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La ruota del tempo - Carlos Castaneda - testo completo




INTRODUZIONE

Questa serie di citazioni è tratta dai primi otto libri che ho scritto sul mondo degli sciamani dell’antico Messico e derivano direttamente dalle spiegazioni fornitemi dal mio maestro e mentore don Juan Matus, uno sciamano yaqui discendente da una stirpe le cui origini risalgono sino agli sciamani vissuti nel Messico antico.

Nella maniera più efficace che si poteva permettere, don Juan mi ha fornito l’accesso al suo mondo che era, naturalmente, il mondo di quegli sciamani dei tempi passati. Egli ricopriva una posizione chiave: era a conoscenza dell’esistenza di un altro dominio di realtà, una regione che non era né illusoria né un prodotto della fantasia. Per lui e i suoi compagni – ce n’erano quindici – il mondo degli antichi sciamani era assolutamente reale e pragmatico.

Questa mia opera era in un primo tempo destinata a essere un semplice tentativo di raccogliere una serie di rappresentazioni, motti e idee che pensavo sarebbe stato interessante leggere e meditare.

Ma dopo aver iniziato il lavoro, si verificò un imprevedibile mutamento di rotta: mi resi conto che le citazioni di per sé possedevano una forza straordinaria, e rivelavano una successione nascosta di pensieri che fino a quel momento mi era rimasta sconosciuta. Tutte, infatti, puntavano nella stessa direzione indicata dalle spiegazioni che don Juan mi aveva fornito durante i miei tredici anni di apprendistato.

Meglio di ogni concettualizzazione, esse svelavano un’insospettata quanto decisa linea d’azione seguita da don Juan nell’intento di favorire e facilitare il mio ingresso nel suo mondo. Mi convinsi quindi che, se aveva intrapreso quella strada, doveva trattarsi della stessa su cui egli stesso era stato indirizzato dal suo maestro.

La linea d’azione di don Juan Matus era tesa ad attirarmi in quello che lui definiva un altro sistema cognitivo, dando a questa espressione il significato che si dà abitualmente al processo di apprendimento: «I processi responsabili della consapevolezza del vivere quotidiano, processi che comprendono le facoltà mnemoniche, l’esperienza, la percezione e l’uso puntuale di qualunque sintassi data». Don Juan sosteneva che il sistema cognitivo degli sciamani dell’antico Messico fosse diverso da quello dell’uomo comune. In base ai percorsi logici accessibili a uno studente di antropologia qual ero io, non potevo che respingere tale asserzione. Più e più volte gli feci notare che certe sue affermazioni erano assurde; nella migliore delle ipotesi per me si trattava di aberrazioni mentali. Furono necessari tredici anni di strenuo impegno da parte di entrambi per decostruire la mia fede nel sistema cognitivo che rende comprensibile all’uomo il mondo in cui vive. Mi ritrovai così in una condizione molto particolare: una condizione di semisfiducia nei confronti dei processi cognitivi del quotidiano che fino a quel momento mi erano parsi accettabili.

Dopo tredici anni di attacchi massicci, arrivai a comprendere, quasi contro la mia volontà, che don Juan Matus procedeva effettivamente da un punto di vista del tutto diverso. Gli antichi sciamani, di conseguenza, dovevano possedere un altro sistema cognitivo. Riconoscerlo non fu facile: mi sembrava di essere una specie di traditore, come se stessi dando voce alla più atroce delle eresie. Quando sentì di aver travolto le mie resistenze peggiori, don Juan si preoccupò di instillare in me le sue convinzioni quanto più profondamente poteva e senza riserve, portandomi a riconoscere che nel suo mondo i praticanti dello sciamanesimo guardavano alla realtà da posizioni che i nostri strumenti concettuali non erano neppure in grado di descrivere. Per esempio, percepivano l’energia come una forza che fluisce libera nell’universo, svincolata da tutti i condizionamenti della socializzazione e della sintassi: un’energia pura e vibrante. Definivano questo atto percettivo il vedere.

Il primo obiettivo di don Juan fu quello di aiutarmi a percepire l’energia così come fluisce nell’universo. Nel mondo sciamanico tale percezione è il primo, indispensabile passo verso una visione più completa e più libera di un sistema cognitivo differente. Nell’intento di suscitare in me una reazione visiva, don Juan utilizzò altri elementi cognitivi nuovi. Uno dei più importanti di questi era la cosidetta ricapitolazione, e consisteva in un riesame sistematico e capillare della propria esistenza, segmento dopo segmento, effettuato non in un’ottica critica bensì nell’intento di comprenderla e di modificarne il corso. Secondo don Juan, una volta che il praticante ha riesaminato la propria esistenza con il distacco richiesto dalla ricapitolazione, per lui diventa impossibile tornare alla vita di prima.

Vedere l’energia così come fluisce nell’universo equivaleva per don Juan alla capacità di vedere un essere umano come un uovo luminoso o una sfera luminosa di energia, e di distinguere in questa sfera luminosa un insieme di caratteristiche comuni a tutti gli uomini, come un punto interno di luce più intensa. Per gli sciamani era in quel nucleo di luminosità, da loro chiamato punto di unione, che la percezione si trasformava in unità. Arrivavano quindi ad ampliare tale considerazione fino ad asserire che proprio in quel punto veniva a forgiarsi la nostra cognizione del mondo. Per quanto bizzarro potesse apparire, don Juan Matus aveva ragione, perché è proprio questo che accade.

La percezione degli sciamani, di conseguenza, era soggetta a un processo diverso da quello che sta alla base della percezione dell’uomo comune. La percezione diretta dell’energia, sostenevano, li conduceva a quelli che essi chiamavano i fatti energetici. Con questa definizione indicavano una visione ottenuta appunto vedendo direttamente l’energia, e che portava a conclusioni definitive e irriducibili, cioè non inquinate da speculazioni e congetture né da tentativi di adattarle al nostro sistema interpretativo comune.

Don Juan sosteneva che per gli sciamani della sua stirpe era un fatto energetico che il mondo intorno a noi sia definito dai processi cognitivi, e che tali processi non siano inalterabili, né codificati una volta per tutte. In realtà sono legati all’esercizio, all’uso e alla praticità. Questa riflessione portava a un altro fatto energetico: i processi della cognizione comune sono il prodotto della nostra educazione, e nient’altro.

Don Juan Matus sapeva con assoluta certezza che quanto mi diceva sul sistema cognitivo degli antichi sciamani messicani era reale. Inoltre, lui era un nagual, ossia un leader naturale, un individuo capace di vedere i fatti energetici senza alcun detrimento per il suo benessere. Era quindi in grado di guidare gli altri uomini lungo percorsi di pensiero e percezione impossibili a descriversi. Considerando ciò che don Juan mi insegnò tutto del suo universo conoscitivo, arrivai alla conclusione, che era poi uguale alla sua, che l’elemento più importante di quel mondo era il concetto di intento.

Per gli sciamani dell’antico Messico l’intento era una forza che potevano visualizzare quando vedevano l’energia così come fluisce nell’universo. Lo definivano una forza pervasiva che interveniva in ogni aspetto del tempo e dello spazio. Era la spinta che sta alla base di tutto; ma la cosa fondamentale per gli sciamani era che quell’intento, un’astrazione pura, era intimamente legato all’uomo. L’uomo è sempre in grado di manipolarlo. Compresero che il solo modo per influenzare tale forza risiedeva in un comportamento impeccabile, un’impresa in cui solo gli stregoni maggiormente disciplinati potevano riuscire.

Un altro elemento meraviglioso di questo insolito sistema cognitivo era la comprensione che gli sciamani avevano dei concetti di tempo e di spazio, e l’uso che ne facevano. Per loro, il tempo e lo spazio non erano quei fenomeni che rientrano nella nostra esistenza in quanto parte integrante del nostro sistema cognitivo normale. Per l’uomo comune, la definizione canonica del tempo è «un continuum non spaziale in cui gli eventi si verificano in una successione apparentemente irreversibile, che dal passato attraversa il presente e prosegue nel futuro». Quanto allo spazio è «l’estensione infinita del campo tridimensionale in cui esistono le stelle e le galassie: l’universo». Secondo gli antichi sciamani il tempo assomigliava più che altro a un pensiero: un pensiero pensato da qualcosa di un’immensità inconcepibile. Essi ritenevano che l’uomo, in quanto parte di quel pensiero pensato da forze per lui inimmaginabili ne trattenesse una piccola percentuale che poteva essere recuperata in particolari circostanze di disciplina rigorosissima.

Quanto allo spazio, per gli sciamani era un dominio astratto di attività. Lo chiamavano infinito, e si riferivano a esso come alla somma totale degli sforzi di tutte le creature viventi. Lo spazio era per loro più accessibile, qualcosa di quasi terreno, come se della sua formulazione astratta avessero trattenuto una percentuale maggiore. Secondo don Juan, gli antichi sciamani, diversamente da noi, non consideravano il tempo e lo spazio come due oscure astrazioni. Benché inesprimibili, erano comunque parte integrante dell’uomo.

Gli sciamani possedevano un altro elemento cognitivo chiamato la ruota del tempo e la spiegazione che ne offrivano era che il tempo assomigliava a un tunnel infinitamente largo e lungo, un tunnel con solchi riflettenti. Tutti i solchi erano infiniti, e altrettanto infinito era il loro numero. La forza stessa della vita imponeva alle creature viventi di guardare in un unico solco, e questo significava restarne intrappolati e vivere esclusivamente in esso.

Lo scopo ultimo di un guerriero sta nel concentrare, attraverso l’impiego di una disciplina profonda, la sua attenzione incrollabile sulla ruota del tempo, al fine di farla girare. I guerrieri che vi riescono possono guardare in qualsiasi solco e da esso ricavare qualunque cosa desiderino. La libertà dalla coercizione a contemplarne uno solo significa che si è in grado di guardare in entrambe le direzioni: dove il tempo si ritira e dove avanza. In quest’ottica, la ruota del tempo si traduce in un’influenza soverchiante che abbraccia tutte le vite del guerriero e le supera, come risulta dalle citazioni riportate in questo libro. Esse sembrano tese da una molla dotata di vita propria che, nell’ambito del sistema cognitivo degli sciamani, è la ruota del tempo.

È stato proprio sotto il suo impatto che questo libro si è gradatamente allontanato dallo scopo iniziale. Le citazioni sono diventate in sé e per sé il fattore dominante, imponendomi di aderire quanto più possibile allo spirito che le informava, ossia uno spirito di frugalità e di sincerità estrema.

A dispetto dei miei sforzi, non mi è stato possibile organizzare le citazioni in categorie che ne facilitassero la lettura.

Non c’era modo di stabilire categorie di significato arbitrarie che definissero una realtà così priva di limiti, così vasta qual è un mondo cognitivo nella sua globalità.

La sola cosa da fare era lasciare che fossero le citazioni stesse a fornire un quadro del pensiero degli sciamani dell’antico Messico sulla vita, sulla morte, sull’universo e sull’energia. Esse mostrano come quegli antichi stregoni comprendessero non solo l’universo, ma anche i processi della vita e della coesistenza nel nostro mondo. Ma soprattutto, ci indicano la possibilità di maneggiare contemporaneamente due sistemi cognitivi senza recare alcun danno al proprio sé.

--


Da A scuola dallo stregone


Il potere risiede nel tipo di sapere che possediamo.

Che senso avrebbe conoscere cose inutili?

Esse non ci possono preparare all’inevitabile incontro con l’ignoto.



In questo mondo nulla ci viene regalato.

Tutto ciò che è da imparare va imparato con fatica.


Un uomo si avvia verso il sapere come se andasse in guerra: perfettamente vigile, con timore, rispetto e assoluta sicurezza. Andare verso il sapere o in guerra in qualunque altro modo è un errore, e chi lo commette potrebbe non vivere abbastanza a lungo per rimpiangerlo.

Quando un uomo ha soddisfatto questi quattro requisiti – essere perfettamente vigile, provare timore, rispetto e un’assoluta sicurezza – non dovrà rendere conto di nessun errore; quando è in questa condizione, le sue azioni perdono la fallibilità delle azioni di uno stupido.

Se l’uomo sbaglia, o subisce una sconfitta, avrà perso soltanto una battaglia e non dovrà pentirsene amaramente.


Soffermarsi troppo sull’io causa una terribile stanchezza. Un uomo in questa condizione è sordo e cieco a tutto il resto: è la stanchezza stessa a fare sì che non veda più le meraviglie che lo circondano.



Quando un uomo si dispone ad apprendere, deve impegnarsi quanto più gli è possibile, e i limiti del suo apprendimento sono determinati dalla sua stessa natura. Non c’è quindi ragione di parlare di sapere: la paura della conoscenza è naturale; la proviamo tutti e non c’è nulla che si possa fare per evitarla. Ma per quanto spaventevole possa essere l’apprendimento, ben più terribile è il pensiero di un uomo senza sapere.


Arrabbiarsi con gli altri significa dare importanza alle loro azioni ed è imperativo porre fine a questo modo di sentire.

Le azioni degli uomini non possono essere così importanti da mettere in secondo piano la sola scelta possibile: il nostro inevitabile incontro con l’infinito.



Sono quattro i nemici naturali dell’uomo: la paura, la chiarezza, il potere e la vecchiaia. Paura, chiarezza e potere possono essere vinti, ma non la vecchiaia. È possibile ritardarne gli effetti, ma non sconfiggerla.


Ci sono milioni di strade. Un guerriero, di conseguenza, deve sempre tenere presente che una strada è soltanto una strada; se sente di non doverla seguire, per nulla al mondo dovrà indugiarvi.

La decisione di proseguire su di essa o di abbandonarla dev’essere presa indipendentemente dalla paura o dall’ambizione.

Un guerriero deve considerare ogni strada con attenzione e determinazione e c’è una domanda che non può fare a meno di porsi: questa strada ha un cuore?

Le strade sono tutte uguali: non portano da nessuna parte. Ciononostante, una strada senza un cuore non è mai gradevole. D’altro canto, una strada con un cuore è facile... un guerriero non deve sforzarsi per trovarla gradevole, essa rende il viaggio felice e finché un uomo la segue, è una cosa sola con essa.


Esiste un mondo di felicità dove non c’è differenza tra le cose, perché non c’è nessuno da interrogare in merito alla differenza.

Ma non è il mondo degli uomini. Alcuni uomini hanno la vanità di credere di vivere in due mondi, ma la loro è solo vanità. Per noi c’è un mondo soltanto.

