamente posizione; don Juan sorrise.

«Dovrò ritornare molte volte con te su questa collina», disse. «E poi dovrai venirci da solo finché non te ne sarai saturato, finché la cima della collina trasuderà di te. Conoscerai il momento in cui ne sarai pieno. Questa collina, così come è ora, sarà allora il posto della tua ultima danza».

«Cosa intendete per mia ultima danza, don Juan?».

«Questo è il luogo della tua ultima sosta», disse. «Morirai qui, non importa dove tu sia. Ogni guerriero ha un luogo per morire, un luogo da lui prediletto, permeato di ricordi indimenticabili, in cui gli avvenimenti di potere hanno lasciato il loro segno; un luogo in cui ha assistito a eventi meravigliosi, in cui gli sono stati rivelati dei segreti, un luogo in cui ha accumulato il suo potere personale.

«Il guerriero ha l'obbligo di tornare a quel suo luogo prediletto ogni volta che attinge il potere per mettercelo in serbo. Può andarci camminando o "sognando".

«E alla fine, un giorno, quando è terminato il suo tempo sulla terra e il guerriero sente sulla spalla sinistra il tocco della morte, il suo spirito, che è già pronto, vola al suo luogo prediletto e là il guerriero danza fino alla sua morte.

«Ogni guerriero ha una specifica "forma", una specifica posizione di potere, che sviluppa durante tutta la vita. Un movimento che esegue sotto l'influenza del suo potere personale.

«Se un guerriero morente ha potere limitato, la sua danza è breve; se il suo potere è grandioso, la danza è magnifica. Ma sia che il suo potere sia piccolo o magnifico, la morte deve fermarsi per assistere alla sua ultima sosta sulla terra. La morte non può cogliere il guerriero che rievoca per l'ultima volta le sue fatiche sulla terra; non lo può cogliere finché il guerriero non ha finito la sua danza».

Le parole di don Juan mi fecero rabbrividire. La quiete, il crepuscolo, il paesaggio magnifico, sembrava che tutto fosse stato messo lì per dar risalto all'ultima danza di potere del guerriero.

«Potete insegnarmi quella danza anche se non sono un guerriero?», chiesi.

«Ogni uomo che va in caccia del potere deve imparare quella danza», rispose. «Tuttavia non te la posso insegnare ora. Ben presto potresti avere un degno avversario e allora ti mostrerò il primo movimento di potere. Tu stesso dovrai aggiungere gli altri movimenti a mano a mano che vai avanti nella vita. Ogni nuovo movimento deve essere ottenuto durante una battaglia di potere. Perciò, in parole povere, la "forma" del guerriero è la storia della sua vita, una danza che cresce col crescere del suo potere personale».

«Davvero la morte si ferma per veder danzare il guerriero?».

«Un guerriero è solo un uomo. Un uomo umile. Non può cambiare i disegni della sua morte. Ma il suo spirito impeccabile, che ha immagazzinato potere con enormi fatiche, può certamente trattenere per un momento la propria morte, un momento abbastanza lungo da permettergli di godere per l'ultima volta di rievocare il proprio potere. Possiamo dire che è un gesto che la morte compie verso chi ha uno spirito impeccabile».

Provavo un'angoscia schiacciante e mi misi a parlare solo per alleviarla. Gli chiesi se aveva conosciuto guerrieri che fossero morti, e in che modo la loro ultima danza aveva influenzato la loro morte.

«Piantala», mi disse seccamente. «Morire è una cosa monumentale. Non è solo stendere le gambe e diventare rigidi».

«Anch'io danzerò alla mia morte, don Juan?».

«Certamente. Tu vai in caccia del potere personale, anche se non vivi ancora come un guerriero. Oggi il sole ti ha dato un presagio. I risultati migliori della tua vita li otterrai verso la fine della giornata. Ovviamente non ti piace lo splendore giovanile della luce mattutina. Viaggiare di giorno non ti attira. Ma quel che fa per te è il sole morente, giallo e molle. Non ti piace il calore, ti piace lo splendore.

«E così tu danzerai qui per la tua morte, sulla cima di questa collina, alla fine del giorno. E nella tua ultima danza racconterai la tua lotta, le battaglie che hai vinto e quelle che hai perso; racconterai delle tue gioie e della tua confusione nell'incontrare il potere personale. La tua danza racconterà i segreti e le meraviglie che hai immagazzinato. E la tua morte sederà qui e ti osserverà.

«Il sole morente splenderà su di te senza scottare, come ha fatto oggi. Il vento sarà dolce e molle e la cima della collina tremerà. Quando arriverai alla fine della tua danza guarderai il sole, perché non lo guarderai mai più né da sveglio né "sognando", e allora la tua morte indicherà verso sud. Verso l'immensità».

 

 

 14.
L'ANDATURA DEL POTERE.
 

Sabato 8 aprile, 1962.

 

«La morte è un personaggio?», chiesi a don Juan mentre mi sedevo sotto il portico.

Ci fu un'aria di sconcerto nella sua espressione. Aveva in mano un pacco di provviste che gli avevo portato; lo posò al suolo con cautela e si mise a sedere di fronte a me. Mi sentii incoraggiato e gli spiegai che volevo sapere se la morte era una persona, o come una persona, quando osservava l'ultima danza del guerriero.

«Che differenza fa?», chiese.

Gli dissi che l'immagine mi affascinava e che volevo sapere come c'era arrivato, come lo aveva saputo.

«E' tutto molto semplice», rispose. «Un uomo di conoscenza sa che la morte è l'ultimo testimone, perché "vede"».

«Intendete dire che voi in persona avete assistito all'ultima danza di un guerriero?».

«No. Questo non è possibile; solo alla morte è possibile. Ma ho "visto" la mia propria morte che mi osservava e ho danzato per lei come se fossi stato per morire. Alla fine della mia danza la morte non ha indicato nessuna direzione, e il mio luogo prediletto non ha tremato dicendomi addio. Quindi la mia ultima ora sulla terra non era ancora giunta e non sono morto. Quando accadde tutto ciò, avevo potere limitato e non comprendevo i disegni della mia morte, perciò credetti di morire».

«La vostra morte era come una persona?».

«Sei davvero buffo, pensi di poter comprendere tutto facendo domande. Io non credo che ci riuscirai, ma chi sono io per giudicare?

«La morte non è come una persona, è piuttosto una presenza. Ma si può anche scegliere di dire che non è nulla e ciò nonostante è tutto, si avrà ragione in ogni caso: la morte è tutto quello che si desidera che sia.

«Io mi trovo a mio agio con la gente, perciò la morte è per me una persona. Sono anche portato per i misteri, perciò la morte ha occhi profondi per me; ci posso guardare attraverso: sono come due finestre e tuttavia si muovono, come si muovono gli occhi. E quindi posso dire che la morte con i suoi occhi profondi guarda il guerriero che danza per la sua ultima volta sulla terra».

«Ma è così soltanto per voi, don Juan, o è la stessa cosa per gli altri guerrieri?».

«E' la medesima cosa per ogni guerriero che ha una danza di potere, e tuttavia non lo è. La morte assiste alla sua ultima danza, ma il modo in cui il guerriero vede la sua morte è una questione personale. Potrebbe essere qualsiasi cosa: un uccello, una luce, una persona, un cespuglio, un sassolino, un banco di nebbia o una presenza sconosciuta».

Le immagini che don Juan dava della morte mi turbavano. Non riuscii a esprimere adeguatamente le mie domande e incominciai a balbettare. Don Juan mi fissò sorridendo e mi esortò a parlare.

Gli chiesi se il modo in cui il guerriero vedeva la propria morte dipendeva dal modo in cui era stato allevato. Usai come esempi gli indiani yuma e yaqui. La mia idea era che la cultura determinasse il modo in cui si concepiva la morte.

«Il modo in cui si è stati allevati non conta», disse don Juan. «Ciò che determina il modo in cui si fa qualsiasi cosa è il potere personale. L'uomo è soltanto la somma del proprio potere personale, e tale somma determina come vivrà e come morirà».

«Cos'è il potere personale?».

«Il potere personale è una sensazione», disse. «Qualcosa come l'essere fortunati. Oppure lo si può definire uno stato d'animo. Il potere personale è qualcosa che si acquista a prescindere dalla propria origine. Ti ho già detto che il guerriero è un cacciatore di potere, e ti sto insegnando come cacciarlo e immagazzinarlo. La difficoltà in te, che è la stessa di tutti noi, è lasciarti convincere. Tu hai bisogno di credere che il potere personale può essere usato e che è possibile metterlo in serbo, ma finora non sei stato convinto».

Gli dissi che aveva ottenuto lo scopo e che ero quanto mai convinto. Scoppiò a ridere.

«Non è questo il tipo di convinzione di cui parlo», disse.

Mi colpì sulla spalla con due o tre pugnetti leggeri e aggiunse con un risolino: «Non c'è bisogno che mi assecondi, lo sai bene».

Mi sentii obbligato ad assicurarlo che dicevo sul serio.

«Non ne dubito», disse. «Ma essere convinto significa che puoi agire tu stesso. Ti ci vorrà ancora molto sforzo per farlo. C'è ancora molto da fare, hai appena incominciato».

Rimase in silenzio per un momento. La sua faccia assunse un'espressione placida.

«E' buffo il modo in cui certe volte mi ricordi me stesso», riprese. «Anch'io non volevo prendere il sentiero del guerriero. Credevo che fosse tutta una fatica inutile, e poiché tutti dobbiamo morire, che differenza avrebbe fatto essere un guerriero? Avevo torto, ma lo dovevo scoprire da solo. Ogni volta che capisci di aver torto, e certe volte fa un mondo di differenza, puoi dire di essere convinto. E quindi puoi procedere da solo, e da solo puoi anche diventare un uomo di conoscenza».

Gli chiesi di spiegarmi che cosa intendeva per uomo di conoscenza.

«Un uomo di conoscenza è uno che ha seguito fedelmente le fatiche dell'apprendimento», disse. «Un uomo che, senza precipitarsi e senza esitare, è andato fin dove ha potuto nello svelamento dei segreti del potere personale».

Discusse il concetto in termini brevi e quindi lo scartò come uni qualsiasi argomento di conversazione, dicendo che dovevo preoccuparmi soltanto dell'idea di mettere in serbo il potere personale.

«E' incomprensibile», protestai. «Proprio non mi posso immaginare dove volete arrivare».

«Dar la caccia al potere è un avvenimento particolare», disse. «Deve essere prima un'idea, poi deve essere costruita, un passo dopo l'altro, e poi, bum! Succede».

«Come succede?».

Don Juan si alzò in piedi. Incominciò a protendere le braccia e a inarcare il dorso come un gatto. Le sue ossa, come al solito, emisero una serie di scricchiolii.

«Andiamo», disse. «Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi».

«Ma ci sono tante cose che vi voglio chiedere», dissi.

«Adesso andremo in un luogo di potere», mi rispose entrando in casa. «Perché non ti risparmi le tue domande per quando saremo là? Potremo avere l'opportunità di parlare».

Pensavo che saremmo andati con la macchina, perciò mi alzai e mi avviai verso l'auto, ma don Juan mi chiamò dalla casa dicendomi di prendere la mia rete con le zucche. Mi stava aspettando al limite del sottobosco desertico dietro alla casa.

«Dobbiamo affrettarci», disse.

Verso le tre del pomeriggio raggiungemmo i pendii inferiori delle montagne occidentali della Sierra Madre. La giornata era stata calda ma verso il pomeriggio inoltrato il vento diventò freddo. Don Juan si mise a sedere su una roccia e mi fece segno di imitarlo.

«Cosa faremo qui questa volta, don Juan?».

«Sai benissimo che siamo qui per dar la caccia al potere».

«Lo so, ma cosa faremo in particolare?».

«Sai che non ne ho la minima idea».

«Intendete dire che non seguite mai un piano?».

«Dar la caccia al potere è una cosa molto strana», mi rispose. «Non c'è modo di progettarlo in anticipo, è questo che lo rende eccitante. Il guerriero, però, procede come se avesse un piano, perché si fida del suo potere personale. Sa per certo che il suo potere personale lo farà agire nel modo più appropriato».

Gli feci osservare che le sue affermazioni erano in certo modo contraddittorie. Se il guerriero aveva già il potere personale, perché gli dava la caccia?

Don Juan inarcò le sopracciglia, assumendo un'espressione di simulato disgusto.

«Quello che dà la caccia al potere personale sei tu», disse. «E io sono il guerriero che lo ha già. Mi hai chiesto se avevo un piano e ti ho detto che confido nella guida del mio potere personale e non ho bisogno di avere un piano».

Restammo in silenzio per un momento e poi riprendemmo a camminare. I pendii erano molto ripidi e salirli era per me molto difficile ed estremamente stancante. D'altra parte, sembrava che le energie di don Juan fossero inesauribili. Non correva né si affrettava, il suo incedere era costante e instancabile; mi accorsi che non sudava nemmeno, neanche dopo aver scalato un pendio enorme e quasi verticale. Quando arrivai sulla cima don Juan era già là che mi aspettava. Mentre mi sedevo accanto a lui sentii che il cuore stava per esplodermi nel petto. Mi distesi sulla schiena e il sudore prese a scorrermi letteralmente dalla fronte.

Don Juan scoppiò a ridere forte e mi rotolò avanti e indietro per un po'. Il movimento mi aiutò a riprender fiato.

Gli dissi che ero semplicemente sbigottito dalla sua prestanza fisica.

«Ho sempre cercato di mostrarla alla tua attenzione», mi rispose.

«Non siete per niente vecchio, don Juan!».

«No, naturalmente. Ho cercato di fartene accorgere».

«Come fate?».

«Non faccio niente. Il mio corpo si sente bene, è tutto qui. Io mi tratto molto bene, dunque, non ho ragione di sentirmi stanco o a disagio. Il segreto non è in quel che fai a te stesso ma piuttosto in quel che non fai».

Aspettai una spiegazione. Don Juan sembrava essersi accorto che non riuscivo a capire. Sorrise con aria saputa e si alzò in piedi.

«Questo è un luogo di potere», disse. «Trova un posto dove ci possiamo accampare su questa collina».

Incominciai a protestare. Volevo che mi spiegasse cosa non dovevo fare al mio corpo, ma mi interruppe con un gesto imperioso.

«Piantala», disse a bassa voce. «Questa volta agirai diversamente. Non importa quanto ci metti a trovare un posto adatto per riposare; puoi impiegare tutta la notte. Non è nemmeno importante che trovi il posto, l'importante è che cerchi di trovarlo».

Misi via il taccuino e mi alzai in piedi. Don Juan mi rammentò, come aveva fatto innumerevoli volte, ogni volta che mi aveva chiesto di trovare un posto per riposare, che dovevo guardare senza mettere a fuoco la vista su nessun punto in particolare, socchiudendo gli occhi fino ad avere la vista offuscata.

Incominciai a camminare, scrutando il terreno con gli occhi socchiusi. Don Juan camminava alla mia sinistra a un paio di passi di distanza.

Percorsi per prima cosa il perimetro della sommità della collina. La mia intenzione era di procedere a spirale fino al centro, ma una volta compiuto il periplo della collina don Juan mi fermò.

Disse che mi stavo lasciando sopraffare dalla mia preferenza per le cose meccaniche. In tono sarcastico aggiunse che stavo certamente percorrendo la zona sistematicamente, ma in modo così stagnante che non sarei stato capace di percepire il posto adatto. Disse poi che lui sapeva dov'era, perciò da parte mia non c'era possibilità di improvvisazione.

«Che dovrei fare invece?», chiesi.

Don Juan mi fece mettere a sedere. Colse quindi una foglia per ciascuno da un certo numero di cespugli e me le diede. Mi ordinò di stendermi sulla schiena, di slacciarmi la cintura e mettermi le foglie sulla pelle della regione ombelicale. Controllò i miei movimenti e mi fece premere le foglie contro il corpo con entrambe le mani. Poi mi ordinò di chiudere gli occhi e mi avvertì che se volevo risultati perfetti non dovevo lasciarmi sfuggire le foglie, né aprire gli occhi, né cercare di tirarmi su a sedere quando lui mi avrebbe spostato il corpo in una posizione di potere.

Mi afferrò per l'ascella sinistra e mi fece ruotare. Sentivo il desiderio irresistibile di sbirciare attraverso le palpebre socchiuse, ma don Juan mi mise la mano sugli occhi. Mi ordinò di occuparmi soltanto della sensazione di calore che sarebbe uscita dalle foglie.

Rimasi disteso immobile per un momento e poi incominciai a sentire uno strano calore emanare dalle foglie. Lo sentii prima con le palme delle mani, poi il calore mi si estese all'addome e alla fine mi invase letteralmente tutto il corpo. In pochi minuti tutto il mio corpo bruciava di un calore che mi faceva pensare a quando avevo avuto la febbre alta.

Dissi a don Juan della mia sgradevole sensazione e del mio desiderio di togliermi le scarpe. Rispose che mi avrebbe aiutato ad alzarmi in piedi, ma che non dovevo aprire gli occhi finché non me lo diceva lui e che dovevo continuare a premermi le foglie sullo stomaco finché non avessi trovato il posto adatto per riposare.

Quando fui in piedi mi sussurrò all'orecchio di aprire gli occhi e di camminare senza meta, lasciando che il potere delle foglie mi spingesse e mi guidasse.

Mi misi a camminare senza meta. Il calore che sentivo nel corpo era sgradevole. Pensavo di avere la febbre alta e tentai di immaginare con quali mezzi don Juan l'avesse prodotta.

Don Juan camminava dietro di me. Improvvisamente lanciò un grido che quasi mi paralizzò. Ridendo spiegò che i rumori improvvisi spaventano e fanno fuggire gli spiriti sgradevoli. Socchiusi gli occhi e camminai avanti e indietro per circa mezz'ora e il caldo sgradevole del mio corpo si trasformò in un piacevole calore. Provai una sensazione di leggerezza mentre misuravo avanti e indietro la collina. Mi sentivo però deluso; mi ero in certo qual modo aspettato di scoprire qualche tipo di fenomeno visivo, ma non c'era stato alcun cambiamento alla periferia del mio campo visivo, nessun colore insolito, o luminosità, o masse oscure.

Alla fine mi stancai di tenere gli occhi socchiusi e li aprii. Ero in piedi davanti a un piccolo ciglione di arenaria, uno dei pochi punti della collina rocciosi e privi di vegetazione; il resto era di terriccio con piccoli cespugli molto distanti tra loro. Sembrava che la vegetazione fosse bruciata qualche tempo prima e che la nuova non fosse ancora cresciuta completamente. Per qualche ragione ignota pensai che il ciglione di arenaria fosse bellissimo, gli rimasi a lungo in piedi davanti e poi mi ci sedetti semplicemente sopra.

«Bene! Bene!», disse don Juan dandomi un colpetto sulla schiena.

Quindi mi disse di togliere attentamente le foglie da sotto agli abiti e di metterle sulla roccia.

Non appena ebbi tolto le foglie dalla pelle incominciai a raffreddarmi. Mi sentii il polso, sembrava normale.

Don Juan scoppiò a ridere e mi chiamò 'dottor Carlos' chiedendomi se volevo sentire anche il suo polso. Disse che quello che avevo provato era il potere delle foglie e che quel potere mi aveva purificato consentendomi di eseguire il mio compito.

Affermai in tutta sincerità che non avevo fatto nulla di particolare e che mi ero seduto là perché ero stanco e perché avevo trovato molto attraente il colore dell'arenaria.

Don Juan non disse nulla. Era in piedi a poca distanza da me. Improvvisamente balzò indietro con incredibile agilità e saltò al di sopra di alcuni cespugli arrivando su una cresta rocciosa un po' distante.

«Che c'è?», chiesi allarmato.

«Osserva la direzione in cui il vento soffierà le tue foglie», mi disse. «Contale in fretta, il vento sta arrivando; conservane la metà e mettitela contro la pancia».

Contai venti foglie. Me ne infilai dieci sotto la camicia e quindi una forte folata di vento sparpagliò le altre dieci in direzione ovest. Mentre le foglie venivano soffiate via ebbi la strana sensazione che un'entità reale le spazzasse deliberatamente nella massa amorfa di arbusti verdi.

Don Juan ritornò e si mise a sedere vicino a me, alla mia sinistra, guardando verso sud.

Non pronunciammo una sola parola per molto tempo. Non sapevo cosa dire, ero esausto; volevo chiudere gli occhi ma non osai. Don Juan doveva aver notato il mio stato perché disse che potevo benissimo addormentarmi. Mi disse di mettermi le mani sull'addome, sopra alle foglie, e di cercar di sentire di essere sospeso sul letto di 'lacci' che lui aveva fatto per me nel 'luogo di mia predilezione'. Chiusi gli occhi e fui invaso dal ricordo della pace e della pienezza che avevo provato dormendo sulla cima di quell'altra collina. Volli scoprire se potevo veramente sentire di essere sospeso, ma mi addormentai.

Mi svegliai immediatamente prima del tramonto. Il sonno mi aveva rinfrescato e rinvigorito. Anche don Juan si era addormentato, ma aprì gli occhi contemporaneamente a me. Il vento soffiava ma non sentivo freddo. Sembrava che le foglie sul mio stomaco avessero agito come una fornace, come una specie di stufa.

Esaminai i dintorni. Il posto che avevo scelto per riposare assomigliava a una piccola conca. Ci si poteva veramente sedere come su un lungo divano; c'era un muro roccioso sufficiente per servire da schienale. Scoprii anche che don Juan aveva portato i miei taccuini e me li aveva messi sotto la testa.

«Hai trovato il posto giusto», mi disse sorridendo. «E tutta l'operazione si è svolta come ti avevo detto io. Il potere ti ha guidato qui senza nessun piano da parte tua».

«Che tipo di foglie mi avete dato?», chiesi.

Il calore irradiato dalle foglie, che mi aveva fatto sentire così comodo, senza bisogno di coperte o di abiti particolarmente caldi, era per me un fenomeno davvero interessante.

«Erano solo foglie», rispose don Juan.

«Intendete dire che potrei prendere le foglie di qualsiasi cespuglio e che produrrebbero su di me lo stesso effetto?».

«No. Non intendo dire che anche tu lo possa fare, tu non hai potere personale. Intendo dire che qualsiasi tipo di foglie ti aiuterebbe, purché la persona che te le dà abbia potere. Oggi non ti hanno aiutato le foglie ma il potere».

«Il vostro potere, don Juan?».

«Suppongo che tu possa dire che era il mio potere, benché non sia veramente esatto, il potere non appartiene a nessuno. Alcuni di noi possono raccoglierlo e quindi potrebbe essere dato direttamente a qualcun altro. Vedi, la chiave del potere accumulato è che può essere usato solo per aiutare qualcun altro ad accumulare potere».

Gli chiesi se intendeva dire che il suo potere era limitato soltanto ad aiutare gli altri. Don Juan spiegò pazientemente che poteva usare il suo potere personale comunque gli piacesse, in qualsiasi cosa lui stesso volesse, ma quando si trattava di darlo direttamente a un'altra persona allora era inutile, a meno che quella persona non lo utilizzasse per la propria ricerca di potere personale.

«Tutto quello che un uomo fa dipende dal suo potere personale», proseguì. «Quindi, per uno che non ne ha, gli atti di un uomo potente sono incredibili. Ci vuole il potere anche per immaginare che cosa sia il potere. E' questo che ho cercato continuamente di dirti; ma so che non hai capito, non perché tu non voglia, ma perché hai pochissimo potere personale».

«Che dovrei fare, don Juan?».

«Niente. Limitati a continuare così. Il potere troverà una via».

Si alzò in piedi e girò su se stesso compiendo un giro completo, fissando ogni aspetto dei dintorni. Il suo corpo si muoveva contemporaneamente agli occhi; l'effetto totale era quello di uno ieratico giocattolo meccanico che girasse completamente su se stesso con un movimento preciso e inalterato.

Lo guardai con la bocca aperta. Nascose un sorriso, rendendosi conto della mia sorpresa.

«Oggi darai la caccia al potere nel buio del giorno», disse rimettendosi a sedere.

«Come avete detto?».

«Stanotte ti avventurerai in queste colline sconosciute. Al buio non sono colline».

«Cosa sono?»

«Sono qualcos'altro. Qualcosa di impensabile per te, perché non ne hai mai contemplato l'esistenza».

«Che intendete dire, don Juan? Mi terrorizzate sempre con questi discorsi spettrali».

Don Juan ridacchiò e mi diede un calcetto sul polpaccio.

«Il mondo è un mistero», disse. «E non è affatto come te lo immagini».

Sembrò riflettere per un momento. Il suo capo sobbalzava su e giù con un movimento ritmico; poi sorrise e aggiunse: «Cioè, è anche come te lo immagini, ma non è tutto quello che c'è nel mondo; c'è molto di più. Lo sei andato scoprendo e forse stanotte aggiungerai un altro pezzo ancora».

Il suo tono mi fece correre un brivido per il corpo.

«Che progettate di fare?», chiesi.

«Non progetto niente. Tutto è stato deciso dallo stesso potere che ti ha permesso di trovare questo posto».

Don Juan si alzò e indicò qualcosa in lontananza. Immaginai che volesse che anch'io mi alzassi per guardare e cercai di balzare in piedi, ma prima che mi fossi alzato completamente don Juan mi ributtò giù con una spinta.

«Non ti ho chiesto di seguirmi», disse con voce severa. Poi addolcì il tono e aggiunse: «Stanotte passerai dei momenti difficili e avrai bisogno di tutto il potere di cui puoi disporre. Resta dove sei e risparmiati per dopo».

Spiegò che non indicava nulla ma controllava soltanto che certe cose ci fossero. Mi assicurò che tutto andava bene e che dovevo restare seduto tranquillamente e tenermi occupato, perché avevo molto tempo per scrivere prima che sulla terra fosse sceso il buio totale. Il suo sorriso era contagioso e molto confortante.

«Ma cosa faremo, don Juan?».

Don Juan scosse la testa da una parte all'altra con un'esagerata espressione di incredulità.

«Scrivi!», ordinò e mi volse le spalle.

Non c'era altro da fare. Lavorai ai miei appunti finché fu troppo buio per scrivere.

Don Juan mantenne sempre la stessa posizione, sembrava assorto a fissare in lontananza verso ovest. Ma non appena smisi di scrivere si volse verso di me e disse in tono scherzoso che il solo modo per farmi tacere era darmi qualcosa da mangiare, o farmi scrivere, o mettermi a dormire.

Tolse dallo zaino un piccolo involto e lo aprì cerimoniosamente: conteneva dei pezzi di carne secca. Me ne porse un pezzo, ne prese un altro per sé e incominciò a masticarlo. Mi informò in tono casuale che era cibo di potere, di cui avevamo tutti e due bisogno in quella circostanza. Avevo troppo fame per pensare alla possibilità che la carne secca contenesse una sostanza psicotropa. Mangiammo in completo silenzio finché non ci fu più carne; quando finimmo era completamente buio.

Don Juan si alzò in piedi stirando le braccia e la schiena. Mi suggerì di fare altrettanto. Disse che era buona pratica stirare il corpo dopo aver dormito, essere stati a sedere o aver camminato.

Seguii il suo consiglio e alcune delle foglie che avevo tenuto sotto alla camicia mi scivolarono giù per i pantaloni. Mi domandavo se avessi dovuto cercare di raccoglierle, ma don Juan disse di dimenticarmene, che non ce n'era più bisogno e che dovevo lasciarle cadere come volevano.

Poi mi venne molto vicino e mi sussurrò all'orecchio destro che avrei dovuto seguirlo a brevissima distanza imitando tutto quello che faceva. Disse che eravamo sicuri nel posto in cui stavamo, perché eravamo, per così dire, al limite della notte.

«Questa non è notte», mormorò battendo col piede la roccia su cui eravamo. «La notte è qui fuori».

Indicò l'oscurità tutto intorno a noi.

Poi controllò la mia rete per vedere se le zucche col cibo e i miei taccuini erano ben assicurati, e con voce dolce disse che un guerriero si accerta sempre che tutto sia in ordine, non perché creda di sopravvivere alla prova a cui si accinge, ma perché ciò fa parte del suo comportamento impeccabile.

Invece di farmi sentire sollevato, le sue ammonizioni mi diedero l'assoluta certezza che il mio fato si avvicinava. Volevo piangere. Don Juan, ne ero sicuro, si rendeva perfettamente conto dell'effetto delle sue parole.

«Fidati del tuo potere personale», mi disse all'orecchio. «E' la sola cosa che si ha in tutto questo mondo misterioso».

Mi spinse con dolcezza e incominciammo a camminare, poi lui prese la testa camminando di un paio di passi avanti a me. Lo seguii con gli occhi fissi al suolo. Non osavo guardarmi intorno, e concentrare la vista sul terreno mi faceva sentire stranamente calmo; quasi mi ipnotizzava.

Dopo pochi passi don Juan si fermò. Mi sussurrò che il buio totale era vicino e che lui sarebbe andato avanti a me, ma mi avrebbe dato la sua posizione imitando il grido di un determinato piccolo gufo. Mi ricordò che già sapevo che la sua particolare imitazione era stridula in principio e poi diventava molle come il grido di un vero gufo. Mi avvertì di stare terribilmente attento agli altri richiami di gufi che non avessero questa caratteristica.

