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QUATTRO PRATICHE DI BASE DELLO YOGA DEL SOGNO








Prima pratica: Riconoscere la natura onirica della vita.

Da svegli, ci si esercita a riconoscere la natura onirica della vita, finchè lo stesso riconoscimento non comincia a manifestarsi anche in sogno. Qualsiasi cosa sperimentiamo, di notte e di giorno, è frutto delle proiezioni della nostra mente, a loro volta influenzate dalle tracce karmiche: questa pratica tenta infatti di cambiare le nostre reazioni abituali tramite la consapevolezza della non-realtà intrinseca a tutta l’esperienza. Non si tratta di limitarsi a pensare di tanto in tanto al fatto che tutto, anche noi stessi, sia un sogno, poichè non c’è efficacia nella vuota ripetizione di una frase; al contrario la sensazione deve essere vissuta attraverso i sensi e l’immaginazione.

Seconda pratica: eliminare l’attaccamento e l’avversione. Laddove la prima pratica agisce nel momento dell’incontro della coscienza con i fenomeni, prima che ci sia una reazione, la seconda agisce quando la reazione è sorta.
Dirigi la coscienza lucida verso le reazioni emotivamente in ombra, che sorgono in risposta agli elementi dell’esperienza. Nel momento in cui ci rendiamo conto di sperimentare una reazione emotiva incontrollata e dannosa, come la rabbia, dobbiamo cercare di percepirla irreale, onirica. Il segnale di riuscita è anche qui un cambiamento di coscienza: la stretta emotiva, che sembrava inevitabile, si allenta e il rapporto con la situazione subisce un mutamento. Con questo metodo i tibetani abbandonano l’attaccamento e l’avversione, tuttavia Tenzin Wangyal precisa che “é di poco beneficio reprimere i propri desideri, poiché si trasformerebbero in conflitti interiori e in condanne e intolleranze esteriori.” “E tentare di sfuggire al proprio dolore attraverso la distrazione o irrigidendosi nel corpo, per soffocare l’esperienza, ostacola lo sviluppo spirituale”.

 Terza pratica: rafforzare l’intenzione. Prima di coricarsi la sera, si lasciano affiorare alla memoria i ricordi del giorno, riconoscendo come un sogno tutto quello che viene in mente. I ricordi più chiari sono anche quelli che hanno più possibilità di influenzare i sogni; è perciò necessario comprendere la natura onirica dell'esperienza, come se i ricordi fossero anch'essi dei sogni, e sentire il cambiamento che avviene.
Poi si sviluppa una forte determinazione a riconoscere i sogni nella notte per quello che sono, formulando il più possibile l'intenzione di essere coscienti in modo diretto e vivido del fatto che si sta sognando. L'intenzione è come una freccia che indica alla coscienza la strada da seguire. I tibetani indicano il concetto di “generare un'intenzione” con un'espressione che significa “inviare un desiderio”; infatti essi pregano i buddha e le divinità affinchè forniscano il loro aiuto.

Quarta pratica: coltivare il ricordo. Quest'ultima preparazione si fonde con la prima, rendendo la pratica dello yoga del sogno  un processo pressoché ininterrotto. Appena svegli si tenta di ricordare rivedendo la notte. I sogni andrebbero registrati in un diario, per abituarsi a considerarli importanti e ricordare il maggior numero di particolari. Si rafforza l'intenzione di avere sogni sempre più consapevoli e di rimanere costanti nella pratica. Si può pregare rivolgendosi alla figura di un maestro o di una divinità. La preghiera in sé è considerata come dotata di potere ed energia, un potere magico che tutti possiedono. 


Tutte le quattro preparazioni sono solo l'inizio dell'esperienza ... sono la base di partenza e lo strumento principale per operare cambiamenti effettivi nella coscienza. La costanza e la regolarità assicurano il successo, anche se alcune persone impiegano anni prima di raggiungere lo stadio di effettiva lucidità.

L’utilità dei sogni lucidi, secondo i tibetani, giunge solo quando si è capaci di applicare la consapevolezza lucida negli stati post-mortem del chonyid bardo e del sipa bardo. Il sonno sarebbe davvero una piccola morte, una sorta di addestramento giornaliero al definitivo abbandono del corpo. Mantenendo la consapevolezza sull’illusorietà delle percezioni, l’uomo addestrato può raggiungere la suprema illuminazione nel momento in cui il suo spirito abbandona il corpo.




 

[...]

Tenzin Wangyal ci spiega come i sogni sorgono dalle tracce karmiche utilizzando la metafora della pellicola cinematografica: la coscienza è la luce del proiettore, le tracce karmiche sono i fotogrammi e lo schermo su cui vengono proiettiati i sogni è la base (kunzhi) di tutto ciò che esiste.
 

[...]


Namkhai Norbu sostiene che nell’insegnamento Dzogchen i sogni lucidi sono considerati simili a dei giochi infantili, la cuiimportanza è limitata alla presa di coscienza delle infinite possibilità della mente, prima di essere in grado di trascendere la mente stessa...
Egli parla della pratica principale, nota come metodo della ‘luce naturale’, che riguarda fondamentalmente non lo stato onirico, ma quello che immediatamente lo precede. È il momento in cui il senso
di identità svanisce e la mente mobile cessa di funzionare e dura finchè non si entra nello stato onirico, in cui ritroviamo frammenti di identità relazionandoci con le immagini del sogno. In questa fase, secondo Norbu, può essere presente uno stato di consapevolezza che può condurre il praticante a realizzarsi
totalmente. 
 