Siamo uomini, e dobbiamo sentirci appagati di vivere nel mondo degli uomini.

COMMENTO

L’essenza di tutto ciò che don Juan disse all’inizio del mio apprendistato è racchiusa nella natura astratta delle citazioni tratte dal mio primo libro, A scuola dallo stregone. In esso, il nagual parlava a lungo di alleati, di piante di potere, di Mescalito, del fumino, del vento, degli spiriti dei fiumi e delle montagne, dello spirito del chaparral desertico e così via. Quando in un secondo tempo lo interrogai in merito all’enfasi che dava a quegli elementi, ammise senza vergogna che nella fase iniziale del mio apprendistato aveva fatto ricorso a tutte quelle tiritere pseudoindiane per il mio bene.

Ero sbigottito. Come poteva dire certe cose, quando era evidente che non erano vere? Aveva parlato seriamente e, se c’era un uomo in grado di attestare la veridicità delle sue parole e dei suoi stati d’animo, quello ero io.

«Non farne un dramma», rise don Juan. «Mi ha divertito molto dilungarmi in tutte quelle sciocchezze, soprattutto perché sapevo di farlo per il tuo bene.»

«Per il mio bene, don Juan? Che razza di aberrazione è mai questa?»

«Per il tuo bene, certo. Ti ho ingannato trattenendo la tua attenzione su elementi del tuo mondo che esercitavano su di te un grande fascino, e tu hai abboccato in pieno.

«Tutto quello di cui avevo bisogno era la tua completa attenzione. Ma come avrei fatto, con uno spirito così indisciplinato come il tuo? Tu stesso mi hai ripetuto più volte che restavi con me perché trovavi affascinante quanto avevo da dire sul mondo. Ciò che non riuscivi a spiegare era che questo fascino si basava su un vago riconoscimento, da parte tua, degli elementi di cui io ti parlavo. Pensavi che tale vaghezza fosse sciamanesimo, e poiché anelavi a esso, sei rimasto.»

«Fai così con tutti, don Juan?»

«Non con tutti, perché non tutti vengono da me, e soprattutto io non sono interessato a tutti. Provavo e provo interesse per te, e per te solo. Il mio maestro, il nagual Julian, mi ingannò in modo analogo, facendo leva sulla mia sensualità e sulla mia avidità.

«Mi promise tutte le belle donne che lo circondavano e oro in abbondanza. Mi promise una fortuna, e io abboccai. È da tempo immemorabile che gli sciamani della mia stirpe vengono ingannati in questa maniera.

«Noi non siamo maestri né guru. Non ci importa un bel niente di insegnare il nostro sapere. Vogliamo degli eredi per questo sapere, non persone che provano per esso un vago interesse, spinte da motivazioni razionali.»

Don Juan era nel giusto quando diceva che ero caduto in pieno nella sua trappola. Avevo fermamente creduto di aver trovato in lui una fonte ideale di informazioni di natura antropologica. A quell’epoca, sotto i suoi auspici e la sua influenza, redassi diari e collezionai antiche mappe che riportavano le varie ubicazioni delle cittadine yaqui nel corso dei secoli, a cominciare dalle cronache compilate dai gesuiti verso la fine del Settecento. Presi nota di quelle ubicazioni, individuai anche i cambiamenti minimi, chiedendomi perché quelle città fossero state spostate più volte, e i motivi delle lievi differenze nelle loro ridisposizioni successive. Ero preda di speculazioni fittizie e di dubbi di ogni sorta, e dalla lettura di testi e cronache ricavai migliaia di pagine di appunti. Ero, insomma, il perfetto studioso di antropologia. Don Juan stimolava la mia immaginazione in mille modi diversi.

«Non ci sono volontari sul sentiero del guerriero», mi disse un giorno, come se fosse una sorta di spiegazione. «Un uomo deve essere costretto a intraprenderlo contro la sua stessa volontà.»

«Che cosa devo fare della mole di appunti che mi hai spinto a prendere con l’inganno?» gli chiesi all’epoca.

La sua risposta mi sorprese.

«Ricavane un libro! Sono comunque sicuro che se comincerai a scriverlo, non ricorrerai mai a quegli appunti. Non hanno alcuna utilità, ma chi sono io per dirtelo? Devi scoprirlo da solo. Ma non impegnarti a scrivere un libro con velleità letterarie. Affrontalo piuttosto come guerriero, come guerriero-sciamano. »

«Che cosa intendi dire, don Juan?»

«Non lo so. Scoprilo tu.»

Aveva assolutamente ragione. Non ho mai utilizzato quegli appunti. Invece, mi trovai a scrivere, senza averne avuto intenzione, delle inimmaginabili possibilità dell’esistenza di un altro sistema cognitivo.



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Da Una realtà separata

Un guerriero sa di essere solo un uomo.

Il suo unico rimpianto è che la brevità della vita non gli consente di afferrare tutto quello che vorrebbe, ma per lui questo è solo un inconveniente, non un problema.



Sentirsi importanti rende pesanti, goffi e vani. Per essere un guerriero un uomo deve essere leggero e fluido.


Visti come campi di energia, gli esseri umani appaiono sotto forma di fibre luminose, filamenti sottilissimi simili a ragnatele bianche, che li avvolgono dalla testa ai piedi. Di conseguenza, agli occhi di coloro che vedono, un uomo appare come un uovo di fibre fluttuanti, e le braccia e le gambe sono raggi di luce che si dipartono in tutte le direzioni.



Colui che vede vede che ogni uomo è in contatto con il resto del mondo, non attraverso le mani, ma tramite un fascio di fibre che si estendono in tutte le direzioni partendo dal centro dell’addome. Sono queste fibre a collegarlo all’ambiente circostante; esse mantengono il suo equilibrio, gli danno stabilità.


Quando un guerriero impara a vedere, vede che ogni uomo è un uovo luminoso, re o mendicante che sia, e non c’è modo di cambiare alcunché; o meglio, che cosa si potrebbe cambiare in quell’uovo luminoso? Che cosa?



Solo un pazzo accetterebbe il compito di diventare un uomo di sapere. Un uomo dalla mente lucida deve essere attirato a farlo con l’inganno. Ci sono eserciti di individui che si dedicherebbero volentieri a tale missione, ma essi non contano. Di solito sono pazzi, teste vuote che esteriormente sembrano a posto, ma che si tradiscono appena sono messi sotto pressione, appena sono riempiti d’acqua.


Un guerriero non si cura delle proprie paure. Pensa invece al prodigio di vedere il flusso di energia! Il resto non conta.



Quando un uomo non si preoccupa di vedere, ogni volta che guarda il mondo tutto gli sembra più o meno sempre uguale. Quando impara a vedere, invece, tutto è uguale e al tempo stesso non lo è. Agli occhi di colui che vede, un uomo appare come un uovo. Ogni volta che vede, quell’uomo vede un uovo luminoso che però non è mai lo stesso uovo.


Gli sciamani dell’antico Messico chiamavano alleati le forze inesplicabili che agivano su di loro. Questo, perché pensavano di poterle usare a loro piacimento, convinzione che si rivelò quasi fatale, dato che ciò che definivano alleati sono esseri incorporei presenti nell’universo.

Gli sciamani contemporanei li chiamano esseri inorganici. Chiedere quale sia la funzione degli alleati equivale a chiedere quale sia quella di noi uomini nel mondo. Ci siamo, e questo è quanto.

Gli alleati ci sono esattamente come noi; e forse esistevano già prima di noi.


La maniera più efficace di vivere è vivere da guerriero. Un guerriero può preoccuparsi e riflettere prima di prendere una decisione, ma una volta che l’ha presa, va per la sua strada, libero da timori e preoccupazioni; sono mille le decisioni che ancora lo attendono.

Questa è la via del guerriero.



Un guerriero pensa alla propria morte quando le cose si fanno nebulose. L’idea della morte è la sola in grado di temprare il nostro spirito.


La morte è ovunque. Può essere come i fari di un’auto che appaiono su un’altura distante, che restano visibili per qualche tempo e quindi scompaiono nell’oscurità, ma solo per ricomparire su un’altura diversa e poi sparire di nuovo.

Quei fari sono le luci sulla testa della morte.

La morte li indossa come fossero un cappello e poi parte al galoppo, guadagnando terreno su di noi, facendosi sempre più vicina. A volte spegne le luci, ma non si ferma mai.


Un guerriero deve sapere prima di tutto che le sue azioni sono inutili e nonostante ciò deve procedere come se lo ignorasse. Questa è la follia controllata dello sciamano.



Gli occhi di un uomo possono svolgere due funzioni: la prima è vedere l’energia così come fluisce nell’universo e la seconda è «guardare le cose di questo mondo». L'una non è migliore dell’altra, ma addestrare i propri occhi solamente a guardare è una rinuncia inutile e disonorevole.


Un guerriero vive agendo, non pensando di agire, e neppure pensando a quello che penserà quando avrà finito di agire.



Un guerriero sceglie una strada, qualunque strada, con il cuore, e la segue; e poi si rallegra e ride. Sa, perché vede che la sua vita finirà anche troppo presto.

Vede che non c’è nulla che sia più importante di tutto il resto.


Un guerriero non ha onore né dignità, non ha famiglia né nome né patria, ma solo vita da vivere, e per questo il suo solo legame con gli altri uomini è la sua follia controllata.



Poiché nulla è più importante di tutto il resto, un guerriero decide le proprie azioni, e le compie come se per lui avessero importanza. La follia controllata lo spinge a dire che ciò che fa importa, e ad agire come se così fosse, pur sapendo che così non è.

Per questo, dopo aver agito, si ritira in pace, e che le sue azioni siano buone o cattive, più o meno efficaci, non è cosa che lo riguardi.


Un guerriero può scegliere di restare completamente impassibile e non agire mai, e di comportarsi come se tale impassibilità sia davvero importante per lui; anche in questo sarebbe del tutto fedele a se stesso, perché anche questa sarebbe la sua follia controllata.



Non c’è alcun vuoto nella vita di un guerriero. Tutto è pieno fino all’orlo. Tutto è pieno fino all’orlo, e tutto è uguale.


Un uomo comune è troppo preoccupato di farsi piacere gli altri o di piacere a sua volta.

A un guerriero piace qualunque cosa, qualunque cosa o persona che decida di farsi piacere, e questo è tutto.



Uomo comune vince o perde e, a seconda dei casi, si fa persecutore o vittima. Queste due condizioni hanno ragione di esistere finché un uomo non vede. Il vedere disperde ogni illusione di vittoria, sconfitta o sofferenza.


Negare se stessi è un atto d’indulgenza. L’indulgenza del negarsi è di gran lunga la peggiore; ci induce a credere di compiere grandi cose, quando di fatto siamo semplicemente fermi nel nostro ego.



Un guerriero sa che sta aspettando e che cosa sta aspettando, e pur aspettando non vuole nulla, così che ogni piccola cosa che ottiene è più di quanto gli serva. Se ha bisogno di mangiare, trova il modo di farlo, perché non ha fame; se qualcosa ferisce il suo corpo, trova il modo di arrestare quel qualcosa, perché non soffre.

Un uomo che ha fame o prova dolore non è un guerriero, e le forze della sua fame e del suo dolore lo distruggeranno.


Un guerriero si assume la responsabilità delle proprie azioni, anche delle più banali.

Un uomo comune mette in pratica i propri pensieri e non si assume mai la responsabilità di ciò che fa.



La volontà non è un pensiero né un oggetto o un desiderio. La volontà è ciò che permette a un uomo di riuscire quando la sua mente gli dice che è sconfitto.

Agisce a dispetto dell’indulgenza del guerriero e lo rende invulnerabile, ed è grazie a essa che lo sciamano attraversa un muro, o lo spazio, per giungere all’infinito.


Quando un uomo intraprende la strada del guerriero diventa gradatamente consapevole di essersi lasciato per sempre alle spalle la vita ordinaria.

Ciò significa che la realtà ordinaria non può più proteggerlo e che per sopravvivere dovrà adottare un nuovo modo di vita.



Ogni frammento di sapere che diventa potere ha nella morte la sua forza primaria. La morte apporta il tocco supremo, e tutto ciò che è toccato da essa si trasforma in potere.


Solo l’idea della morte dà a un guerriero il distacco necessario a consentirgli di abbandonarsi.

Sa che la morte lo aspetta e che non gli darà il tempo di aggrapparsi ad alcunché; per questo sperimenta, senza desiderarla, ogni cosa.



Siamo uomini, e il nostro destino è quello di imparare e venire scaraventati in nuovi, inimmaginabili mondi.

Un guerriero che vede l’energia sa che non c’è limite alle nuove realtà da vedere.


«La morte è un turbine; la morte è una nuvola lucente all’orizzonte; la morte sono io che ti parlo; la morte sei tu ed è il tuo taccuino; la morte è nulla. Nulla! C’è, eppure non c’è affatto.»



Lo spirito del guerriero non tende all’indulgenza o alla lamentela, non tende alla vittoria né alla sconfitta. Tende unicamente alla lotta, e ogni lotta è la sua ultima battaglia sulla terra.

Ecco perché i risultati sono di scarsa importanza per lui.

Nella sua ultima battaglia sulla terra, un guerriero lascia che il suo spirito fluisca libero e chiaro. E mentre combatte, consapevole dell’impeccabilità della sua volontà, un guerriero ride e ride.


In nessuna circostanza ciò che gli esseri umani fanno può essere più importante del mondo. Un guerriero, quindi, considera il mondo un mistero infinito e le azioni degli uomini un’infinita follia.



Il mondo è tutto ciò che qui è racchiuso: vita, morte, persone e tutto quello che ci circonda. Il mondo è incomprensibile. Non lo capiremo mai e non penetreremo mai i suoi segreti. Dobbiamo di conseguenza prenderlo per quello che è: un mistero insondabile.


Parliamo incessantemente a noi stessi del nostro mondo ed è proprio grazie a questo nostro dialogo interiore che lo preserviamo, e Ogniqualvolta smettiamo di parlarci di noi e del nostro mondo, il mondo rimane sempre come dovrebbe essere. Con questo nostro dialogo lo rinnoviamo, gli infondiamo vita, lo puntelliamo. Non solo; è mentre parliamo a noi stessi che scegliamo le nostre strade.

Ripetiamo quindi le stesse scelte fino al giorno della morte, perché fino a quel giorno continuiamo a ripeterci le stesse cose.