Quando don Juan ebbe terminato di darmi tutte queste specifiche istruzioni ero praticamente in preda al panico. Lo afferrai per il braccio e non lo volevo lasciar andare. Mi ci vollero due o tre minuti per calmarmi abbastanza da poter articolare le parole. Un fremito nervoso mi correva per lo stomaco e per l'addome impedendomi di parlare coerentemente.

Con voce calma e dolce don Juan mi esortò a tornar padrone di me stesso, perché l'oscurità era come il vento, un'entità sconosciuta che poteva ingannarmi se non stavo attento. E dovevo essere perfettamente calmo per poter resistere.

«Devi lasciarti andare così che il tuo potere personale si fonda col potere della notte», mi disse all'orecchio.

Disse che avrebbe camminato davanti a me e io ebbi un altro attacco di paura irrazionale.

«E' una cosa folle», protestai.

Don Juan non andò in collera né si spazientì. Scoppiò a ridere tranquillamente e mi disse all'orecchio qualcosa che non capii bene.

«Che avete detto?», gridai attraverso i denti che mi battevano.

Don Juan si mise la mano sulla bocca e sussurrò che un guerriero agiva come se sapesse ciò che faceva, mentre in realtà non sapeva nulla. Ripeté tre o quattro volte un'affermazione, come se avesse voluto che la imparassi a memoria. Disse: «Un guerriero è impeccabile quando confida nel suo potere personale senza badare se sia piccolo o enorme».

Dopo una breve attesa mi domandò se andava tutto bene. Quando gli feci cenno di sì col capo scomparve rapidamente senza un rumore.

Cercai di guardarmi intorno. Mi sembrava di essere in una zona di fitta vegetazione. Tutto quello che riuscivo a distinguere era la massa oscura degli arbusti, o forse di piccoli alberi. Concentrai l'attenzione sui suoni, ma non c'era nulla di rilevante. Il sibilo del vento attutiva ogni altro suono eccettuati gli sporadici gridi laceranti di grossi gufi e il cinguettio di altri uccelli.

Attesi per un po' in uno stato di assoluta attenzione e quindi udii il grido stridulo e prolungato di un piccolo gufo. Non ebbi dubbio che fosse don Juan. Veniva da un punto dietro di me. Mi voltai e mi avviai in quella direzione. Mi muovevo lentamente perché mi sentivo inestricabilmente oppresso dall'oscurità.

Camminai per forse dieci minuti. A un tratto una massa oscura balzò davanti a me; mandai un grido e caddi a sedere per terra. Le orecchie mi incominciarono a ronzare. La paura era stata così forte da mozzarmi il respiro, dovetti aprire la bocca per respirare.

«Alzati», disse don Juan a bassa voce. «Non ti volevo spaventare. Ti sono solo venuto incontro».

Disse che era stato a osservare il mio stupido modo di camminare e che quando mi muovevo al buio sembravo una vecchia paralitica che cercasse di camminare in punta di piedi tra le pozzanghere. Trovò buffa questa immagine e scoppiò a ridere forte.

Si mise quindi a dimostrarmi un modo speciale per camminare al buio, un modo che chiamò 'l'andatura del potere'. Si piegò su se stesso davanti a me e volle che gli passassi le mani sulla schiena e sulle ginocchia, per farmi un'idea della sua posizione. Aveva il tronco leggermente piegato in avanti ma la spina dorsale era tesa; anche le ginocchia erano leggermente flesse.

Si mise a camminare davanti a me perché potessi notare che ogni volta che faceva un passo sollevava le ginocchia quasi fino al petto. Poi scomparve letteralmente alla mia vista e ricomparve di nuovo. Non riuscivo a immaginare come facesse a correre nel buio completo.

«L'andatura del potere è per correre di notte», mi sussurrò all'orecchio.

Mi esortò a provare anch'io. Gli dissi che ero sicuro che mi sarei rotto le gambe precipitando in un crepaccio o urtando in una roccia. Con molta calma don Juan disse che l'andatura del potere era assolutamente sicura.

Osservai che il solo modo in cui potessi comprendere i suoi atti era immaginare che conoscesse quelle colline alla perfezione e quindi potesse evitarne i trabocchetti.

Don Juan mi prese la testa tra le mani e mormorò con forza: «Questa è la notte! Ed è potere!».

Mi lasciò andare la testa e aggiunse a bassa voce che di notte il mondo era differente e che la sua capacità di correre nel buio non aveva nulla a che fare con la sua conoscenza di quelle colline. Disse che la chiave consisteva nel lasciar scorrere liberamente il proprio potere personale, perché potesse fondersi col potere della notte, e che una volta che il potere era intervenuto non c'era possibilità di inciampare. Aggiunse, in tono di assoluta serietà, che se ne dubitavo dovevo considerare per un momento ciò che stava accadendo. Per un uomo della sua età correre per quelle colline, a quell'ora, sarebbe stato un suicidio se non lo avesse guidato il potere della notte.

«Guarda!», disse, e fuggì velocissimo nell'oscurità, sparì e ricomparve nuovamente.

Il suo corpo si muoveva in modo così straordinario che non riuscivo a credere a quello che vedevo. Don Juan si mosse per un momento come trotterellando sul posto. Il modo in cui sollevava le gambe mi ricordava uno scattista che esegue esercizi per scaldarsi i muscoli prima della corsa.

Quindi mi disse di seguirlo. Lo seguii con sforzo e molto disagio. Cercai con estrema cura di guardare dove mettevo i piedi, ma era impossibile valutare la distanza. Don Juan tornò indietro e trotterellò al mio fianco. Mi sussurrò che dovevo abbandonarmi al potere della notte e confidare in quel po' di potere personale che avevo, altrimenti non sarei mai riuscito a muovermi con libertà; e che l'oscurità mi ostacolava solo perché mi affidavo alla vista per tutto quello che facevo, non sapendo che un altro modo di muovermi consisteva nel lasciarsi guidare dal potere.

Provai varie volte senza alcun successo; semplicemente non riuscivo a lasciarmi andare, la paura di farmi male alle gambe mi schiacciava. Don Juan mi ordinò di continuare a muovermi sul posto e cercar di sentire di usare veramente l''andatura del potere'.

Disse poi che sarebbe corso avanti e che dovevo aspettare il suo richiamo di gufo. Scomparve nel buio prima che potessi dire nulla. Chiusi gli occhi a intervalli e per circa un'ora trotterellai sul posto con le ginocchia e il busto piegati. A poco a poco la mia tensione incominciò a rilassarsi finché mi sentii molto a mio agio. Allora udii il richiamo di don Juan.

Corsi per cinque o sei metri nella direzione da cui veniva il grido, cercando di 'abbandonarmi' come aveva suggerito don Juan. Ma allorché inciampai in un arbusto fui immediatamente riportato ai miei sentimenti di insicurezza.

Don Juan mi aspettava e corresse la mia posizione. Insisté che dovevo innanzitutto piegare le dita contro il palmo della mano, protendendo il pollice e l'indice di ciascuna mano. Poi disse che a suo parere stavo solo indulgendo ai miei sentimenti di inadeguatezza, perché sapevo con certezza di poter sempre vedere abbastanza bene, per quanto buia fosse la notte, se non mettevo gli occhi a fuoco su nulla ma continuavo a scrutare il terreno proprio davanti a me. L''andatura del potere' era come trovare un posto per riposare. Entrambi i procedimenti comportavano un senso di abbandono e un senso di fiducia. L''andatura del potere' esigeva che si tenessero gli occhi fissi sul terreno direttamente di fronte, perché una sola occhiata da uno dei due lati avrebbe prodotto un'alterazione del flusso del movimento. Spiegò che piegare in avanti il busto era necessario per abbassare gli occhi, e le ginocchia dovevano essere portate fino al petto perché i passi dovevano essere molto corti e sicuri. Mi avvertì che da principio avrei inciampato moltissimo, ma mi assicurò che con la pratica avrei potuto correre veloce e sicuro come di giorno.

Cercai per ore di imitare i suoi movimenti ed entrare nello stato d'animo che lui raccomandava. Don Juan continuò a trotterellare molto pazientemente davanti a me, di quando in quando spiccava una breve corsa e poi tornava da me perché potessi vedere come si muoveva. Addirittura mi sospinse e mi fece correre per qualche metro.

Quindi partì e mi chiamò con una serie di grida di gufo. Inesplicabilmente mi mossi con un grado di sicurezza inaspettato. Per quanto ne sapevo non avevo fatto nulla che autorizzasse una tale sensazione, ma sembrava che il mio corpo si rendesse conto delle cose senza che io le pensassi. Per esempio, non potevo veramente vedere le rocce frastagliate sul mio cammino, ma il mio corpo riusciva sempre a camminare sugli orli e mai nei crepacci, tranne che per qualche contrattempo in cui persi l'equilibrio perché mi ero distratto. Il grado di concentrazione necessario per continuare a esaminare l'area direttamente di fronte a me doveva essere totale. Come mi aveva avvertito don Juan, qualsiasi minima occhiata laterale o troppo in avanti alterava il flusso.

Individuai don Juan dopo una lunga ricerca. Era seduto vicino a delle grandi masse nere che sembravano alberi. Venne verso di me e disse che andavo molto bene, ma che era ora di andar via perché aveva usato il suo fischio abbastanza a lungo ed era sicuro che ormai avrebbe potuto essere imitato da altri.

Fui d'accordo che era ora di smettere. Ero quasi spossato dai miei tentativi. Mi sentivo sollevato e gli chiesi chi avrebbe potuto imitare il suo richiamo.

«Poteri, alleati, spiriti, chissà?», disse in un sussurro.

Spiegò che di solito quelle 'entità della notte' producevano suoni molto melodiosi, ma erano molto svantaggiate nel riprodurre i suoni aspri delle grida umane o dei cinguettii degli uccelli. Mi avvertì di smettere sempre di muovermi se mai udivo uno di quei suoni e di tenere a mente tutto quello che aveva detto, perché una volta o l'altra avrei dovuto fare l'identificazione appropriata. In tono rassicurante disse che mi ero fatto un'ottima idea di quella che era l''andatura del potere' e che per impadronirmene avevo solo bisogno di una piccola spinta, che potevo ricevere in un'altra occasione quando ci saremmo nuovamente avventurati nella notte. Mi diede un colpetto sulla spalla e annunciò che era pronto a partire.

«Andiamocene di qui», disse mettendosi a correre.

«Aspettate! Aspettate!», urlai freneticamente. «Camminiamo».

Don Juan si fermò e si tolse il cappello.

«Perdinci!», disse in tono di perplessità. «Siamo in un bel pasticcio. Sai che non posso camminare al buio, posso solo correre. Se camminassi mi romperei le gambe».

Ebbi la sensazione che sogghignasse mentre pronunciava quelle parole, sebbene non lo potessi vedere in faccia.

Aggiunse in tono confidenziale di essere troppo vecchio per camminare, e che quel po' di 'andatura del potere' che avevo imparato quella notte doveva essere messo in pratica per sfruttare l'occasione.

«Se non usiamo l''andatura del potere' saremo falciati come fili d'erba», mi sussurrò all'orecchio.

«Da chi?».

«Nella notte ci sono delle cose che agiscono sulle persone», mormorò in un tono che mi fece correre i brividi per il corpo.

Disse che non importava che mi mantenessi alla sua altezza, perché mi avrebbe dato ripetuti segnali di quattro richiami di gufo per volta affinché potessi seguirlo.

Suggerii di rimanere su quelle colline fino all'alba per andar via con la luce, ma in tono assai drammatico don Juan ribatté che rimanere lì sarebbe stato un suicidio; e anche se ne fossimo usciti vivi, la notte avrebbe prosciugato il nostro potere personale al punto di non poter evitare di esser vittime dei primi rischi del giorno.

«Non perdiamo più tempo», disse con un tono di urgenza nella voce. «Andiamocene di qui».

Mi assicurò nuovamente che avrebbe cercato di andare più lentamente possibile. Le sue ultime istruzioni furono che dovevo cercare di non emettere un suono, neppure un sospiro, qualunque cosa accadesse. Mi diede la direzione generale in cui dovevamo andare e incominciò a correre a un ritmo marcatamente più lento. Lo seguii, ma per quanto lentamente si muovesse non riuscii a rimanere al passo con lui, e presto sparì nell'oscurità davanti a me.

Quando fui solo mi accorsi di aver adottato senza accorgermene un'andatura abbastanza rapida, e fu una scossa per me. Cercai di mantenere quel ritmo ancora un po' e quindi udii il richiamo di don Juan, vicino, alla mia destra. Fischiò quattro volte in successione.

Dopo pochissimo tempo udii ancora il suo richiamo di gufo, questa volta più lontano a destra. Per seguirlo dovetti girare di quarantacinque gradi. Incominciai a muovermi nella nuova direzione, aspettando che gli altri tre gridi della serie mi dessero un orientamento migliore.

Udii un nuovo fischio, che situava don Juan quasi nella direzione da cui ero partito. Mi fermai e ascoltai. Udii a poca distanza un suono acutissimo, qualcosa come il rumore di due sassi sbattuti l'uno contro l'altro. Ci fu un altro richiamo di gufo e allora capii quello che aveva inteso dire don Juan. Nel grido c'era qualcosa di veramente melodioso; era chiaramente più lungo e anche più molle di quello di un vero gufo.

Provai una strana sensazione di paura. Il mio stomaco si contrasse come se qualcosa mi tirasse verso il basso dalla parte centrale del corpo. Mi voltai e mi misi a semi-trotterellare nella direzione opposta.

Udii in lontananza un debole grido. Ci fu una rapida successione di altri tre richiami. Erano di don Juan; corsi nella loro direzione. Sentivo che doveva essere lontano un buon quarto di miglio e se continuavo a quel passo sarei rimasto irrimediabilmente solo in quelle colline. Non riuscivo a capire perché don Juan corresse in avanti, quando avrebbe potuto correre intorno a me, se aveva bisogno di mantenere quel passo.

Mi accorsi allora che pareva che qualcosa si muovesse con me alla mia sinistra, lo potevo quasi vedere all'estremità del mio campo visivo. Fui sul punto di lasciarmi prendere dal panico, ma un pensiero tranquillizzante mi attraversò la mente. Al buio non avrei potuto vedere nulla. Volli guardare in quella direzione, ma avevo paura di perdere il mio slancio.

Un altro richiamo di gufo mi riscosse dalle mie meditazioni; veniva dalla mia sinistra. Non lo seguii perché era senza dubbio il grido più dolce e melodioso che avessi mai udito. Tuttavia non mi spaventò. Nel grido c'era qualcosa di attraente, o forse di assillante, o anche di triste.

Quindi una massa oscura velocissima attraversò il sentiero da destra a sinistra davanti a me. La subitaneità dei suoi movimenti mi fece guardare in avanti, persi l'equilibrio e andai a urtare rumorosamente contro alcuni cespugli. Caddi di fianco e quindi udii lo stesso grido melodioso a pochi passi alla mia sinistra. Mi alzai in piedi, ma prima che potessi ricominciare ad avanzare ci fu un altro grido, più imperioso e irresistibile del primo. Era come se qualcuno volesse che mi fermassi e ascoltassi. Il grido del gufo era così prolungato e lieve che sciolse le mie paure. Mi sarei davvero fermato se proprio in quel momento non avessi udito quattro richiami stridenti di don Juan. Sembravano più vicini. Balzai in piedi e partii in quella direzione.

Dopo un momento notai un certo tremolio o un'onda nel buio alla mia sinistra. Non era una visione vera e propria, ma piuttosto una sensazione, e tuttavia ero quasi sicuro di percepirla con gli occhi. Si muoveva più velocemente di me e di nuovo attraversò da sinistra a destra, facendomi perdere l'equilibrio. Questa volta non caddi, e stranamente, il fatto di non essere caduto mi irritò. Improvvisamente mi arrabbiai e l'assurdità dei miei sentimenti mi gettò in un vero panico. Cercai di accelerare il passo, volevo emettere a mia volta un richiamo di gufo per far sapere a don Juan dov'ero, ma non osai disobbedire alle sue istruzioni.

In quel momento qualcosa di raccapricciante attirò la mia attenzione. Alla mia sinistra, vicino quasi fino a toccarmi, c'era veramente qualcosa come un animale. Lo spavento quasi mi soffocò. Ero così intensamente preso dalla paura che non avevo pensieri nella mente mentre al buio mi muovevo più presto che potevo. La mia paura sembrava una sensazione fisica che non aveva nulla a che fare coi miei pensieri. Trovai molto insolita quella condizione. Nel corso della mia vita le mie paure si erano sempre costruite su una matrice intellettuale ed erano state generate da situazioni sociali minacciose, o da persone che si comportavano pericolosamente nei miei confronti. Questa volta, invece, la mia paura era una vera novità. Veniva da una parte sconosciuta del mondo e colpiva una parte sconosciuta di me stesso.

Udii il grido di un gufo molto vicino e leggermente alla mia sinistra. Non potei afferrare i particolari del timbro, ma sembrava quello di don Juan, non era melodioso. Rallentai. Ci fu un altro grido, in esso c'era l'asprezza del fischio di don Juan, perciò accelerai. Un terzo fischio venne da brevissima distanza. Potei distinguere una massa oscura di rocce, o forse di alberi. Udii un altro grido di gufo e pensai che don Juan mi aspettasse perché eravamo fuori della zona pericolosa. Ero quasi al limite della zona più buia quando un quinto grido mi lasciò impietrito. Mi sforzai di guardare davanti a me nella zona buia, ma un improvviso suono frusciante alla mia sinistra mi fece voltare in tempo per vedere una forma nera, più nera dell'ambiente circostante, che rotolava o scivolava al mio fianco. Ansimai e balzai via. Udii un suono secco, come di qualcuno che schioccasse le labbra, e quindi un'enorme massa scura sbucò dalla zona più buia. Era quadrata, come una porta, alta quasi tre metri.

La subitaneità dell'apparizione mi fece urlare. Per un momento la mia paura fu sproporzionata, ma un secondo più tardi mi scoprii meravigliosamente calmo a fissare la forma nera.

Per quanto mi riguardava, le mie reazioni furono un'altra totale novità. Una parte di me sembrava spingermi verso la zona buia con una misteriosa insistenza, mentre un'altra parte di me resisteva. Era come se da una parte volessi sincerarmi e dall'altra volessi fuggirmene istericamente.

Udii a stento le grida di gufo di don Juan, sembravano molto vicine e frenetiche; erano più lunghe e più aspre, come se fischiasse mentre correva verso di me.

Improvvisamente mi sembrò di riacquistare il controllo di me stesso e riuscii a girarmi e per un momento corsi proprio come don Juan aveva voluto che facessi.

«Don Juan!», urlai quando lo trovai.

Mi mise la mano sulla bocca facendomi segno di seguirlo ed entrambi trotterellammo a un ritmo molto tranquillo finché arrivammo al ciglione di arenaria sul quale eravamo stati prima.

Sedemmo sul ciglione in silenzio assoluto per circa un'ora, fino all'alba. Poi mangiammo un po' del cibo che avevamo nelle zucche. Don Juan disse che dovevamo rimanere sul ciglione fino a metà della giornata, e che non dovevamo dormire ma parlare, come se non ci fosse nulla fuori del normale.

Mi chiese di riferirgli dettagliatamente tutto quello che mi era successo dal momento in cui mi aveva lasciato. Quando conclusi il mio racconto rimase in silenzio a lungo, sembrava immerso in profondi pensieri.

«Non sembra che sia andata troppo bene», disse alla fine. «Quello che ti è successo stanotte è stato molto grave, così grave che non puoi più avventurarti da solo nella notte. D'ora in poi le entità della notte non ti lascerebbero in pace».

«Cosa mi è successo stanotte, don Juan?».

«Ti sei imbattuto in certe entità che sono nel mondo e che agiscono sulla gente. Non ne sai niente perché non le hai mai incontrate. Forse sarebbe più appropriato chiamarle entità delle montagne, infatti non appartengono propriamente alla notte. Le chiamo entità della notte perché si possono percepire molto più facilmente nell'oscurità. Sono qui, sempre intorno a noi. Alla luce del giorno, però, è più difficile percepirle, semplicemente perché il mondo ci è familiare e ciò che è familiare prende la precedenza. Nell'oscurità, d'altra parte, tutto è ugualmente strano e pochissime cose prendono la precedenza, perciò siamo più suscettibili a quelle entità della notte».

«Ma sono reali, don Juan?».

«Naturalmente! Sono così reali che ordinariamente uccidono le persone, specialmente quelle che si smarriscono nei luoghi deserti e non hanno potere personale».

«Se sapevate che sono così pericolose, perché mi avete lasciato là da solo?».

«C'è un solo modo per imparare, e consiste nell'andare fino in fondo alle cose. Limitarsi a parlare del potere è inutile. Se vuoi sapere cos'è e se lo vuoi immagazzinare, devi affrontare tutto da solo.

«La strada della conoscenza e del potere è molto difficile e molto lunga. Forse avrai notato che fino a stanotte non ti avevo mai permesso di avventurarti da solo nell'oscurità, non avevi abbastanza potere per farlo. Ora ne hai a sufficienza per ingaggiare una buona battaglia, ma non abbastanza per restare al buio da solo».

«Che succederebbe se lo facessi?».

«Moriresti. Le entità della notte ti schiaccerebbero come uno scarafaggio».

«Significa che non posso passare una notte da solo?».

«Puoi passare la notte da solo nel tuo letto, ma non nelle montagne».

«E le pianure?».

«Questo si applica solo ai luoghi selvaggi, dove non ci sono persone, specialmente i luoghi selvaggi sulle alte montagne. Poiché le dimore naturali delle entità della notte sono rocce e crepacci, d'ora in avanti non potrai andare sulle montagne finché non avrai accumulato abbastanza potere personale».

«Ma come posso accumulare potere personale?».

«Lo farai vivendo come ti ho raccomandato. A poco a poco tamponerai tutti i punti da cui può fuggire il potere. Non lo dovrai fare deliberatamente, perché il potere trova sempre una via. Prendi me come esempio, quando incominciai a imparare i modi di un guerriero non sapevo di accumulare potere, proprio come te; pensavo di non far nulla di particolare, ma non era così. Il potere ha la peculiarità di essere inosservato quando viene accumulato».

Gli chiesi di spiegare come fosse arrivato alla conclusione che per me era pericoloso rimanere da solo nell'oscurità.

«Le entità della notte si muovevano alla tua sinistra», disse. «Cercavano di fondersi con la tua morte; specialmente la porta che hai visto. Era un'apertura, sai, e ti avrebbe attirato fino a costringerti ad attraversarla, e quella sarebbe stata la tua fine».

Mi sforzai di dirgli che mi pareva molto strano che le cose accadessero sempre quando c'era lui intorno, e che era come se lui stesso avesse architettato tutti gli avvenimenti particolari. Non avevo mai visto ombre né sentito strani rumori. In realtà non ero mai stato spaventato da nulla.

Don Juan ridacchiò sottovoce e disse che tutto era prova del fatto che lui aveva abbastanza potere personale per convocare in suo aiuto una miriade di cose.

Ebbi la sensazione che forse volesse alludere di aver veramente chiamato dei complici.

Don Juan sembrò avermi letto nel pensiero e scoppiò a ridere forte.

«Non sforzarti a cercare spiegazioni», disse. «Quello che ho detto non ha senso per te, semplicemente perché ancora non hai abbastanza potere personale. Eppure ne hai più di quando hai incominciato, perciò adesso incominciano a capitarti le cose: Hai già avuto un potente incontro con la nebbia e col lampo. Non è importante che tu comprenda quello che ti è capitato quella notte, l'importante è che ne abbia acquistato il ricordo. Il ponte e tutte le altre cose che hai visto quella notte si ripeteranno un giorno quando avrai abbastanza potere personale».

«A che scopo si ripeterà tutto ciò, don Juan?».

«Non lo so, io non sono te, tu solo puoi rispondere. Siamo tutti diversi. Per questo ti ho lasciato solo stanotte, sebbene sapessi che era mortalmente pericoloso; hai dovuto metterti alla prova contro quelle entità. La ragione per cui ho scelto il richiamo del gufo è perché i gufi sono i messaggeri delle entità. Quando si imita il grido di un gufo, le entità vengono fuori. Per te son diventate pericolose non perché siano naturalmente malevole ma perché tu non sei impeccabile. C'è in te qualcosa di molto falso e io so cos'è: tu mi stai solo assecondando. Hai sempre assecondato tutti, e naturalmente questo ti pone automaticamente al di sopra di tutto e di tutti. Ma tu stesso sai che non può essere così. Sei soltanto un uomo e la tua vita è troppo breve per racchiudere tutte le meraviglie e tutti gli orrori di questo mondo meraviglioso. Perciò, la tua abitudine di assecondare tutti è falsa; ti mette in una condizione infima».

Volevo protestare. Don Juan mi aveva inchiodato come aveva già fatto dozzine di volte. Per un momento andai in collera. Ma, come era già successo, scrivere mi dava un sufficiente senso di distacco così che potevo rimanere impassibile.

«Penso di avere una cura per questo», riprese don Juan dopo un lungo intervallo. «Anche tu saresti d'accordo con me se ricordassi quello che hai fatto stanotte. Sei corso veloce come qualsiasi stregone solo quando il tuo avversario è diventato irresistibile. Lo sappiamo tutti e due e credo di aver già trovato un degno avversario per te».

«Che farete, don Juan?».

Non rispose, si alzò in piedi e si stirò, sembrava che contraesse ogni muscolo. Mi ordinò di fare come lui.

«Devi stirarti molte volte durante il giorno», disse. «Più volte lo fai meglio è, ma solo dopo un lungo periodo di lavoro o di riposo».

«Che tipo di avversario intendete trovare per me?», domandai.

«Purtroppo solo i nostri simili, gli uomini, sono i nostri degni avversari», disse. «Le altre entità non hanno una loro volontà e bisogna andare a incontrarle e adescarle. I nostri simili, al contrario, sono inesorabili.

«Abbiamo parlato abbastanza», disse improvvisamente in tono brusco e si volse verso di me. «Prima di andar via devi fare ancora una cosa, la più importante di tutte. Adesso ti dirò qualcosa che ti metterà in pace la mente sul perché sei qui. La ragione per cui continui a venire a vedermi è molto semplice; ogni volta che mi hai visto il tuo corpo ha imparato certe cose, anche contro il tuo desiderio. E alla fine il tuo corpo ha bisogno di tornare da me per imparare ancora. Diciamo che il tuo corpo sa che morirà, anche se tu non ci pensi mai. Perciò ho detto al tuo corpo che anch'io morirò e prima di farlo vorrei mostrare al tuo corpo certe cose, cose che tu non puoi dare al tuo corpo. Per esempio, il tuo corpo ha bisogno di spavento, gli piace. Il tuo corpo ha bisogno dell'oscurità e del vento. Il tuo corpo ora conosce l'andatura del potere e non può aspettare per provarla. Il tuo corpo ha bisogno di potere personale e non può aspettare per averlo. Perciò diciamo allora che il tuo corpo ritorna da me perché io sono suo amico».

Quindi don Juan rimase a lungo in silenzio, sembrava che combattesse con i suoi pensieri.

«Ti ho detto che il segreto di un corpo forte non è in quello che fai ma in quello che non fai», disse alla fine. «Ormai è ora che tu non faccia quello che fai sempre. Siediti qui finché non ce ne andremo e "non-fare"».

«Non vi seguo, don Juan».

Mise le mani sui miei appunti e me li tolse. Chiuse con cura le pagine del taccuino, lo assicurò con la sua chiusura di gomma e quindi lo lanciò come un disco lontano tra i cespugli.

Mi turbai e incominciai a protestare, ma lui mi mise la mano sulla bocca. Indicò un grosso cespuglio e mi disse di fissare la mia attenzione non sulle foglie ma sulle ombre delle foglie. Disse che correre al buio non doveva essere macchiato dalla paura ma poteva essere la reazione naturalissima di un corpo che sapeva 'non fare'. Mi mormorò ripetutamente all'orecchio destro che «non fare quello che sapevo fare» era la chiave del potere. Nel caso del guardare un albero, quello che sapevo fare era mettere immediatamente a fuoco la vista sulle foglie, ma non mi curavo mai delle ombre o degli spazi tra le foglie. Le sue ultime ammonizioni furono di incominciare a mettere a fuoco gli occhi sulle ombre delle foglie di un singolo ramo e poi finalmente arrivare a tutta la pianta, e non permettere che gli occhi tornassero alle foglie, perché il primo passo deliberato per accumulare potere personale consisteva nel permettere al corpo di 'non-fare'.

Forse fu per la stanchezza o per l'eccitamento nervoso, ma mi immersi a tal punto nella contemplazione delle ombre delle foglie che quando don Juan si alzò potevo quasi classificare le masse nere di ombre con la stessa efficacia con cui normalmente classificavo il fogliame. L'effetto totale era sconvolgente. Dissi a don Juan che mi sarebbe piaciuto rimanere più a lungo. Rise e mi diede un colpetto sul cappello.

«Te l'avevo detto», disse. «Al corpo piacciono le cose come questa».

Disse poi che dovevo lasciare che il mio potere accumulato mi guidasse attraverso i cespugli fino al taccuino, e mi spinse dolcemente nel sottobosco; camminai senza meta per un momento e quindi me lo trovai davanti ai piedi. Pensai di essermi inconsciamente impresso nella memoria la direzione in cui era stato scagliato, ma don Juan spiegò il fatto dicendo che ero andato direttamente verso il taccuino perché il mio corpo si era imbevuto per ore del 'non-fare'.