Un guerriero è consapevole di questo atteggiamento e si sforza di fermare il suo dialogo interiore.

COMMENTO

Nelle citazioni tratte da Una realtà separata, comincia a rivelarsi con straordinaria chiarezza l’atteggiamento che gli sciamani adottavano in ogni loro impresa intenzionale. Lo stesso don Juan sottolineò che, per i praticanti moderni, l’aspetto più interessante del loro mondo era la consapevolezza nitida che avevano raggiunto in merito alla forza universale che essi definivano intento. Secondo gli antichi sciamani, il legame tra ognuno di quegli uomini e tale forza era così netto e preciso da consentire loro d’influenzare le cose a proprio piacimento.

Don Juan disse che l’intento di quegli sciamani, così intensamente sviluppato, era l’unico aiuto su cui potevano contare i praticanti del nostro tempo. Usando una terminologia più concreta, affermò che, se fossero stati onesti con se stessi, gli sciamani contemporanei avrebbero pagato qualunque prezzo pur di vivere sotto l’ombrello di un intento simile.

Secondo don Juan, chiunque manifestasse anche il minimo interesse per il mondo degli antichi sciamani, veniva immediatamente attirato nel cerchio del loro intento affilatissimo.

Esso, sosteneva, era una realtà incommensurabile che nessuno di noi potrebbe mai contrastare. Inoltre, aggiungeva, non c’era alcuna necessità di combatterlo, dato che era l’unica cosa che contasse. Era l’essenza del mondo di quegli antichi sciamani, il mondo a cui i praticanti moderni ambivano sopra ogni altra cosa.

Non sono stato io a determinare secondo un disegno preciso la struttura delle citazioni tratte da Una realtà separata: è emersa in modo del tutto autonomo rispetto ai miei propositi e ai miei desideri; potrei dire addirittura che contrastava con ciò che avevo in mente. Improvvisamente, la misteriosa molla della ruota del tempo nascosta nell’ordito del libro si era tesa, e fu quella tensione a dirigere i miei sforzi. Per quanto mi riguarda, all’epoca in cui scrivevo Una realtà separata, avrei potuto in tutta sincerità affermare di essere felicemente impegnato in una ricerca antropologica sul campo, e lontanissimo dal mondo degli antichi sciamani. Don Juan la pensava diversamente. Da guerriero esperto qual era, sapeva che non sarei mai riuscito a districarmi dalla forza di attrazione dell’intento che quegli sciamani avevano creato. Stavo annegando in esso, benché non lo desiderassi e neppure ci credessi.

Questa situazione mi causò un’ansia subliminale, che non ero in grado di definire a chiare lettere, e neppure di esserne consapevole. Permeava il mio agire senza che mi fosse possibile soffermarmi su essa in maniera conscia, o cercarne una spiegazione.

A posteriori posso solo dire che avevo una paura mortale, benché non riuscissi a determinare da cosa fossi terrorizzato.

Tentai più volte di analizzare questa sensazione, ma la fatica e la noia mi sopraffacevano quasi all’istante. Mi veniva istintivo giudicare del tutto superflua quell’indagine e così finivo per rinunciare. Mi rivolsi allora a don Juan, perché volevo un suo consiglio, un suo input

«Hai paura, tutto qui», fu la sua risposta. «Non c’è altro. Non metterti alla ricerca di ragioni misteriose per questa tua paura. La ragione è proprio davanti a te, assolutamente alla tua portata: è l’intento degli sciamani dell’antico Messico. Sei alle prese con il loro mondo, e di tanto in tanto esso ti si palesa. Ovviamente, non è una visione che tu possa sopportare, ma questo vale anche per me, e per chiunque altro.»

«Stai parlando per enigmi, don Juan!»

«È certamente così, in questo momento. Ma un giorno tutto ti sarà chiaro. Attualmente sarebbe da idioti cercare di parlarne o di spiegare. Nulla di quanto sto tentando di illustrarti avrebbe senso. Ora come ora, qualunque banalità ti sembrerebbe mille volte più sensata.»

Era davvero così: le mie paure nascevano da banalità assolute di cui mi vergognai allora come me ne vergogno adesso. Temevo una possessione demoniaca, un timore, questo, che era sorto in me molto precocemente. Tutto ciò che era inesplicabile era necessariamente malvagio, e il suo solo scopo era la mia distruzione.

Via via che la spiegazione di don Juan assumeva maggiore significato, cresceva in me la sensazione di dovermi proteggere: non era uno stato che potessi tradurre in parole, ma riguardava soprattutto il bisogno di proteggere il sé, la veridicità e l’innegabile valore del mondo in cui viviamo noi uomini.

Per me, quello era il solo mondo riconoscibile e se qualcosa lo minacciava, la mia reazione era immediata, una paura la cui natura mi sarà sempre impossibile spiegare; per comprenderne l’immensità, infatti, bisognava provarla.

Non era il timore della morte, e neppure della sofferenza, ed era così profonda che anche uno sciamano praticante avrebbe difficoltà a tramutarla in un concetto.

«Sei arrivato, attraverso un circolo vizioso, proprio di fronte al guerriero», mi disse don Juan.

In quell’occasione si dilungò interminabilmente sul concetto di guerriero. Ovviamente, specificò, non era possibile ridurlo a un semplice concetto: quello del guerriero era un modo di vita, l’unico deterrente alla paura, e il solo canale che un praticante potesse usare per consentire al flusso della sua attività di scorrere liberamente. Senza il concetto di guerriero era impossibile superare gli ostacoli presenti sulla strada del sapere.

Don Juan definì il guerriero come il combattente per eccellenza. Era, disse, un atteggiamento facilitato dall’intento degli antichi sciamani, che ogni uomo poteva fare suo.

«L’intento degli sciamani era talmente affilato, talmente potente, da rinsaldare la struttura del guerriero, e questo anche senza alcuna consapevolezza da parte del praticante.»

In sostanza, per gli sciamani dell’antico Messico il guerriero era un’unità da combattimento così perfettamente sintonizzata con la lotta che si svolgeva intorno a lui, e così straordinariamente vigile che, nella sua forma più alta, non aveva bisogno di alcunché di superfluo per sopravvivere. Non c’era alcuna necessità di fargli doni, né di sostenerlo con parole o azioni, e neppure di offrirgli conforto o incentivi.

Tutte queste cose erano già presenti nella struttura del guerriero stesso. Poiché tale struttura era determinata dall’intento degli antichi sciamani, essi si erano assicurati che comprendesse tutto quello che poteva essere previsto. Il risultato era un combattente che agiva in solitudine, e che, dalle proprie tacite convinzioni, traeva la spinta necessaria a procedere, senza lamentarsi e senza alcuna necessità di elogi.

Personalmente, trovavo il concetto di guerriero a un tempo affascinante e spaventevole. Se lo avessi fatto mio, pensavo, mi avrebbe ridotto in schiavitù, senza lasciarmi il tempo né la capacità di protestare, reagire o lamentarmi. Quella di lamentarmi era un’abitudine che mi portavo dietro da sempre, e per nulla al mondo avrei voluto rinunciarvi.

Credevo che la propensione alla lamentela fosse propria dell’uomo sensibile, coraggioso e virtuoso, il quale non teme di affermare ciò che gli piace e ciò che non gli piace. Trasformare questo atteggiamento in un organismo combattente, avrebbe significato rischiare più di quanto potessi permettermi di perdere.

Erano questi i miei pensieri più segreti. E tuttavia ambivo alla pace, alla determinazione, all’efficienza proprie del guerriero. Uno degli strumenti principali adottati dagli antichi sciamani del Messico nella definizione di questo concetto era l’idea di prendere la morte come compagna e renderla testimone delle nostre azioni. Don Juan disse che, con l’accettazione di tale premessa, viene gettato un ponte sull’abisso che divide il nostro mondo quotidiano da qualcosa che ci sta davanti ma non ha nome; qualcosa che si perde nella nebbia e sembra quasi non esistere.

Qualcosa di talmente oscuro che non è possibile usarlo come punto di riferimento, e tuttavia è innegabilmente presente.

Don Juan sosteneva che l’unico essere capace di attraversare quel ponte era il guerriero; silenzioso nella sua battaglia, irraggiungibile perché non ha nulla da perdere, efficiente perché ha tutto da guadagnare.

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Da Viaggio a Ixtlan

Gli uomini non capiscono quasi mai che è possibile tagliare fuori qualsiasi cosa dalla propria vita, in qualunque momento, con un battito di ciglia.



Non ci si dovrebbe preoccupare di scattare fotografie o effettuare registrazioni. Queste sono cose superflue di esistenze immobili.

Ci si dovrebbe invece preoccupare dello spirito, che è in perenne regresso.


Un guerriero non ha bisogno di una storia personale. Un giorno scopre che non gli è più necessaria, e la abbandona.



Quando nulla è certo, noi ci manteniamo vigili, attenti. È più eccitante ignorare dietro quale cespuglio si nasconde il coniglio, che comportarsi come se sapessimo ogni cosa.


«Prenderò come esempio tuo padre per illustrare il mio punto di vista sulla storia personale. Tuo padre sa tutto di te: sa chi sei e che cosa fai, e non c’è potere sulla terra che possa fargli cambiare idea sul tuo conto.

«Naturalmente, questa intima conoscenza di te è propria anche di tutti i tuoi amici.

«Tutti quelli che ti conoscono hanno un’idea di te, un’idea che tu continui ad alimentare con le tue azioni.

«La storia personale dev’essere rinnovata incessantemente, riferendo a genitori, amici e parenti tutto quello che si fa.

«Ma per il guerriero, che non ha una storia personale, non è necessaria alcuna spiegazione; nessuno rimane ferito o deluso dalle sue azioni. E soprattutto, nessuno lo appesantisce con i suoi pensieri e le sue aspettative.»


Finché si considera la cosa più importante del mondo, un uomo è incapace di apprezzare nel giusto modo la realtà che lo circonda: è come un cavallo con i paraocchi; tutto ciò che vede è se stesso, separato dal resto.



Quando un guerriero decide di fare qualcosa, deve andare fino in fondo, e assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Poco importa quello che fa; ma deve sapere perché lo fa e quindi procedere senza dubbi né rimorsi.


La morte è la nostra costante compagna. Sta sempre alla nostra sinistra, non più lontana della lunghezza di un braccio, ed è l’unico consigliere saggio del guerriero. Ogniqualvolta sente che tutto va male, e che sta per essere annientato, il guerriero può rivolgersi alla morte e chiederle se è davvero così.

La morte gli risponderà che si sbaglia, e che al di fuori del suo tocco nulla ha importanza. Gli dirà: «Non ti ho ancora toccato».


In un mondo dove la morte è il cacciatore, non c’è tempo per dubbi e rimpianti: c’è solo il tempo per le decisioni.

Poco importa quali siano. Nulla sarà mai più o meno grave di qualunque altra cosa. In un mondo dove la morte è il cacciatore, non ci sono decisioni grandi o piccole. Ci sono solo le decisioni che un guerriero prende a fronte dell’inevitabilità della propria morte.



Per un guerriero, essere inaccessibile significa relazionarsi con parsimonia con il mondo circostante. Soprattutto, un guerriero evita di esaurire se stesso e gli altri, non usa né spreme le persone fino a ridurle a niente, in particolare le persone che ama.


Un guerriero deve imparare a essere disponibile o indisponibile nell’attimo stesso in cui la via prende un altro corso. E inutile mostrarsi riluttanti ma disponibili in ogni circostanza, come è inutile nascondersi quando tutti sanno che ci si sta nascondendo.



Nella sua disperazione un uomo angosciato si aggrappa a qualsiasi cosa, e così facendo si condanna a logorare se stesso oppure le cose o le persone a cui si aggrappa. Un guerriero-cacciatore, invece, sa che riuscirà ad attirare la preda nella sua trappola molte altre volte ancora, e non dispera. Disperarsi significa essere accessibili, inconsapevolmente accessibili.


Un guerriero-cacciatore ha contatti stretti con il suo mondo, ma al tempo stesso a quel mondo è inaccessibile. Lo sfiora appena, si trattiene il tempo necessario e quindi si allontana senza quasi lasciare il segno.



Essere un guerriero-cacciatore non significa solo allestire trappole. Un guerriero-cacciatore non cattura la preda grazie alle trappole e neppure perché ne conosce le abitudini, ma perché lui stesso non ha abitudini. È questo il suo vantaggio. Non è come gli animali a cui tende agguati, fossilizzati in routine e capricci prevedibili; è libero, fluido, imprevedibile.


Il mondo è bizzarro per l’uomo comune perché, se non ne è annoiato, è in contrasto con esso. Per un guerriero, il mondo è bizzarro perché stupendo, misterioso, insondabile.

Un guerriero deve prendersi la responsabilità del suo “essere qui”, in questo mondo meraviglioso, in questo tempo meraviglioso.



Un guerriero deve imparare a far sì che ogni sua azione abbia un peso, perché resterà in questo mondo solo per breve tempo, un tempo in realtà troppo breve per poterne conoscere tutte le meraviglie.


Le azioni hanno potere, soprattutto quando il guerriero che le compie sa che esse sono la sua ultima battaglia.

C’è una strana, avvolgente felicità nell’agire nella piena consapevolezza che quanto sta facendo potrebbe essere la sua ultima azione sulla terra.



Il potere personale è una sensazione, simile all’essere fortunati. O forse si potrebbe definirlo uno stato d’animo. Il potere personale si acquisisce attraverso una vita di battaglie.


Un guerriero deve focalizzare l’attenzione sul legame che esiste fra sé e la propria morte. Senza rimorso, tristezza, né preoccupazione, deve concentrarsi sulla mancanza di tempo e agire di conseguenza. Deve fare sì che ogni sua azione sia la sua ultima battaglia sulla terra.

Solo così quelle azioni avranno il potere che compete loro. In caso contrario saranno, per l’intera durata della sua vita, le azioni di uno sciocco.



Fin da quando nasciamo gli altri ci dicono che il mondo è in un determinato modo, e naturalmente noi non abbiamo altra scelta che accettare che il mondo sia come gli altri ci hanno detto che sia.


«La nostra morte è inattesa, e proprio l’azione che stiamo compiendo potrebbe essere la nostra ultima battaglia sulla terra. La chiamo battaglia perché è una lotta. Quasi tutti gli uomini passano da un’azione a un’altra senza lottare né pensare. Un guerriero-cacciatore, invece, valuta ogni suo gesto e, poiché ha un’intima conoscenza della propria morte, procede con criterio, come se ogni azione fosse la sua ultima battaglia.

«Solo a uno sciocco sfugge il vantaggio che un guerriero-cacciatore ha sugli altri uomini: un guerriero-cacciatore tributa alla sua ultima battaglia il rispetto dovuto. È naturale che la sua ultima azione sulla terra debba essere la migliore. In questo modo agire diventa piacevole, e smussa gli angoli della sua paura.»


Un guerriero è un cacciatore perfetto che dà la caccia al potere; non è ubriaco né pazzo e non ha né il tempo né la propensione a bluffare, a mentire a se stesso o a fare la mossa sbagliata. La posta in gioco è troppo alta. La posta in gioco è la sua vita armoniosa che tanto tempo ha impiegato a rifinire e a perfezionare. Non la getterà via per uno stupido errore di valutazione, scambiando una cosa per un’altra.



L’arte del guerriero sta nel bilanciare il terrore di essere uomo con la meraviglia di essere uomo.


Un uomo, qualsiasi uomo, merita tutto quello che è nel destino degli uomini... gioia, dolore, tristezza e lotta. La natura delle sue azioni è irrilevante finché agisce come guerriero. Se il suo spirito presenta storture, dovrebbe ripararlo... purgarlo, renderlo perfetto... perché non esiste impresa più degna. Non perfezionare lo spirito significa cercare la morte, e questo equivale a non cercare nulla, perché la morte ci prenderà comunque. Cercare la perfezione dello spirito è la sola impresa degna della nostra provvisorietà e della nostra umanità.


Un guerriero agisce come se sapesse quello che fa, mentre in effetti non sa nulla.



La cosa più difficile al mondo è assumere lo stato d’animo del guerriero. Non serve a nulla provare tristezza, lamentarsi e sentirsi giustificati nel farlo, credendo che gli altri ci stiano sempre facendo qualcosa. Nessuno fa niente a nessuno, tanto meno a un guerriero.


Il guerriero è cacciatore: calcola ogni cosa. Questo è il controllo. Ma una volta fatti i suoi calcoli, agisce e lascia andare. Questo è l’abbandono. Un guerriero non è una foglia in balia del vento. Nessuno può costringerlo: nessuno può forzarlo ad agire contro la sua volontà o contro il suo giudizio. Un guerriero è sintonizzato per sopravvivere, e sopravvive nel modo migliore.



Poco importa come si è stati allevati: a determinare il comportamento è il potere personale. L’uomo è solo il compendio del suo potere personale, e tale compendio determina il modo in cui vive e muore.


Un guerriero è solo un uomo, un umile uomo. Non può modificare il progetto della sua morte. Ma il suo spirito impeccabile, che ha accumulato potere in seguito a prodigiose avversità, può sicuramente sospendere la propria morte per un istante, un istante abbastanza lungo da permettergli di assaporare per l’ultima volta il ricordo del proprio potere.

Potremmo definirlo un tributo della morte a chi è dotato di uno spirito impeccabile.


Un guerriero non conosce il rimorso perché isolare un’azione come malvagia, brutta oppure meschina significa attribuire un’importanza ingiustificata al proprio sé. Il trucco sta in quello che decidiamo di enfatizzare. Possiamo renderci infelici o forti. L’impegno è lo stesso.

COMMENTO

Quando stavo scrivendo Viaggio a Ixtlan, ero circondato da un’atmosfera di grande mistero.

In quel periodo don Juan Matus applicava criteri estremamente pragmatici alla mia condotta quotidiana: aveva tracciato alcune linee d’azione che dovevo seguire con rigore. Mi aveva affidato tre compiti che si riferivano solo lontanamente al mio mondo della vita quotidiana così come a qualunque altro mondo. Voleva che nella realtà ordinaria mi impegnassi a cancellare con ogni mezzo possibile la mia storia personale; poi voleva che sospendessi le mie abitudini e, infine, che smantellassi il senso che avevo dell’importanza del mio sé.

«Come riuscirò a fare tutto questo, don Juan?» gli chiesi.

«Non ne ho idea», fu la sua risposta. «Nessuno di noi sa come riuscirci in modo pragmatico ed efficace. Ma, una volta cominciato il lavoro, lo portiamo a termine senza capire neppure che cosa è intervenuto ad aiutarci.

«Le difficoltà che incontrerai non saranno diverse da quelle che ho incontrato io stesso», continuò. «Posso assicurarti che nascono dalla totale assenza nella nostra vita dell’idea capace di spronarci a cambiare. Quando il mio maestro mi affidò questo compito, tutto quello di cui avevo bisogno per portarlo a compimento era l’idea che fosse possibile riuscirci. Una volta fatta mia tale idea, lo portai effettivamente a compimento, senza sapere come. Ti consiglio di fare lo stesso.»

Presi a lamentarmi in tutti i modi possibili, sottolineando il fatto che, occupandomi di scienze sociali, ero abituato a istruzioni pratiche, concrete, e che non potevo accontentarmi di vaghi riferimenti a soluzioni magiche.

«Di’ quello che vuoi», rise don Juan. «Ma quando ti starai stancato di protestare, dimentica le lamentele e fa’ quello che ti ho chiesto.»

Aveva ragione. Tutto quello di cui avevo bisogno, o meglio, tutto quello di cui una misteriosa e non manifesta parte di me aveva bisogno era l’idea. L’“io” che avevo conosciuto per tutta la vita oltre all’idea necessitava di addestramento, di stimoli, di direzione. Impegnarmi nel compito di annullare le mie abitudini, liberarmi dell’importanza del mio sé e rinunciare alla mia storia personale si tramutò in un esercizio di pura gioia.

«Ora sei proprio di fronte alla via dei guerrieri», furono le parole con cui don Juan spiegò il successo che coronò la mia impresa.

Lentamente e con metodo, aveva spinto la mia consapevolezza a focalizzarsi sempre più intensamente su un’elaborazione astratta del concetto che egli definiva la via dei guerrieri, la strada dei guerrieri. Mi spiegò che tale via consisteva in una struttura di idee edificata dagli sciamani dell’antico Messico grazie alla loro abilità nel vedere l’energia così come fluisce liberamente nell’universo. Di conseguenza, la via dei guerrieri era un armonioso agglomerato di fatti energetici, verità irriducibili determinate esclusivamente dalla direzione del flusso di energia nell’universo. Don Juan affermò categoricamente che in questa strada non c’era nulla che andasse migliorato, nulla che andasse modificato.

Era una struttura perfetta in se stessa e per se stessa, e chiunque la seguisse poteva contare su fatti energetici che non ammettevano discussioni né speculazioni alcune sulle loro funzioni e sul loro valore.

Gli antichi sciamani, continuò don Juan, le avevano dato quel nome perché la sua struttura comprendeva tutte le possibilità che un guerriero può incontrare sulla strada del sapere, possibilità che gli sciamani avevano esplorato nel modo più esauriente e metodico.

Secondo don Juan, erano infatti capaci di includere qualsiasi cosa umanamente possibile nella loro struttura astratta. Paragonò la via dei guerrieri a un edificio formato da elementi di sostegno la cui unica funzione era appunto quella di sostenere la psiche del guerriero nel suo ruolo di iniziato allo sciamanesimo, così da renderne più facile e significativo l’agire. Dichiarò con decisione che questa strada era la costruzione essenziale in mancanza della quale gli iniziati si sarebbero persi nell’immensità dell’universo. Don Juan definiva la via dei guerrieri la gloria suprema degli sciamani dell’antico Messico, la considerava il contributo più alto, l’essenza della loro sobrietà.

«La via dei guerrieri è davvero così immensamente importante?» gli domandai un giorno. «“Immensamente importante” è un eufemismo. Essa è tutto. È l’epitome della salute fisica e mentale. Non potrei spiegarlo in altro modo. Che gli sciamani dell’antico Messico abbiano creato una struttura simile, per me significa che erano al culmine del potere, al vertice della felicità, all’apice della gioia.»

Sul piano di accettazione o di rifiuto pragmatico in cui pensavo di trovarmi all’epoca, abbracciare in toto e senza riserve la via dei guerrieri mi era assolutamente impossibile.

Più don Juan si dilungava nelle sue spiegazioni, più cresceva in me la sensazione che il suo intento fosse quello di scardinare il mio equilibrio.

La guida di Don Juan era quindi nascosta, ma doveva manifestarsi con una chiarezza meravigliosa nelle citazioni tratte da Viaggio a Ixtlan.

Senza che me ne accorgessi, aveva preso possesso di me con terribile rapidità, e improvvisamente me lo trovai addosso. Più volte mi trovai a pensare che, o ero sul punto di accettare nella sua interezza l’esistenza di un sistema cognitivo diverso, oppure che la mia indifferenza era tale che poco importava se questa accettazione avesse o non avesse luogo.

Naturalmente c’era sempre la possibilità di fuggire, ma non la presi in considerazione. In qualche modo, l’assistenza di don Juan, o forse il mio uso massiccio del concetto di guerriero, mi aveva temprato al punto da cancellare la mia paura. Tutto ciò che sapevo era che sarei rimasto lì con don Juan per tutto il tempo necessario.

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Da L’Isola del Tonal

La sicurezza del guerriero non è quella dell’uomo comune: l’uomo comune cerca la certezza negli occhi di chi guarda e la chiama sicurezza del sé; il guerriero cerca l’impeccabilità nei propri occhi e la chiama umiltà. L’uomo comune dipende dai suoi simili, mentre il guerriero dipende solo dall’infinito.



Ci sono molte cose che un guerriero può fare in un determinato momento e che non avrebbe potuto fare anni prima. Non perché quelle cose siano cambiate; ciò che è cambiato è l’idea che lui ha di sé.


Unico possibile corso d’azione per un guerriero risiede nell’agire con coerenza e senza riserve. Conosce la via dei guerrieri quanto basta per agire di conseguenza, ma potrebbe scoprirsi ostacolato da vecchie abitudini.



Per il guerriero il successo deve arrivare per gradi, con grande sforzo ma senza tensioni né ossessioni.


Il dialogo interiore è ciò che radica gli uomini al mondo quotidiano. Il mondo è “in questo o in quel modo” solo perché diciamo a noi stessi che è “in questo o in quel modo”. L’accesso al mondo degli sciamani si apre dopo che il guerriero ha imparato a far tacere il dialogo interiore.



Cambiare l’idea che abbiamo del mondo è il punto cruciale dello sciamanesimo. E far tacere il dialogo interiore è l’unico modo per riuscirci.


Quando un guerriero impara a far tacere il dialogo interiore, tutto diventa possibile: i progetti più azzardati si fanno accessibili.



Un guerriero accetta il suo destino, quale che sia, e lo fa in perfetta umiltà.

Accetta in umiltà quello che è, non come motivo di rammarico ma come una sfida vivente.


L’umiltà di un guerriero non è quella del mendicante.

Il guerriero non china la testa davanti a nessuno, ma, al tempo stesso, non permette a nessuno di chinare la testa davanti a lui.

Il mendicante, invece, si butta in ginocchio e striscia davanti a chiunque gli sembri più in alto di lui, ma, al tempo stesso, esige che chi sta più in basso strisci davanti a lui.



Conforto, rifugio, paura, sono tutte parole che hanno creato stati d’animo che abbiamo imparato ad accettare senza neppure interrogarci sul loro valore.


I nostri simili sono negromanti, e chiunque stia con loro lo diventa a sua volta. Pensateci. Forse potete deviare dal sentiero che i vostri simili hanno tracciato per voi? E se restate con loro, i vostri pensieri e le vostre azioni rispetteranno solo le loro condizioni. Questa è schiavitù. Il guerriero, invece, è libero da tutto questo.

La libertà costa, ma il suo prezzo non è impossibile da pagare.

Temete quindi chi vi cattura, temete i vostri padroni.

Non sprecate il vostro tempo e il vostro potere avendo paura della libertà.



Il mondo è insondabile. E così siamo noi, e tutti gli esseri viventi che esistono in questo mondo.


Il limite delle parole è che ci fanno sempre sentire illuminati, ma quando ci volgiamo ad affrontare il mondo, esse ci vengono a mancare e noi finiamo per affrontare la realtà così come abbiamo sempre fatto, senza alcuna illuminazione. Per questa ragione, un guerriero si sforza di agire più che di parlare, e così facendo conquista una nuova descrizione del mondo... una descrizione che non attribuisce troppa importanza alle parole e dove nuove azioni hanno nuovi riflessi.



Un guerriero si considera già morto e quindi non ha nulla da perdere. Il peggio gli è già accaduto, e lui è lucido e calmo: giudicandolo dalle sue azioni e dalle sue parole, sarebbe impossibile sospettare che ha già visto tutto.


Il sapere è una faccenda molto particolare, specialmente per un guerriero. Per lui, il sapere è qualcosa che arriva all’improvviso, lo avviluppa e passa oltre.



Il sapere giunge al guerriero fluttuando come una miriade di particelle di polvere d’oro, le stesse che ricoprono le ali delle falene. Per un guerriero, quindi, il sapere equivale a fare una doccia, o a farsi inondare da particelle di polvere d’oro.


Ogniqualvolta il dialogo interiore si interrompe, il mondo collassa e affiorano aspetti di noi del tutto straordinari, come se fino a quel momento fossero stati sorvegliati a vista dalle nostre parole.



I guerrieri non si aggiudicano la vittoria battendo la testa contro i muri, ma oltrepassandoli. I guerrieri saltano al di là dei muri, non li demoliscono.

Un guerriero deve coltivare la percezione di avere tutto il necessario per quel bizzarro viaggio che è la vita.

Ciò che conta per un guerriero è essere vivo. La vita di per sé è sufficiente e completa e ha in sé la sua giustificazione.

Di conseguenza si può dire, senza peccare di presunzione, che l’esperienza di tutte le esperienze è essere vivi.



Un guerriero non si abbandona alla morte. Essa deve combattere per averlo. Un guerriero non si consegna facilmente alla morte.


L’uomo comune pensa che indulgere nei dubbi e nelle afflizioni sia indice di sensibilità e spiritualità. La verità è che l’uomo comune è ben lungi dall’essere sensibile. Il suo scarso senno si trasforma deliberatamente in mostro o in santo, ma è davvero troppo scarso per tramutarsi in un grande mostro o in un grande santo.



Non si diventa un guerriero solo perché lo si desidera: è piuttosto una lotta interminabile che si protrarrà fino all’ultimo istante della vita. Nessuno nasce guerriero, proprio come nessuno nasce uomo comune. Siamo noi a trasformarci nell’uno o nell’altro.