 

 

 15.
NON-FARE.
 

Mercoledì 11 aprile, 1962.

 

Tornando a casa don Juan mi raccomandò di lavorare ai miei appunti come se non mi fosse successo nulla e di non parlare e nemmeno preoccuparmi di nessuno degli avvenimenti che mi erano capitati.

Dopo un giorno di riposo annunciò che dovevamo lasciare la regione per un po' di tempo, perché era consigliabile mettere tra noi e quelle 'entità' una certa distanza. Spiegò che avevano avuto un profondo effetto su di me, sebbene non me ne fossi ancora reso conto perché il mio corpo non era abbastanza sensibile. Mi sarei però ammalato in breve tempo se non fossi andato al mio 'luogo di predilezione' per essere purificato e ristorato.

Partimmo in automobile prima dell'alba dirigendoci a nord, e dopo un viaggio spossante e una rapida camminata arrivammo sulla collina nel tardo pomeriggio.

Don Juan, come aveva fatto allora, coprì di ramoscelli e foglie il punto dove avevo dormito la volta prima. Poi mi diede una manciata di foglie da mettere sulla pelle dell'addome e mi disse di stendermi a riposare. Preparò per sé un altro posto alla mia sinistra, a circa un metro e mezzo dalla mia testa, e si stese anche lui.

In pochi minuti incominciai a sentire un calore meraviglioso e un senso di supremo benessere. Era un senso di conforto fisico, una sensazione di essere sospeso a mezz'aria. Ero certo completamente d'accordo con l'affermazione di don Juan, che il 'letto di lacci' mi avrebbe fatto galleggiare. Commentai l'incredibile qualità della mia esperienza sensoriale e don Juan rispose in tono positivo che il 'letto' era fatto per quello scopo.

«Non riesco a credere che sia possibile!», esclamai.

Don Juan prese alla lettera la mia affermazione e mi rimproverò. Disse che era stanco del mio comportamento da persona che si ritiene definitivamente importante, cui si deve dare ripetutamente la prova che il mondo è sconosciuto e meraviglioso.

Cercai di spiegare che un'affermazione retorica non aveva significato, ma lui ribatté che se fosse stato così avrei scelto un'altra affermazione. Sembrava seriamente irritato con me. Mi tirai su a sedere a metà e incominciai a scusarmi, ma lui rise e, imitando il mio modo di parlare, suggerì una serie di ridicole esclamazioni che avrei potuto usare al posto di quella. Scoppiai anch'io a ridere della calcolata assurdità di alcune delle alternative che proponeva.

Don Juan ridacchiò e mi ricordò in tono sommesso che dovevo abbandonarmi alla sensazione di galleggiare.

La dolce sensazione di pace e pienezza che provavo in quel luogo misterioso risvegliò in me alcune emozioni profondamente sepolte. Incominciai a parlare della mia vita: confessai di non aver mai rispettato né amato nessuno, nemmeno me stesso, e che avevo sempre sentito di essere intrinsecamente malvagio, e perciò il mio atteggiamento verso gli altri era sempre velato da un certo comportamento smargiasso e temerario.

«E' vero», disse don Juan. «Tu non ti piaci affatto».

Ridacchiò e disse che mentre parlavo aveva 'visto'. Mi raccomandò di non provare alcun rimorso per nulla di quanto avevo fatto, perché isolare i propri atti come se fossero meschini, o brutti, o malvagi, significava dare a se stessi un'importanza ingiustificata.

Mi mossi nervosamente e il letto di foglie emise un suono frusciante. Don Juan osservò che se volevo riposare non dovevo far sentire agitate le mie foglie, e che dovevo fare come lui e giacere senza compiere alcun movimento. Aggiunse che nel suo 'vedere' aveva incontrato uno dei miei stati d'animo. Si arrestò un momento, come se faticasse a trovare la parola giusta, e disse che lo stato d'animo in questione era uno schema mentale in cui cadevo continuamente. Lo descrisse come una specie di botola che si apriva di quando in quando e mi inghiottiva inaspettatamente.

Gli chiesi di essere più specifico; rispose che era impossibile essere specifici per quel che riguardava il 'vedere'.

Prima che potessi aggiungere altro mi disse di rilassarmi ma di non addormentarmi e rimanere più a lungo possibile in uno stato di consapevolezza. Disse che il 'letto di lacci' era fatto esclusivamente per permettere a un guerriero di arrivare a certi stati di pace e benessere.

Affermò in tono drammatico che il benessere era una condizione che bisognava sviluppare con cura, una condizione cui ci si doveva abituare per poterla cercare.

«Tu non sai cosa sia il benessere perché non lo hai mai sperimentato», disse.

Non ero d'accordo, ma lui insisté che il benessere era una meta da cercare deliberatamente. Disse che la sola cosa che sapevo cercare era un senso di disorientamento, malessere e confusione. Scoppiò in una risata canzonatoria e mi assicurò che per riuscire a rendermi infelice dovevo faticare moltissimo, ed era assurdo che non avessi mai capito che potevo fare esattamente la stessa fatica per rendermi completo e forte.

«Il trucco sta in ciò a cui si dà importanza», disse. «O ci rendiamo infelici o ci rendiamo forti. La quantità di fatica è la stessa».

Chiusi gli occhi e mi rilassai nuovamente e incominciai a sentire di galleggiare; per un po' fu come se davvero mi muovessi attraverso lo spazio, come una foglia. Quella sensazione, sebbene assolutamente piacevole, mi faceva pensare in certo qual modo a quando mi ero sentito male, a quando avevo avuto le vertigini e avevo provato la sensazione di ruotare su me stesso. Pensai che forse avevo mangiato qualcosa di guasto.

Udii don Juan che mi parlava, ma proprio non riuscii a fare lo sforzo di ascoltarlo. Stavo cercando di passare mentalmente in rassegna quello che avevo mangiato, ma non riuscivo a interessarmene. Sembrava che non importasse.

«Guarda come cambia la luce del sole», disse don Juan.

La sua voce era chiara, pensai che fosse come l'acqua, liquida e calda.

A ovest il cielo era completamente privo di nuvole e il sole brillava di una luce spettacolare. Forse lo splendore giallastro del sole pomeridiano mi appariva così magnifico solo per via dei suggerimenti di don Juan.

«Lascia che quello splendore ti accenda», disse. «Prima che il sole sia sceso devi essere perfettamente calmo e ristorato, perché domani o dopodomani dovrai imparare a "non-fare"».

«Imparare a non fare cosa?», domandai.

«Ora non ha importanza», mi rispose. «Aspetta finché saremo su quelle montagne di lava».

Indicò verso nord, in direzione di alcuni lontani picchi dentellati, neri e dall'aspetto minaccioso.

 

Giovedì 12 aprile, 1962.

 

Nel tardo pomeriggio raggiungemmo il deserto che circondava le montagne di lava, il cui colore marrone scuro appariva da lontano quasi sinistro. Il sole era molto basso sull'orizzonte e splendeva sulla faccia occidentale della lava solidificata, tingendo il suo colore marrone scuro di un abbagliante spiegamento di riflessi gialli.

Non riuscivo a distogliere gli occhi, quei picchi mi ipnotizzavano.

Verso la fine della giornata giungemmo in vista dei pendii inferiori delle montagne. Nel deserto c'era poca vegetazione, tutto quello che potevo vedere erano cactus e una specie di corta erba che cresceva a ciuffi.

Don Juan si fermò per riposare. Si mise a sedere, appoggiò con cautela le sue quattro zucche contro una roccia e disse che ci saremmo accampati là per la notte. Aveva scelto un luogo relativamente elevato, da dove ci trovavamo potevo spingere lo sguardo molto lontano tutto intorno a noi.

Era una giornata nuvolosa e ben presto fummo avvolti dal crepuscolo. Mi misi a osservare, completamente assorto, la rapidità con cui le nuvole cremisi svanivano a ovest in un fitto grigio uniforme.

Don Juan si alzò e andò tra i cespugli. Quando tornò il profilo delle montagne di lava era diventato una massa scura. Si mise a sedere al mio fianco e mi mostrò quella che sembrava una formazione naturale sulle montagne verso nord-est. Era un punto che spiccava per il suo colore molto più chiaro: mentre tutta la catena di montagne di lava appariva al crepuscolo di un uniforme colore marrone scuro, il punto indicato da don Juan era invece giallastro o beige scuro. Non riuscivo a immaginare cosa potesse essere; lo fissai a lungo, sembrava che si muovesse e immaginai che pulsasse. Quando socchiusi gli occhi ondeggiò letteralmente come mosso dal vento.

«Guardalo fisso!», mi ordinò don Juan.

Mantenni lo sguardo fisso per un bel po' e a un certo momento sentii che tutta la catena di montagne si muoveva verso di me; la sensazione fu accompagnata da un'insolita agitazione alla bocca dello stomaco. Il disagio divenne così acuto che mi alzai.

«Siediti!», urlò don Juan, ma ero già in piedi.

Dal mio nuovo punto di vista la formazione giallastra appariva più in basso sul fianco delle montagne. Mi rimisi a sedere senza distogliere gli occhi e la formazione si spostò in una posizione più elevata. La fissai per un istante e improvvisamente disposi tutto nella prospettiva giusta. Compresi che quello che guardavo non era affatto nelle montagne ma era in realtà un brandello di stoffa verde giallognolo che pendeva da un alto cactus di fronte a me.

Scoppiai a ridere forte e spiegai a don Juan che il crepuscolo mi aveva dato un'illusione ottica.

Don Juan si alzò e si diresse verso il cactus da cui pendeva il brandello di stoffa, lo prese, lo piegò e se lo mise in tasca.

«Perché lo fate?», chiesi.

«Perché questo pezzo di stoffa ha potere», rispose in tono indifferente. «Per un momento sei andato bene e non c'è modo di sapere cosa sarebbe successo se tu fossi rimasto seduto».

 

Venerdì 13 aprile, 1962.

 

Ci dirigemmo verso le montagne allo spuntare dell'alba. Le montagne erano sorprendentemente lontane. A mezzogiorno camminavamo in uno dei canyon sul cui fondo c'erano delle pozze d'acqua poco profonde. Ci sedemmo a riposare all'ombra di una sporgenza.

Le montagne erano state formate da un enorme fiume di lava. Col passare dei millenni la lava solidificata si era trasformata in una roccia porosa marrone scuro. Solo poche erbe robuste crescevano tra le rocce e nei crepacci.

Guardando in alto verso le pareti quasi perpendicolari del canyon provai una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Le pareti erano altissime e mi davano l'impressione di volersi richiudere su di me. Il sole era quasi allo zenith, leggermente spostato a sud-ovest.

«Mettiti in piedi qui», disse don Juan e mi sistemò il corpo facendomi guardare verso il sole.

Mi disse di guardare fissamente le pareti della montagna sopra di me.

La vista era stupenda. L'enorme altezza del fiume di lava faceva vacillare la mia immaginazione, incominciai a pensare al gigantesco sconvolgimento vulcanico che doveva averlo prodotto. Per molte volte guardai su e giù lungo i fianchi del canyon. Rimasi assorto a contemplare la ricchezza di colore della parete rocciosa: c'erano chiazze di ogni tinta immaginabile; su ogni roccia c'erano macchie grigio chiaro di muschio o lichene. Guardai diritto sopra alla mia testa e notai che la luce del sole produceva riflessi meravigliosi quando colpiva le chiazze brillanti di lava solidificata.

Fissai un punto sulle montagne dove il sole si rifletteva. A mano a mano che il sole si muoveva l'intensità diminuiva, poi svanì completamente.

Guardai dall'altra parte del canyon e vidi un altro punto con le stesse meravigliose rifrazioni di luce. Dissi a don Juan quello che succedeva e quindi scoprii un'altra zona di luce, e poi un'altra in un punto diverso, poi un'altra ancora, finché tutto il canyon fu costellato di grandi macchie di luce.

Mi sentivo girare la testa; anche quando chiudevo gli occhi potevo ancora vedere le luci brillanti. Mi presi il capo tra le mani e cercai di strisciare sotto la sporgenza, ma don Juan mi strinse forte il braccio ordinandomi di guardare le pareti delle montagne e cercar di immaginare macchie di pesante oscurità in mezzo ai campi di luce.

Non volli guardare perché il bagliore mi dava fastidio agli occhi. Dissi che mi succedeva come quando si guarda una strada piena di sole attraverso una finestra e poi si vede la finestra sovrapporsi come un contorno oscuro su tutto il resto.

Don Juan scosse il capo e incominciò a ridacchiare. Mi lasciò andare il braccio e ci rimettemmo a sedere sotto la sporgenza.

Stavo trascrivendo le mie impressioni quando don Juan, dopo un lungo silenzio, parlò improvvisamente in tono drammatico.

«Ti ho portato qui per insegnarti una sola cosa», disse e tacque. «Dovrai imparare a "non-fare"», riprese. «Potremmo benissimo parlarne perché per te non esiste altro modo di procedere. Pensavo che avresti potuto imparare a "non-fare" senza che ti dicessi nulla, ma mi sono sbagliato».

«Non so di cosa parlate, don Juan».

«Non importa», rispose. «Voglio dirti qualcosa che è semplicissimo ma difficilissimo da eseguire: ti parlerò del "non-fare", quantunque non esista modo di parlarne perché è il corpo che lo fa».

Mi fissò con brevi occhiate e quindi mi ordinò di stare molto attento a quello che avrebbe detto.

Chiusi il taccuino, ma con mio stupore don Juan insisté che continuassi a scrivere.

«"Non-fare" è così difficile e potente che non lo dovresti menzionare», riprese. «Non lo dovrai menzionare finché non avrai "fermato il mondo"; solo allora ne potrai parlare liberamente, se è questo che vorrai fare».

Si guardò intorno e quindi indicò una grande roccia.

«Quella roccia lassù è una roccia a causa del "fare"», disse.

Ci guardammo a vicenda e lui sorrise. Aspettai una spiegazione, ma rimase in silenzio. Alla fine fui costretto a dirgli che non avevo capito.

«Questo è "fare"!», esclamò.

«Come avete detto?».

«Anche questo è "fare"».

«Di che state parlando, don Juan?».

«"Fare" è ciò che fa di quella roccia una roccia e di quel cespuglio un cespuglio. "Fare" è quel che ti fa essere te e mi fa essere me».

Gli dissi che la sua spiegazione non spiegava niente. Scoppiò a ridere e si grattò le tempie.

«Questo è il problema quando si parla», disse. «Fa sempre confondere le cose. Se si incomincia a parlare del "fare", si finisce sempre a parlare di qualcos'altro. E' meglio limitarsi ad agire.

«Prendi quella roccia, per esempio. Guardarla è "fare", ma "vederla" è "non-fare"».

Dovetti confessare che le sue parole non avevano senso per me.

«Oh sì che ce l'hanno!», esclamò. «Ma tu sei convinto del contrario perché questo è il tuo "fare". Questo è il modo in cui agisci verso di me e verso il mondo».

Indicò nuovamente la roccia.

«Quella roccia è una roccia a causa di tutte le cose che sai fare verso quella roccia», disse. «Questo io lo chiamo "fare". Un uomo di conoscenza, per esempio, sa che la roccia è una roccia solo a causa del "fare", perciò, se non vuole che la roccia sia una roccia, tutto quello che deve fare è "non-fare". Hai capito?».

Non lo capivo affatto. Don Juan scoppiò a ridere e fece un altro tentativo di spiegazione.

«Il mondo è il mondo perché tu conosci il "fare" implicito nel renderlo tale», disse. «Se tu non conoscessi il suo "fare", il mondo sarebbe differente».

Mi esaminò con curiosità. Smisi di scrivere, volevo soltanto ascoltarlo. Continuò a spiegare che senza quel certo 'fare' non ci sarebbe nulla di familiare in ciò che ci circonda.

Si piegò in avanti, raccolse un sassolino tra il pollice e l'indice della mano sinistra e me lo tenne davanti agli occhi.

«Questo è un sassolino perché tu conosci il "fare" implicito nel renderlo un sassolino», disse.

«Cosa state dicendo?», chiesi sentendomi veramente confuso.

Don Juan sorrise. Sembrava che cercasse di nascondere un piacere malizioso.

«Non so perché sei così confuso», disse. «Le parole sono la tua predilezione; dovresti sentirti in paradiso».

Mi lanciò un'occhiata misteriosa e sollevò le sopracciglia due o tre volte. Poi indicò di nuovo il sassolino che mi teneva davanti agli occhi.

«Dico che tu fai di questo un sassolino perché conosci il "fare" implicito in questo sassolino», disse. «Ora, per "fermare il mondo" devi smettere di "fare"».

Sembrò che sapesse che non avevo ancora capito perché sorrise scuotendo il capo. Prese poi un ramoscello e indicò l'orlo irregolare del sassolino.

«Nel caso di questo sassetto», proseguì, «la prima cosa che gli fa il "fare" è ridurlo alle sue dimensioni. Perciò la cosa giusta da fare, che un guerriero fa se vuole "fermare il mondo", è ingrandire un sassolino, o qualsiasi altra cosa, mediante il "non-fare"».

Si alzò in piedi e pose il sassolino su un macigno, quindi mi disse di avvicinarmi e di esaminarlo. Mi disse di guardare i buchi e le depressioni del sassolino e cercare di distinguerne i minimi dettagli. Disse che se potevo distinguere il dettaglio, i buchi e le depressioni sarebbero scomparsi e avrei capito cosa significava 'non-fare'.

«Oggi questo benedetto sassolino ti farà diventare pazzo», disse.

Dovevo avere sulla faccia un'espressione sconcertata. Don Juan mi guardò e scoppiò a ridere fragorosamente, poi finse di arrabbiarsi col sassolino e lo colpì due o tre volte col cappello.

Lo esortai a chiarire quello che voleva dire. Gli dissi che se faceva uno sforzo gli era possibile spiegare tutto quello che voleva.

Mi lanciò un'occhiata sorniona e scosse il capo come se la situazione fosse senza speranza.

«Sicuro che posso spiegare tutto», disse ridendo. «Ma tu potresti capirlo?».

La sua insinuazione mi prese alla sprovvista.

«Il "fare" ti fa separare il sassolino dal macigno più grosso», riprese. «Se vuoi imparare a "non-fare", diciamo che devi congiungerli».

Indicò la piccola ombra che il sassolino proiettava sul macigno e disse che non era un'ombra ma una colla che li teneva uniti. Poi si voltò e si allontanò dicendo che sarebbe tornato più tardi a controllarmi.

Rimasi a lungo a fissare il sassolino. Non riuscii a concentrare l'attenzione sui minimi dettagli dei buchi e delle depressioni, ma la piccola ombra che il sassolino gettava sul macigno divenne un punto interessantissimo. Don Juan aveva ragione: era come una colla, si muoveva e si spostava. Ebbi l'impressione che fosse spremuta da sotto il sassolino.

Quando don Juan tornò gli riferii quello che avevo osservato dell'ombra.

«E' un buon inizio», disse. «Dalle ombre un guerriero può giudicare ogni tipo di cose».

Poi mi suggerì di prendere il sassolino e di seppellirlo da qualche parte.

«Perché?».

«Sei stato a osservarlo molto a lungo», disse. «Ora ha qualcosa di te. Un guerriero cerca sempre di agire sulla forza del "fare" cambiandolo in "non-fare". "Fare" sarebbe lasciar lì il sassolino perché è solo un sasso. "Non-fare" sarebbe comportarsi con quel sassolino come se fosse molto di più di un semplice sasso. In questo caso il sassolino si è imbevuto di te per molto tempo e ora è te, perciò non lo puoi lasciare lì ma lo devi seppellire. Se però tu avessi potere personale, "non-fare" significherebbe cambiare quel sassolino in un oggetto di potere».

«Potrei farlo ora?».

«La tua vita non è abbastanza compatta per farlo. Se tu "vedessi", sapresti che il tuo pesante interessamento ha cambiato quel sassolino in qualcosa di assai poco attraente, perciò la cosa migliore che tu possa fare è scavare un buco, seppellirlo e lasciare che la terra assorba la sua pesantezza».

«Questo è tutto vero, don Juan?».

«Rispondere sì o no alla tua domanda sarebbe "fare". Ma poiché stai imparando a "non-fare" ti devo dire che in realtà non importa se è vero o no. E' qui che il guerriero ha un punto di vantaggio sull'uomo medio. L'uomo medio si cura se le cose siano vere o false, ma il guerriero no. L'uomo medio procede in modo specifico con le cose che sa essere vere e in modo diverso con le cose che sa non essere vere. Se le cose sono dette vere, agisce e crede in quello che fa, ma se le cose sono dette non vere, non si cura di agire o non crede in quello che fa. Il guerriero, d'altra parte, agisce in entrambi i casi. Se le cose sono dette vere, agisce per fare il "fare", se sono dette non vere, agisce ancora per fare il "non-fare". Hai capito?».

«No, non ho capito affatto», risposi.

Le sue affermazioni mi rendevano bellicoso; non riuscivo a trovare un senso in quello che diceva. Gli dissi che era incomprensibile e lui mi canzonò dicendo che non avevo uno spirito impeccabile nemmeno in quello che mi piaceva di più, parlare. Derise letteralmente la mia padronanza verbale e la giudicò difettosa e inadeguata..

«Se devi essere tutto bocca, sii un guerriero bocca», disse scoppiando a ridere.

Mi sentivo scoraggiato; le orecchie mi ronzavano, sentivo un calore sgradevole alla testa, ero realmente imbarazzato e probabilmente rosso in viso.

Mi alzai in piedi, mi avviai verso il sottobosco e seppellii il sassolino.

«Ti ho stuzzicato un poco», disse don Juan quando tornai a sedere. «Eppure so che se non parli non capisci. Per te parlare è "fare", ma parlare non è appropriato e se vuoi sapere quello che intendo per "non-fare" devi fare un semplice esercizio. Dal momento che ci interessiamo del "non-fare" non importa che tu faccia l'esercizio ora o tra dieci anni».

Mi fece stendere e mi prese il braccio destro piegandolo al gomito. Poi mi girò la mano finché ebbi il palmo rivolto in avanti; mi fece curvare le dita come se impugnassi una maniglia, e quindi incominciò a muovermi il braccio avanti e indietro con un movimento circolare che assomigliava all'atto di spingere una leva attaccata a una ruota.

Don Juan disse che un guerriero eseguiva quel movimento ogni volta che voleva spingere qualcosa fuori del proprio corpo, qualcosa come una malattia o una sensazione sgradita. L'idea era di spingere e tirare un'immaginaria forza antagonista finché si sentiva un oggetto pesante, un corpo solido, che arrestava il movimento libero della mano. Nel caso di quell'esercizio, 'non-fare' consisteva nel ripeterlo finché si sentiva con la mano il corpo pesante, a dispetto del fatto che non si potesse mai credere che fosse possibile sentirlo.

Incominciai a muovere il braccio e in poco tempo la mano mi divenne fredda come il ghiaccio. Incominciavo a sentire intorno alla mano una specie di sensazione molliccia; era come se remassi in una pesante materia liquida e vischiosa.

Don Juan fece un gesto improvviso e mi afferrò la mano per arrestarne il movimento. Tutto il mio corpo tremò come scosso da una forza invisibile. Don Juan mi scrutò mentre mi tiravo su a sedere e quindi mi camminò intorno prima di rimettersi seduto.

«Hai fatto abbastanza», disse. «Potrai compiere questo esercizio un'altra volta, quando avrai più potere personale».

«Ho fatto qualcosa di sbagliato?».

«No. Il "non-fare" è solo per guerrieri molto forti e tu non hai ancora il potere sufficiente. Ora cattureresti con la mano solo cose assurde, perciò fallo a poco a poco, finché non senti più freddo alla mano. Ogni volta che la mano ti rimane calda puoi veramente sentire con essa le linee del mondo».

Fece una pausa come per darmi il tempo di chiedere delle linee, ma prima che avessi l'opportunità di farlo incominciò a spiegare che c'era un numero infinito di linee che ci congiungevano alle cose. Disse che l'esercizio del 'non-fare' che aveva appena descritto avrebbe aiutato chiunque a sentire una linea che usciva dalla mano che si muoveva, una linea che si poteva mettere o gettare dovunque si voleva. Aggiunse che quello era solo un esercizio, perché le linee formate dalla mano non duravano abbastanza a lungo per essere di valore reale in una situazione pratica.

«Un uomo di conoscenza usa altre parti del corpo per produrre linee durevoli», disse.

«Che parti del corpo, don Juan?».

«Le linee più durevoli che un uomo di conoscenza può produrre vengono dal centro del corpo», disse. «Ma può produrle anche con gli occhi».

«Sono vere linee?».

«Certo».

«Si possono vedere e toccare?».

«Diciamo che si possono sentire. La parte più difficile della via del guerriero è capire che il mondo è una sensazione. Quando uno "non-fa", sente il mondo, e sente il mondo attraverso le sue linee».

Si interruppe e mi esaminò con curiosità. Sollevò le sopracciglia e spalancò gli occhi, poi ammiccò. L'effetto era quello degli occhi di un uccello che ammiccava. Quasi immediatamente sentii una sensazione di imbarazzo e di nausea. Era proprio come se qualcosa mi premesse sullo stomaco.

«Capisci quello che voglio dire?», chiese don Juan distogliendo gli occhi.

Osservai che mi sentivo la nausea; don Juan rispose in tono positivo che lo sapeva, che stava cercando di farmi sentire le linee del mondo coi suoi occhi. Non potevo accettare che affermasse di essere proprio lui a provocarmi quella sensazione ed espressi i miei dubbi. Non riuscivo a concepire l'idea che fosse lui a causare la mia sensazione di nausea, dal momento che non era entrato assolutamente in contatto fisico con me.

«"Non-fare" è semplicissimo ma difficilissimo», disse. «Non è questione di comprenderlo ma di padroneggiarlo. "Vedere", naturalmente, è la conquista finale dell'uomo di conoscenza, e "vedere" si raggiunge solo quando si riesce a "fermare il mondo" attraverso la tecnica del "non-fare"».

Sorrisi involontariamente. Non avevo capito.

«Quando si fa qualcosa con la gente», riprese don Juan, «la sola preoccupazione dovrebbe essere di presentare il caso al loro corpo. E' questo che ho fatto con te finora, lasciando che il tuo corpo sapesse. Chi se ne importa se tu capisci o no?».

«Ma don Juan, questo non è giusto. Io voglio capire tutto, altrimenti venire qui sarebbe una perdita di tempo».

«Una perdita di tempo!», esclamò parodiando il mio tono di voce. «Sei davvero un bel presuntuoso».

Si alzò in piedi e disse che dovevamo arrivare sulla cima del picco di lava alla nostra destra.

L'ascensione alla cima fu un tormento, fu una vera e propria scalata, a parte il fatto che non c'erano corde per aiutarci o proteggerci. Don Juan mi disse ripetutamente di non guardare in basso; e un paio di volte dovette letteralmente tirarmi su di peso quando stavo per scivolare giù dalla roccia. Mi sentivo terribilmente imbarazzato dal fatto che don Juan, che era così vecchio, dovesse aiutarmi. Gli dissi che ero in pessime condizioni fisiche perché ero troppo pigro per fare qualsiasi esercizio. Rispose che una volta che si era arrivati a un certo livello di potere personale, l'esercizio o l'allenamento di qualsiasi tipo era superfluo, dal momento che tutto ciò di cui si aveva bisogno per essere in forma impeccabile era impegnarsi nel 'non-fare'.

Quando arrivammo sulla cima mi distesi al suolo, stavo per dare di stomaco. Don Juan mi fece rotolare avanti e indietro col piede come aveva già fatto un'altra volta. A poco a poco il movimento mi ridiede l'equilibrio, ma mi sentivo nervoso. Era come se in certo modo aspettassi l'improvvisa apparizione di qualcosa. Due o tre volte guardai involontariamente a destra e a sinistra; don Juan non disse una parola ma guardò anche lui nella stessa direzione.

«Le ombre sono cose strane», disse a un tratto. «Devi esserti accorto che ce n'è una che ci segue».

«Non mi sono accorto di niente del genere», protestai ad alta voce.

Don Juan disse che il mio corpo aveva notato il nostro inseguitore nonostante la mia ostinata opposizione, e mi assicurò in tono confidenziale che nell'essere seguiti da un'ombra non c'era nulla di insolito.

«E' soltanto un potere», disse. «Queste montagne ne sono piene. E' solo come una di quelle entità che ti hanno spaventato l'altra notte

Volli sapere se la potevo veramente percepire io stesso. Don Juan asserì che di giorno se ne poteva soltanto sentire la presenza.

Volli che mi spiegasse perché l'aveva chiamata un'ombra quando ovviamente non era come l'ombra di un masso. Rispose che avevano entrambe le stesse linee, perciò entrambe erano ombre.

Indicò un grande masso proprio davanti a noi.

«Guarda l'ombra di quel macigno», disse. «L'ombra è il macigno, tuttavia non lo è. Osservare il macigno per sapere che cosa sia il macigno è "fare", ma osservare la sua ombra è "non-fare".

«Le ombre sono come le porte, le porte del "non-fare". Un uomo di conoscenza, per esempio, può capire i sentimenti più intimi degli uomini osservando le loro ombre».

«C'è del movimento nelle ombre?», chiesi.

«Puoi dire che c'è del movimento, oppure puoi dire che in esse si mostrano le linee del mondo, oppure puoi dire che da esse escono i sentimenti».

«Ma don Juan come è possibile che i sentimenti escano dalle ombre?».

«Credere che le ombre siano soltanto ombre è "fare"», spiegò. «Tale convinzione è un po' stupida. Pensala così: nel mondo c'è tanto di più in tutto, che ovviamente deve esserci di più anche nelle ombre. Dopo tutto, ciò che le fa ombre è semplicemente il nostro "fare"».

Ci fu un lungo silenzio. Non sapevo che altro dire.

«Si avvicina la fine del giorno», disse don Juan guardando il cielo. «Devi usare questa brillante luce solare per eseguire un ultimo esercizio».

Mi guidò in un punto in cui c'erano due picchi della grandezza di un uomo che si ergevano paralleli l'uno all'altro, distanti poco più di un metro. Don Juan si fermò dieci metri più in là, rivolto a ovest. Segnò un punto dove dovevo mettermi in piedi e mi disse di guardare le ombre dei picchi. Disse che le dovevo osservare incrociando gli occhi proprio come li incrociavo ordinariamente quando scrutavo il terreno alla ricerca di un posto per riposare. Chiarì le sue istruzioni dicendo che quando si cerca un posto per riposare si deve guardare senza mettere a fuoco gli occhi, ma nell'osservare le ombre bisogna incrociare gli occhi e tuttavia mantenere a fuoco un'immagine netta. L'idea era di lasciare che un'ombra si sovrapponesse all'altra incrociando gli occhi. Spiegò che con quel procedimento si poteva accertare una determinata sensazione che emanava dalle ombre. Osservai che le sue istruzioni non erano molto precise, ma lui sostenne che non c'era davvero modo di descrivere quello che intendeva.

Il mio tentativo di eseguire l'esercizio fu futile, mi sforzai finché non mi venne mal di testa. Don Juan non si preoccupò minimamente del mio insuccesso, salì su un picco a forma di cupola e urlò dalla cima, dicendomi che dovevo cercare due pezzi di roccia piccoli, lunghi e stretti. Con le mani mi mostrò quanto dovevano essere grandi le rocce che voleva.

Trovai due pezzi e glieli porsi. Don Juan mise ciascun pezzo di roccia in due crepacci a circa trenta centimetri di distanza, mi ci fece mettere in piedi sopra, rivolto a ovest, e mi disse di ripetere lo stesso esercizio con le loro ombre.

Questa volta fu una faccenda completamente diversa. Riuscii quasi immediatamente a incrociare gli occhi e percepire le due singole ombre come se si fossero fuse in una. Notai che l'atto del guardare senza convergere le immagini dava alla singola ombra che avevo formato una profondità incredibile e una specie di trasparenza. La fissai sconcertato: ogni buco della roccia, nel punto sul quale erano a fuoco i miei occhi, era nettamente discernibile; e l'ombra composita sovrapposta era come una pellicola incredibilmente trasparente.

Non volli ammiccare per paura di perdere l'immagine che trattenevo così precariamente, ma alla fine il bruciore degli occhi mi costrinse a battere le palpebre, tuttavia non persi affatto la visione del particolare, anzi, poiché mi si era inumidita la cornea, le immagini divennero anche più chiare. Mi sembrava di guardare un mondo che non avevo mai visto prima, da un'altezza incommensurabile. Notai anche che potevo esaminare ciò che circondava l'ombra senza perdere la messa a fuoco della mia percezione visiva. Sentii di atterrare in un mondo più vasto di quanto avessi mai immaginato. Quella straordinaria percezione durò un secondo e poi tutto si spense. Guardai in su automaticamente e vidi don Juan che mi guardava in piedi direttamente sopra alle rocce. Aveva ostruito la luce del sole col suo corpo.

Gli descrissi quell'insolita sensazione e lui spiegò che aveva dovuto interromperla perché aveva 'visto' che stavo per perdermi in essa. Aggiunse che per tutti noi era una tendenza naturale quella di lasciarsi andare quando ci capitavano sensazioni di quella natura, e che lasciandomi andare in essa avevo quasi trasformato il 'non-fare' nel mio vecchio e consueto 'fare'. Disse che invece avrei dovuto mantenere la vista senza soccombere a essa, perché in certo qual mode il 'fare' era un soccombere.

Mi lamentai che avrebbe dovuto avvertirmi in anticipo di quello che mi dovevo aspettare e di quello che dovevo fare, ma lui osservò che non aveva modo di sapere se fossi riuscito o no a fondere le ombre.

Dovetti confessare che sulla questione del non-fare ero più disorientato che mai. I commenti di don Juan furono che avrei dovuto accontentarmi di quello che avevo fatto, perché per una volta avevo agito correttamente, che riducendo il mondo lo avevo ampliato e che sebbene fossi stato ben lungi dal sentire le linee del mondo, avevo tuttavia usato correttamente le ombre delle rocce come una porta del 'non-fare'.

La sua affermazione, che avevo ampliato il mondo riducendolo, mi affascinò infinitamente. I dettagli della roccia porosa, nella piccola zona su cui si erano messi a fuoco i miei occhi, erano così netti e precisamente definiti che la cima del picco rotondo era diventata per me un vasto mondo; eppure in realtà era una visione ridotta della roccia. Quando don Juan aveva bloccato la luce e mi ero trovato a guardare come facevo normalmente, i dettagli precisi si erano offuscati, i piccoli buchi della roccia porosa erano diventati più grandi, il colore bruno della lava inaridita era diventato opaco e tutto aveva perso la luminosa trasparenza che aveva fatto di quella roccia un vero mondo.

Don Juan prese allora i due pezzi di roccia, li posò delicatamente in un profondo crepaccio e si rimise a sedere a gambe incrociate, rivolto a ovest, sul punto nel quale li aveva messi prima. Quindi batté con la mano su un punto vicino a lui alla sua sinistra e mi disse di sedermi.

Rimanemmo a lungo senza parlare, poi mangiammo, sempre in silenzio. Fu soltanto dopo il tramonto che don Juan si alzò improvvisamente e mi chiese dei miei progressi nel 'sognare'.

Gli risposi che al principio mi era stato facile, ma che al momento avevo cessato completamente di trovarmi le mani in sogno.

«Quando hai incominciato a sognare la prima volta usavi il mio potere personale, perciò era più facile», disse. «Ora sei vuoto. Ma devi continuare a tentare fino a quando non avrai abbastanza potere tuo. Vedi, "sognare" è il "non-fare" dei sogni, e a mano a mano che progredirai nel "non-fare" progredirai anche nel "sognare". Il trucco è non smettere di guardarti le mani, anche se non credi che quello che fai abbia un qualche significato. In effetti, come ti ho detto prima, il guerriero non ha bisogno di credere, perché fino a quando continua ad agire senza credere, "non-fa"».

Ci guardammo a vicenda per un momento.

«Non c'è altro che ti possa dire del "sognare"», continuò. «Tutto ciò che ti potrei dire sarebbe soltanto "non-fare". Ma se affronti il "non-fare" direttamente, tu stesso saprai quello che dovrai fare quando "sogni". Adesso, però, è essenziale che trovi le tue mani, e sono sicuro che lo farai».

«Non so, don Juan. Non mi fido di me».

«Non è questione di fidarsi di nessuno. Tutta questa faccenda riguarda la battaglia del guerriero; e tu continuerai a lottare, se non sotto il tuo potere, allora forse sotto l'urto di un avversario degno, o con l'aiuto di qualche alleato, come quello che ti sta già seguendo».

Feci un brusco sussulto involontario con il braccio destro. Don Juan disse che il mio corpo sapeva più di quanto io sospettassi, perché la forza che ci seguiva era alla mia destra. A bassa voce mi confidò che quel giorno l'alleato mi era venuto per due volte così vicino che lui aveva dovuto intervenire e fermarlo.

«Durante il giorno le ombre sono le porte del "non-fare"», disse. «Ma di notte, poiché pochissimo "fare" prevale nell'oscurità, tutto è un'ombra, compresi gli alleati. Te l'ho già detto quando ti ho insegnato l'andatura del potere».

Scoppiai a ridere forte e la mia stessa risata mi spaventò.

«Tutto quello che ti ho insegnato finora è stato un aspetto del "non-fare"», riprese don Juan. «Il guerriero applica il "non-fare" a tutto ciò che è nel mondo, e tuttavia non posso dirti più di quanto ti ho detto oggi. Devi lasciare che il tuo corpo scopra il potere e il senso del "non-fare"».

Ebbi un altro scoppio di riso nervoso.

«E' stupido disprezzare i misteri del mondo semplicemente perché conosci il "fare" del disprezzare», disse don Juan con espressione seria.

Lo assicurai che non disprezzavo nulla o nessuno, ma che ero più nervoso e incompetente di quanto lui pensasse.

«Sono sempre stato così», dissi. «E tuttavia voglio cambiare, ma non so come; sono così inadeguato».

«So già che pensi di essere marcio», mi rispose. «Questo è il tuo "fare". Ora, per influenzare questo tuo "fare" voglio raccomandarti di imparare un altro fare. D'ora in poi, e per un periodo di otto giorni, voglio che tu mentisca a te stesso. Invece di dirti la verità, che sei brutto, marcio e inadeguato, ti dirai invece che sei l'opposto completo, sapendo che mentisci e che sei assolutamente al di là della speranza».

«Ma a che servirebbe mentire a questo modo, don Juan?».

«Potrebbe inchiodarti a un altro "fare" e allora potresti comprendere che entrambi i "fare" sono menzogne, sono irreali, e dipendere dall'uno o dall'altro è tempo sprecato, perché la sola cosa vera è l'essere in te che deve morire. Arrivare a quell'essere è il "non-fare" del sé».
 

 
 
16.
L'ANELLO DI POTERE.
 

Sabato 14 aprile, 1962.

 

Don Juan soppesò le zucche e concluse che avevamo esaurito le nostre provviste di cibo ed era ora di tornare a casa. Osservai che per arrivare a casa sua avremmo impiegato almeno un paio di giorni, ma rispose che non tornava a Sonora ma sarebbe andato in una città di confine dove doveva occuparsi di certi affari.

Pensavo che avremmo incominciato la nostra discesa seguendo il fondo di un canyon, ma don Juan si diresse a ovest verso gli altipiani delle montagne di lava. Dopo circa un'ora di cammino mi guidò in un profondo burrone che terminava in un punto dove due picchi quasi si congiungevano. Là c'era un pendio che arrivava fin quasi alla cima della catena montuosa, uno strano pendio che sembrava un obliquo ponte concavo tra i due picchi.

Don Juan indicò un punto sul pendio.

«Guarda fisso quel punto», disse. «Il sole è quasi perpendicolare».

Spiegò che a mezzogiorno la luce del sole poteva aiutarmi a 'non-fare'. Mi diede quindi una serie di ordini: allentare tutti gli indumenti stretti che avevo addosso, sedere a gambe incrociate e guardare intensamente il punto che aveva indicato.

In cielo c'erano pochissime nuvole e nessuna a ovest. Era una giornata calda e i raggi del sole scintillavano sulla lava solidificata. Mi misi a osservare attentamente tutta la zona.

Dopo aver osservato a lungo domandai che cosa avrei dovuto specificamente cercare. Don Juan mi fece tacere con un gesto impaziente della mano.

Ero stanco e volevo mettermi a dormire. Socchiusi gli occhi; mi prudevano e me li strofinai, ma avevo le mani madide di sudore che me li fece bruciare. Guardai i picchi di lava attraverso le palpebre socchiuse e improvvisamente l'intera montagna si illuminò.

Dissi a don Juan che se socchiudevo gli occhi potevo vedere tutta la catena di montagne come un intricato spiegamento di fibre di luce.

Don Juan mi disse di respirare meno possibile per conservare la visione delle fibre di luce, e di non fissare intensamente ma guardare casualmente un punto sull'orizzonte proprio sopra al pendio. Seguii le sue istruzioni e riuscii a conservare la vista di un'interminabile estensione coperta da una rete di luce.

A voce bassissima don Juan disse che dovevo cercare di isolare zone di buio nel campo delle fibre di luce, e che subito dopo aver trovato un punto buio dovevo aprire gli occhi e controllare la posizione di quel punto sul pendio.

Non riuscii a percepire nessuna zona di buio. Socchiusi gli occhi e li riaprii varie volte. Don Juan mi si avvicinò e indicò una zona alla mia destra e quindi un'altra proprio di fronte a me. Cercai di cambiare la posizione del corpo; pensai che forse se spostavo la prospettiva sarei riuscito a percepire quella certa zona di buio che don Juan mi indicava, ma don Juan mi scosse il braccio e in tono severo mi ordinò di rimanere immobile e paziente.

Socchiusi nuovamente gli occhi e ancora una volta vidi la rete di fibre di luce. La guardai per un momento e quindi spalancai gli occhi. In quell'istante udii un debole rombo - avrebbe potuto essere facilmente spiegato come il rumore lontano di un aeroplano a reazione e poi, con gli occhi spalancati, vidi tutta la catena di montagne davanti a me come un enorme campo di piccoli punti di luce. Era come se per un breve istante alcune particelle metalliche nella lava solidificata riflettessero all'unisono i raggi del sole. Poi la luce del sole si attenuò e si spense improvvisamente, le montagne divennero una massa di roccia di un monotono colore marrone scuro e nello stesso tempo si alzò il vento e incominciò a far freddo.

Volli girarmi per vedere se il sole fosse scomparso dietro a una nuvola, ma don Juan mi tenne ferma la testa e non mi lasciò muovere. Disse che se mi voltavo potevo intravedere un'entità delle montagne, l'alleato che ci stava seguendo. Mi assicurò che non avevo la forza necessaria per resistere a una visione di quella natura, poi aggiunse in tono calcolato che il rombo che avevo udito indicava il modo particolare in cui un alleato annuncia la propria presenza.

Quindi si alzò in piedi e disse che dovevamo incominciare a salire su per il pendio.

«Dove andiamo?», chiesi.

Mi indicò una delle zone che aveva isolato come una macchia di buio. Spiegò che il 'non-fare' gli aveva permesso di isolare quel punto come un possibile centro di potere, o forse come un posto in cui si potevano trovare oggetti di potere.

Raggiungemmo il punto che intendeva dopo una faticosa scalata.

Don Juan rimase in piedi immobile per un momento a poca distanza di fronte a me, cercai di avvicinarmi a lui ma con la mano mi fece segno di fermarmi. Sembrava che si stesse orientando. Potevo vedere la sua nuca muoversi come se facesse scorrere gli occhi su e giù per la montagna; quindi con passi sicuri si diresse verso una sporgenza. Si mise a sedere e incominciò a spazzar via con la mano un po' di terriccio. Scavò con le dita intorno a un piccolo pezzo di roccia che emergeva dal terreno togliendogli la terra intorno. Poi mi ordinò di tirarlo fuori.

Quando ebbi scavato fuori il pezzo di roccia mi disse di mettermelo immediatamente sotto la camicia perché era un oggetto di potere che mi apparteneva. Disse che me lo avrebbe dato perché lo conservassi e lo dovevo pulire e tenere da conto.

Subito dopo incominciammo a scendere seguendo il fondo di un canyon e in un paio d'ore eravamo nell'alto deserto che si stendeva ai piedi delle montagne di lava. Don Juan camminava circa tre metri avanti a me e mantenne un ottimo passo. Andammo verso sud fino a poco prima del tramonto. A ovest una pesante cortina di nuvole ci impediva di vedere il sole, ma ci fermammo finché non fu presumibilmente scomparso dietro l'orizzonte.

Quindi don Juan cambiò direzione e puntò verso sud-est. Salimmo su una collina e mentre arrivavamo alla cima vidi quattro uomini venire verso di noi da sud.

Guardai don Juan. Nelle nostre escursioni non avevamo mai incontrato nessuno e non sapevo cosa fare in un caso come quello; ma don Juan non sembrava affatto preoccupato, continuò a camminare come se nulla fosse.

Gli uomini si muovevano apparentemente senza fretta, avanzando pigramente verso di noi. Quando furono più vicini notai che erano quattro giovani indiani. Sembrò che riconoscessero don Juan che parlò loro in spagnolo. Parlavano a voce bassissima e lo trattavano con estrema deferenza. Solo uno di loro mi parlò. Chiesi sottovoce a don Juan se anch'io potevo parlare con loro e lui mi fece cenno di sì col capo.

Una volta impegnati nella conversazione i quattro giovani furono molto amichevoli e comunicativi, specialmente quello che mi aveva parlato per primo. Mi dissero che andavano in cerca di cristalli di quarzo dotati di potere, che avevano errato per molti giorni intorno alle montagne di lava, ma non avevano avuto fortuna.

Don Juan si guardò intorno e indicò una zona rocciosa a circa duecento metri di distanza.

«E' un buon posto per accamparci un po'», disse.

Si avviò verso le rocce e noi tutti lo seguimmo.

La zona che aveva scelto era molto irregolare e priva di cespugli. Ci mettemmo a sedere sulle rocce. Don Juan annunciò che sarebbe tornato nella macchia a raccogliere rami secchi per accendere un fuoco. Mi offrii di aiutarlo, ma mi sussurrò che era un fuoco speciale per quei valorosi giovanotti e non aveva bisogno del mio aiuto.

I giovani si misero seduti intorno a me formando uno stretto cerchio; uno di loro si sedette con la schiena contro la mia. Mi sentivo un po' imbarazzato.

Quando don Juan tornò con un fascio di legna li elogiò per la loro diligenza e mi disse che i giovani erano i novizi di uno stregone, e che quando si andava in caccia di oggetti di potere la regola prescriveva di sedersi in cerchio con al centro due persone schiena contro schiena.

Uno dei giovani mi domandò se avevo mai trovato dei cristalli, gli risposi che don Juan non mi aveva mai portato a cercarli.

Don Juan scelse un posto vicino a un grande macigno e si accinse a preparare un fuoco. Nessuno dei giovani si mosse per aiutarlo ma tutti lo osservarono attentamente. Quando tutti i pezzi di legno presero fuoco don Juan si mise a sedere con la schiena contro il macigno. Il fuoco era alla sua destra.

Evidentemente i giovani sapevano ciò che stava accadendo, ma io non avevo la minima idea di come ci si dovesse comportare con dei novizi di stregone.

Osservai i quattro giovani: sedevano di fronte a don Juan formando un semicerchio perfetto. Mi accorsi allora che don Juan era seduto direttamente di fronte a me e che due dei giovani erano seduti alla mia sinistra e gli altri due alla mia destra.

Don Juan incominciò a raccontare che io ero sulle montagne di lava per imparare a 'non-fare' e che un alleato ci aveva seguiti. Pensai che fosse un inizio molto drammatico e avevo ragione. I giovani cambiarono posizione e sedettero con la gamba sinistra piegata sotto il corpo. Non avevo osservato la posizione in cui si erano seduti prima, avevo immaginato che fossero seduti come me, a gambe incrociate. Un'occhiata casuale a don Juan mi rivelò che anche lui era seduto con la gamba sinistra piegata sotto il corpo. Lo guardai e lui mi fece col mento un cenno appena percettibile indicando la mia posizione. Come per caso piegai in dentro la gamba sinistra.

Don Juan mi aveva detto una volta che quella era la posizione usata dagli stregoni quando le cose erano incerte, ma per me era sempre stata molto faticosa. Sentivo che rimanere seduto a quel modo per tutta la durata del suo discorso sarebbe stata per me una fatica terribile. Don Juan sembrava rendersi perfettamente conto del mio svantaggio e spiegò succintamente ai giovani che i cristalli di quarzo potevano essere trovati in certi punti specifici di quella zona, e che una volta trovati dovevano essere persuasi a lasciare la loro dimora con tecniche speciali. Allora i cristalli diventavano l'uomo stesso, e il loro potere andava al di là della nostra comprensione.

Disse che ordinariamente i cristalli di quarzo si trovavano in gruppi e che l'uomo che li aveva trovati doveva scegliere cinque delle lame di quarzo più lunghe e più belle e separarle dalla matrice. Quello che li aveva trovati aveva la responsabilità di intagliarli e levigarli per appuntirli e farli corrispondere perfettamente alla lunghezza e alla forma delle dita della sua mano destra.

Poi ci disse che i cristalli di quarzo erano armi usate per la stregoneria, che di solito erano scagliati per uccidere e penetravano nel corpo del nemico ritornando poi alla mano del loro proprietario come se non l'avessero mai lasciata.

Quindi parlò della ricerca dello spirito che avrebbe trasformato i normali cristalli in armi e disse che la prima cosa da fare era trovare un posto propizio per attirare lo spirito. Quel posto doveva essere su una collina e lo si doveva trovare passando la mano sul terreno col palmo rivolto in basso finché non si sentiva un certo calore nella mano. Su quel punto si doveva accendere un fuoco. Don Juan spiegò che l'alleato era attratto dalle fiamme e si manifestava con una serie di rumori coerenti. La persona che cercava un alleato doveva seguire la direzione dei rumori finché l'alleato si rivelava, poi doveva lottare a terra con lui per sopraffarlo. Era a quel punto che si poteva riuscire a far sì che l'alleato toccasse i cristalli per imbeverli di potere.

Ci avvertì che in quelle montagne di lava c'erano molte altre forze, che non rassomigliavano agli alleati; non facevano alcun rumore ma apparivano soltanto come ombre fluttuanti e non avevano assolutamente nessun potere.

Don Juan aggiunse che una piuma dai colori brillanti o un cristallo di quarzo molto levigato avrebbe attratto l'attenzione di un alleato, ma che in generale qualsiasi oggetto sarebbe stato altrettanto efficace, perché l'importante non era trovare gli oggetti ma la forza che li avrebbe imbevuti di potere.

«A che servirebbe avere cristalli meravigliosamente levigati se non si riesce mai a trovare lo spirito che dà potere?», disse. «D'altra parte, se non si hanno i cristalli ma si trova lo spirito, si può mettere sul suo cammino qualsiasi cosa perché la tocchi. Se non riuscite a trovare nient'altro potete metterci i coglioni».

I giovani ridacchiarono. Il più audace, quello che mi aveva parlato per primo, scoppiò a ridere forte.

Notai che don Juan aveva incrociato le gambe e sedeva rilassato anche tutti e quattro i giovani avevano incrociato le gambe. Cercai dì far scivolare indifferentemente la gamba in una posizione più rilassata ma probabilmente mi si era accavallato un nervo del ginocchio sinistro o avevo il muscolo indolenzito, e fui costretto ad alzarmi in piedi e saltellare sul posto per qualche minuto.

Don Juan fece un commento ironico: disse che ero fuori esercizio, non riuscivo più a stare in ginocchio perché da anni non andavo più a confessarmi, da quando avevo incominciato ad andare in giro con lui.

Le sue parole divertirono i giovani che scoppiarono a ridere a scatti. Alcuni di loro si coprirono la faccia e ridacchiarono nervosamente.

«Adesso vi mostrerò qualcosa», disse don Juan con aria indifferente quando i giovani ebbero finito di ridere.

Immaginavo che ci avrebbe fatto usare degli oggetti di potere che aveva in tasca. Per un istante pensai che i giovani stessero per stringersi intorno a lui perché fecero un movimento improvviso all'unisono. Si piegarono tutti leggermente in avanti come per alzarsi in piedi, ma poi ripiegarono tutti la gamba sinistra e ripresero quella misteriosa posizione così faticosa per le mie ginocchia.

Piegai indietro la gamba sinistra col movimento più naturale possibile. Mi accorsi che se non mi mettevo a sedere sul piede sinistro, cioè, se mantenevo una posizione semi-inginocchiata, le ginocchia non mi facevano tanto male.

Don Juan si alzò in piedi e girò intorno al grosso macigno fino a scomparire alla vista.

Prima di alzarsi doveva aver alimentato il fuoco mentre io ripiegavo la gamba sinistra sotto al corpo, perché nuovi pezzi di legno crepitarono e le fiamme divamparono. L'effetto fu estremamente drammatico. Le fiamme diventarono grandi il doppio. Don Juan balzò immediatamente fuori da dietro il macigno e si fermò in piedi dove prima era stato a sedere. Per un attimo rimasi sconcertato, don Juan si era messo in testa un buffo cappello nero con delle punte ai lati, vicino alle orecchie, e rotondo sulla sommità. Mi venne in mente che era in realtà un cappello da pirata. Indossava una lunga giubba nera con le code, allacciata da un solo bottone metallico risplendente, e aveva una gamba di legno.

Risi tra me. Don Juan appariva veramente ridicolo nel suo costume da pirata. Incominciai a domandarmi dove si fosse procurato quell'equipaggiamento là nel deserto. Immaginai che dovesse essere stato nascosto dietro alla roccia. Commentai tra me che gli mancava soltanto una benda sull'occhio e un pappagallo sulla spalla per essere il perfetto prototipo del pirata.

Don Juan guardò tutti i membri del gruppo facendo scorrere lentamente gli occhi da destra a sinistra, poi guardò al di sopra delle nostre teste e fissò lo sguardo nell'oscurità, dietro di noi. Rimase in quella posizione per un momento, poi girò intorno al macigno e scomparve.

Non feci caso a come camminava. Ovviamente doveva tenere il ginocchio piegato per imitare l'andatura di un uomo con la gamba di legno; quando si era girato per andare dietro al macigno avrei dovuto vedere la gamba piegata, ma ero così disorientato dai suoi atti che non avevo fatto nessuna attenzione ai dettagli.

Le fiamme persero la loro forza proprio nel momento in cui don Juan girò dietro al macigno. Pensai che la sua scelta del tempo fosse superba; doveva aver calcolato il tempo che i legni aggiunti al fuoco avrebbero impiegato per bruciare, predisponendo la sua uscita in base a quel calcolo.

Il cambiamento di intensità del fuoco fu molto drammatico per il gruppo; tra i giovani passò un'ondata di nervosismo. A mano a mano che le fiamme scemavano i giovani tornarono tutti insieme a sedersi a gambe incrociate.

Mi aspettavo che don Juan uscisse subito da dietro al macigno e tornasse a sedersi, ma non uscì, rimase invisibile. Aspettai con impazienza. I giovani erano rimasti a sedere con un'espressione impassibile sul volto.

Non riuscivo a capire che cosa avesse voluto intendere don Juan con tutti quegli istrionismi. Dopo una lunga attesa mi rivolsi al giovane seduto alla mia destra e gli domandai sottovoce se qualcosa di ciò che don Juan aveva addosso - il ridicolo cappello, la lunga giubba con le code e il fatto che avesse una gamba di legno - aveva per lui un qualche significato.

Il giovane mi guardò con una buffa espressione vuota, sembrava confuso. Ripetei la domanda e l'altro giovane accanto a lui mi guardò attentamente per ascoltare.

Poi si guardarono a vicenda con un'espressione di assoluta confusione. Dissi che per me il cappello, la gamba di legno e la giubba avevano trasformato don Juan in un pirata.

Tutti e quattro i giovani si erano intanto stretti intorno a me. Ridacchiavano sommessamente e si agitavano nervosamente, sembravano senza parole. Alla fine il più audace parlò. Disse che don Juan non aveva affatto un cappello, non indossava una lunga giubba e certamente non aveva una gamba di legno, ma che aveva in testa un cappuccio nero e addosso una tonaca nera, come quella di un frate, che arrivava fino a terra.

«No!», esclamò sottovoce un altro giovane. «Non aveva un cappuccio».

«Giusto», dissero gli altri.

Il giovane che aveva parlato per primo mi guardò con un'espressione di completa incredulità.

Dissi loro che dovevamo riesaminare attentamente e con calma ciò che era successo, e che ero sicuro che don Juan aveva voluto che lo facessimo e perciò ci aveva lasciati soli.

Il giovane alla mia estrema destra disse che don Juan era vestito di stracci, che aveva addosso un poncho cencioso o una specie di giacca indiana e in testa un sombrero ammaccatissimo. Reggeva in mano un canestro con delle cose dentro, ma non era sicuro di quello che c'era dentro. Aggiunse che don Juan non era vestito veramente come un mendicante ma piuttosto come un uomo che tornava da un viaggio interminabile carico di strani oggetti.

Il giovane che aveva visto don Juan con un cappuccio nero disse che non aveva nulla in mano ma che aveva i capelli lunghi e incolti, come un selvaggio che avesse appena ucciso un frate e ne avesse indossato gli abiti, non riuscendo tuttavia a nascondere la propria natura selvaggia.

Il giovane alla mia sinistra ridacchiò sommessamente e osservò che era tutto molto strano. Disse che don Juan era vestito come un uomo importante che fosse appena sceso da cavallo. Aveva gambali di cuoio per cavalcare, grandi speroni, un frustino che continuava a battere sul palmo della mano sinistra, un cappello di Chihuahua a punta e due pistole automatiche calibro 45. Disse che don Juan era l'immagine dal "ranchero" benestante.

Il giovane alla mia estrema sinistra rise timidamente e non volle rivelare quello che aveva visto. Cercai di persuaderlo, ma gli altri non parevano interessati e lui sembrava troppo timido per parlare.

Il fuoco stava per estinguersi quando don Juan uscì da dietro il macigno.

«Faremmo meglio a lasciare questi giovani alle loro occupazioni», mi disse. «Salutali».