Gli esseri umani non sono oggetti; non hanno solidità alcuna. Sono esseri rotondi e luminosi; non sono delimitati. Il mondo degli oggetti e della solidità è solo una descrizione che abbiamo creato per aiutarli, per rendere comodo il loro passaggio sulla terra.



La loro ragione li induce a dimenticare che la descrizione è soltanto una descrizione, e prima che arrivino a capirlo, gli esseri umani hanno intrappolato la loro essenza in un circolo vizioso da cui emergono solo di rado nell’arco della vita.


Gli esseri umani sono dei percettori, ma il mondo che percepiscono è un’illusione: un’illusione scaturita dalla descrizione che hanno ricevuto quando sono nati.

In sostanza, quindi, il mondo che la loro ragione vuole affermare è il mondo scaturito da una descrizione e dalle sue regole dogmatiche e inviolabili, che la ragione impara ad accettare e a difendere.



La differenza fondamentale tra l’uomo comune e il guerriero è che il guerriero affronta tutto come una sfida, mentre l’uomo comune prende tutto come una benedizione o una sciagura.


Il vantaggio segreto degli esseri luminosi sta nel possesso di qualcosa che non viene mai usato: la volontà. Lo sciamano non si destreggia diversamente dall’uomo comune: entrambi dispongono di una descrizione del mondo, ma mentre l’uomo comune la sostiene con la ragione, lo sciamano la sostiene con la volontà. Entrambe le descrizioni hanno le loro regole, ma il vantaggio dello sciamano è che la volontà ha un raggio d’azione più vasto della ragione.



Solo un guerriero può resistere sul sentiero del sapere. Un guerriero non rimpiange nulla né si lamenta di nulla. La sua vita è una sfida incessante, e le sfide non sono né buone né cattive: sono semplicemente sfide.


La carta vincente del guerriero è la capacità di credere senza credere. Ma è ovvio che un guerriero non può limitarsi ad affermare di credere. Sarebbe troppo facile.

Credere senza sforzo lo esonererebbe dal valutare la sua situazione.

Un guerriero, ogni volta che si dispone a credere, lo fa per scelta. Un guerriero non crede, deve credere.



Il potere garantisce sempre al guerriero un centimetro cubo di possibilità. L’arte del guerriero sta nel mantenersi costantemente fluido così da poterla cogliere.


La morte è l’ingrediente indispensabile del dover credere. Senza la consapevolezza della morte, tutto diventa comune, banale. Il guerriero deve credere che il mondo è un mistero insondabile solo perché la morte lo attende. Dover credere in questi termini è l’espressione della più intima predilezione del guerriero.



L’uomo comune diventa consapevole solo quando pensa che dovrebbe farlo; la condizione del guerriero, invece, è di essere consapevole di tutto, sempre.


La totalità che siamo è una questione misteriosa. Ce ne serve solo una piccolissima parte per adempiere ai compiti più complessi. E tuttavia quando moriamo, moriamo nella nostra totalità.



È una regola empirica del guerriero prendere ogni decisione con un’oculatezza tale che nessun risultato può sorprenderlo, né tanto meno prosciugare il suo potere.


Quando un guerriero prende la decisione di agire, deve essere pronto a morire. Se lo è, non ci saranno trabocchetti, né sorprese sgradite, né azioni superflue. Tutto si armonizzerà senza scosse perché lui non si aspetta niente.



Un guerriero come un maestro, prima di ogni altra cosa deve insegnare la possibilità di agire senza credere, senza aspettare ricompense... di agire e basta. Il suo successo come maestro dipende dall’abilità e dall’armonia con cui saprà dirigere in tal senso i suoi discepoli.


Per aiutare il discepolo a cancellare la sua storia personale, il guerriero-maestro gli insegna tre tecniche: la rinuncia all’importanza del sé, l’assunzione della responsabilità del proprio agire e l’impiego della morte come consigliere. Senza i benefici effetti di queste tecniche, cancellare la storia personale renderebbe la persona ambigua, evasiva e inutilmente piena di dubbi su se stessa e sulle proprie azioni.


Non c’è modo di liberarsi per sempre dell’autocommiserazione: essa ha un posto definito nella nostra vita, un’apparenza riconoscibile. Tutte le volte che se ne presenta l’occasione, l’apparenza dell’autocommiserazione si attiva. Ha una storia. Ma se si cambia tale apparenza, se ne modifica anche l’importanza.

È possibile modificarla spostando gli elementi che la compongono. L’autocommiserazione è utile a chi ne fa uso perché lo fa sentire importante e meritevole di condizioni migliori, di un trattamento migliore, oppure perché è restio ad assumersi la responsabilità delle azioni che lo hanno messo nella condizione da cui l’autocommiserazione è scaturita.


Modificare l’apparenza dell’autocommiserazione significa semplicemente assegnare un posto secondario a un elemento che fino ad allora ne occupava uno preminente.

L’autocommiserazione è ancora un elemento importante, ma adesso è sullo sfondo, così come un tempo erano sullo sfondo l’idea della morte incombente, l’idea dell’umiltà del guerriero, o l’idea della responsabilità delle proprie azioni, inutilizzate fino al momento in cui quell’uomo è diventato un guerriero.


Un guerriero prende atto della sua sofferenza ma non indulge in essa. Lo stato d’animo del guerriero che si inoltra nell’ignoto non è caratterizzato dalla tristezza; al contrario, egli è pieno di gioia perché si sente umiliato dalla sua grande fortuna, fiducioso nell’impeccabilità del suo spirito, e soprattutto pienamente consapevole della sua forza. La gioia del guerriero nasce dall’accettazione del suo destino e dalla valutazione sincera di ciò che lo attende.

COMMENTO

L’isola del Tonal segna la mia caduta. All’epoca degli eventi narrati in questo libro, fui vittima di un grave sconvolgimento emotivo, un vero e proprio crollo del guerriero. Don Juan abbandonò questo mondo, lasciandovi i suoi quattro apprendisti. Ciascuno di loro era stato avvicinato personalmente da lui e a ciascuno era stato affidato un compito preciso. Ma per me quel compito non era che un placebo, del tutto insufficiente a compensare la perdita subita. Nulla avrebbe potuto ripagare l’impossibilità di rivedere don Juan, e naturalmente mi affrettai a dirgli che volevo seguirlo.

«Non sei ancora pronto», mi rispose. «È necessario essere realistici.»

«Ma potrei preparami in un batter d’occhio», ribattei.

«Non ne dubito. Saresti pronto, ma non per me. Io esigo un’efficienza perfetta. Esigo una volontà. impeccabile, una disciplina impeccabile. Tu non le possiedi ancora. Le avrai, ci stai arrivando, ma hai ancora bisogno di tempo.»

«Tu hai il potere di portarmi con te, don Juan. Rozzo e imperfetto quale sono.»

«Forse potrei, ma non lo farò; sarebbe uno spreco vergognoso per te. Credimi, perderesti tutto. Non insistere; l’insistenza non è prevista nel regno dei guerrieri.»

Quell’affermazione bastò a farmi desistere. Nel mio intimo, tuttavia, anelavo ad andare con lui, ad avventurarmi oltre i confini di ciò che conoscevo come reale e normale. Quando giunse il momento del distacco definitivo, don Juan si tramutò in una luminosità colorata e vaporosa. Era energia pura che fluiva liberamente nell’universo. La sensazione di perdita fu così acuta che in quel momento avrei voluto morire. Dimenticai tutto quello che lui mi aveva insegnato e fui sul punto di gettarmi da un precipizio. Una volta morto, mi dicevo, don Juan sarebbe stato costretto a prendermi con sé e a salvare qualunque briciolo di consapevolezza permanesse in me. Ma, per motivi che restano inesplicabili sia in un’ottica di cognizione normale sia in quella degli sciamani non morii. Rimasi solo nel mondo della quotidianità, mentre i miei tre compagni si disperdevano. Ero straniero a me stesso, cosa che rese la mia solitudine più acuta che mai. Mi vedevo come una sorta di agente provocatore, una spia, che don Juan si era lasciato indietro per chissà quale oscura ragione. Le citazioni tratte da Racconti del potere mostrano appunto la natura sconosciuta del mondo, non quello degli sciamani, bensì della realtà ordinaria che, secondo don Juan, è infinitamente ricca e misteriosa. Tutto quello di cui abbiamo bisogno per cogliere le meraviglie di questa realtà è un distacco adeguato e, ancora di più, affetto e abbandono.

«Un guerriero deve amare questo mondo», mi aveva ammonito don Juan, «se vuole che esso, all’apparenza tanto banale, si spalanchi a mostrare le sue meraviglie.»

Quando don Juan pronunciò queste parole lo scenario che ci circondava era il deserto di Sonora. «È sublime», continuò, «stare in questo deserto meraviglioso, contemplare le scabre vette di montagne nate dalla lava di vulcani da tempo scomparsi. È splendido pensare che alcuni di quei nuclei di ossidiana si sono formati a temperature così elevate da conservare ancora il segno della loro origine. Sono saturi di potere. Vagabondare senza meta fra quelle vette e trovare un frammento di quarzo in grado di captare le onde radio è un’esperienza straordinaria. L’unica pecca è che, per inoltrarsi nelle meraviglie di questo mondo, o di un altro, un uomo deve diventare un guerriero: deve essere calmo, controllato, indifferente, temprato dalle aggressioni dell’ignoto. Tu non lo sei ancora a sufficienza, e di conseguenza il tuo dovere consiste nel prepararti in modo adeguato; solo allora potrai avventurarti nell’infinito.»

Ho dedicato trentacinque anni della mia vita a cercare la maturità del guerriero. Sono andato in luoghi che sfidano ogni descrizione, alla ricerca della sensazione di essere sufficientemente temprato dagli assalti dell’ignoto. Ci sono andato in silenzio, non annunciato, e sono tornato indietro allo stesso modo. Le opere del guerriero sono mute e solitarie, e quando un guerriero va o torna, lo fa in modo così poco appariscente che nessuno lo nota. Andare alla ricerca della maturità del guerriero in qualunque altro modo sarebbe un’ostentazione, ed è quindi inammissibile.

Le citazioni da L’isola del Tonal costituirono per me un efficace memento di come l’intento degli antichi sciamani del Messico fosse ancora all’opera. La ruota del tempo continuava a girare inesorabilmente intorno a me, costringendomi a cercare in solchi indefinibili, ma comprensibili.

«Basti dire», affermò un giorno don Juan, «che l’immensità di questo mondo, che si tratti del mondo dello sciamano o dell’uomo comune, è tale che solo un’aberrazione può impedirci di prenderne atto. Cercare di spiegare a esseri devianti che cosa significa perdersi nei solchi della ruota del tempo, è la cosa più assurda che un guerriero possa fare. Ecco perché si assicura che i suoi viaggi siano la caratteristica esclusiva della sua condizione.»

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Da Il secondo anello del potere

Quando non si ha nulla da perdere, si diventa coraggiosi. Siamo pavidi solo quando abbiamo ancora qualcosa a cui aggrapparci.



Un guerriero non può lasciare nulla al caso. Influisce in modo determinante sugli eventi grazie alla forza della sua consapevolezza e del suo inflessibile intento.


Se un guerriero vuole ripagare i favori ricevuti e non dispone di un destinatario specifico, può rivolgersi allo spirito dell’uomo. Esso esige sempre molto poco, e qualunque cosa gli si doni è più che sufficiente.



Dopo aver organizzato il mondo nel modo più bello e illuminato, alle cinque del pomeriggio lo studioso torna a casa per poter dimenticare la sua armoniosa organizzazione.


La forma umana è un agglomerato di campi energetici che esiste nell’universo e che riguarda solo gli esseri umani. Gli sciamani la chiamano forma umana perché quei campi di energia sono stati piegati e distorti da una vita di abitudini e abusi.



Un guerriero sa di non poter cambiare, e nondimeno si fa carico del tentativo di cambiare. Non prova mai delusione quando i suoi tentativi falliscono. Questo è l’unico vantaggio del guerriero rispetto all’uomo comune.


I guerrieri devono essere impeccabili nei loro sforzi per cambiare, così da spaventare e allontanare la forma umana. Dopo anni di impeccabilità, arriva il momento in cui la forma umana è costretta ad abbandonare il campo. Cioè arriva il momento in cui i campi energetici distorti dalle abitudini, vengono raddrizzati. È ovvio che gli effetti di questa operazione segnano profondamente il guerriero, che potrebbe addirittura morire, ma un guerriero impeccabile sopravvive sempre.



È giusto lottare sulla terra. Siamo creature umane. Chi può sapere che cosa ci aspetta, e di quali poteri forse disponiamo?


L’unica libertà del guerriero consiste nel comportarsi in modo impeccabile. L’impeccabilità non è soltanto libertà; è anche l’unica via per raddrizzare la forma umana.



Per funzionare, qualunque abitudine ha bisogno che tutte le sue componenti siano in perfetto ordine. Se ne manca qualcuna, l’abitudine si disintegra.


Il mondo degli uomini va su e giù, e gli uomini seguono il suo stesso saliscendi; i guerrieri non hanno motivo di seguire gli alti e bassi dei loro simili.



Il nucleo del nostro essere è l’azione del percepire, e la magia del nostro essere è la consapevolezza. Percezione e consapevolezza sono in una sincronia inestricabile e perfetta.


Scegliamo una volta soltanto: essere guerrieri o uomini comuni. Non esiste una seconda scelta. Non su questa terra.



La via dei guerrieri offre a un uomo una vita nuova, e questa vita dev’essere totalmente nuova. Egli non può portare in essa i suoi vecchi errori.


I guerrieri considerano sempre il primo evento di una serie come la cianografia o la mappa di ciò che si svilupperà successivamente.



Gli esseri umani amano sentirsi dire che cosa fare, ma amano ancora di più opporsi e non fare ciò che gli viene detto, e così facendo si condannano a odiare colui che per primo glielo ha detto.


Tutti possiedono abbastanza potere personale per qualcosa. Per il guerriero il trucco sta nel distaccare il potere personale dalla debolezza e indirizzarlo verso scopi da guerriero.



Chiunque può vedere, e tuttavia scegliamo di non ricordare ciò che vediamo.