Non li guardò. Incominciò ad allontanarsi lentamente per darmi il tempo di salutare.

I giovani mi abbracciarono.

Nel fuoco non c'erano fiamme, ma le braci accese mandavano luce sufficiente. Don Juan era come un'ombra nera poco distante e i giovani un cerchio di sagome statiche nettamente definite. Sembravano una fila di statue nere su uno sfondo di oscurità.

Fu in quel momento che l'intero episodio ebbe il suo effetto su di me. Un brivido mi corse per la spina dorsale. Raggiunsi don Juan che in tono perentorio mi disse che non mi dovevo guardare intorno per cercare i quattro giovani, perché in quel momento erano un cerchio di ombre.

Sentivo nello stomaco una forza esterna, come una mano che mi afferrava. Urlai involontariamente. Don Juan mormorò che in quella zona c'era tanto di quel potere che per me sarebbe stato facilissimo usare l''andatura del potere'.

Trotterellammo per qualche ora. Io caddi cinque volte e don Juan contò ad alta voce tutte le volte che persi l'equilibrio. Poi finalmente si fermò.

«Siediti, raggomitolati contro le rocce e copriti la pancia con le mani», mi sussurrò all'orecchio.

 

Domenica 15 aprile, 1962.

 

La mattina, appena ci fu luce sufficiente, riprendemmo a camminare. Don Juan mi guidò fino al posto dove avevamo lasciato l'automobile. Avevo fame, ma mi sentivo tuttavia riposato e rinvigorito.

Mangiammo dei crackers e bevemmo dell'acqua minerale che avevo in macchina. Volevo fargli delle domande che mi premevano molto, ma lui si mise il dito sulle labbra.

A metà del pomeriggio eravamo nella città di confine dove voleva che lo lasciassi. Andammo a mangiare in un ristorante; il locale era vuoto, sedemmo a un tavolo vicino a una finestra che guardava sulla via principale della piccola città e ordinammo il nostro pranzo.

Don Juan pareva rilassato; gli occhi gli brillavano di una luce maliziosa. Mi sentii incoraggiato e incominciai a bombardarlo di domande; principalmente volevo sapere del suo travestimento.

«Ti ho mostrato un po' del mio "non-fare"», disse, e i suoi occhi sembrarono splendere.

«Ma nessuno di noi ha visto il medesimo travestimento», dissi. «Come avete fatto?».

«E' semplicissimo», rispose. «Erano solo travestimenti, perché tutto ciò che facciamo è in certo modo semplicemente un travestimento. Tutto quello che facciamo, come ti ho detto, è una questione di "fare". Un uomo di conoscenza potrebbe agganciarsi al "fare" di chiunque e uscirsene con cose irreali. Ma non sono cose irreali, non lo sono veramente; sono irreali solo per chi è intrappolato nel "fare".

«Quei quattro giovani e anche tu non vi rendete ancora conto del "non-fare", perciò è stato facile illudervi tutti».

«Ma come ci avete illusi?».

«Non avrebbe significato per te. Non c'è modo per te di capirlo».

«Mettetemi alla prova, don Juan, per piacere».

«Diciamo che ognuno di noi quando nasce porta con sé un piccolo anello di potere. Questo anellino è messo in uso immediatamente. Perciò ognuno di noi è già agganciato fin dalla nascita e i nostri anelli di potere sono uniti a quelli di tutti gli altri. In altre parole, i nostri anelli di potere sono agganciati al "fare" del mondo per fabbricare il mondo».

«Fatemi un esempio perché possa capire», dissi.

«Per esempio, i nostri anelli di potere, il tuo e il mio, sono proprio ora agganciati al "fare" in questa stanza. Noi fabbrichiamo questa stanza. I nostri anelli di potere costruiscono questa stanza in questo stesso momento».

«Aspettate, aspettate», dissi. «Questa stanza è qui di per sé. Io non la sto creando. Non ho niente a che fare con questa stanza».

Don Juan non sembrò curarsi delle mie proteste, sostenne con molta calma che la stanza in cui eravamo era portata in essere e mantenuta al suo posto a causa della forza dell'anello di potere di ognuno.

«Capisci», continuò, «ognuno di noi conosce il "fare" delle stanze perché, in un modo o nell'altro, abbiamo passato gran parte della nostra vita in stanze. Un uomo di conoscenza, d'altra parte, sviluppa un altro anello di potere. Lo chiamerei l'anello del "non-fare", perché è agganciato al "non-fare". Con quell'anello, quindi, può costruire un altro mondo».

Una giovane cameriera ci portò i nostri piatti e sembrò guardarci con aria sospettosa. Don Juan mi disse sottovoce che dovevo pagarla per farle vedere che avevamo abbastanza denaro.

«Non ha torto a diffidare di te», disse scoppiando a ridere. «Hai un aspetto spaventoso».

Pagai la donna e le diedi una mancia, e quando ci lasciò soli fissai don Juan cercando di riprendere il filo della conversazione. Lui mi venne in aiuto.

«La tua difficoltà è che ancora non hai sviluppato il secondo anello di potere e il tuo corpo non conosce il "non-fare"», disse.

Non capivo quello che aveva detto. La mia mente era bloccata da una preoccupazione quanto mai prosaica: tutto quello che volevo sapere era se aveva o no indossato un equipaggiamento da pirata.

Don Juan non rispose ma scoppiò a ridere fragorosamente. Lo pregai di spiegarmi.

«Ma te l'ho appena spiegato», ribatté.

«Volete dire che non avete indossato nessun travestimento?», chiesi.

«Tutto quello che ho fatto è stato agganciare il mio anello di potere al tuo "fare"», disse. «Sei stato tu a fare il resto e gli altri hanno fatto altrettanto».

«E' incredibile!», esclamai.

«A tutti noi è stato insegnato a essere d'accordo riguardo il "fare"», disse sottovoce. «Tu non hai idea del potere che tale accordo porta con sé. Ma fortunatamente il "non-fare" è altrettanto miracoloso e potente».

Sentii nello stomaco un brivido incontrollabile. Tra la mia esperienza diretta e la sua spiegazione c'era un abisso insormontabile. Come ultima difesa ricorsi, come avevo sempre fatto, a una sfumatura di dubbio e sfiducia e alla domanda: «E se in realtà don Juan avesse fatto comunella con quei giovani e avesse montato tutto lui stesso?».

Cambiai argomento e lo interrogai sui quattro giovani.

«Mi avete detto che erano ombre?», chiesi.

«Giusto».

«Erano alleati?».

«No. Erano i novizi di un uomo che conosco».

«Perché li avete chiamati ombre?».

«Perché in quel momento erano stati toccati dal potere del "non-fare", e poiché non sono stupidi come te si sono cambiati in qualcosa di molto diverso da quello che tu conosci. Non ho voluto che li guardassi per questo motivo, ti avrebbe solo fatto male.

Non avevo più domande da fare e non avevo nemmeno più fame. Don Juan mangiò di gusto e sembrava di umore eccellente, ma io mi sentivo scoraggiato. Improvvisamente mi sentivo in preda a una stanchezza logorante. Comprendevo che il sentiero di don Juan era troppo arduo per me. Osservai che non avevo i requisiti per diventare uno stregone.

«Forse un altro incontro con Mescalito ti potrebbe aiutare», rispose.

Lo assicurai che era l'ultima cosa che mi passasse per la mente e che non ne intendevo nemmeno considerare l'eventualità.

«Ti devono accadere cose molto violente perché tu permetta al tuo corpo di profittare di tutto quello che hai imparato», disse.

Azzardai l'opinione che siccome non ero un indiano non ero veramente qualificato per vivere la vita insolita dello stregone.

«Forse se riuscissi a districarmi da tutti i miei legami potrei viaggiare un po' meglio nel vostro mondo», dissi. «Oppure se andassi con voi a vivere nel deserto. Così come stanno ora le cose, il fatto di avere un piede in ciascuno dei due mondi mi rende inutile in entrambi».

Don Juan mi fissò a lungo.

«Questo è il tuo mondo», disse additando attraverso la finestra la strada piena di vita. «Tu sei un uomo di quel mondo e il tuo terreno di caccia è là fuori, in quel mondo. Non c'è modo di sfuggire al "fare" del nostro mondo, perciò, quello che fa il guerriero è trasformare il proprio mondo nel proprio terreno di caccia. Come un cacciatore, il guerriero sa che il mondo è fatto per essere usato, perciò ne usa ogni minima parte. Il guerriero è come un pirata che non ha scrupoli a prendere e usare tutto ciò che vuole, con la differenza che il guerriero non si preoccupa e non si sente insultato quando a sua volta è preso e usato».

 

 

 17.
UN DEGNO AVVERSARIO.
 

Martedì 11 dicembre, 1962.

 

Le mie trappole erano perfette, la loro collocazione giusta, vedevo conigli, scoiattoli e altri roditori, quaglie e uccelli, ma in tutta la giornata non ero riuscito a catturare nulla.

Quando eravamo usciti di prima mattina don Juan aveva detto che quel giorno mi dovevo aspettare un 'dono di potere', un animale eccezionale che avrebbe potuto essere attirato nelle mie trappole e di avrei potuto essiccare la carne per farne 'cibo di potere'.

Sembrava di umore pensieroso; non mi diede un solo suggerimento né fece commenti di sorta. Verso la fine della giornata finalmente parlò.

«Qualcuno interferisce con la tua caccia», disse.

«Chi?», domandai sorpreso.

Don Juan mi guardò sorridendo e scosse il capo con un'espressione di incredulità.

«Ti comporti come se non lo sapessi», disse. «Eppure è tutto il giorno che sai chi è».

Stavo per protestare ma capivo che non sarebbe servito a niente! Sapevo che don Juan voleva alludere alla 'Catalina', e se era quello il tipo di conoscenza di cui parlava, allora aveva ragione, conoscevo la persona che interferiva.

«O ce ne andiamo a casa subito», riprese don Juan, «o aspettiamo che faccia buio e sfruttiamo il crepuscolo per catturarla».

Sembrava che aspettasse la mia decisione. Io volevo andar via incominciai a raccogliere certi pezzi di una cordicella che stavo usando, ma prima che potessi esprimere a parole il mio desiderio don Juan mi fermò con un ordine diretto.

«Siediti», disse. «Andarcene subito sarebbe una decisione più semplice e più saggia, ma in questo caso particolare penso che dobbiamo rimanere. Questa faccenda riguarda solo te».

«Che volete dire?».

«Qualcuno interferisce con te in particolare, perciò questa è una faccenda che riguarda te. Io so chi è e anche tu lo sai».

«Mi fate paura».

«Non sono io che ti faccio paura», rispose ridendo, «ma quella donna che si aggira qui intorno».

Fece una pausa come se aspettasse di vedere l'effetto delle sue parole su di me. Dovetti ammettere di essere terrorizzato.

 

Più di un mese prima avevo sostenuto uno spaventevole confronto con una strega chiamata 'la Catalina'. L'avevo affrontata a rischio della mia vita perché don Juan mi aveva convinto che quella strega minacciava la sua vita e lui non era capace di difendersi dai suoi assalti. Dopo il contatto con la donna don Juan mi aveva rivelato che la strega non aveva mai rappresentato per lui un vero pericolo e che tutta la faccenda era stata un trucco, non nel senso di uno scherzo maligno ma nel senso di una trappola per adescarmi.

Il suo metodo mi era parso così privo di etica che mi ero infuriato con lui.

Nell'udire i miei scoppi di collera don Juan si era messo a cantare delle canzoni messicane imitando dei popolari cantanti sentimentali, e la sua parodia era stata così comica da costringermi a ridere come un bambino. Don Juan mi aveva divertito per ore, non avevo mai immaginato che conoscesse un tale repertorio di canzoni idiote.

«Lascia che ti dica una cosa», aveva detto alla fine in quella circostanza. «Se non fossimo ingannati non impareremmo mai, lo stesso è successo a me e succederà a chiunque. L'arte di un benefattore consiste nel condurci fino al limite. Il benefattore può solo indicare la via e ingannare. Io ti ho già ingannato una volta. Ricordi il modo in cui ho ricatturato il tuo spirito di cacciatore, non è vero? Mi avevi detto tu che cacciare ti faceva dimenticare le piante, eri pronto a fare moltissimo per diventare un cacciatore, cose che non avresti fatto per imparare a conoscere le piante. Ora devi fare molto di più per sopravvivere».

Mi aveva guardato fisso ed era scoppiato a ridere.

«E' tutta una pazzia», avevo detto. «Siamo esseri razionali».

«Tu sei razionale, io no».

«Ma certo che lo siete, siete uno degli uomini più razionali che io abbia mai incontrato».

«D'accordo!», aveva esclamato. «Non discutiamo più. Io sono razionale, e con ciò?».

Lo avevo poi trascinato in una discussione sul perché fosse necessario che due esseri razionali si comportassero in un modo così folle come ci comportavamo noi con quella strega.

«Tu sei razionale, d'accordo», mi aveva risposto aspramente. «E ciò significa che credi di sapere tante cose del mondo; ma ne sai davvero tanto? Tu hai solo visto gli atti della gente. Le tue esperienze sono limitate esclusivamente a ciò che la gente ha fatto a te o ad altri. Tu non sai niente di questo misterioso mondo sconosciuto».

Mi aveva fatto segno di seguirlo fino alla macchina, eravamo saliti e ci eravamo diretti alla vicina cittadina messicana.

Non avevo chiesto cosa andavamo a fare. Don Juan mi aveva fatto parcheggiare l'automobile vicino a un ristorante, quindi avevamo girato intorno alla stazione degli autobus e all'emporio generale. Don Juan camminava alla mia destra e mi guidava. Improvvisamente mi ero reso conto che qualcun altro camminava a fianco a fianco con me alla mia sinistra, ma prima che avessi il tempo di voltarmi per guardare don Juan aveva fatto un movimento rapido e improvviso; si era piegato in avanti, come per raccogliere qualcosa da terra, e poi mi aveva afferrato sotto l'ascella mentre quasi inciampavo su di lui. Mi aveva poi trascinato fino all'automobile senza lasciarmi andare il braccio nemmeno per farmi aprire la serratura, mentre annaspavo con le chiavi. Mi aveva sospinto dolcemente dentro la macchina ed era salito dopo di me.

«Guida lentamente e fermati di fronte all'emporio», aveva detto.

Quando mi fermai mi fece un cenno con la testa per farmi guardare: 'la Catalina' era là dove don Juan mi aveva afferrato. Indietreggiai involontariamente. La donna fece un paio di passi verso la macchina e si fermò con aria di sfida. La esaminai attentamente e conclusi che era una donna molto bella: era scurissima di carnagione e abbondante di forme, ma sembrava forte e muscolosa; aveva un volto rotondo con gli zigomi alti e due lunghe trecce di capelli nerissimi. Quello che mi sorprese maggiormente fu la sua giovinezza, doveva avere al massimo una trentina d'anni.

«Lascia che si avvicini se vuole», aveva mormorato don Juan.

La donna aveva fatto tre o quattro passi verso la macchina fermandosi a circa tre metri di distanza. Ci guardammo. In quel momento sentivo che in lei non c'era nulla di minaccioso. Sorrisi e le feci cenno con la mano. La donna fece un sorrisetto soffocato come una ragazzetta timida e si coprì la bocca, ne fui deliziato. Mi girai verso don Juan per commentare il suo aspetto e il suo comportamento, ma don Juan mi spaventò a morte con un urlo.

«Non voltare la schiena a quella donna, dannazione!», aveva detto con violenza.

Mi girai di scatto a guardarla: aveva fatto un altro paio di passi ed era appena a due metri dallo sportello della macchina; sorrideva; aveva i denti grandi, bianchi e pulitissimi. Nel suo sorriso c'era tuttavia qualcosa di misterioso, non era amichevole: era un ghigno contenuto; sorrideva solo con la bocca. Gli occhi erano neri e freddi e mi guardavano fissamente.

Sentii un gelo in tutto il corpo. Don Juan scoppiò a ridere ritmicamente; dopo un momento di attesa la donna retrocedé lentamente e scomparve tra la gente.

Misi in moto e ci allontanammo; don Juan osservò che se non indurivo la mia vita e non imparavo, la donna mi avrebbe schiacciato come uno scarafaggio.

«Quella donna è il degno avversario che ti dicevo di aver trovato per te», aveva detto.

 

Don Juan disse che dovevamo attendere un presagio prima di sapere ciò che dovevamo fare con la donna che interferiva con la mia caccia.

«Se vedremo o udremo un corvo, sapremo con certezza di poter aspettare, e sapremo anche dove aspettare», aggiunse.

Girò lentamente su se stesso compiendo un giro completo, scrutando tutti i dintorni.

«Non è il posto adatto per aspettare», mormorò.

Ci avviammo verso est. Era già abbastanza buio. Improvvisamente due corvi sbucarono a volo da certi alti cespugli e scomparvero dietro una collina. Don Juan disse che quella collina era la nostra destinazione.

Quando arrivammo alla collina ne fece il giro e scelse un posto che guardava a sud-est ai piedi della collina stessa. Spazzò via i ramoscelli secchi, le foglie e gli altri detriti pulendo una zona circolare del diametro di quasi due metri. Tentai di aiutarlo ma mi respinse con un gesto imperioso. Si mise il dito sulle labbra facendomi segno di tacere. Quando ebbe finito mi sospinse al centro del cerchio, mi fece guardare verso sud, lontano dalla collina, e mi mormorò all'orecchio che dovevo imitare i suoi movimenti. Incominciò una specie di danza, battendo a terra ritmicamente il piede sinistro; la danza consisteva in sette colpi regolari intervallati da una serie di tre rapidi colpi.

Cercai di adattarmi al suo ritmo e dopo qualche goffo tentativo fui più o meno capace di riprodurre il suo battito.

«A che serve?», gli mormorai all'orecchio.

Anche lui sottovoce mi rispose che pestavo come un coniglio, e che prima o poi la creatura che si aggirava lì intorno sarebbe stata attratta dal rumore e si sarebbe mostrata per vedere cosa succedeva.

Una volta che ebbi imparato il ritmo don Juan cessò di battere, ma mi fece continuare dandomi il tempo con la mano.

Di quando in quando ascoltava con attenzione, piegando leggermente il capo a destra, come se cogliesse dei rumori provenienti dalla boscaglia. A un certo momento mi fece cenno di fermarmi e rimase in una posizione di estrema vigilanza; era come se fosse pronto a scattare in piedi e balzare addosso a un assalitore sconosciuto e invisibile.

Poi mi fece segno di continuare a pestare e dopo un po' mi interruppe nuovamente. Ogni volta che mi fermavo ascoltava con una tale concentrazione che ogni fibra del suo corpo sembrava tesa fino a scoppiare.

Improvvisamente balzò al mio fianco e mormorò che il crepuscolo era al colmo della sua forza.

Mi guardai intorno. La boscaglia era una massa oscura, come pure le colline e le rocce. Il cielo era azzurro scuro e non riuscivo più a vedere le nuvole. Tutto il mondo sembrava una massa uniforme di sagome scure senza contorni visibili.

Udii in lontananza il grido raccapricciante di un animale, un coyote o forse un uccello notturno. Era risuonato così all'improvviso che non gli avevo fatto attenzione; ma il corpo di don Juan sussultò leggermente, ne sentii la vibrazione mentre si alzava in piedi vicino a me.

«Ci siamo», mormorò. «Continua a pestare e tienti pronto. E' qui».

Incominciai a battere furiosamente, ma don Juan mise il suo piede sul mio facendomi segno freneticamente di rilassarmi e battere ritmicamente.

«Non la spaventare», mi sussurrò all'orecchio. «Calmati e non perdere il tuo sangue freddo».

Ricominciò a darmi il tempo e dopo che mi ebbe fatto fermare la seconda volta udii ancora lo stesso grido. Questa volta sembrava il grido di un uccello che volava sopra alla collina.

Don Juan mi fece battere ancora una volta e proprio quando mi fermai udii uno strano fruscio alla mia sinistra. Era il rumore che un animale pesante avrebbe potuto produrre muovendosi nel secco sottobosco. Per un istante pensai che potesse essere un orso, ma poi ricordai che nel deserto non c'erano orsi. Afferrai il braccio di don Juan e lui mi sorrise mettendosi il dito sulle labbra per farmi tacere. Fissai lo sguardo nel buio alla mia sinistra, ma lui mi fece segno di non farlo. Indicò ripetutamente sopra di me e quindi mi fece girare lentamente e in silenzio finché mi trovai a guardare la massa oscura della collina. Don Juan teneva il dito proteso verso un punto della collina. Tenni gli occhi incollati su quel punto e improvvisamente, come in un incubo, un'ombra nera balzò contro di me. Urlai e caddi a terra sulla schiena.

Per un momento la sagoma nera si era sovrapposta all'azzurro scuro del cielo e poi era volata attraverso l'aria atterrando dietro di noi, tra i cespugli. Udii il rumore di un corpo pesante che schiantava i cespugli e poi un grido raccapricciante.

Don Juan mi aiutò ad alzarmi e al buio mi guidò fino al posto dove avevo lasciato le mie trappole. Me le fece raccogliere e smontare e poi sparpagliò i pezzi in tutte le direzioni. Eseguì il tutto senza pronunciare una sola parola. Non parlammo affatto mentre ritornavamo a casa.

 

«Cosa vuoi che dica?», mi chiese don Juan dopo che lo ebbi ripetutamente esortato a spiegare gli avvenimenti cui avevo assistito qualche ora prima.

«Cosa era?», chiesi.

«Sai maledettamente bene chi era», rispose. «Non stare a chiedere 'cosa era?'. L'importante è chi era».

Avevo elaborato una spiegazione che mi sembrava soddisfacente. La figura che avevo visto assomigliava moltissimo a un aquilone che qualcuno poteva aver fatto volare sopra alla collina mentre qualcun altro, dietro di noi, lo aveva tirato al suolo, creando così l'effetto di una sagoma nera che navigava per l'aria per circa quindici o venti metri.

Don Juan ascoltò attentamente la mia spiegazione e poi rise fino alle lacrime.

«Smettila di tergiversare», disse. «Vieni al punto. Era o no una donna?».

Fui costretto ad ammettere che, quando ero caduto e avevo guardato in alto, avevo visto la sagoma nera di una donna con una lunga sottana saltare sopra di me con un movimento lentissimo; poi mi era sembrato che qualcuno avesse tirato la sagoma nera che mi aveva sorvolato a gran velocità ricadendo tra i cespugli. In realtà, quello che mi aveva dato l'idea di un aquilone era stato il suo movimento.

Don Juan rifiutò di discutere ulteriormente l'episodio.

Il giorno dopo se ne andò a sbrigare certe sue misteriose commissioni e io andai a far visita a dei miei amici yaqui di un'altra comunità.

 

Mercoledì 12 dicembre, 1962.

 

Non appena arrivai nella comunità yaqui, il gestore messicano dell'emporio mi disse di aver affittato un giradischi e venti dischi a Ciudad Obregon, per la "fiesta" che aveva in programma di dare quella sera in onore della Vergine di Guadalupe. Aveva già annunciato di aver fatto tutti i preparativi necessari tramite Julio, il commesso viaggiatore che veniva due volte al mese nella colonia yaqui a riscuotere le rate del pagamento di certi abiti a buon mercato che era riuscito a vendere ad alcuni indiani yaqui.

Julio portò il giradischi presto nel pomeriggio e lo collegò alla dinamo che forniva l'elettricità al locale. Si assicurò che funzionasse, poi girò il volume al massimo, ricordò al gestore di non toccare nessun bottone e incominciò a scegliere i dischi.

«Conosco tutti i graffi di ognuno di questi dischi», disse Julio al gestore.

«Dillo a mia figlia», il gestore replicò.

«Il responsabile sei tu, non tua figlia».

«E' la stessa cosa, è mia figlia che cambierà i dischi».

Julio insisté che per lui non faceva nessuna differenza se era la figlia o qualcun altro a maneggiare effettivamente il giradischi, purché il gestore pagasse ogni disco danneggiato. Il gestore incominciò a discutere e Julio divenne rosso in faccia. Di volta in volta si girava verso il folto gruppo di indiani yaqui raccolti davanti all'emporio e faceva segni di disperazione o frustrazione muovendo le mani e contorcendo la faccia in una smorfia. Come ultima risorsa domandò un deposito. Questa richiesta originò un'altra discussione su ciò che costituiva un disco danneggiato. Julio asserì con autorità che ogni disco rotto doveva essere pagato per intero, come se fosse nuovo. Il gestore si infuriò ancor più e tirò fuori i suoi argomenti più forti. Sembrava che volesse staccare il giradischi e annullare la "fiesta". Fece capire ai suoi clienti raccolti davanti al locale che lui aveva cercato di fare del suo meglio per mettersi d'accordo con Julio. Per un momento sembrò che la "fiesta" dovesse fallire prima di incominciare.

Blas, il vecchio indiano yaqui in casa del quale mi ero fermato, fece a voce alta alcuni sprezzanti commenti sulla triste condizione degli yaqui, che non potevano nemmeno celebrare la loro più importante festività religiosa, il giorno della Vergine di Guadalupe.

Volevo intervenire e offrire il mio aiuto ma Blas mi fermò. Disse che se avessi pagato io il deposito, il gestore in persona avrebbe rotto i dischi.

«E' il peggiore di tutti», disse. «Lascia che paghi lui il deposito. Ci dissangua, perché non dovrebbe pagare?».

Dopo una lunga discussione nella quale, abbastanza stranamente, tutti i presenti erano a favore di Julio, il gestore venne a termini reciprocamente più accettabili. Non pagò deposito ma accettò la responsabilità dei dischi e del giradischi.

La motocicletta di Julio lasciò una scia di polvere mentre si dirigeva verso alcune delle case più remote della località. Blas disse che cercava di raggiungere i suoi clienti prima che arrivassero all'emporio e spendessero tutto il loro denaro in alcool di pessima qualità. Mentre diceva queste parole un gruppo di indiani emerse da dietro all'emporio; Blas li guardò e scoppiò a ridere imitato da tutti i presenti.

Mi spiegò che quegli indiani erano i clienti di Julio e si erano tenuti nascosti dietro all'emporio in attesa che Julio se ne andasse.

La "fiesta" incominciò presto. La figlia del gestore mise un disco sul piatto e ci appoggiò sopra il braccio del giradischi; sentimmo prima un raschio terribilmente stridente e un fruscio molto forte, poi venne un'assordante musica di tromba e chitarre.

La festa consisteva nel suonare i dischi a tutto volume. C'erano quattro giovani messicani che ballavano con le due figlie del gestore e con tre altre giovani donne messicane. Gli yaqui non ballavano; osservavano con evidente piacere ogni movimento dei danzatori. Sembrava che tutto il loro godimento consistesse nel guardare e inghiottire sorsate di tequila a buon mercato.

Pagai da bere a tutti quelli che conoscevo, volevo evitare ogni possibile risentimento. Girai tra i numerosi indiani, parlai con loro e poi offrii loro da bere. La mia linea di condotta andò benissimo finché non si accorsero che non bevevo affatto. Sembrarono irritarsi tutti contemporaneamente, era come se avessero scoperto collettivamente che non ero dei loro. Gli indiani incominciarono a incupirsi e a guardarmi di traverso.

Intanto i messicani, ubriachi come gli indiani, si accorsero a loro volta che non avevo ballato, e questo sembrò offenderli ancor più. Diventarono molto aggressivi. Uno di loro mi afferrò violentemente per il braccio e mi trascinò vicino al giradischi; un altro mi versò una tazza piena di tequila e voleva che la bevessi tutta in un fiato per dimostrare che ero un "macho".

Cercai di tenerli buoni e risi stupidamente, come se davvero mi stessi godendo la situazione. Dissi che prima avrei ballato e poi avrei bevuto. Uno dei giovani gridò il nome di una canzone e la ragazza incaricata della musica incominciò a cercare nella pila di dischi. Sembrava un po' alticcia, sebbene nessuna delle donne avesse bevuto apertamente, e non riusciva a sistemare un disco sul piatto. Un giovane disse che il disco che aveva scelto non era un twist; la ragazza armeggiò con la pila di dischi, cercando di trovare quello adatto, e tutti si strinsero attorno a lei lasciandomi solo. Non mi lasciai sfuggire l'occasione e fuggii dietro all'emporio, lontano dalla zona illuminata e fuori di vista.

Mi fermai una trentina di metri più in là, protetto dai cespugli, e cercai di decidere cosa fare. Ero stanco. Sentivo che era ora di montare in macchina e tornare a casa mia, perciò mi avviai verso la casa di Blas dove avevo parcheggiato l'automobile. Pensavo che se avessi guidato lentamente nessuno si sarebbe accorto che andavo via.

Evidentemente le persone incaricate del giradischi stavano ancora cercando il disco giusto - tutto quello che potevo sentire era il rumorosissimo fruscio dell'altoparlante - ma poi venne il suono assordante di un twist. Scoppiai in una risata, pensando che probabilmente si erano voltati per cercarmi e si erano accorti che ero scomparso.

Vidi le sagome scure di alcune persone che si avviavano nella direzione opposta, dirette verso l'emporio. Quando ci oltrepassammo mormorarono: «Buenas noches». Le riconobbi e parlammo, dissi loro che era una grande "fiesta".

Prima di arrivare a una brusca curva della strada incontrai altre due persone che non riconobbi, ma le salutai comunque. Il fragore assordante del giradischi era quasi più forte là fuori sulla strada che di fronte all'emporio. La notte era buia e senza stelle, ma l'alone delle luci dell'emporio mi permetteva di vedere abbastanza bene i dintorni. La casa di Blas era molto vicina e accelerai il passo. Allora notai la forma scura di una persona seduta o forse accovacciata alla mia sinistra, alla curva della strada. Per un istante pensai che potesse essere uno dei partecipanti alla festa che se n'era andato prima di me; sembrava che stesse defecando sul margine della strada. Mi parve strano, la gente della comunità andava a compiere le proprie funzioni corporali nel folto dei cespugli. Pensai che chiunque fosse dovesse essere ubriaco.

Arrivai alla curva e dissi: «Buenas noches». La persona mi rispose con un grugnito misterioso, corrucciato, inumano. Tutti i peli del corpo mi si drizzarono letteralmente; per un secondo rimasi paralizzato, poi incominciai a camminare in fretta. Lanciai una rapida occhiata e vidi che la sagoma oscura si era rizzata a metà, era una donna. Si era chinata piegandosi in avanti e camminò in quella posizione per qualche metro, poi si mise a saltare. Mi misi a correre mentre la donna saltava al mio fianco, come un uccello, alla mia stessa velocità.

Quando arrivai a casa di Blas la donna stava tagliandomi la strada e mi aveva quasi toccato.

Scavalcai d'un salto un fossatello asciutto davanti alla casa e attraversai di schianto la porta.

Blas era già rientrato e non sembrò dar molta importanza alla mia storia.

«Ti hanno fatto uno scherzo», disse in tono rassicurante. «Gli indiani si divertono a stuzzicare i forestieri».

La mia esperienza era stata così snervante che il giorno dopo presi la macchina e andai a casa di don Juan invece di andarmene a casa mia come avevo intenzione.

 

Don Juan ritornò nel tardo pomeriggio. Non gli lasciai il tempo di dire nulla ma tirai fuori tutta la storia, compreso il commento di Blas. La faccia di don Juan divenne cupa; forse era solo la mia immaginazione, ma pensai che fosse preoccupato.

«Non dar tanto peso a quello che ti ha detto Blas», disse in tono serio. «Lui non sa nulla delle battaglie tra stregoni.

«Avresti dovuto capire che c'era qualcosa di grave nel momento in cui hai notato che l'ombra era alla tua sinistra; e inoltre non dovevi metterti a correre».

«Ma che avrei dovuto fare? Restare lì?».

«Sicuro. Quando un guerriero incontra il suo avversario e l'avversario non è un comune essere umano, deve immobilizzarsi: è la sola cosa che lo rende invulnerabile».

«Che cosa dite, don Juan?».

«Dico che hai avuto il terzo incontro col tuo degno avversario. Quella donna ti sta seguendo, aspettando un momento di debolezza da parte tua. Questa volta ti aveva quasi messo nel sacco».

Sentii un impeto di angoscia e lo accusai di farmi correre inutili pericoli. Mi lamentai che il gioco che giocava con me era crudele.

«Sarebbe crudele se questo fosse successo a un uomo qualsiasi», rispose. «Ma dall'istante in cui si incomincia a vivere come un guerriero non si è più un uomo qualsiasi. Inoltre, non ti ho trovato un degno avversario perché volessi che giocasse con te, o ti stuzzicasse o ti infastidisse. Un degno avversario dovrebbe spronarti: sotto l'influsso di un avversario come 'la Catalina' potresti dover fare uso di tutto quello che ti ho insegnato. Non hai altra alternativa».

Rimanemmo in silenzio per un po'. Le sue parole avevano risvegliato in me una tremenda apprensione.

Poi don Juan volle che imitassi meglio possibile il grido che avevo udito dopo aver detto «Buenas noches».

Cercai di riprodurre quel suono e me ne uscii con dei grugniti innaturali che mi spaventarono. Don Juan doveva aver trovato divertente la mia imitazione perché scoppiò a ridere quasi senza ritegno.

In seguito mi chiese di ricostruire tutta la successione: la distanza che avevo percorso correndo, la distanza della donna da me al momento in cui l'avevo incontrata, la sua distanza da me al momento in cui ero arrivato alla casa e il posto in cui la donna aveva incominciato a saltare.

«Nessuna grassa indiana potrebbe saltare a quel modo», concluse dopo aver valutato tutti gli elementi. «Non potrebbe nemmeno correre per tutto quel tratto».

Mi fece saltare. I miei salti non arrivavano più in là di un metro ogni volta, e se quello che avevo visto era giusto, la donna copriva almeno tre metri a ogni salto.

«Naturalmente sai che d'ora in avanti devi stare sul chi vive», mi disse don Juan in tono di grande premura. «La donna cercherà di toccarti sulla spalla sinistra in un momento in cui sarai distratto e debole».

«Che dovrei fare?», chiesi.

«Lamentarsi è inutile», rispose. «D'ora in poi l'importante è la strategia della tua vita».

Non riuscivo assolutamente a concentrarmi su quello che diceva, prendevo appunti automaticamente. Dopo un lungo silenzio mi chiese se sentivo dolore dietro alle orecchie o nella nuca. Risposi di no, allora mi spiegò che una sensazione sgradevole in uno di quei punti avrebbe significato che ero stato goffo e che 'la Catalina' mi aveva ferito.

«Tutto ciò che hai fatto quella sera è stato goffo», disse. «Innanzitutto, sei andato alla "fiesta" per ammazzare il tempo, come se ci fosse stato del tempo da ammazzare. Questo ti ha indebolito».

«Volete dire che non devo andare alle feste?».

«No, non è questo che voglio dire. Puoi andare dovunque vuoi ma se lo fai devi assumerti tutta la responsabilità del tuo atto. Un guerriero vive la propria vita strategicamente. Andrebbe a una festa o a una riunione del genere solo se la sua strategia lo richiedesse. Ciò significa, naturalmente, che avrebbe il completo controllo ed eseguirebbe tutti gli atti che ritiene necessari».

Mi guardò fissamente e sorrise, poi si coprì la faccia e ridacchiò sommessamente.

«Sei in una gran brutta situazione», disse. «Il tuo avversario è sulle tue tracce e per la prima volta nella vita non ti puoi permettere di comportarti a casaccio. Questa volta dovrai imparare un "fare" completamente differente, il "fare" della strategia. Ragiona così: se sopravvivi agli assalti della 'Catalina' dovrai ringraziarla un giorno o l'altro per averti costretto a cambiare il tuo "fare"».

«Che modo terribile di ragionare!», esclamai. «E se non sopravvivessi?».

«Il guerriero non indulge mai a pensieri di questo tipo», rispose.

«Quando deve agire con i suoi simili, il guerriero segue il "fare" della strategia, e in quel "fare" non ci sono vittorie o sconfitte ma solo azioni».

Gli chiesi che cosa comportava il 'fare' della strategia.

«Comporta che non si è alla mercé della gente», rispose «A quella festa, per esempio, sei stato un pagliaccio, non perché essere un pagliaccio servisse ai tuoi scopi ma perché ti sei messo da solo alla mercé di quella gente. Non hai mai avuto nessun controllo e perciò hai dovuto fuggirtene via».

«Che avrei dovuto fare?».

«Non andarci affatto, oppure andarci per eseguire un atto specifico.

«Dopo aver fatto il cretino coi messicani eri debole, e 'la Catalina' ha sfruttato l'occasione, si è piazzata sulla strada ad aspettarti.

«Il tuo corpo sapeva però che c'era qualcosa fuori posto, e tuttavia le hai parlato. E' stato terribile. In un incontro come quello non devi dire una sola parola al tuo avversario. Poi le hai voltato la schiena, ed è stato ancora peggio. Poi te ne sei fuggito via, ed è stata la cosa peggiore che potessi fare! Evidentemente quella donna è goffa, uno stregone che vale qualcosa ti avrebbe falciato immediatamente, nell'istante in cui hai girato la schiena e sei fuggito.

«Perciò finora la tua sola difesa è rimanere immobile ed eseguire la tua danza».

«Di che danza parlate?», chiesi.

Rispose che il 'battito del coniglio' che mi aveva insegnato era il primo movimento della danza che il guerriero perfezionava e accresceva per tutta la vita, e poi la eseguiva nella sua ultima danza sulla terra.

Provai un momento di strana sobrietà e mi venne in mente una serie di pensieri. A un livello era chiaro che quanto era avvenuto tra me e 'la Catalina' la prima volta che l'avevo affrontata era reale. 'La Catalina' stessa era reale e non potevo scartare l'eventualità che mi seguisse realmente. A un altro livello non potevo capire come mi seguisse, e questo faceva nascere il debole sospetto che don Juan potesse ingannarmi e che fosse stato lui a produrre in qualche modo gli strani effetti cui avevo assistito.

Improvvisamente don Juan guardò il cielo e disse che c'era ancora tempo per andar a controllare la strega. Mi rassicurò dicendo che non correvamo nessun pericolo perché saremmo solo andati con la macchina fino alla sua casa.

«Devi confermare la sua forma», disse. «Allora non avrai più dubbi nella mente, in un modo o nell'altro».

Le mani mi incominciarono a sudare profusamente e dovetti asciugarle con un fazzoletto. Salimmo in macchina e don Juan mi fece dirigere verso la strada principale e poi mi fece prendere una larga strada non asfaltata. Guidai nel centro della strada; pesanti carri e trattori avevano scavato profondi solchi e la mia automobile era troppo bassa per camminare sul lato sinistro o su quello destro. Procedemmo lentamente in mezzo a una fitta nuvola di polvere. La ghiaia grossolana usata per livellare il fondo stradale si era mescolata alla terra con la pioggia, e grosse zolle indurite di terra e sassi rimbalzavano contro il fondo metallico dell'automobile producendo forti rimbombi.

Don Juan mi disse di rallentare mentre arrivavamo a un ponticello dove erano seduti quattro indiani che ci salutarono. Non ero sicuro di conoscerli. Oltrepassammo il ponte e la strada fece una dolce curva.

«Ecco la casa della donna», mormorò don Juan accennando con gli occhi a una casa bianca circondata da un alto steccato di bambù.

Mi disse di fare una conversione a U e fermarmi in mezzo alla strada aspettando che la donna si insospettisse abbastanza da mostrare la faccia.

«Eccola», disse, e il suo corpo fece uno scatto improvviso.

Vidi la scura sagoma di una donna in piedi dentro la casa, che guardava attraverso la porta aperta. La stanza era buia e la sua penombra non faceva che accentuare l'oscurità della figura della donna.

Dopo qualche minuto la donna uscì dalla penombra della stanza e si piazzò sulla porta a osservarci. La guardammo un istante e quindi don Juan mi disse di mettere in moto e andar via. Ero senza parole, avrei potuto giurare che si trattava della stessa donna che avevo visto saltare lungo la strada nel buio.

Circa mezz'ora dopo, quando fummo sulla strada asfaltata, don Juan parlò.

«Cosa dici?», chiese. «Hai riconosciuto la forma?».

Esitai a lungo prima di rispondere. Avevo paura dell'impegno che avrebbe comportato una risposta affermativa. Formulai con cura la mia risposta e dissi che pensavo fosse stato troppo buio per essere completamente sicuro.

Don Juan rise e mi diede un colpetto sulla testa.

«Era lei, non è vero?», chiese.

Non mi diede il tempo di rispondere. Si mise il dito sulla bocca per farmi tacere e mi mormorò all'orecchio che parlare non aveva senso e che per sopravvivere agli assalti della 'Catalina' dovevo far uso di tutto quello che mi aveva insegnato.

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18.
L'ANELLO DI POTERE DELLO STREGONE.
 

Nel maggio 1971 feci a don Juan l'ultima visita del mio noviziato. In quell'occasione andai a trovarlo nello stesso spirito di tutti i dieci anni del nostro sodalizio; vale a dire, ancora una volta andavo a cercare la piacevolezza della sua compagnia.

Con lui c'era il suo amico don Genaro, uno stregone indiano mazatec. Li avevo visti tutti e due nella mia visita precedente, sei mesi prima. Mentre consideravo se chiedere o no se erano stati sempre insieme, don Genaro spiegò che gli piaceva il deserto settentrionale, gli piaceva tanto che era tornato giusto in tempo per vedermi. Scoppiarono a ridere tutti e due come se avessero un segreto.

«Sono tornato proprio per te», disse don Genaro.

«E' vero», fece eco don Juan.

Ricordai a don Genaro che l'ultima volta che ero stato là i suoi tentativi di aiutarmi a 'fermare il mondo' erano stati disastrosi. Era da parte mia un modo amichevole di fargli capire che avevo paura di lui. Don Genaro scoppiò a ridere senza controllo, scuotendo il capo e scalciando come un bambino. Don Juan evitò di guardarmi e scoppiò a ridere anche lui.

«Non vorrete cercar di aiutarmi ancora una volta, non è vero don Genaro?», dissi.

La mia domanda li fece scoppiare tutti e due in risate spasmodiche. Don Genaro rotolò al suolo ridendo, poi si sdraiò sulla pancia e incominciò a nuotare. Quando vidi i suoi movimenti seppi di essere perduto. In quel momento il mio corpo si rese conto in un modo o nell'altro che ero arrivato alla fine. Non sapevo cosa fosse quella fine. La mia personale tendenza alla drammatizzazione e la mia precedente esperienza con don Genaro mi fecero credere che quella avrebbe potuto essere la fine della mia vita.

Durante la mia ultima visita don Genaro aveva cercato di portarmi fin sul punto di 'fermare il mondo'. I suoi sforzi erano stati così bizzarri e diretti che lo stesso don Juan aveva dovuto dirmi di andar via.

Le dimostrazioni di 'potere' di don Genaro erano state così straordinarie e sconcertanti da costringermi a una totale rivalutazione di me stesso. Ero tornato a casa mia, avevo rivisto gli appunti presi nei primissimi tempi del mio noviziato, e in me si era stabilito un sentimento del tutto nuovo, sebbene non me ne fossi reso pienamente conto fino a quando avevo visto don Genaro nuotare per terra.

L'atto del nuotare per terra, coerente con altri atti strani e sconcertanti che don Genaro aveva eseguito davanti ai miei stessi occhi, incominciò quando don Genaro si stese a pancia in giù. Da principio rideva così forte che tutto il suo corpo si scuoteva come preso da una convulsione, poi incominciò a scalciare e alla fine il movimento delle gambe si coordinò con un movimento natatorio delle braccia, e don Genaro incominciò a scivolare sul terreno come se fosse steso su un'asse munita di cuscinetti a sfere. Cambiò varie volte direzione e coprì tutta la superficie davanti alla casa, manovrando intorno a me e don Juan.

Già altre volte don Genaro si era esibito in simili esercizi buffoneschi, e ogni volta don Juan aveva affermato che ero stato sul punto di 'vedere'. La mia incapacità di 'vedere' era il risultato della mia insistenza di cercar di spiegare ogni azione di don Genaro da un punto di vista razionale. Questa volta però stavo in guardia e quando don Genaro incominciò a nuotare non tentai di spiegare o comprendere l'avvenimento, mi limitai a osservarlo. Tuttavia non potei evitare una sensazione di confusione, don Genaro scivolava letteralmente sulla pancia e sul petto. Gli occhi mi incominciarono a incrociarsi mentre lo osservavo. Sentii un impeto di apprensione, ero convinto che se non avessi spiegato quello che accadeva avrei 'visto', e questo pensiero mi riempì di straordinaria angoscia. La mia aspettativa nervosa fu così grande che in certo modo mi ritrovai al punto di prima, bloccato ancora una volta in uno sforzo razionale.

Don Juan doveva avermi osservato. Improvvisamente mi diede un colpetto sulla spalla; mi voltai automaticamente verso di lui e per un istante distolsi gli occhi da don Genaro. Quando lo guardai di nuovo era in piedi accanto a me con il capo leggermente piegato e il mento appoggiato sulla mia spalla destra. Ebbi una reazione ritardata: lo guardai per un secondo e balzai indietro.

La sua espressione di finta sorpresa fu così comica che scoppiai a ridere istericamente. Tuttavia non potevo evitare di rendermi conto che la mia risata era insolita. Il mio corpo si scuoteva con spasmi nervosi che partivano dalla parte centrale dello stomaco. Don Genaro mi mise la mano sullo stomaco e i brividi simili a convulsioni scomparvero.

«Questo piccolo Carlos è sempre così esagerato!», esclamò in tono molto pedante.

Poi, imitando voce e modi di don Juan, aggiunse: «Non sai che un guerriero non ride mai così?».

La sua caricatura di don Juan era così perfetta che risi ancora più forte.

Poi tutti e due se ne andarono insieme e non tornarono per più di due ore, fino quasi a mezzogiorno.

Quando tornarono si misero a sedere davanti alla casa senza dire una parola. Sembravano assonnati, stanchi, quasi distratti. Restarono immobili a lungo, tuttavia sembravano estremamente comodi e rilassati. La bocca di don Juan era leggermente aperta, come se fosse veramente addormentato, ma teneva le mani incrociate sul petto e muoveva ritmicamente i pollici.

Per un po' mi agitai e cambiai posizione, poi incominciai a sentire una confortante placidità e probabilmente mi addormentai perché fui risvegliato dal ridacchiare di don Juan. Aprii gli occhi: i due stregoni mi fissavano.

«Se non parli ti addormenti», disse don Juan ridendo.

«Ho paura di sì», risposi.

Don Genaro si stese sulla schiena e incominciò a scalciare in aria. Per un momento pensai che avrebbe ricominciato col suo fastidioso comportamento buffonesco, ma immediatamente tornò a sedere nella sua posizione a gambe incrociate.

«C'è qualcosa che ormai dovresti conoscere», disse don Juan. «Io lo chiamo il centimetro cubo di opportunità. Tutti noi, guerrieri o no, abbiamo un centimetro cubo di opportunità che di quando in quando ci spunta davanti agli occhi. La differenza tra l'uomo medio e il guerriero è che il guerriero se ne rende conto e uno dei suoi compiti consiste nello stare all'erta, aspettando deliberatamente, così che quando il suo centimetro cubo spunta, il guerriero ha la velocità necessaria, l'abilità richiesta, per coglierlo.

«Il caso, la fortuna, il potere personale o comunque lo si voglia chiamare, è uno stato di cose particolare. E' come un piccolissimo bastoncello che sbuca davanti a noi e ci invita a tirarlo su. Di solito siamo troppo occupati, o preoccupati, o semplicemente troppo stupidi e pigri per capire che quello è il nostro centimetro cubo di fortuna. Mentre il guerriero è sempre all'erta e compatto, e ha l'agilità e la capacità necessarie per afferrarlo».

«La tua vita è molto compatta?», mi domandò bruscamente don Genaro.

«Penso di sì», risposi con convinzione.

«Pensi di saper afferrare il tuo centimetro cubo di fortuna?», mi chiese don Juan in tono incredulo.

«Credo di farlo sempre», risposi.

«Io penso che tu stai all'erta solo per le cose che conosci», disse don Juan.

«Forse mi illudo, ma io credo oggi di essere molto più consapevole di quanto lo sia mai stato in tutta la mia vita», dissi veramente convinto di quello che dicevo.

Don Genaro approvò con un cenno del capo.

«Sì», disse sottovoce, come parlando tra sé. «Il piccolo Carlos è veramente compatto e assolutamente all'erta».

Mi parve che mi assecondassero deliberatamente per prendermi in giro. Pensai che forse la mia asserzione sulle mie presunte condizioni di durezza potesse averli infastiditi.

«Non volevo vantarmi», dissi.

Don Genaro inarcò le sopracciglia e dilatò le narici. Lanciò un'occhiata al mio taccuino e finse di scrivere.

«Penso che Carlos sia più compatto che mai», disse don Juan a don Genaro.

«Forse è troppo compatto», ribatté don Genaro.

«Probabilissimo», ammise don Juan.

A quel punto non seppi cosa interloquire, perciò rimasi in silenzio.

«Ti ricordi di quella volta che ti ho bloccato la macchina?», chiese don Juan in tono indifferente.

La domanda era stata improvvisa e non aveva alcun riferimento a ciò di cui stavamo parlando. Si riferiva a una volta in cui non ero riuscito a mettere in moto la macchina finché don Juan non mi aveva detto che potevo farlo.

Osservai che nessuno avrebbe potuto dimenticare un episodio come quello.

«Non è stato niente», affermò don Juan in tono positivo. «Proprio niente. Vero, Genaro?».

«Vero», rispose don Genaro con indifferenza.

«Che intendete dire?», protestai. «Quello che avete fatto quel giorno è stato veramente al di là della mia capacità di comprendere».

«Questo non significa molto», ribatté don Genaro.

Scoppiarono tutti e due a ridere forte e don Juan mi diede un colpetto sulla schiena.

«Genaro può fare qualcosa di molto meglio che bloccarti la macchina», riprese. «Vero Genaro?».

«E' vero», rispose don Genaro, protendendo le labbra come un bambino.

«Che potrebbe fare?», chiesi cercando di apparire imperturbabile.

«Genaro ti può portar via tutta la macchina!», esclamò don Juan con voce tonante; poi aggiunse nello stesso tono: «Vero Genaro?».

«E' vero!», ribatté don Genaro nel tono di voce più forte che avessi mai udito.

Sobbalzai involontariamente; tre o quattro spasmi nervosi mi scossero il corpo.

«Che intendete dire? Che significa che mi può portar via tutta la macchina?», domandai.

«Che intendevo dire, Genaro?», chiese don Juan.

«Intendevi dire che potrei salire nella sua macchina, metterla in moto e andarmene», rispose don Genaro con un tono di serietà poco convincente.

«Porta via la macchina, Genaro», lo esortò don Juan in tono scherzoso.

«Fatto!», rispose don Genaro aggrottando la fronte e guardandomi di traverso.

Notai che quando aggrottava la fronte le sopracciglia gli si corrugavano, dando ai suoi occhi un'espressione maliziosa e penetrante.

«D'accordo!», disse don Juan con calma. «Andiamo laggiù a esaminare la macchina».

«Sì», gli fece eco don Genaro. «Andiamo laggiù a esaminare la macchina».

Si alzarono in piedi con estrema lentezza. Per un istante non seppi cosa fare, ma don Juan mi fece segno di alzarmi.

Ci incamminammo su per la collinetta di fronte alla casa di don Juan. I due stregoni mi affiancavano, don Juan a destra e don Genaro a sinistra. Camminavano un paio di metri avanti a me, sempre interamente nel mio campo visivo.

«Esaminiamo la macchina», disse ancora don Genaro.

Don Juan mosse le mani come se dipanasse un filo invisibile; don Genaro fece altrettanto e ripeté: «Esaminiamo la macchina». I due camminavano come rimbalzando; i loro passi erano più lunghi del solito e muovevano le mani come se frustassero o battessero degli oggetti invisibili di fronte a loro. Non avevo mai visto don Juan fare il buffone a quel modo e mi sentivo molto imbarazzato a guardarlo.

Raggiungemmo la cima della collina e guardai in basso verso il punto ai piedi della collina stessa, a una cinquantina di metri da noi, dove avevo parcheggiato la macchina. Lo stomaco mi si contrasse con una scossa: la macchina non c'era! Corsi giù per la collina. La macchina non c'era proprio! Per un momento mi sentii enormemente confuso, disorientato.

La macchina era rimasta parcheggiata lì da quando ero arrivato la mattina presto. Forse mezz'ora prima ero sceso a prendere un nuovo blocco di carta per scrivere e avevo pensato di lasciar aperti i finestrini per via del caldo eccessivo, ma la gran quantità di zanzare e altri insetti alati mi aveva fatto cambiare idea e avevo chiuso a chiave gli sportelli come al solito.

Guardai tutto intorno; mi rifiutavo di credere che la mia macchina se ne fosse andata. Camminai fino al margine della zona priva di vegetazione. Don Juan e don Genaro mi seguirono e si misero accanto a me, facendo esattamente quello che facevo io, scrutando in lontananza per vedere se la macchina fosse in vista da qualche parte. Provai un momento di strana euforia che lasciò il posto a uno sconcertante senso di irritazione. Sembrava che i due se ne fossero accorti perché incominciarono a camminarmi intorno muovendo le mani come se stessero impastando il pane.

«Cosa pensi che sia successo alla macchina, Genaro?», chiese don Juan in tono umile.

«L'ho portata via», disse don Genaro imitando con stupefacente abilità i gesti di una persona che cambia le marce e sterza. Piegò le gambe come se fosse seduto e rimase per qualche momento in quella posizione, sostenuto ovviamente solo dai muscoli delle gambe; poi spostò il peso del corpo sulla gamba destra e stese il piede sinistro per imitare l'azione sul pedale della frizione. Riprodusse con le labbra il rumore del motore e per finire, come colmo, finse di aver preso una cunetta lungo la strada e sobbalzò su e giù, dando la perfetta sensazione di un guidatore inesperto che rimbalza sul sedile senza lasciar andare lo sterzo.

La pantomima di don Genaro era stata stupenda. Don Juan rise fino a rimanere senza fiato. Volevo unirmi alla loro allegria ma non potevo rilassarmi, mi sentivo minacciato e a disagio. Un'angoscia senza precedenti nella mia vita si era impadronita di me. Mi sentivo bruciare e mi misi a prendere a calci i sassi e finii con lo scagliarli con una furia inconscia e imprevedibile. Era come se la mia rabbia fosse stata davvero fuori di me e mi avesse avvolto all'improvviso. Poi il senso di fastidio mi abbandonò misteriosamente come mi aveva preso. Tirai un profondo respiro e mi sentii meglio.

Non osai guardare. Ero imbarazzato per aver dato spettacolo con la mia collera, ma al tempo stesso volevo ridere. Don Juan mi venne al fianco e mi batté sulla schiena. Don Genaro mi mise il braccio sulla spalla.

«Benissimo», disse don Genaro. «Lasciati andare. Datti un pugno sul naso e fatti uscire il sangue. Poi puoi prendere un sasso e rompertici i denti, ti farà sentire meglio. E se non basta, con quello stesso sasso ti ci puoi schiacciare le palle su quel masso laggiù».

Don Juan ridacchiò. Dissi loro che mi vergognavo di essermi comportato così male, non sapevo cosa mi avesse preso. Don Juan disse che era certo che sapevo esattamente quello che succedeva, che fingevo di non saperlo e che quel che mi aveva fatto andare in collera era la mia finzione.

Don Genaro fu insolitamente consolante, mi diede ripetuti colpetti sulla schiena.

«Capita a tutti», disse don Juan.

«Che intendete dire con questo, don Juan?», chiese don Genaro imitando la mia voce e canzonando la mia abitudine di fare domande a don Juan.

Don Juan disse alcune cose assurde come: «Quando il mondo è a testa in giù noi siamo a testa in su, ma quando il mondo è a testa in su noi siamo a testa in giù. Ora, quando il mondo è a testa in su, noi pensiamo di essere a testa in giù...», e continuò su questo tono a dire sciocchezze mentre don Genaro mi faceva il verso fingendo di prendere appunti. Scriveva su un taccuino invisibile, dilatando le narici mentre muoveva le mani, con gli occhi spalancati e fissi su don Juan. Imitava alla perfezione i miei sforzi di scrivere senza guardare il taccuino per non alterare il naturale flusso della conversazione. La sua caricatura era veramente buffa.

Improvvisamente mi sentii molto a mio agio, felice. La risata di quei due mi confortava; per un momento mi lasciai andare e risi di tutto cuore. Ma poi la mia mente entrò in un nuovo stato di apprensione, confusione e fastidio. Pensai che quanto avveniva, qualunque cosa fosse, era impossibile; in effetti, era inconcepibile secondo l'ordine logico mediante il quale sono solito giudicare il mondo. Tuttavia, io che percepivo quel mondo, percepivo che la mia macchina non c'era. Mi venne in mente, come sempre era successo quando don Juan mi aveva messo di fronte a fenomeni inesplicabili, di essere stato ingannato con mezzi ordinari. La mia mente aveva sempre, nei momenti di tensione, involontariamente e coerentemente ripetuto lo stesso costrutto. Incominciai a considerare quanti complici avrebbero dovuto avere don Juan e don Genaro per sollevare la mia macchina e spostarla da dove l'avevo parcheggiata. Ero assolutamente certo di aver chiuso a chiave gli sportelli; il freno a mano era tirato, la marcia ingranata e il bloccasterzo chiuso. Per spostarla avrebbero dovuto sollevarla di peso e per farlo ci sarebbe voluta una forza che, ero convinto, nessuno di loro due avrebbe potuto avere. Un'altra possibilità era che qualcuno d'accordo con loro fosse penetrato nell'automobile dopo averla forzata, avesse messo i fili in contatto e l'avesse portata via. Per farlo ci sarebbe voluta una conoscenza specializzata al di là dei loro mezzi. La sola altra spiegazione possibile era che forse mi stavano ipnotizzando. I loro movimenti mi erano così nuovi e sospetti da spingermi in una catena di razionalizzazioni. Pensai che se mi stavano ipnotizzando allora ero in uno stato di coscienza alterata. Nella mia esperienza con don Juan avevo notato che in simili stati si è incapaci di conservare una coerente registrazione mentale del passar del tempo. In tutti gli stati di realtà non ordinaria da me sperimentati non c'era mai stato un ordine durevole per quel che riguardava il passare del tempo, e la mia conclusione fu che se rimanevo all'erta sarebbe venuto un momento in cui avrei perso il mio ordine di successione temporale. Come, per esempio, se a un certo momento fossi stato a guardare una montagna e poi, nel successivo istante di consapevolezza, mi fossi trovato a guardare una valle nella direzione opposta ma senza ricordare di essermi voltato. Sentii che se mi accadeva qualcosa di quella natura allora avrei potuto spiegare quanto accadeva alla mia macchina come, forse, un caso di ipnosi. Decisi che la sola cosa da fare era osservare ogni dettaglio con tormentosa attenzione.