COMMENTO

Passarono anni prima che scrivessi Il secondo anello del potere. Don Juan se n’era andato da molto tempo, e le citazioni tratte da quel libro sono frammenti dei suoi insegnamenti, ricordi stimolati da una nuova situazione, un nuovo sviluppo. Un’altra figura era entrata nella mia vita, Florinda Matus. Dopo la scomparsa di don Juan, tutti noi apprendisti avevamo compreso che sarebbe toccato a lei portare a termine l’ultima arte del nostro apprendistato.

«Non potrai considerarti completo fino a che non sarai in grado di accettare ordini da una donna senza sentirti sminuito», aveva detto don Juan. «Ma non può trattarsi di una donna qualsiasi. Dev’essere una donna speciale, dotata di potere e di una spietatezza che non ti consentirà di diventare il capo che aspiri a essere.»

Io, naturalmente, ridevo di queste sue affermazioni, sicuro che stesse scherzando. Invece non scherzava affatto. Un giorno, Florinda Donner-Grau e Taisha Abelar tornarono, e insieme andammo in Messico. In un grande magazzino di Guadalajara, incontrammo Florinda Matus, la donna più bella che avessi mai visto: molto alta, quasi un metro e ottanta, snella, spigolosa, con un viso splendido che era vecchio e insieme giovanissimo.

«Ah! Eccovi qui!» esclamò nel vederci. «I tre moschettieri! Vi ho cercato dappertutto!»

E in un batter d’occhio prese in mano le redini della situazione: Florinda Donner-Grau ne fu prevedibilmente deliziata, Taisha Abelar reagì con il consueto riserbo; quanto a me, ero mortificato, quasi furioso. Sapevo che era un gruppo mal assortito. Dopo che ci aveva definiti i tre moschettieri, ero più che pronto a incrociare la lama con lei. Ma risorse inaspettate vennero in mio aiuto, impedendomi di cedere all’ira e all’irritazione, e finii con l’andare perfettamente d’accordo con Florinda. Lei ci governava con pugno di ferro, era la regina incontrastata della nostra vita. Aveva il potere, il distacco per portare avanti il suo compito di forgiarci nel modo più sottile, e non ci permetteva di sprofondare nell’autocommiserazione o di lamentarci se qualcosa non era di nostro gradimento. Non somigliava affatto a don Juan. Le mancava la sua sobrietà, ma tale mancanza era bilanciata da una prontezza sorprendente: le bastava un’occhiata per valutare una situazione e agire nel modo che da lei ci si aspettava.

Uno dei suoi stratagemmi preferiti, e che anch’io apprezzavo immensamente, consisteva nel chiedere alle persone con cui stava parlando: «Sapete qualcosa della pressione e dello spostamento dei gas?» Formulava la domanda con serietà assoluta, e quando qualcuno rispondeva: «No, non ne sappiamo nulla», diceva: «In questo caso posso dire quello che mi pare, no?», il che era esattamente quello che faceva, e a volte diceva cose talmente comiche che morivo letteralmente dal ridere. Un’altra sua domanda tipica era: «Qualcuno dei presenti sa qualcosa della retina degli scimpanzé? No?», e a quel punto si profondeva in assurdità sull’argomento. Non mi ero mai divertito tanto: ero il suo ammiratore e il suo devotissimo seguace.

Una volta mi venne una fistola sul bacino, conseguenza di una vecchia caduta. Ero precipitato in un dirupo pieno di cactus. Delle settantacinque spine che mi si erano conficcate nel corpo, una non era mai stata espulsa completamente o forse aveva lasciato all’interno dei frammenti che col tempo avevano causato la fistola.

«Non è niente», disse il mio medico. «Solo una sacca di pus che va incisa. È un intervento semplicissimo, ci vorrà solo qualche minuto per ripulire tutto.» Mi consultai con Florinda, che dichiarò: «Sei tu il nagual. O ti curi da solo, o muori. Nessun compromesso, nessuna ambiguità. Se un nagual si fa incidere da un medico significa che ha perso il suo potere. Un nagual che muore per una fistola? Che vergogna»!

Fatta eccezione per Florinda Donner-Grau e Taisha Abelar, gli apprendisti di don Juan non amavano troppo Florinda. Lei, anzi, costituiva una presenza minacciosa, qualcuno che non avrebbe mai concesso loro la libertà a cui sentivano di avere il diritto. Lei non celebrava mai i loro pseudosuccessi sciamanici e li costringeva a interrompere le loro pratiche ogniqualvolta si allontanavano dalla strada dei guerrieri.

Ne Il secondo anello del potere, questa lotta tra gli apprendisti è più che palese. Erano un gruppo allo sbaraglio, individui malati di egocentrismo, dove ciascuno faceva il proprio gioco, ciascuno si sforzava di affermare il proprio valore individuale. Da quel momento in poi, tutti gli eventi della nostra vita furono profondamente influenzati da Florinda Matus, che tuttavia non volle mai occupare un posto di primo piano. Rimase sempre una figura sullo sfondo, saggia, divertente e spietata. Florinda Donner-Grau e io imparammo ad amarla come non avevamo mai amato nessuno, e quando se ne andò, alla Donner-Grau lasciò il suo nome, i suoi gioielli, il suo denaro, la sua grazia e il suo savoir-faire. Da parte mia, pensavo che non avrei mai scritto un libro su di lei; se qualcuno doveva farlo, pensavo, quella era Florinda Donner-Grau, la sua autentica erede. Io ero come Florinda Matus... solo una figura sullo sfondo messa lì da don Juan per alleviare la solitudine di un guerriero, e godere del mio passaggio su questa terra.

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Da Il dono dell’Aquila

L’arte di sognare è la capacità di utilizzare i sogni comuni e trasformarli in consapevolezza controllata grazie a una speciale forma di attenzione detta attenzione sognante.



L’arte dell’agguato consiste in una serie di procedure e atteggiamenti che consentono al guerriero di trarre il meglio da ogni possibile situazione.


Il consiglio per il guerriero è di non possedere cose materiali su cui concentrare il proprio potere, ma di focalizzarlo sullo spirito, sull’autentico volo nell’ignoto, e non sulle banalità.

Chi vuole intraprendere la strada dei guerrieri deve liberarsi da ogni atteggiamento compulsivo verso il possesso e i beni materiali.



Il vedere è una conoscenza corporea. La predominanza in noi del senso della vista influenza tale conoscenza corporea e fa sì che sembri connessa all’occhio.


La perdita della forma umana è come una spirale. Dà al guerriero la libertà di ricordare se stesso sotto forma di campi energetici diritti e questo lo rende a sua volta ancora più libero.



Un guerriero sa che sta aspettando e sa cosa sta aspettando, e mentre aspetta si gode la vista del mondo. L’impresa suprema del guerriero sta nel godere la gioia dell’infinito.


L’arco del destino di un guerriero è inalterabile. La sfida consiste in quanto lontano saprà andare e in quanto riuscirà a essere impeccabile all’interno di questi rigorosi limiti.



Le azioni degli uomini non influenzano più il guerriero quando questi non nutre più aspettative di sorta. Una strana pace diventa la forza dominante della sua vita.

Egli ha assimilato uno dei concetti su cui si fonda la via del guerriero: il distacco.

Il distacco non significa automaticamente saggezza, ma è comunque un vantaggio perché consente al guerriero di fermarsi a rivalutare le circostanze, a riconsiderare le posizioni.

Per poter utilizzare in modo corretto e coerente questa pausa, tuttavia, il guerriero deve lottare senza sosta per tutta la vita.



È molto più facile per il guerriero agire bene in condizioni estreme che mantenersi impeccabile in circostanze normali.


Mi sono già abbandonato al potere che governa il mio destino. E non mi aggrappo ad alcunché, per non avere alcunché da difendere.

Poiché non ho pensieri, vedrò. Poiché non temo nulla, ricorderò me stesso.

Distaccato e a mio agio, sfreccerò oltre l’Aquila per essere libero.



Tutte le facoltà, le potenzialità e le imprese dello sciamanesimo, dalla più semplice alla più stupefacente, sono racchiuse nel corpo umano.


Gli esseri umani hanno due lati. Il destro abbraccia tutto ciò che l’intelletto è in grado di concepire. Il sinistro è il dominio dell’indescrivibile, un dominio impossibile da rendere a parole. Il lato sinistro è forse compreso, se è comprensione ciò che si verifica, con la totalità del corpo; da ciò deriva la sua resistenza alle concettualizzazioni.



Il potere che governa il destino di tutti gli esseri viventi è chiamato l’Aquila, non perché sia effettivamente un’aquila o abbia qualcosa a che fare con essa, ma perché, agli occhi di colui che vede, appare come un’aquila nera, eretta e protesa verso l’infinito.


L’Aquila divora la consapevolezza di tutte le creature che, vive per un momento sulla terra e subito dopo morte, hanno fluttuato fino al suo becco, simili a uno sciame di lucciole, per incontrare il loro signore, la ragione per cui hanno avuto vita. L’Aquila districa le minuscole fiammelle, le distende come un conciatore fa con le pelli e quindi le consuma; perché la consapevolezza è il cibo dell’Aquila.


L’Aquila, il potere che governa il destino di tutte le cose viventi, riflette in eguale misura e contemporaneamente tutte quelle cose viventi. Non c’è quindi modo per l’uomo di pregare l’Aquila, di implorare favori, di sperare nella grazia. La parte umana dell’Aquila è troppo insignificante per incidere sull’intero.



A ogni essere vivente è stato concesso il potere, se così desidera, di cercare un varco verso la libertà e di attraversarlo. È evidente a colui che vede, così come alle creature che lo attraversano, che l’Aquila ha concesso tale dono allo scopo di perpetuare la consapevolezza.


Attraversare la frontiera verso la libertà non significa vita eterna nell’accezione comunemente data all’eternità, ossia vivere per sempre. Significa piuttosto che il guerriero è in grado di mantenere la consapevolezza che, di solito, viene abbandonata al momento della morte. Al momento dell’attraversamento, il corpo nella sua interezza è saturo di conoscenza. Ogni cellula diviene immediatamente consapevole di sé nonché della totalità del corpo.



Il dono della libertà da parte dell’Aquila non è una concessione, ma la possibilità di avere una possibilità.


Un guerriero non è mai cinto d’assedio. Per subire un assedio bisogna possedere qualcosa. Un guerriero non possiede altro che la propria impeccabilità, e questa non può essere minacciata.



Il primo principio dell’arte dell’agguato è che il guerriero sceglie il proprio campo di battaglia. Un guerriero non va mai in battaglia senza conoscere i dintorni.


Scartare ciò che è superfluo è il secondo principio dell’arte dell’agguato. Un guerriero non complica le cose. Mira alla semplicità. Dedica tutta la sua concentrazione a decidere se ingaggiare o no battaglia, perché ogni battaglia è per la vita. Questo è il terzo principio dell’arte dell’agguato. Un guerriero dev’essere pronto e disposto a prendere posizione “qui e subito”. Ma non all’insegna del caos.



Un guerriero si rilassa, si abbandona, non teme nulla. Solo allora il potere che guida gli esseri umani gli apre la strada e lo sostiene. Solo allora. Questo è il quarto principio dell’arte dell’agguato.


Di fronte a circostanze impossibili da affrontare, il guerriero si ritira temporaneamente. Lascia vagare la propria mente. Si dedica a qualcos’altro, va bene qualunque cosa. Questo è il quinto principio dell’arte dell’agguato.



Il guerriero comprime il tempo; questo è il sesto principio dell’arte dell’agguato. Anche un solo istante conta. In una battaglia per la sopravvivenza, un secondo è un’eternità, un’eternità che può decidere l’esito.

Il guerriero mira a riuscire, quindi comprime il tempo. Non spreca neppure un istante.


Per applicare il settimo principio dell’arte dell’agguato, bisogna applicare gli altri sei: colui che pratica l’agguato non si mette mai in mostra. Osserva da dietro le quinte.



L’applicazione di questi principi porta a tre risultati. Il primo è che chi pratica l’arte dell’agguato impara a non prendersi mai sul serio e a ridere di se stesso. Se non teme di passare per sciocco, saprà far passare per sciocco chiunque. Il secondo è che impara ad avere pazienza infinita. Non ha mai fretta, non è mai in ansia. Il terzo è che impara a sviluppare una capacità infinita di improvvisazione.


Il guerriero fronteggia il tempo che sopraggiunge. Di solito noi guardiamo il tempo quando si allontana da noi. Solo il guerriero può mutare questo atteggiamento e affrontare il tempo che avanza verso di lui.



Il guerriero ha una cosa sola in mente: la sua libertà. Morire ed essere divorati dall’Aquila non è una sfida. D’altro canto, aggirare furtivamente l’Aquila ed essere liberi è la più grande delle audacie.


Quando un guerriero parla del tempo, non si riferisce a un fenomeno misurabile con l’orologio. Il tempo è l’essenza dell’attenzione; le emanazioni dell’Aquila provengono dal tempo; e quando un guerriero penetra in altri aspetti del sé, acquista familiarità con il tempo.



Un guerriero non può più piangere, e la sua unica espressione di angoscia è un fremito che nasce dalle profondità stesse dell’universo. È come se una delle emanazioni dell’Aquila fosse composta di pura angoscia, e quando colpisce un guerriero, il brivido di questi è infinito.

COMMENTO

La lettura delle citazioni tratte da Il dono dell’Aquila provocò in me una sensazione straordinaria. Avvertii immediatamente come il nucleo ferreo dell’intento degli antichi sciamani fosse ancora all’opera più vivo che mai. Compresi allora con assoluta certezza che le citazioni di questo lavoro erano dominate dalla loro ruota del tempo. E seppi che cosa era stato per tutto quello che avevo fatto in passato, come scrivere Il dono dell’Aquila, e per tutto quello che faccio ora, come scrivere questo libro. Poiché non sono in grado di chiarire questo aspetto, non mi resta che accettarlo in piena umiltà. Gli sciamani dell’antico Messico disponevano di un diverso sistema cognitivo, e dalle componenti di quel sistema erano ancora in grado di influenzarmi nel modo più positivo e illuminante.

Grazie all’impegno di Florinda Matus, che mi aveva spinto a studiare le variazioni più complesse delle tecniche ideate dagli antichi sciamani, come la ricapitolazione, ero in grado di valutare la mia esperienza con don Juan con una profondità fino ad allora inconcepibile. Il dono dell’Aquila è appunto il risultato di questa mia acquisita capacità.