«Dov'è la mia macchina?», chiesi rivolto a entrambi.

«Dov'è la macchina, Genaro?», chiese don Juan con un'espressione di assoluta serietà.

Don Genaro si mise a sollevare dei piccoli sassi guardando sotto. Lavorò febbrilmente per tutta la zona pianeggiante dove avevo parcheggiato l'automobile; rivoltò letteralmente ogni sasso. Di quando in quando fingeva di arrabbiarsi e scagliava il sasso nei cespugli.

Don Juan sembrava godersi enormemente la scena. Ridacchiava e gorgogliava e sembrava aver completamente dimenticato la mia presenza.

Don Genaro aveva appena finito di scagliare un sasso in un'esibizione di finta collera quando si imbatté in un macigno piuttosto grosso, il solo sasso abbastanza grande e pesante della zona dove era stata parcheggiata la macchina. Cercò di capovolgerlo, ma era troppo pesante e troppo profondamente conficcato nel terreno. Si sforzò e sbuffò fino a sudare, poi si mise seduto sul sasso e chiamò in aiuto don Juan.

Don Juan si rivolse a me e mi disse con un sorriso raggiante: «Avanti, diamo una mano a Genaro».

«Cosa fa?», chiesi.

«Sta cercando la tua macchina», dichiarò don Juan con aria indifferente.

«Per l'amor del cielo! Come la può trovare sotto ai sassi?», protestai.

«Per l'amor del cielo, perché no?», ribatté don Genaro e tutti e due scoppiarono a ridere fragorosamente.

Non riuscimmo a smuovere il sasso. Don Juan suggerì di ritornare a casa a cercare un grosso pezzo di legno da usare come leva.

Mentre ci dirigevamo verso casa dissi che i loro atti erano assurdi e che qualunque cosa facessero per me era superflua.

Don Genaro mi strizzò l'occhio.

«Genaro è un uomo molto preciso», disse don Juan con un'espressione seria. «E' preciso e attento quanto te. Tu stesso hai detto che non lasceresti mai una cosa a metà. Lui è come te».

Don Genaro mi diede un colpetto sulla spalla e disse che don Juan aveva assolutamente ragione e che veramente lui voleva essere come me. Mi lanciò uno sguardo folle e dilatò le narici.

Don Juan batté le mani e buttò in terra il cappello.

Dopo una lunga ricerca, don Genaro trovò un pezzo di legno lungo e abbastanza grosso, un pezzo di trave. Se lo mise sulle spalle e ripartimmo per il posto dove era stata la mia macchina.

Mentre arrivavamo sulla collinetta e stavamo per raggiungere una curva del sentiero da cui avrei dovuto vedere la radura dove avevo parcheggiato la macchina, ebbi un'improvvisa intuizione. Mi venne in mente che avrei trovato la macchina prima di loro, ma quando guardai in basso non c'era nessuna macchina ai piedi della collina.

Don Juan e don Genaro dovevano aver capito quello che pensavo e mi corsero dietro ridendo fragorosamente.

Quando arrivammo ai piedi della collina si misero immediatamente al lavoro. Li osservai per qualche minuto, i loro atti erano incomprensibili. Non fingevano di lavorare, erano realmente immersi nella fatica di capovolgere un macigno per vedere se sotto c'era la mia macchina. Era troppo per me e mi unii a loro; sbuffavano e urlavano e don Genaro ululava come un coyote. Notai quanto fossero incredibilmente forti i loro corpi, specialmente quello di don Juan; accanto a loro facevo la figura di uno smidollato.

Ben presto sudavo anch'io copiosamente. Alla fine riuscimmo a rivoltare il macigno e don Genaro esaminò il terriccio che c'era sotto con la più esasperante pazienza e meticolosità.

«No, non c'è», annunciò.

Questa affermazione li fece cadere tutti e due in terra dal ridere.

Risi nervosamente. Don Juan sembrava in preda a veri spasmi dolorosi e si coprì il volto stendendosi a terra, col corpo che si scuoteva dal ridere.

«In che direzione andiamo adesso? chiese don Genaro dopo una lunga sosta.

Don Juan fece un cenno col capo.

«Dove andiamo?», chiesi.

«A cercare la tua macchina», rispose don Juan con espressione imperturbabile.

Mi si misero di nuovo ai fianchi. Avevamo fatto solo pochi metri tra i cespugli quando don Genaro ci fece segno di fermarci. Si avvicinò in punta di piedi a un cespuglio rotondo lontano pochi passi, guardò per qualche istante tra i rami interni e disse che la macchina non c'era.

Continuammo per un po' a camminare e quindi don Genaro fece con la mano un gesto per farci tacere. Inarcò la schiena alzandosi sulla punta dei piedi e protese le braccia sopra al capo con le dita contratte come un artiglio. Dal punto in cui ero il suo corpo aveva la forma di una lettera S. Don Genaro conservò per un istante quella posizione e quindi si tuffò letteralmente a capofitto su un lungo ramo coperto di foglie secche. Lo sollevò con cura e lo esaminò, e ancora una volta osservò che la macchina non era lì.

Mentre camminavamo nella fitta boscaglia guardò dietro ai cespugli e si arrampicò su piccoli alberi di "paloverde", guardando tra le foglie, solo per concludere che la macchina non era neanche lì.

Intanto io tenevo una meticolosissima registrazione mentale di tutto quello che toccavo o vedevo. La mia visione sequenziale e ordinata del mondo intorno a me era continua come sempre. Toccavo sassi, cespugli, alberi. Spostavo la vista dal primo piano allo sfondo guardando da un occhio e poi dall'altro. Secondo ogni calcolo stavo camminando nella boscaglia come avevo fatto tante volte nella vita.

Poi don Genaro si stese sulla pancia e ci invitò a fare come lui. Appoggiò il mento sulle mani incrociate, don Juan lo imitò. Tutti e due fissarono una serie di piccole protuberanze sul terreno che sembravano minuscole colline. Improvvisamente don Genaro fece un movimento rotatorio col braccio destro e afferrò qualcosa. Si alzò in fretta imitato da don Juan, ci mostrò il pugno serrato e ci fece segno di avvicinarci e guardare, poi incominciò ad aprire lentamente la mano. Quando fu aperta a metà ne volò via un grande oggetto nero. Il movimento era stato così improvviso e l'oggetto volante così grosso che balzai indietro e quasi persi l'equilibrio; don Juan mi sorresse.

«Non era la macchina», disse don Genaro dispiaciuto. «Era una maledetta mosca. Mi spiace!».

Tutti e due mi scrutarono. Stavano di fronte a me e non mi guardavano direttamente ma con la coda dell'occhio. Fu un'occhiata prolungata.

«Era una mosca, non è vero?», mi chiese don Genaro.

«Penso di sì», risposi.

«Non pensare!», mi ordinò don Juan imperiosamente. «Che cosa hai visto?».

«Ho visto una cosa grande come un corvo volare via dalla sua mano», dissi.

La mia affermazione era coerente con quello che avevo percepito e non era intesa come uno scherzo, ma tutti e due la presero probabilmente come l'affermazione più buffa che uno di noi avesse fatto quel giorno. Tutti e due saltarono su e giù fino a soffocare.

«Penso che Carlos ne abbia avuto abbastanza», disse don Juan; aveva la voce rauca dal gran ridere.

Don Genaro disse che stava per trovare la mia macchina, che la sensazione stava diventando sempre più calda. Don Juan disse che eravamo in una zona accidentata e che trovare la macchina là non era una cosa desiderabile. Don Genaro si tolse il cappello e ne sistemò il nastro con un pezzo di spago che aveva in tasca, poi attaccò la sua cintura di lana a una nappa gialla fissata alla tesa del cappello.

«Sto facendo un aquilone col cappello», mi disse.

Lo guardai e capii che stava scherzando; mi ero sempre considerato un esperto di aquiloni, da bambino costruivo gli aquiloni più complicati e sapevo che la tesa del suo cappello di paglia era troppo fragile per resistere al vento. La cupola, inoltre, era troppo profonda, e il vento vi avrebbe circolato dentro rendendo impossibile sollevare il cappello da terra.

«Pensi che non volerà, non è vero?», mi chiese don Juan.

«So che non volerà», risposi.

Don Genaro non se ne diede per inteso e finì di attaccare al suo aquilone una lunga cordicella.

Era una giornata ventosa e don Genaro corse giù per la collina mentre don Juan teneva il suo cappello, poi don Genaro tirò lo spago e quel maledetto coso volò davvero.

«Guarda, guarda l'aquilone!», urlò don Genaro.

Il cappello sobbalzò un paio di volte ma rimase in aria.

«Non distogliere gli occhi dall'aquilone», disse don Juan con fermezza.

Per un momento mi sentii girare la testa. Mentre guardavo l'aquilone mi era tornato il ricordo di tanti anni prima; era come se fossi io a farlo volare, come facevo quando tirava vento sulle colline della mia città natale.

Per un attimo fui avvolto dal ricordo e persi la consapevolezza del passare del tempo.

Udii don Genaro urlare qualcosa e vidi il cappello sobbalzare su e giù e poi cadere a terra, dove c'era la mia macchina. Tutto era avvenuto con una tale rapidità che non ero riuscito ad averne una chiara immagine. Fui preso dalle vertigini e mi distrassi. La mia mente si afferrava a un'immagine molto sconcertante. O avevo visto il cappello di don Genaro trasformarsi nella mia automobile, o avevo visto il cappello cadere sul tetto della macchina. Volevo credere alla seconda possibilità, che don Genaro avesse usato il suo cappello per indicare la macchina. Non che contasse veramente, l'una cosa era stupefacente quanto l'altra, ma ciò nonostante la mia mente si afferrava a quel particolare arbitrario per conservare il mio originale equilibrio mentale.

Udii don Juan che diceva: «Non lo ostacolare».

Sentii che qualcosa stava per affiorare dentro di me. Pensieri e immagini affluirono a ondate incontrollabili come se mi stessi addormentando. Fissai la macchina stupefatto: era posta su una superficie sassosa pianeggiante a un centinaio di metri da me; sembrava davvero che qualcuno l'avesse proprio posata là. Corsi verso la macchina e incominciai a esaminarla.

«Maledizione!», esclamò don Juan. «Non fissare la macchina. "Ferma il mondo"!».

Poi, come in un sogno, lo udii gridare: «Il cappello di Genaro! Il cappello di Genaro!».

Li guardai: tutti e due mi fissavano direttamente. I loro occhi erano penetranti. Sentii un dolore allo stomaco, ebbi un improvviso mal di testa e mi sentii male.

Don Juan e don Genaro mi guardavano con curiosità. Mi sedetti per un po' vicino alla macchina e quindi aprii automaticamente la serratura e feci sedere don Genaro sul sedile posteriore. Don Juan lo seguì e si sedette accanto a lui. Pensai che fosse strano perché di solito si sedeva davanti.

Guidai fino a casa di don Juan in una specie di confusione mentale. Non mi sentivo affatto me stesso: avevo lo stomaco sconvolto e la sensazione di nausea demoliva tutta la mia lucidità. Guidavo meccanicamente.

Sentivo sul sedile posteriore don Juan e don Genaro ridere e gorgogliare come bambini. Udii don Juan che mi chiedeva: «Ci stiamo avvicinando?».

Fu a quel punto che guardai deliberatamente la strada. Eravamo davvero molto vicini a casa sua.

«Stiamo per arrivare», borbottai.

Scoppiarono tutti e due in una risata ululante battendosi le mani sulle cosce.

Quando arrivammo saltai giù automaticamente e aprii loro lo sportello. Don Genaro scese per primo e si congratulò con me per quella che definì la gita in macchina più dolce e senza scosse che avesse mai fatto. Don Juan disse lo stesso. Non feci loro molta attenzione.

Chiusi a chiave la macchina e per poco non me la portai in casa. Prima di addormentarmi sentii don Juan e don Genaro ridere fragorosamente.

 
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19.
FERMARE IL MONDO.
 

Il giorno dopo appena sveglio trovai don Juan dietro alla casa occupato a tagliare legna da ardere, e incominciai a fargli domande, ma non vidi don Genaro da nessuna parte. Don Juan disse che non c'era nulla di cui parlare. Insistei, ricordandogli che il giorno prima ero riuscito a rimanere distaccato e avevo osservato don Genaro 'nuotare per terra' senza volere o pretendere nessuna spiegazione, ma ciò non mi aveva aiutato a capire quello che succedeva. Poi, dopo la scomparsa della macchina, mi ero bloccato automaticamente nella ricerca di una spiegazione logica, ma neanche quello mi aveva aiutato. Dissi che insistevo a cercare spiegazioni non perché lo volessi io, tanto per fare il difficile, ma perché il bisogno di spiegazioni si era radicato così profondamente in me da annullare ogni altra considerazione. «E' come una malattia», dissi.

«Non ci sono malattie», rispose don Juan con calma. «C'è solo abbandono, e tu ti abbandoni a te stesso quando cerchi di spiegare tutto. Nel tuo caso le spiegazioni non sono più necessarie».

Insistei che potevo funzionare solo in condizioni di ordine e razionalità. Gli ricordai che durante il nostro sodalizio avevo cambiato radicalmente la mia personalità e che la condizione che aveva reso possibile il cambiamento nasceva dalla mia capacità di spiegare a me stesso tale cambiamento.

Don Juan rise piano. Non parlò per molto tempo. «Sei molto furbo», disse alla fine. «Ritorni sempre là dove sei sempre stato. Ma questa volta hai finito, non hai più un posto a cui tornare. Non ti spiegherò più niente. Quello che ti ha fatto ieri Genaro, qualunque cosa fosse, l'ha fatto al tuo corpo; perciò lascia che sia il tuo corpo a decidere cos'era».

Il suo tono era amichevole ma insolitamente distaccato e mi diede un senso di opprimente solitudine. Espressi i miei sentimenti di tristezza e don Juan sorrise e mi afferrò delicatamente il dorso della mano.

«Siamo tutti e due esseri che devono morire», disse sottovoce. «Non c'è più tempo per quello che siamo abituati a fare. Ora devi impiegare tutto il "non-fare" che ti ho insegnato e "fermare il mondo"».

Mi afferrò di nuovo la mano, il suo tocco era fermo e amichevole; era come se mi rassicurasse di provare interesse e affetto per me, e al tempo stesso mi dava l'impressione di una intenzionalità incrollabile.

«Questo è il mio gesto per te», disse conservando per un istante la sua stretta sulla mia mano. «Ora devi andare da solo in quelle montagne amichevoli». Indicò col mento la lontana catena di montagne verso sud-est.

Disse che dovevo rimanere là finché il mio corpo non mi avrebbe detto di andar via e allora dovevo tornare a casa sua. Mi fece capire che non voleva che dicessi nulla o aspettassi più e mi sospinse dolcemente verso la macchina.

«Che dovrei fare laggiù?», chiesi.

Don Juan non rispose ma mi guardò scuotendo il capo.

«Non aggiungere altro», disse alla fine.

Poi indicò verso sud-est.

«Vai laggiù!», mi ordinò seccamente.

Salii in macchina e mi diressi verso sud e poi verso est, seguendo le strade che avevo sempre preso viaggiando con don Juan. Parcheggiai dove terminava la strada sterrata e mi avviai a piedi per un sentiero che conoscevo bene, fino a raggiungere un altipiano. Non avevo idea di quello che avrei dovuto fare là e gironzolai in cerca di un posto per riposare. Improvvisamente notai una piccola superficie alla mia sinistra. Sembrava che in quel punto la composizione chimica del terreno fosse diversa, tuttavia quando mettevo a fuoco gli occhi non vedevo nulla che potesse spiegare quella differenza. Mi avvicinai e cercai di 'sentire', come mi aveva sempre raccomandato don Juan.

Rimasi immobile per circa un'ora. I miei pensieri diminuivano gradualmente finché cessai del tutto di parlare a me stesso. Allora provai una sensazione di fastidio che sembrava limitata allo stomaco ed era più acuta quando guardavo quella particolare superficie. Mi sentivo respinto e costretto ad allontanarmene. Incominciai a scorrere la zona con gli occhi incrociati e dopo una breve camminata mi fermai davanti a una grande roccia piatta. In quella roccia non c'era niente di particolare che mi attirasse, non ci vedevo nessuno specifico colore né splendore, e tuttavia mi piaceva, il mio corpo si sentiva bene. Provai una sensazione di conforto fisico e sedetti per un po'.

Girai tutto il giorno per l'altipiano e per le montagne circostanti senza saper che fare o che aspettare. Al crepuscolo tornai alla roccia piatta, sapevo che se avessi passato lì la notte sarei stato al sicuro.

Il giorno dopo mi spinsi più a est sulle montagne. Nel tardo pomeriggio arrivai a un altipiano ancora più elevato. Pensavo di esserci già stato prima, mi guardai intorno per orientarmi ma non riuscivo a riconoscere nessuno dei picchi circostanti. Scelsi con cura un posto adatto e mi misi seduto a riposare sul bordo di una zona sassosa priva di vegetazione. Là mi sentii molto caldo e provai un gran senso di pace. Cercai del cibo nella mia zucca, ma era vuota. Bevvi un po' d'acqua, era calda e sapeva di stantio. Pensai che non avevo altro da fare che tornare a casa di don Juan e incominciai a domandarmi se avessi dovuto o no riprendere subito la via del ritorno. Mi distesi sulla pancia e appoggiai la testa sul braccio. Mi sentivo a disagio e cambiai posizione varie volte finché mi trovai a guardare a ovest. Il sole era già basso. Avevo gli occhi stanchi. Guardai in terra e vidi un grosso scarabeo sbucare da dietro un sasso sospingendo una palla di sterco grande il doppio di lui. Seguii a lungo i suoi movimenti, l'insetto non sembrava curarsi della mia presenza e continuò a spingere il suo carico, superando sassi, radici, depressioni e protuberanze del terreno. Per quanto ne sapevo, lo scarabeo non si rendeva conto della mia presenza. Mi venne in mente che non potevo essere sicuro che l'insetto non si rendesse conto di me, e questo pensiero scatenò tutta una serie di valutazioni razionali sulla natura del mondo dell'insetto contrapposto al mio. Io e lo scarabeo eravamo nello stesso mondo ma ovviamente il mondo non era lo stesso per tutti e due. Lo osservai intensamente meravigliandomi della forza gigantesca necessaria per trasportare il suo carico sui sassi e nei crepacci.

Osservai l'insetto a lungo e quindi mi accorsi del silenzio che mi circondava. Solo il vento fischiava tra i rami e le foglie della boscaglia. Guardai in alto, mi voltai a sinistra con un movimento rapido e involontario, e intravidi una debole ombra, o un guizzo, su una roccia a pochi passi di distanza. Dapprima non feci attenzione, ma poi mi resi conto che quel guizzo era stato alla mia sinistra. Mi voltai di scatto e riuscii a percepire chiaramente un'ombra sulla roccia. Ebbi la strana sensazione che l'ombra scivolasse a terra e il suolo l'assorbisse come una macchia d'inchiostro sulla carta assorbente. Un brivido mi corse per la schiena; mi venne in mente che la morte stava osservando me e lo scarabeo.

Cercai ancora l'insetto ma non riuscii a trovarlo. Pensai che fosse arrivato alla sua destinazione e avesse lasciato cadere il carico in una cavità del terreno. Appoggiai la faccia contro un sasso levigato.

Lo scarabeo emerse da un buco profondo e si fermò a qualche centimetro dalla mia faccia. Sembrava che mi guardasse e per un momento sentii che si era reso conto della mia presenza, forse come io mi rendevo conto della presenza della mia morte. Sentii un brivido, dopo tutto io e lo scarabeo non eravamo così diversi; la morte, come un'ombra, ci spiava tutti e due da dietro un masso. Provai uno straordinario momento di euforia: io e lo scarabeo eravamo pari, nessuno dei due era migliore dell'altro, la nostra morte ci rendeva uguali.

L'euforia e la gioia furono così prepotenti che scoppiai a piangere. Don Juan aveva ragione, aveva sempre avuto ragione: vivevo in un mondo misteriosissimo e, come ogni altro, ero un essere misteriosissimo, eppure non ero più importante di uno scarabeo. Mi asciugai gli occhi e mentre me li strofinavo col dorso della mano vidi un uomo, o qualcosa che aveva la forma di un uomo. Era alla mia destra, a una cinquantina di metri. Mi tirai su a sedere e mi sforzai di guardare. Il sole era quasi sull'orizzonte e il suo bagliore giallastro mi impediva di vedere chiaramente. In quel momento udii uno strano rombo, come il rumore lontano di un aeroplano a reazione. Mentre concentravo l'attenzione sul rumore questo crebbe diventando un acuto sibilo metallico prolungato e poi si addolcì fino a trasformarsi in un suono ipnotizzante e melodioso. La melodia era come la vibrazione di una corrente elettrica. L'immagine che mi venne in mente fu quella di due sfere elettrizzate che si congiungevano, o due blocchi di metallo elettrizzato strofinati l'uno contro l'altro e poi fermati con un colpetto quando erano l'uno perfettamente al livello dell'altro. Di nuovo mi sforzai di vedere se riuscivo a distinguere la persona che sembrava nascondersi, ma potei solo scorgere un'ombra nera contro i cespugli. Mi feci schermo agli occhi con le mani. In quel momento il bagliore del sole cambiò e allora mi resi conto che quello che vedevo era solo un'illusione ottica, un gioco di ombre e foglie.

Distolsi gli occhi e vidi un coyote trotterellare calmo calmo attraverso la radura; era vicino al punto in cui pensavo di aver visto l'uomo. Avanzò per circa cinquanta metri in direzione sud e poi si fermò, si voltò e incominciò ad avanzare verso di me. Urlai un paio di volte per spaventarlo e farlo fuggire, ma continuò a venire verso di me. Provai un momento di apprensione, pensai che potesse avere la rabbia e pensai anche di raccogliere qualche sasso per difendermi nel caso di un attacco. Ma quando l'animale fu a una quindicina di passi notai che non era affatto agitato; al contrario, sembrava calmo e per nulla spaventato. Rallentò la sua andatura fermandosi appena a quattro o cinque passi da me. Ci guardammo, poi il coyote si avvicinò ancora; i suoi occhi marroni erano amichevoli e limpidi. Mi sedetti sulle rocce e il coyote si avvicinò fin quasi a toccarmi. Ero stupefatto, non avevo mai visto un coyote selvatico così da vicino, e la sola cosa che mi venne in mente in quel momento fu di parlargli. Incominciai a parlare come si parla a un cane, e quindi mi parve che il coyote avesse 'parlato' in risposta; ebbi l'assoluta certezza che avesse detto qualcosa. Mi sentivo confuso, ma non ebbi il tempo di considerare i miei sentimenti perché il coyote 'parlò' ancora. Non che l'animale pronunciasse le parole nel modo in cui sono abituato a udirle pronunciare dagli esseri umani, era piuttosto una 'sensazione' che stesse parlando. Ma non era nemmeno quella sensazione che si ha quando sembra che un cagnolino comunichi col suo padrone. Il coyote disse veramente qualcosa: formulò un pensiero e quella comunicazione uscì in qualcosa di molto simile a una frase. Io avevo detto: «Come stai, piccolo coyote?», e pensai di aver udito l'animale rispondere: «Io sto bene, e tu?». Quindi il coyote ripeté la frase e io balzai in piedi. L'animale non fece un solo movimento, non sussultò nemmeno per il mio balzo improvviso, i suoi occhi rimasero amichevoli e limpidi. Si distese sulla pancia, piegò la testa e chiese: «Perché hai paura?». Mi misi seduto davanti a lui e incominciai la conversazione più strana della mia vita. Alla fine il coyote mi chiese cosa facevo in quella zona e io risposi che ero venuto lassù per 'fermare il mondo'. Il coyote esclamò «"Que bueno"!», e allora capii che era un coyote bilingue. I nomi e i verbi delle sue frasi erano in inglese, ma le congiunzioni e le esclamazioni in spagnolo. Mi venne in mente che forse ero alla presenza di un coyote "Chicano". Scoppiai a ridere dell'assurdità di tutto quello che mi succedeva e risi così forte da diventare quasi isterico. Poi fui colpito da tutto il peso dell'impossibilità della situazione e la mia mente vacillò. Il coyote si alzò e il nostro sguardo si incontrò, lo fissai intensamente negli occhi, sentii che mi tiravano e a un tratto l'animale diventò iridescente, incominciò a splendere. Era come se la mia mente riproiettasse il ricordo di un altro episodio accaduto dieci anni prima, quando sotto l'influenza del peyote avevo assistito alla metamorfosi di un comune cane in un indimenticabile essere iridescente. Era come se il coyote avesse causato la rievocazione, e il ricordo dell'episodio precedente fu evocato e sovrapposto alla forma del coyote; il coyote era un essere fluido, liquido e luminoso, la sua luminosità era abbagliante. Volli coprirmi gli occhi con le mani per proteggerli, ma non riuscii a muovermi. L'essere luminoso mi toccò in qualche parte indefinita di me stesso e il mio corpo provò un senso di calore e benessere così meravigliosamente indescrivibile che era come se quel tocco mi avesse fatto esplodere. Ero paralizzato, non riuscivo a sentirmi i piedi, né le gambe, né alcuna parte del corpo, eppure qualcosa mi sosteneva.

Non ho idea di quanto a lungo sia rimasto in quella posizione. Nel frattempo il coyote luminoso e la collina svanirono. Non avevo pensieri né sentimenti. Tutto si era spento e io galleggiavo liberamente.

Improvvisamente sentii che il mio corpo era colpito e quindi avvolto da qualcosa che mi accendeva. Mi accorsi che il sole splendeva su di me. Lontano a ovest potevo vagamente distinguere una catena di montagne. Il sole era quasi sull'orizzonte; lo stavo guardando direttamente e allora vidi le 'linee del mondo'. Percepii realmente la più straordinaria profusione di linee bianche fluorescenti che si intersecavano dovunque intorno a me. Per un istante pensai che fosse dovuto alla rifrazione del sole tra le mie ciglia. Battei le palpebre e guardai ancora. Le linee erano costanti e si sovrapponevano o attraversavano tutto ciò che mi circondava. Mi guardai intorno ed esaminai un mondo straordinariamente nuovo. Le linee erano visibili e costanti anche se distoglievo lo sguardo dal sole.

Rimasi sulla collina in estasi per un tempo che mi parve interminabile, eppure tutto l'episodio poteva aver durato solo qualche minuto, forse solo per il tempo in cui il sole mi aveva illuminato prima di raggiungere l'orizzonte, ma a me era parso interminabile. Sentii qualcosa di caldo e confortante trasudare dal mondo e dal mio corpo. Seppi di aver scoperto un segreto, era così semplice. Sentii un'altra ondata di sentimenti. Mai nella mia vita avevo provato un'euforia così divina, una tale pace, una stretta così avvolgente, e tuttavia non potevo tradurre in parole il segreto che avevo scoperto: non potevo nemmeno tradurlo in pensieri, ma il mio corpo lo conosceva.

Poi mi addormentai o persi i sensi. Quando fui di nuovo consapevole di me stesso ero disteso sulle rocce. Mi alzai in piedi. Il mondo era come lo avevo sempre visto. Stava calando l'oscurità e automaticamente mi avviai verso la macchina.

La mattina dopo, quando arrivai, don Juan era solo in casa; gli chiesi di don Genaro e rispose che era da qualche parte nel vicinato, a fare una commissione. Incominciai immediatamente a narrargli le mie straordinarie esperienze, don Juan mi ascoltò con evidente interesse.

«Hai semplicemente "fermato il mondo"», commentò quando ebbi finito il mio resoconto.

Restammo in silenzio per un momento e poi don Juan disse che dovevo ringraziare don Genaro per avermi aiutato. Sembrava insolitamente contento di me, mi dava ripetuti colpetti sulla schiena, ridacchiava.

«Ma è inconcepibile che un coyote possa parlare», dissi.

«Non era parlare», rispose.

«E allora cos'era?».

«Il tuo corpo ha capito per la prima volta, ma tu non sei riuscito a riconoscere che innanzitutto non era un coyote e che certamente non parlava come parliamo tu e io».

«Ma il coyote ha parlato davvero, don Juan!».

«Chi è che parla come un idiota ora? Dopo tutti questi anni di apprendimento dovresti saperne di più. Ieri hai "fermato il mondo" e potresti anche aver "visto". Un essere magico ti ha detto qualcosa e il tuo corpo è stato capace di comprenderlo perché il mondo era crollato».

«Il mondo era come è oggi, don Juan?».

«No. Oggi i coyote non ti dicono nulla e non puoi vedere le linee del mondo. Ieri hai fatto tutto questo semplicemente perché qualcosa si è fermato in te».

«Cosa si è fermato in me?».

«Quello che si è fermato ieri in te era quello che la gente ti ha sempre detto che è il mondo. Capisci, da quando siamo nati la gente ci dice sempre che il mondo è così e così, e naturalmente non abbiamo altra scelta che vedere il mondo come la gente ci ha detto che è».

Ci guardammo.

«Ieri il mondo è diventato come gli stregoni ti dicono che è», riprese don Juan. «In quel mondo i coyote parlano, e anche i cervi, come ti ho detto una volta, e anche i serpenti a sonagli, gli alberi e tutti gli altri esseri viventi. Ma quello che voglio che tu impari è "vedere". Forse ora sai che si "vede" solo quando ci si insinua tra i mondi, il mondo della gente comune e il mondo degli stregoni. Ora sei giusto in mezzo ai due mondi. Ieri hai creduto che il coyote ti avesse parlato; qualsiasi stregone che non "vede" crederebbe la stessa cosa, ma uno che "vede" sa che credere questo vuol dire essere inchiodati nel regno degli stregoni. Per la stessa ragione, non credere che i coyote parlino significa essere inchiodati nel regno degli uomini comuni».

«Don Juan, volete dire che né il mondo degli uomini comuni né quello degli stregoni è reale?».

«Sono mondi reali, potrebbero agire su di te. Per esempio, avresti potuto chiedere al coyote tutto quello che volevi e lui sarebbe stato costretto a risponderti. Il solo lato negativo è che i coyote non sono attendibili, sono degli imbroglioni. E' tuo destino non avere un animale compagno che sia attendibile».

Don Juan spiegò che il coyote sarebbe stato mio compagno per la vita e che nel mondo degli stregoni avere per amico un coyote non era una condizione desiderabile. Disse che per me l'ideale sarebbe stato parlare con un serpente a sonagli, perché quegli animali erano compagni stupendi.

«Se fossi in te», aggiunse, «non mi fiderei mai di un coyote. Ma tu sei differente e potresti anche diventare uno stregone coyote».

«Cos'è uno stregone coyote?».

«Uno che ottiene un sacco di cose dai suoi fratelli coyote».

Volevo continuare a far domande ma don Juan mi interruppe con un gesto.

«Hai visto le linee del mondo», disse. «Hai visto un essere luminoso. Ormai sei quasi pronto per incontrare l'alleato. Naturalmente sai che l'uomo che hai visto nei cespugli era l'alleato, hai sentito il suo rombo come quello di un aeroplano a reazione. Ti aspetterà al margine di una pianura, una pianura dove ti condurrò io stesso».

Rimanemmo a lungo in silenzio. Don Juan teneva le mani incrociate sullo stomaco, muovendo i pollici quasi impercettibilmente.

«Anche Genaro dovrà venire con noi in quella valle», disse a un tratto. «E' lui che ti ha aiutato a "fermare il mondo"».

Mi guardò con occhi penetranti.

«Voglio dirti ancora una cosa», disse scoppiando a ridere. «Ora non importa veramente. L'altro giorno Genaro non ha mai spostato la tua macchina dal mondo degli uomini comuni, ti ha semplicemente costretto a guardare il mondo come lo guardano gli stregoni e la tua macchina non era in quel mondo. Genaro ha voluto ammorbidire la tua certezza. Il suo comportamento grottesco ha detto al tuo corpo che cercare di capire tutto è assurdo. E quando ha fatto volare il suo aquilone tu hai quasi visto. Hai trovato la macchina ed eri in tutti e due i mondi. La ragione per cui ci siamo fatti quasi scoppiare le budella dalle risate è che tu credevi veramente di riportarci indietro in macchina dal posto in cui pensavi di averla trovata».

«Ma come ha fatto don Genaro a costringermi a vedere il mondo come lo vedono gli stregoni?».

«Io ero con lui, tutti e due conosciamo quel mondo. Quando si conosce quel mondo, per evocarlo basta usare quel secondo anello di potere che hanno gli stregoni, come ti ho detto. Genaro lo può fare con la stessa facilità con cui schiocca le dita. Ti ha tenuto occupato rivoltando sassi per distrarre i tuoi pensieri e permettere al tuo corpo di "vedere"».

Dissi che gli avvenimenti degli ultimi tre giorni avevano arrecato un danno irreparabile alla mia idea del mondo. Dissi che nei dieci anni in cui ero stato con lui non mi ero mai sentito così agitato, nemmeno quando avevo ingerito le piante psicotrope.

«Le piante di potere sono solo un aiuto», disse don Juan. «L'importante è quando il corpo si rende conto di poter "vedere". Solo allora si può sapere che il mondo che guardiamo tutti i giorni è solo una descrizione. Era mia intenzione mostrartelo, purtroppo ti resta pochissimo tempo prima che l'alleato ti affronti».

«L'alleato mi deve affrontare?».

«Non c'è modo di evitarlo. Per "vedere" bisogna imparare a guardare il mondo come lo guardano gli stregoni e perciò si deve evocare l'alleato, e quando lo si è evocato l'alleato arriva».

«Non avreste potuto insegnarmi a "vedere" senza evocare l'alleato?

«No. Per "vedere" bisogna imparare a guardare il mondo in un altro modo, e il solo altro modo che conosco è quello dello stregone».

 
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20.
VIAGGIO A IXTLAN.
 

Don Genaro ritornò verso mezzogiorno e per suggerimento di don Juan ce ne andammo tutti e tre in macchina alla catena di montagne dove ero stato il giorno prima. Facemmo a piedi lo stesso sentiero che avevo preso io, ma invece di fermarci sull'altipiano raggiungemmo la cima della bassa catena di montagne, poi incominciammo a scendere in una valle pianeggiante.

Ci fermammo a riposare su un'alta collina. Don Genaro scelse il posto. Mi misi a sedere automaticamente, come avevo sempre fatto in loro compagnia, con don Juan a destra e don Genaro a sinistra, formando un triangolo.

La boscaglia del deserto aveva acquistato una meravigliosa lucentezza umida. Era diventata di un verde brillante dopo un breve acquazzone primaverile.

«Adesso Genaro ti insegnerà qualcosa», mi disse tutto a un tratto don Juan. «Ti racconterà la storia del suo primo incontro col suo alleato. Non è vero, Genaro?».

Nella voce di don Juan c'era un tono di esortazione. Don Genaro mi guardò e contrasse le labbra fino a far prendere alla sua bocca la forma di un buco rotondo, arrotolò la lingua contro il palato e aprì e chiuse spasmodicamente la bocca.

Don Juan lo guardò e scoppiò a ridere rumorosamente. Io non sapevo cosa pensare.

«Che fa?», chiesi a don Juan.

«E' una gallina», rispose.

«Una gallina?».

«Guarda, guardagli la bocca, è il culo della gallina e sta per fare l'uovo».

Gli spasmi della bocca di don Genaro sembrarono aumentare, negli occhi aveva uno sguardo strano, folle. La bocca gli si apriva come se gli spasmi dilatassero il buco rotondo. Emise un suono gracchiante con la gola, incrociò le braccia sul petto con le mani piegate in dentro e poi sputò senza cerimonie un po' di catarro.

«Porca miseria! Non era un uovo», disse con un'espressione preoccupata sul volto.

La posizione e l'espressione di don Genaro erano così ridicole che non potei fare a meno di ridere.

«Ora che Genaro ha quasi fatto l'uovo forse ti racconterà del suo primo incontro con l'alleato», insiste don Juan.

«Forse», rispose don Genaro senza interesse.

Lo supplicai di raccontare.

Don Genaro si alzò in piedi, si stirò le braccia e la schiena e le sue ossa scricchiolarono. Poi si rimise a sedere.

«Ero giovane quando ho affrontato per la prima volta il mio alleato», disse alla fine. «Ricordo che era presto nel pomeriggio. Ero nei campi dall'alba e stavo tornando a casa. A un tratto l'alleato uscì da dietro un cespuglio e mi sbarrò la strada, mi era stato ad aspettare e mi invitava a lottare con lui. Mi preparai a voltargli le spalle per andarmene, ma mi venne in mente che ero abbastanza forte per affrontarlo, però avevo paura; un brivido mi corse per la spina dorsale e il collo mi diventò rigido come un pezzo di legno. A proposito, questo è sempre il segno che sei pronto, voglio dire, quando ti si indurisce il collo».

Si sbottonò la camicia e mi mostrò la schiena. Irrigidì i muscoli del collo, del dorso e delle braccia. Notai la sua superba muscolatura. Era come se il ricordo dell'incontro avesse risvegliato tutti i muscoli del suo torso.

«In una simile situazione», continuò, «devi sempre chiudere la bocca».

Si volse a don Juan e disse: «Non è così?».

«Sì», rispose calmo don Juan. «La scossa dello scontro con l'alleato è così forte che ci si potrebbe staccare la lingua con un morso o farsi saltare i denti. Il corpo deve essere diritto e ben saldo e i piedi devono afferrare il terreno».

Don Genaro si alzò in piedi e mi mostrò la posizione giusta: il corpo leggermente flesso alle ginocchia e le mani penzoloni ai fianchi con le dita appena ripiegate. Sembrava rilassato e tuttavia ben saldo sul terreno. Rimase in quella posizione per un istante, e quando pensai che stesse per mettersi a sedere guizzò improvvisamente in avanti con un salto stupendo, come se avesse avuto delle molle attaccate ai talloni. Il suo movimento fu così improvviso che ricaddi sulla schiena, ma mentre cadevo ebbi la chiara impressione che don Genaro avesse afferrato un uomo, o qualcosa con la forma di un uomo.

Mi ritirai su a sedere. Don Genaro conservava ancora una tremenda tensione in tutto il corpo, poi rilassò bruscamente i muscoli e si rimise seduto al suo posto.

«Carlos ha appena "visto" il tuo alleato, proprio ora», osservò don Juan in tono indifferente, «ma è ancora debole ed è caduto».

«Davvero?», mi chiese don Genaro con aria ingenua dilatando le narici.

Don Juan lo assicurò che l'avevo visto.

Don Genaro balzò ancora in avanti con una tale forza che io caddi sul fianco. Aveva eseguito il suo salto così rapidamente che non riuscivo davvero a capire come avesse fatto a balzare in piedi a quel modo da seduto per proiettarsi in avanti.

Scoppiarono tutti e due a ridere rumorosamente e quindi don Genaro cambiò la sua risata in un ululato indistinguibile da quello di un coyote.

«Non pensare che per affrontare il tuo alleato dovrai balzare bene come Genaro», mi disse don Juan in tono di avvertimento. «Genaro salta così bene perché ha il suo alleato che lo aiuta. Tutto quello che devi fare è restare ben saldo sul terreno per sostenere l'urto. Devi stare in piedi proprio nella posizione in cui era Genaro prima di saltare, poi devi balzare in avanti e afferrare l'alleato».

«Prima deve baciare il suo medaglione», interloquì don Genaro.

Don Juan, con finta severità, disse che non avevo medaglioni.

«E i suoi taccuini?», insisté don Genaro. «Deve fare qualcosa dei suoi taccuini; li deve posare da qualche parte prima di saltare, altrimenti potrebbe usarli per picchiare l'alleato».

«Accidenti!», esclamò don Juan in tono di sorpresa apparentemente genuino. «Non ci avevo mai pensato. Scommetto che sarebbe la prima volta che un alleato è buttato a terra con un taccuino».

Quando le risate di don Juan e l'ululato da coyote di don Genaro si placarono eravamo tutti di ottimo umore.

«Che è successo quando avete afferrato il vostro alleato, don Genaro?», chiesi.

«E' stata una scossa molto forte», disse don Genaro dopo un momento di esitazione. Sembrava che avesse esitato per dare ordine ai suoi pensieri.

«Non avevo mai immaginato che sarebbe stata una cosa simile», proseguì. «E' stato qualcosa, qualcosa, qualcosa... che non riesco a dire. Dopo che l'ho afferrato abbiamo incominciato a girare. L'alleato mi ha fatto roteare, ma io non l'ho lasciato andare. Abbiamo girato per l'aria con una tale velocità e forza che non riuscivo più a vedere niente, tutto era offuscato. Abbiamo continuato a girare ancora, ancora, ancora. A un tratto ho sentito che ero di nuovo coi piedi per terra. Mi sono guardato: l'alleato non mi aveva ucciso, ero tutto di un pezzo, ero me stesso! Allora ho saputo che ero riuscito, finalmente avevo un alleato. Mi sono messo a saltare per la felicità. Che sensazione! Che sensazione era quella!

«Poi ho guardato in giro per sapere dove ero. I dintorni mi erano sconosciuti. Pensai che l'alleato mi avesse trasportato per aria e lasciato cadere molto lontano da dove avevamo incominciato a girare. Mi orientai, pensai che la mia casa dovesse essere a est, perciò mi avviai in quella direzione. Era ancora presto, l'incontro con l'alleato non era stato troppo lungo. Quasi subito trovai un sentiero e vidi un gruppo di uomini e donne venire verso di me. Erano indiani, pensai che fossero indiani mazatec. Mi circondarono e mi chiesero dove andavo. 'Torno a casa a Ixtlan', risposi. 'Ti sei perduto?', chiese uno. 'Sì', risposi, 'perché?'. 'Perché Ixtlan non è da quella parte, è nella direzione opposta. Ci andiamo anche noi', disse un altro. 'Vieni con noi!', dissero tutti. 'Abbiamo del cibo!'».

Don Genaro si interruppe e mi guardò come se aspettasse una mia domanda.

«E allora, che è successo?», chiesi. «Siete andato con loro?».

«No, non ci sono andato», rispose. «Perché non erano reali. L'ho saputo nell'istante in cui mi sono venuti incontro. Nella loro voce, nel loro atteggiamento amichevole, c'era qualcosa che li tradiva, specialmente quando mi hanno offerto di andare con loro. Perciò sono fuggito. Mi hanno chiamato e supplicato di tornare. Le loro invocazioni diventavano ossessionanti, ma continuai a fuggire».

«Chi erano?», chiesi.

«Gente», rispose seccamente don Genaro. «Tranne che non erano reali».

«Erano come apparizioni», spiegò don Juan, «come fantasmi».

«Dopo aver camminato per un po'», riprese don Genaro, «acquistai più fiducia. Sapevo che Ixtlan era nella mia direzione. E quindi vidi due uomini venire verso di me per il sentiero, anche loro sembravano indiani mazatec. Avevano un asino carico di legna da ardere. Mentre mi passarono accanto borbottarono 'Buon pomeriggio'.

«'Buon pomeriggio', risposi continuando a camminare. Non mi fecero caso e se ne andarono per la loro strada. Rallentai il passo e mi girai casualmente a guardarli. Si allontanavano senza curarsi di me, sembravano reali. Li rincorsi urlando: 'Aspettate! Aspettate!'.

«Trattennero l'asino e si fermarono ai due lati dell'animale, come per proteggere il carico.

« 'Mi sono perduto in queste montagne', dissi loro. 'Da che parte è Ixtlan?'. Indicarono nella loro direzione. 'Sei molto distante', disse uno di loro. 'E' dall'altra parte di queste montagne. Ti ci vorranno quattro o cinque giorni per arrivarci'. Poi si voltarono e ripresero a camminare. Sentii che erano indiani veri e li pregai di lasciarmi andare con loro.

«Camminammo insieme per un po' e quindi uno di loro prese il fagotto del cibo e me ne offrì. Rimasi impietrito. Nel modo in cui mi avevano offerto il cibo c'era qualcosa di terribilmente strano. Il mio corpo si era spaventato, perciò balzai indietro e incominciai a fuggire. I due mi dissero che se non andavo con loro sarei morto sulle montagne e cercarono di esortarmi a seguirli. Anche le loro suppliche erano molto assillanti, ma fuggii con tutte le mie forze.

«Continuai a camminare. Sapevo di essere nella direzione giusta per Ixtlan e che quei fantasmi cercavano di attirarmi fuori della mia strada.

«Ne incontrai otto; dovevano aver saputo che la mia determinazione era incrollabile. Restavano sul fianco della strada e mi guardavano con occhi imploranti. Molti di loro non dicevano una parola; le loro donne, invece, erano più audaci e mi supplicavano. Alcuni mostrarono anche del cibo e altre mercanzie che presumibilmente avrebbero dovuto vendere, come innocui mercanti sul margine della strada. Non mi fermai e non li guardai.

«Nel tardo pomeriggio arrivai a una valle che mi sembrò di riconoscere, aveva qualcosa di familiare. Pensai di esserci già stato, ma se era così ero davvero a sud di Ixtlan. Incominciai a cercare dei segni per orientarmi e correggere la mia direzione quando vidi un ragazzetto indiano che pascolava le capre. Aveva forse sette anni ed era vestito come me alla sua età, anzi mi ricordava me stesso quando pascolavo le due capre di mio padre.

«Lo osservai per un po'; il ragazzetto parlava da solo, proprio come facevo io, poi parlò alle capre. Da quel che sapevo sulle capre capivo che era veramente bravo: era preciso e attento, non viziava le sue capre ma non era nemmeno crudele.

«Decisi di chiamarlo. Quando gli parlai a voce alta balzò in piedi, scappò su un ciglione e mi guardò da dietro alle rocce. Sembrava pronto a fuggire disperatamente. Mi piacque, sembrava spaventato e tuttavia trovava ancora il tempo di radunare le sue capre lontano dalla mia vista.

«Gli parlai a lungo; dissi che mi ero perduto e non sapevo la strada per Ixtlan. Gli chiesi il nome di quella località e rispose che era quella che pensavo. Questo mi fece molto felice, capii che non ero più perduto e meditai sulla forza che aveva dovuto avere il mio alleato per trasportare tutto il mio corpo così lontano in meno di un batter d'occhio.

«Ringraziai il ragazzetto e incominciai ad allontanarmi. Il ragazzo uscì dal suo nascondiglio e radunò le capre in un sentiero quasi invisibile. Il sentiero sembrava condurre giù nella valle. Chiamai il ragazzo che non fuggì. Mi avviai verso di lui ma quando gli arrivai molto vicino saltò nei cespugli. Lo elogiai per la sua cautela e incominciai a interrogarlo.

«'Dove porta questo sentiero?', chiesi. 'Giù', rispose. 'Dove vivi?'. 'Laggiù'. 'Ci sono molte case laggiù?'. 'No, solo una'. 'Dove sono le altre case?'. Il ragazzo indicò l'altro lato della valle con indifferenza, come fanno i ragazzi della sua età. Poi si incamminò giù per il sentiero con le sue capre.

« 'Aspetta', gli dissi. 'Sono molto stanco e ho fame, portami dai tuoi'.

« 'Non ho nessuno', rispose, e le sue parole mi fecero sobbalzare. Non so perché, ma la sua voce mi fece esitare. Il ragazzetto, notando la mia esitazione, si fermò e mi parlò. 'In casa mia non c'è nessuno', disse. 'Mio zio è andato via e sua moglie è nei campi. C'è molto cibo, moltissimo. Vieni con me'.

«Mi sentii quasi triste, anche il ragazzetto era un fantasma. Il tono della voce e la sua premura l'avevano tradito. I fantasmi erano là intorno per prendermi ma io non avevo paura. Ero ancora intorpidito dall'incontro con l'alleato. Volevo arrabbiarmi con l'alleato o coi fantasmi, ma non so come non mi riusciva di andare in collera come al solito, perciò rinunciai. Allora volli sentirmi triste, perché il ragazzetto mi era piaciuto, ma non ci riuscii, perciò rinunciai anche a quello.

«Improvvisamente mi resi conto che avevo un alleato e i fantasmi non potevano farmi nulla. Seguii il ragazzetto giù per il sentiero. Altri fantasmi stavano in agguato e cercarono di farmi cadere nei precipizi, ma la mia volontà era più forte di loro. Dovevano averlo sentito, perché smisero di molestarmi. Dopo un po' si limitarono a piazzarsi sul mio sentiero; di quando in quando qualcuno di loro balzava verso di me, ma lo fermavo con la mia volontà. E allora smisero completamente di infastidirmi».

Don Genaro rimase a lungo in silenzio.

Don Juan mi guardò.

«Che è successo poi, don Genaro?», chiesi.

«Ho continuato a camminare», dichiarò.

Sembrava che avesse terminato la sua storia, che non ci fosse più nulla da aggiungere.

Gli chiesi perché il fatto che gli offrissero cibo gli aveva fatto capire che si trattava di fantasmi.

Non rispose. Lo interrogai ulteriormente chiedendo se era costume degli indiani mazatec negare di avere cibo, o interessarsi pesantemente di questioni di cibo.

Disse che l'aveva capito dal tono delle voci, dalla loro premura nell'attirarlo e dal modo in cui i fantasmi parlavano del cibo; e che lo sapeva perché il suo alleato lo aiutava. Affermò che da solo non avrebbe mai notato quella particolarità.

«Quei fantasmi erano alleati, don Genaro?», chiesi.

«No. Erano gente».

«Gente? Ma se avete detto che erano fantasmi».

«Ho detto che non erano più reali. Dopo il mio incontro con l'alleato nulla era più reale».

Rimanemmo a lungo in silenzio.

«Qual è stato il risultato finale di quell'esperienza, don Genaro?», domandai alla fine.

«Risultato finale?».

«Voglio dire, come e quando siete finalmente arrivato a Ixtlan?».

Scoppiarono tutti e due a ridere contemporaneamente.

«Così per te quello sarebbe il risultato finale», osservò don Juan. «Allora diciamo così: nel viaggio di Genaro non c'era nessun risultato finale, non ci sarà mai nessun risultato finale, Genaro è ancora in viaggio per Ixtlan!».

Don Genaro mi lanciò uno sguardo penetrante e girò il capo per guardare in lontananza, verso sud.

«Non arriverò mai a Ixtlan», disse.

La sua voce era ferma ma lieve, quasi un mormorio.

«Eppure nei miei pensieri... nei miei pensieri qualche volta sento che mi manca solo un passo per arrivarci. Ma non ci arriverò mai. Nel mio viaggio non trovo nemmeno i segni familiari che sono abituato a riconoscere. Nulla è più lo stesso».

Don Juan e don Genaro si guardarono, nei loro occhi c'era qualcosa di triste.

«Nel mio viaggio a Ixtlan incontro solo fantasmi viaggiatori», disse don Genaro sottovoce.

Guardai don Juan, non avevo capito quello che aveva voluto dire don Genaro.

«Tutti coloro che Genaro incontra nel suo viaggio verso Ixtlan sono soltanto esseri effimeri», spiegò don Juan. «Tu, per esempio, tu sei un fantasma. I tuoi sentimenti e la tua premura sono quelli della gente. Per questo Genaro dice che nel suo viaggio verso Ixtlan incontra solo fantasmi viaggiatori».

Improvvisamente capii che il viaggio di don Genaro era una metafora.

«Allora il vostro viaggio a Ixtlan non è reale», dissi.

«E' reale!», interloquì don Genaro. «I viaggiatori non sono reali».

Indicò don Juan con un cenno del capo e disse enfaticamente: «Lui è il solo che è reale. Il mondo è reale solo quando sono con lui».

Don Juan sorrise.

«Genaro ha raccontato la sua storia a te», disse, «perché ieri tu hai "fermato il mondo", e perché pensa anche che hai "visto", ma sei un tale sciocco che non lo sai nemmeno tu. Continuo a dirgli che sei strano e che presto o tardi "vedrai". In ogni caso, nel tuo prossimo incontro, se per te ci sarà una seconda volta, dovrai lottare con l'alleato e domarlo. Se sopravvivi alla scossa, e ne sono sicuro perché sei forte e vivi come un guerriero, ti ritroverai vivo in un paese sconosciuto. Allora, come è naturale per tutti noi, la prima cosa che vorrai fare sarà prendere la via del ritorno a Los Angeles, ma non c'è via di ritorno a Los Angeles. Quello che hai lasciato là è perduto per sempre. Allora, naturalmente, sarai uno stregone, ma non avrà importanza; in un momento come quello l'importante per tutti noi è il fatto che tutto ciò che amiamo, odiamo o desideriamo è rimasto alle nostre spalle. Tuttavia i sentimenti di un uomo non muoiono né cambiano, e lo stregone prende la via del ritorno sapendo che non arriverà mai, sapendo che nessun potere sulla terra, nemmeno la sua morte, lo porterà al posto, alle cose, alle persone che amava. Questo ti ha detto Genaro».

La spiegazione di don Juan fu come un catalizzatore; l'intero peso della storia di don Genaro mi colpì all'improvviso quando incominciai a collegare la sua storia alla mia vita.

«E' le persone che amo?», chiesi a don Juan. «Che accadrebbe di loro?».

«Saranno tutte lasciate alle tue spalle», rispose.

«Ma non c'è un modo per ritrovarle? Potrei recuperarle e portarle con me?».

«No. Il tuo alleato girerà con te, con te soltanto, in mondi sconosciuti».

«Ma potrei tornare a Los Angeles, non è vero? Potrei prender l'autobus o l'aeroplano e andarci. Los Angeles sarebbe ancora lì, non è vero?».

«Sicuro», rispose don Juan ridendo. «E anche Manteca e Temecula e Tucson».

«E Tecate», aggiunse don Genaro con grande serietà.

«E Piedras Negras e Tranquitas», disse don Juan sorridendo.

Don Genaro aggiunse altri nomi e così fece don Juan, e tutti e due si misero a enumerare una serie di nomi di città e cittadine tra i più ridicoli e incredibili.

«Quando girerai con l'alleato cambierai la tua idea del mondo», disse don Juan. «Quell'idea è tutto, e quando cambia, il mondo stesso cambia».

Mi ricordò che una volta gli avevo letto una poesia e volle che gliela recitassi. Me ne accennò qualche parola e subito ricordai di avergli letto alcune poesie di Juan Ramon Jimenez. Quella che intendeva in particolare don Juan si intitolava "El Viaje Definitivo" (Il viaggio definitivo). La recitai.

 

...e me ne andrò. Ma gli uccelli rimarranno, cantando:

e il mio giardino rimarrà, col suo albero verde,

col suo pozzo d'acqua.

Molti pomeriggi i cieli saranno azzurri e placidi,

e le campane sul campanile rintoccheranno

come rintoccano questo pomeriggio.

Le persone che mi hanno amato moriranno,

e ogni anno la città si rinnoverà.

Ma il mio spirito vagherà sempre nostalgico

nello stesso recondito angolo del mio giardino fiorito.

 

«E' questo il sentimento di cui parla Genaro», disse don Juan. «Per diventare uno stregone un uomo deve essere appassionato. Un uomo appassionato ha sulla terra cose che gli appartengono e cose che gli sono care, se non altro il sentiero che percorre.

«Nella sua storia Genaro ti ha detto precisamente questo. Genaro ha lasciato la sua passione a Ixtlan: la sua casa, la sua gente, tutte le cose a cui teneva. E ora vaga nei suoi sentimenti; e qualche volta, come ha detto, quasi arriva a Ixtlan. Tutti noi l'abbiamo in comune: per Genaro è Ixtlan, per te sarà Los Angeles, per me...».

Non volevo che don Juan mi dicesse di se stesso e lui si interruppe come se mi avesse letto nel pensiero.

Don Genaro singhiozzò e parafrasò i primi versi della poesia.

«Sono andato via. E gli uccelli sono rimasti, cantando».

Per un istante sentii un'indescrivibile ondata di agonia e solitudine avvolgerci tutti e tre. Guardai don Genaro e seppi che, essendo un uomo appassionato, doveva aver avuto nel suo cuore tanti legami, tante cose a cui teneva e che aveva abbandonato. Ebbi la chiara sensazione che in quel momento la forza della sua rievocazione stesse per franare e don Genaro fosse lì lì per scoppiare in lacrime.

Distolsi gli occhi in fretta. La passione di don Genaro, la sua suprema solitudine, mi facevano piangere.

Guardai don Juan, mi fissava.

«Si può sopravvivere sul sentiero della conoscenza solo vivendo come un guerriero», disse. «Perché l'arte del guerriero consiste nell'equilibrare il terrore dell'esser uomo con la meraviglia dell'esser uomo».

Li guardai fisso tutti e due, uno alla volta. I loro occhi erano limpidi e calmi. Avevano evocato una marea di nostalgia opprimente, e quando sembrava che fossero sul punto di scoppiare in lacrime appassionate ne avevano trattenuto l'ondata. Per un istante pensai di "vedere". "Vidi" la solitudine dell'uomo come un'onda gigantesca pietrificata di fronte a me, trattenuta dal muro irresistibile di una metafora.

La mia tristezza era così prepotente che mi sentii euforico, li abbracciai.

Don Genaro sorrise e si alzò in piedi. Anche don Juan si alzò e mi posò delicatamente la mano sulla spalla.

«Ti lasciamo qui», disse. «Fai quello che pensi sia giusto. L'alleato ti aspetterà al limite di quella pianura».

Indicò una buia valle in lontananza.

«Ma se non senti che è la tua ora, non andare all'appuntamento», continuò. «Non si guadagna nulla forzando le cose. Se vuoi sopravvivere devi essere limpido come il cristallo e mortalmente sicuro di te».

Don Juan si allontanò senza guardarmi, ma don Genaro si voltò un paio di volte e ammiccando e muovendo il capo mi incitò ad andare avanti. Li guardai finché scomparvero in lontananza, poi mi avviai verso la macchina, misi in moto e me ne andai. Sapevo che non era ancora la mia ora.

 

 

 

 
 

 
 

 


 

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