Per don Juan Matus ricapitolare significava rivivere e ridisporre tutte le esperienze della propria esistenza in un colpo solo, ma non mi aveva mai tormentato con i particolari di elaborate variazioni di quell’antica tecnica. Florinda, invece, agiva con grande meticolosità. Trascorse mesi interi a convincermi a penetrare aspetti della ricapitolazione che a tutt’oggi sono incapace di spiegare. «È la vastità del guerriero che stai sperimentando», mi diceva. «Le tecniche sono la parte meno importante. Ciò che conta è l’uomo che le utilizza, e il suo desiderio di seguirle fino in fondo.» Ricapitolare don Juan secondo le modalità proposte da Florinda, sfociò in una visione del mio maestro traboccante di particolari e di significati, un’esperienza infinitamente più intensa della comunicazione diretta con lui. Fu il pragmatismo di Florinda a fornirmi intuizioni stupefacenti circa possibilità concrete che non avevano mai interessato il nagual Juan Matus. Da autentica pragmatista, Florinda non si faceva illusioni su se stessa e non nutriva sogni di gloria. Si definiva un aratro che non poteva permettersi di trascurare neppure un solo solco.

«Un guerriero deve procedere molto lentamente», raccomandava Florinda, «e deve utilizzare tutti gli strumenti disponibili lungo la strada. Uno degli strumenti più straordinari è la capacità, che tutti possediamo, di focalizzare con forza incrollabile l’attenzione su eventi vissuti. Il guerriero è addirittura in grado di focalizzare l’attenzione su persone che non ha mai incontrato. Il risultato di questa intensa messa a fuoco è sempre lo stesso: la ricostruzione dello scenario. Interi frammenti di comportamento, dimenticati oppure nuovi di zecca, si rendono allora accessibili al guerriero. Provaci.»

Seguii il suo consiglio e naturalmente mi concentrai su don Juan, richiamando alla memoria tutto quello che era accaduto. Ricordai particolari che non avevo modo di ricordare. Grazie al lavoro di Florinda, fui in grado di ricostruire grandi parti della mia attività con don Juan, così come dettagli importantissimi che all’epoca mi erano completamente sfuggiti.

Lo spirito delle citazioni tratte da Il dono dell’Aquila fu una vera sorpresa per me, perché rivelavano l’enfasi profonda che don Juan aveva posto sui vari aspetti del suo mondo, sulla via dei guerrieri come epitome della realizzazione dell’uomo. L’impeto era sopravvissuto all’individuo, ed era più vivo che mai. A volte era come se don Juan non mi avesse mai lasciato, e arrivai persino a sentire che si muoveva per la casa. Ne parlai con Florinda.

«Oh, non è niente», mi rispose lei. «È solo il vuoto di don Juan che si protende a toccarti, ovunque si trovi la sua consapevolezza.»

La sua risposta mi lasciò più perplesso e sconcertato che mai. Benché Florinda fosse stata la persona più vicina al nagual Juan Matus, erano sorprendentemente diversi. In comune avevano il vuoto delle loro persone: don Juan Matus non esisteva più come persona, ma di lui continuava a esistere un insieme di storie, ciascuna riferita alla situazione che lui stava discutendo, storie didascaliche e battute scherzose che portavano impresso il marchio della sua sobrietà e frugalità. Così era anche per Florinda: aveva una raccolta sterminata di storie, ma le sue parlavano di individui. Si potrebbe dire che erano una forma elevata di pettegolezzo, proprio a causa della sua impersonalità, e dei culmini incredibili di efficienza e di gioia che le erano propri.

«Voglio che tu studi un uomo che ha una particolare affinità con te», mi disse un giorno. «Voglio che tu ne faccia una ricapitolazione, proprio come se lo conoscessi da sempre, un uomo che ha svolto una funzione trascendentale nella formazione della nostra stirpe; il suo nome è Elias, il nagual Elias. Io lo chiamo “il nagual che perse il cielo”,

«Il nagual Elias era stato allevato da un gesuita che gli aveva insegnato a leggere, a scrivere e a suonare il clavicembalo. Gli aveva insegnato anche il latino ed Elias leggeva le Sacre Scritture in latino come un autentico studioso. Il suo destino era di diventare sacerdote, ma era indiano e a quei tempi gli indiani non erano adatti al pulpito. Avevano un aspetto troppo inquietante, erano troppo scuri, troppo indiani. I religiosi, infatti, provenivano dalle classi sociali più elevate, erano discendenti degli spagnoli, avevano la carnagione chiara e gli occhi azzurri, erano di bell’aspetto e assolutamente presentabili. In confronto a loro, il nagual Elias sembrava un orso, ma egli lottò a lungo, stimolato dalla promessa del suo mentore, secondo il quale Dio lo voleva sacerdote.

«Elias era sagrestano nella chiesa di cui il suo mentore era parroco, e in quella chiesa un giorno si presentò una strega. Si chiamava Amalia, e di lei si diceva che fosse un’eccentrica. Comunque fosse, la donna sedusse il povero sagrestano che se ne innamorò al punto che finì nella capanna di un nagual. Col tempo, divenne il nagual Elias, e poiché era un uomo colto e preparato, si trasformò in una figura di un certo peso. Il ruolo di nagual sembrava fatto apposta per lui, garantendogli l’anonimato e il potere che gli erano negati nel mondo.

«Elias era un sognatore, così abile nel sognare che, uscendo dal corpo, si recò nei luoghi più reconditi dell’universo. A volte addirittura tornava riportandone oggetti che l’avevano attratto, oggetti sconosciuti e incomprensibili. Lui li definiva “invenzioni”» e ne aveva un’intera collezione. «Voglio che tu concentri la tua attenzione sulla ricapitolazione di quegli oggetti», mi ordinò Florinda. «Voglio che tu arrivi ad avvertirne l’odore, a sentirne la forma nella tua mano, e questo benché tu non li abbia mai visti e di essi sappia solo quello che io ti ho detto. Questo determinerà un punto di riferimento, proprio come succede in un’equazione algebrica dove, per effettuare un calcolo, ci si basa su un terzo fattore. Utilizzando qualcun altro come punto di corroborazione, arriverai a vedere il nagual Juan Matus con chiarezza infinita.»

Il corpus di Il dono dell’Aquila è una disamina approfondita degli insegnamenti che don Juan mi aveva trasmesso durante il suo soggiorno in questo mondo.

Le impressioni che ricavai di lui a seguito di quella nuova ricapitolazione – effettuata impiegando il nagual Elias come punto di corroborazione – erano più intense di qualsiasi visione che ebbi quando lui era ancora in vita.

Quelle impressioni mancavano evidentemente del calore che la vita conferisce, ma possedevano la precisione e l’accuratezza che di solito possono essere raggiunte solo osservando oggetti inanimati.

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Da Il fuoco dal profondo

Non c’è completezza senza tristezza e anelito, perché senza di essi non c’è gentilezza né sobrietà. La saggezza priva di gentilezza e il sapere senza sobrietà sono inutili.



L’importanza del sé è il peggiore nemico dell’uomo. Lo indebolisce il sentirsi offeso dagli atti e dai misfatti dei suoi simili. L’importanza del sé richiede che si passi gran parte della vita sentendosi offesi da qualcosa o qualcuno.


Per seguire il cammino del sapere bisogna essere ricchi d’immaginazione. Su questo cammino nulla è chiaro come vorremmo che fosse.



Se coloro che vedono sono capaci di tener testa a piccoli tiranni, allora possono certamente affrontare impunemente l’ignoto, e tollerare perfino la presenza dell’inconoscibile.


Sembrerebbe naturale che un guerriero capace di far fronte all’ignoto sappia tener testa impunemente a piccoli tiranni. Ma questo non è necessariamente vero. Fu proprio una simile presunzione ad annientare i superbi guerrieri dell’antichità.

Nulla tempra lo spirito di un guerriero più del dover trattare con persone impossibili che occupano posizioni di potere.

Solo dopo esserci riuscito, il guerriero acquista la sobrietà e la serenità necessarie per reggere la pressione dell’inconoscibile.


L’ignoto è celato all’uomo, forse velato da un contesto terrificante, ma resta nondimeno alla portata dell’uomo. A tempo debito, l’ignoto diventa noto. L’inconoscibile, invece, è l’indescrivibile, l’inconcepibile. È qualcosa che non ci sarà mai noto e tuttavia esiste, stupefacente e terrorizzante nella sua vastità.



Noi percepiamo. Questo è un fatto certo. Ma ciò che percepiamo non rientra nel medesimo ordine di fatti, perché impariamo che cosa percepire.


Il guerriero dice che è solo la nostra consapevolezza a farci credere che fuori di noi ci sia un mondo di oggetti. Quello che realmente c’è là fuori sono le emanazioni dell’Aquila, fluide, in perenne movimento e tuttavia immutabili ed eterne.



La più grave pecca del guerriero inesperto è la sua inclinazione a dimenticare la meraviglia di ciò che vede. Si fa sopraffare dal fatto stesso di vedere e crede di potersene attribuire il merito. Un guerriero esperto deve fungere da esempio nell’intento di superare il lassismo proprio della condizione umana.

Ben più importante del vedere è ciò che il guerriero fa di ciò che vede.


Una delle forze principali nella vita del guerriero è la paura, perché lo spinge a imparare.



Per colui che vede, la verità è che tutti gli esseri viventi lottano per morire. È la consapevolezza a fermare la morte.


L’ignoto è sempre presente, ma è estraneo alle possibilità della nostra consapevolezza ordinaria. L’ignoto è la parte superflua dell’uomo comune, ed è superfluo perché l’uomo comune non dispone di energia sufficiente per impadronirsene.



Il maggior limite degli esseri umani è che rimangono incollati all’inventario della ragione. La ragione non si confronta con l’uomo in quanto essere di energia. La ragione ha a che fare con strumenti che creano energia, ma non ha mai seriamente valutato il fatto che noi siamo più che strumenti: siamo organismi che creano energia. Siamo bolle di energia.


I guerrieri che raggiungono la consapevolezza totale sono uno spettacolo incomparabile: ardono di un fuoco interno che li consuma e, in piena consapevolezza, si fondono con le emanazioni dell’Aquila e scivolano nell’eternità.



Una volta raggiunto il silenzio interiore, tutto diventa possibile. Per smettere di parlare con noi stessi non dobbiamo far altro che usare lo stesso metodo che è stato utilizzato per insegnarci a parlare con noi stessi; ci è stato insegnato in modo compulsivo e inflessibile, e questa è la normalità in cui dobbiamo smettere di restare: compulsiva e inflessibile.


L’impeccabilità comincia con un singolo atto che deve essere deliberato, preciso e mantenuto nel tempo. Ripetendo questo atto sufficientemente a lungo, si acquista un intento inflessibile, che può essere applicato a tutto il resto. A quel punto la strada è sgombra. Una cosa conduce a un’altra fino a che il guerriero prende pienamente atto del proprio potenziale.



Il mistero della consapevolezza è oscurità. Gli esseri umani emanano quel mistero, emanano cose inesplicabili. Considerarci in termini diversi è follia. Ecco perché il guerriero non svilisce il mistero dell’uomo sforzandosi di razionalizzarlo.


Ci sono due forme di realizzazione. La prima è fatta solo di chiacchiere, di grandi esplosioni emotive e null’altro. L’altra è il prodotto di uno spostamento del punto di unione; non va di pari passo con un’esplosione emotiva, ma con l’azione. Le realizzazioni emotive subentrano anni dopo che il guerriero ha rafforzato, attraverso l’utilizzo, la nuova posizione del punto di unione.



La cosa peggiore che può accaderci è di dover morire, e poiché la morte è già il nostro destino inalterabile, siamo liberi: chi ha perso tutto non ha più nulla da temere.


Il guerriero non si avventura nell’ignoto spinto dall’avidità. L’avidità ha senso solo nel mondo della realtà ordinaria. Per avventurarsi nella solitudine terrificante dell’ignoto c’è bisogno di qualcosa di più grande. C’è bisogno di amore, amore per la vita, per l’intrigo, per il mistero. C’è bisogno di una curiosità insopprimibile e di coraggio in abbondanza.



Il guerriero pensa solo al mistero della consapevolezza: il mistero è tutto ciò che conta. Siamo esseri viventi; dobbiamo morire e rinunciare alla consapevolezza. Ma se potessimo modificare anche solo minimamente questa realtà, quali misteri ci attenderebbero? Quali misteri!

COMMENTO

Il fuoco dal profondo è anch’esso un prodotto dell’influenza esercitata da Florinda Matus. In quell’occasione, lei mi portò a concentrarmi sul maestro di don Juan, il nagual Julian. Florinda e la mia profonda concentrazione mi rivelarono che il nagual Julian Osorio era stato un attore di un certo valore... ma soprattutto, era stato un uomo licenzioso, interessato esclusivamente a sedurre le donne, donne di ogni genere con cui entrava in contatto a ogni nuovo spettacolo. Era licenzioso al punto che la sua salute ne risentì e si ammalò di tubercolosi.

Il suo maestro, il nagual Elias, lo trovò un pomeriggio in un campo alla periferia di Durango, impegnato a sedurre la figlia di un ricco proprietario terriero.

Per lo sforzo, ebbe un’emorragia così massiccia che rischiava di essergli fatale. Secondo Florinda, il nagual Elias vide che non c’era modo di salvarlo, e l’unica cosa che poté fare in quanto nagual fu arrestare il flusso di sangue. Poi gli fece una proposta.

«Domattina alle cinque partirò alla volta delle montagne», disse. «Fatti trovare all’ingresso della città. Non mancare, altrimenti morirai, e prima di quanto tu creda.

«La tua sola possibilità di sopravvivenza consiste nel venire con me. Non potrò curarti, ma potrò deviare la tua inarrestabile marcia verso l’abisso che segna il termine della vita.

«Prima o poi, tutti noi esseri umani ci inoltriamo in quell’abisso. Io ti guiderò lungo quello sterminato crepaccio, alla sua destra o alla sua sinistra. Finché non cadrai, vivrai. Non guarirai mai del tutto, ma vivrai.»

Il nagual Elias non si aspettava granché dall’attore, che era pigro, inconcludente, incline all’autocommiserazione e perfino codardo. Rimase quindi molto stupito quando, alle cinque del mattino dopo, lo trovò ad attenderlo alle porte della città.

Lo portò con sé fra le montagne e, col tempo, l’attore divenne il nagual Julian: un tisico che, benché non si fosse mai curato, visse qualcosa come centosette anni, sempre camminando sull’orlo dell’abisso.

«Naturalmente, è di estrema importanza che tu esamini il percorso seguito dal nagual Julian lungo l’abisso», mi disse Florinda. «Al nagual Juan Matus non importava, lo riteneva superfluo. Ma tu non hai il suo talento, e niente può essere superfluo per te, come guerriero. Devi lasciare che i pensieri, i sentimenti, le idee degli antichi sciamani messicani vengano a te liberamente.»

Florinda aveva ragione. Io non ho lo splendore del nagual Juan Matus e, proprio come lei aveva detto, nulla poteva essere superfluo per me. Avevo bisogno di tutti i puntelli, di tutte le indicazioni che potevo trovare. Non potevo permettermi di ignorare nessuna delle opinioni e concezioni degli antichi sciamani, per quanto inverosimili mi apparissero.

Studiare il percorso del nagual Julian lungo l’orlo dell’abisso significava poter ampliare la ricostruzione mnemonica fino a comprendere anche i sentimenti che Julian doveva aver provato durante la sua stupefacente battaglia per la vita. Rimasi profondamente scioccato nello scoprire che lo aveva tenuto impegnato senza sosta, sempre in bilico tra la sensualità e una pericolosa inclinazione all’autoindulgenza, e uno strenuo attaccamento alla vita.

La sua era stata quindi una lotta continua, sempre tesa al mantenimento di un equilibrio. Quella marcia sull’orlo dell’abisso equivaleva alla battaglia del guerriero enfatizzata a un tale punto che ogni secondo poteva essere determinante. Ciononostante, se manteneva lo sguardo, l’enfasi e l’attenzione su quello che Florinda aveva definito l’orlo dell’abisso, la pressione si attenuava, e la sua disperazione era ben lontana da ciò che lo assaliva quando si accorgeva che le vecchie consuetudini tornavano ad assediarlo. In quei momenti, guardando al nagual Julian, mi scoprivo a pensare che stavo ricapitolando un uomo del tutto diverso, più distaccato, più calmo, più padrone di sé.

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Da Il potere del silenzio

Il guerriero non impara lo sciamanesimo col passare del tempo; piuttosto, col passare del tempo, impara a risparmiare energia. Quest’energia gli permetterà di maneggiare alcuni dei campi energetici che abitualmente gli sono inaccessibili. Lo sciamanesimo è uno stato di consapevolezza, la capacità di usare campi energetici che non vengono impiegati nella percezione della quotidianità che è a noi nota.


L’universo ospita una forza incommensurabile e indescrivibile che gli sciamani chiamano intento, e tutto ciò che esiste nel cosmo è strettamente connesso a esso.

Il guerriero ha cura di discutere, comprendere e utilizzare tale connessione. Soprattutto, ha cura di ripulirla dagli effetti ottundenti generati dalle preoccupazioni del quotidiano. A questo livello, lo sciamanesimo può essere identificato come il processo di purificazione della propria connessione con l’intento.


Gli sciamani sono fattivamente interessati al passato, ma non al passato individuale. Per gli sciamani, il passato è ciò che altri sciamani hanno compiuto in precedenza. Lo consultano per trame un punto di riferimento. Per loro, stabilire un punto di riferimento significa garantirsi la possibilità di valutare l’intento.



Anche l’uomo comune esamina il passato, ma è a quello personale che è interessato, e per ragioni personali. Si confronta con il passato, sia quello personale sia quello sulla conoscenza passata del suo tempo, per trovare giustificazioni al suo comportamento presente o futuro, o per crearsi un modello.


Lo spirito si manifesta senza sosta al guerriero. Questa però non è tutta la verità. La verità è che lo spirito si rivela a tutti con la stessa intensità e coerenza, ma solo il guerriero è costantemente sintonizzato con tali rivelazioni.



Il guerriero parla dello sciamanesimo come di un misterioso uccello magico che sospende per un momento il suo volo con l’intento di dare all’uomo speranza e scopo; il guerriero vive sotto l’ala dell’uccello, e lo chiama l’uccello della saggezza, l’uccello della libertà.


Per un guerriero lo spirito è un’astrazione solo perché egli lo conosce senza parole né pensieri. È un’astrazione perché gli è impossibile concepirlo. Ciononostante, senza desiderio né possibilità di comprenderlo, il guerriero maneggia lo spirito. Lo riconosce, lo chiama, lo attira, si familiarizza con esso, e lo esprime nelle sue azioni.



Il potere dell’uomo è incommensurabile; la morte esiste solo perché ce la prefiggiamo fin dalla nascita. L’intento di morte può essere sospeso modificando le posizioni del punto di unione.


La connessione che l’uomo comune ha con l’intento è sostanzialmente morta, e il guerriero comincia quindi con un legame inutile, perché non reagisce di sua propria volontà. Per infondere nuova vita a tale legame, il guerriero ha bisogno di uno scopo rigoroso, determinato: un particolare stato della mente detto intento inflessibile.



Le azioni del guerriero hanno uno scopo recondito che nulla ha a che fare con il suo guadagno personale. L’uomo comune agisce solo nella speranza di un ritorno; il guerriero agisce nel nome dello spirito.


L’arte dell’agguato consiste nell’apprendere tutti i trucchi del camuffamento, e impararli così bene che nessuno si accorge che si è camuffati. Per riuscirci è necessario essere spietati, astuti, pazienti e gentili. La spietatezza non dovrà essere durezza, l’astuzia non dovrà essere crudeltà, la pazienza non dovrà essere negligenza né la gentilezza stupidità.



Lo sciamanesimo è un viaggio di ritorno. Un guerriero torna vittorioso allo spirito, dopo essere disceso negli inferi.

E dagli inferi porta dei trofei: la comprensione è uno dei suoi trofei.


Attraverso il vedere, gli sciamani antichi scoprirono che un comportamento inusuale produceva un tremito nel punto di unione. Presto scoprirono che, se ripetuto in maniera sistematica e indirizzato correttamente, tale comportamento inusuale costringeva il punto di unione a spostarsi.



Il sapere silenzioso altro non è che il contatto diretto con l’intento.


Il guerriero comprende il comportamento umano alla perfezione, perché è cacciatore. Comprende, per esempio, che gli esseri umani sono creature d’inventario. È la conoscenza dei dettagli di un inventario particolare a fare di un uomo uno studioso o un esperto nel suo campo.



Il guerriero non erige mai un ponte per unirsi agli abitanti del mondo. Ma se gli uomini desiderano farlo, dovranno erigere un ponte che conduca al guerriero.


Il guerriero sa che quando l’inventario di un uomo è inadeguato, o quell’uomo lo amplia o il suo mondo di autoriflessione si disintegra. La persona comune è in grado di incorporare nuove componenti nel suo inventario soltanto se esse non sono in contrasto con l’ordine fondamentale. Se invece lo contraddicono, la sua mente collassa. L’inventario è la mente. È su questo che si basa il guerriero quando cerca di infrangere lo specchio dell’autoriflessione.


Perché i misteri dello sciamanesimo siano accessibili a tutti, lo spirito deve discendere su chiunque sia interessato. Lo spirito fa sì che la sua sola presenza sposti in una posizione specifica il punto di unione dell’uomo. Tale punto è noto agli sciamani come il luogo della non pietà.



Nessuna particolare procedura è richiesta per lo spostamento del punto di unione nel luogo della non pietà. Semplicemente, lo spirito tocca la persona in questione e il punto di unione si sposta.


Per consentire alla magia di avere presa su di noi, non dobbiamo far altro che bandire ogni dubbio dalla nostra mente. Una volta eliminati i dubbi, tutto diventa possibile.



Le possibilità dell’uomo sono talmente vaste e misteriose che il guerriero, invece di riflettere su di esse, ha scelto di esplorarle, pur senza alcuna speranza di arrivare a comprenderle.


Tutto ciò che un guerriero compie, lo compie come conseguenza di uno spostamento del suo punto di unione, e tali spostamenti sono determinati dalla quantità di energia che il guerriero può controllare.



Qualunque movimento del punto di unione equivale a un allontanamento dall’eccessiva focalizzazione sul sé individuale.

Gli sciamani credono che sia la posizione del punto di unione a fare dell’uomo moderno un irrimediabile egocentrico, completamente assorbito dall’immagine di sé. Avendo perso la speranza di tornare alla fonte di ogni cosa, l’uomo comune cerca conforto nel proprio egoismo.


L’ambizione della via dei guerrieri è la detronizzazione dell’importanza del sé. E tutte le azioni che il guerriero compie sono dirette a questo obiettivo.



Nella realtà ordinaria, parole e decisioni possono essere facilmente annullate. La sola irrevocabilità di quel mondo è la morte. Nel mondo degli sciamani, invece, è possibile revocare la morte, ma non la parola dello sciamano. In questa realtà le decisioni non possono essere modificate né riviste. Una volta prese, sono prese per sempre.


Gli sciamani hanno smascherato l’importanza del sé e hanno scoperto che non è altro che autocommiserazione sotto altre vesti.



Uno degli aspetti più drammatici della condizione umana è la macabra connessione tra stupidità e riflesso del sé. È la stupidità a indurre l’uomo comune a scartare tutto quello che non è conforme alle aspettative del riflesso del sé. In quanto uomini comuni, per esempio, siamo ciechi davanti alla più importante delle conoscenze accessibili agli esseri umani: l’esistenza del punto di unione e il fatto che possa spostarsi.


Tenendosi saldamente aggrappato all’immagine che ha di sé, l’uomo razionale conferma la sua ignoranza abissale. Egli ignora che lo sciamanesimo non significa incantesimi e formule magiche, bensì la libertà di percepire non solo il mondo che diamo per scontato, ma quant’altro è umanamente possibile. L’uomo rabbrividisce davanti alla prospettiva della libertà. E la libertà è a un passo da lui.



Lo spirito ascolta solo quando gli si parla con i gesti. E per gesti non si intendono cenni o movimenti del corpo, ma atti di assoluto abbandono, di liberalità, di arguzia. Come gesto per lo spirito, il guerriero porta alla luce il meglio di sé e in silenzio lo offre all’astratto.


L’uomo intuisce le proprie risorse nascoste, ma non osa utilizzarle. Ecco perché il guerriero afferma che la condizione dell’uomo è il contrappunto fra la sua stupidità e la sua ignoranza. Più che mai ora l’uomo ha bisogno di apprendere idee nuove che concernono solo il suo mondo interiore: idee proprie degli sciamani, non legate alla dimensione sociale, idee per un uomo che è posto di fronte all’ignoto, e alla sua stessa morte. Ora, più che di qualunque altra cosa, egli ha bisogno di apprendere i segreti del punto di unione.

COMMENTO

L’ultimo libro che ho scritto su don Juan si intitola Il potere del silenzio, titolo scelto dal mio editore; quello originale era infatti Il Silenzio interiore. Mentre scrivevo, la visione della realtà degli sciamani antichi era diventata estremamente astratta. Florinda fece tutto il possibile per distogliermi dal mio assorbimento nell’astrattezza e tentò di spostare la mia attenzione verso altri aspetti delle antiche tecniche sciamaniche, provando perfino a scioccarmi con un comportamento scandaloso.

Ma nulla poteva allontanarmi da quella che sembrava una direzione inesorabile. Il potere del silenzio è una disamina del pensiero degli sciamani dell’antico Messico nella loro dimensione più astratta.

Lavorando da solo al libro, caddi vittima dello stato d’animo degli uomini di cui scrivevo, del loro desiderio di apprendere maggiormente in un modo quasi razionale. Florinda mi spiegò che, alla fine, gli sciamani erano diventati estremamente freddi e distaccati. Erano interamente dediti alla loro ricerca: la loro freddezza mirava a eguagliare la freddezza dell’infinito. Erano riusciti a trasformare i loro occhi umani in modo da renderli simili agli occhi gelidi dell’ignoto.

Io stesso intuivo tutto questo, e mi sforzavo disperatamente di invertire il corso degli eventi. Non ci sono ancora riuscito. I miei pensieri sono diventati via via sempre più simili a quelli che furono i loro pensieri al termine della loro ricerca. Con ciò non voglio dire che non so più ridere. Anzi, la mia è una vita di gioia infinita, ma, allo stesso tempo, è anche una ricerca incessante e senza tregua.

L’infinito finirà per inghiottirmi, e voglio essere preparato. Non voglio che mi dissolva nel nulla perché, anche se vaghi, conservo ancora desideri, affetti, attaccamenti. Desidero più di qualunque altra cosa essere come quegli uomini. Non li ho mai conosciuti; gli unici sciamani che ho incontrato sono don Juan e il suo gruppo, e ciò che esprimevano non avrebbe potuto essere più lontano dalla freddezza che intuisco in quegli uomini sconosciuti. Grazie all’influenza esercitata da Florinda sulla mia vita, ho imparato a concentrarmi totalmente sullo stato d’animo di persone che non ho mai conosciuto. Ho focalizzato la mia attenzione sullo stato d’animo di quegli sciamani e sono rimasto intrappolato in esso senza più speranza di potermi districare. Florinda non credeva nella definitività della mia situazione, mi prendeva in giro e rideva apertamente di me. Questo stato è solo apparentemente definitivo», mi diceva, «ma in realtà non è così. Verrà il momento in cui cambierai scena. Forse ti libererai di tutti i pensieri sugli sciamani dell’antico Messico. Forse ti libererai anche di quelli sugli sciamani con cui sei stato così intimamente a contatto, come il nagual Juan Matus. Forse arriverai addirittura a respingere la sua essenza. Vedrai: non ci sono limiti per un guerriero. Il suo senso di improvvisazione è talmente forte che può costruire sul niente, ma le sue non sono costruzioni vacue, bensì funzionali e pragmatiche. Vedrai. Non dico che ti dimenticherai di loro, ma, a un certo punto, prima di tuffarti nell’abisso, se avrai l’ardire di camminare lungo il suo orlo, se oserai non allontanarti da esso, arriverai alle conclusioni di ordine e stabilità tipiche del guerriero, a te molto più consone di questa ossessione sugli sciamani dell’antico Messico.»

Le parole di Florinda suonarono come una profezia piena di speranza. Forse aveva ragione. Di certo, aveva ragione nell’affermare che le risorse del guerriero non hanno limiti. L’unico problema è che, perché io possa costruirmi una visione diversa del mondo e di me stesso, una visione più consona al mio temperamento, devo camminare lungo l’orlo dell’abisso, e dubito di avere il coraggio e la forza necessari per una simile impresa.

Ma, d’altro canto, chi può saperlo?


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