[...]
Il cardine dello Dzogchen è che la realtà ultima è una luce divina,
trascendente, che risiede al di là delle apparenze e dentro ciò che chiamiamo ‘mente’ o ‘sé’. L’uomo non ha e non avrà mai la necessità di combattere o soffrire per raggiungere la liberazione, perché essa è già qui, è parte integrante della nostra natura: siamo noi che, ottenebrati dal sonno ‘samsarico’, non siamo in grado di vederla...

Essere cosciente nel momento in cui il nostro corpo è
addormentato rappresenta una conquista che ci riavvicina alla nostra natura più profonda e reale. Per i tibetani il sonno è un campo di prova della morte, è il terreno in cui raccogliere la sfida posta dalla nostra condizione infelice di esseri limitati.


[...]
Il praticante dovrebbe suscitare in sé un senso di
compassione, pregando di raggiungere la liberazione per il beneficio di tutti gli
esseri intrappolati nel sa#s"ra. Potrebbe essere utile avere una luce accesa
durante la notte, per mantenere la mente leggermente sveglia.


[...]
Lo yoga del sonno usa la visualizzazione dei cinque tiglè per sostenere la coscienza quando il contatto con il mondo si è perso. In corrispondenza con il progressivo dissolversi dei sensi il praticante si concentra sui cinque tiglè, seguendo un ordine preciso
(giallo, verde, rosso, blu, blu-bianco), finchè non si dissolve nella luce naturale della mente. Su questo punto è bene precisare che nel contesto dello yoga del sonno i tiglè sono piccole sfere di luce usate per ‘ancorare’ la mente, quando quest’ultima non è in grado di rimanere spontaneamente nello stato privo di dualità. La luce è anch’essa una manifestazione proveniente dal mondo delle forme, ma è meno materiale di qualsiasi altra forma percepibile. Essa serve al praticante fino a che non ha imparato a rendere stabilmente vuota la coscienza. La precisa collocazione anatomica dei tiglè non è importante: ciò che conta è percepire il centro del corpo nella zona del cuore, lasciandosi guidare dalla coscienza e dall’immaginazione. Praticando intensamente per mesi o molto più spesso per anni, si dovrebbe percepire finalmente la luce naturale, quella luminosità indescrivibile, al di là dei concetti razionali e del dualismo soggetto-oggetto, di cui i tibetani parlano da millenni.


[...]
Gli ostacoli lungo questo percorso sono in realtà uno solo: essere lontani dalla chiara luce, nell’esperienza dualistica del samsra. Mentre siamo svegli sono le percezioni a distrarci, perché non le lasciamo fluire indisturbate, ma vi proiettiamo le nostre fantasie e i nostri pensieri. Durante il sonno ci distraggono i sogni, perché reagiamo a questa esperienza considerandola reale e non come semplice manifestazione illusoria delle tracce karmiche. Nella meditazione l’ostacolo principale è il pensiero, poiché i pensieri oscurano la luce della coscienza assoluta.



[...]
La mente concettuale è anche
chiamata mente mobile, perché lavora duramente senza mai fermarsi e questa attività provoca sofferenza; essa vive nella nostalgia del passato e nelle fantasie sul futuro, dimenticandosi di percepire la bellezza e l’armonia di un presente eterno ed intoccabile... 


Identificarsi con la mente concettuale, equivale a vivere come uno dei riflessi dello specchio senza sapere che noi siamo lo specchio. Consideriamo realtà ciò che è solo illusione, in un gioco senza fine. Quando la mente concettuale è libera da desiderio e
avversione si rilassa spontaneamente nel rigpa, e allora essa è libera da quel grande sogno –quella forma-pensiero che lei stessa proietta oscurando la visione dell’essenza non-duale– che è il mondo effimero delle apparenze. Essa può ospitare tutto ciò che sorge nell’esperienza, apprezzandone ogni momento: se sorge amore lo specchio si riempie d’amore, se sorge odio lo specchio si riempie d’odio, ma entrambi non hanno significato per lo specchio poiché sono entrambi in egual misura manifestazioni della sua innata capacità di riflettere. Ogni pensiero, anche il più negativo, viene liberato nella purezza e nella chiarezza che ne costituisce l’essenza. Il Tantra Madre chiama il rigpa ‘mente primordiale’: essa sta alla mente ordinaria come l’oceano sta alle bolle d’acqua che in esso si formano, vivono un istante e poi si dissolvono, senza minimamente modificarne la natura. Il rigpa esiste spontaneamente nella base della realtà. La sua attività è manifestazione senza interruzione; tutti i fenomeni sorgono in esso senza disturbarlo.
 
 [...] La conoscenza come percezione



La visione particolare dello Dzogchen è stata spesso criticata in vari commentari del buddhismo tradizionale. I praticanti Dzogchen darebbero troppo credito a ‘visioni della luce’ percepite attraverso i sensi. Secondo queste critiche i profani
non avrebbero nessuna possibilità di percepire la natura della mente attraverso i sensi, ma si dovrebbero appoggiare a deduzioni intellettuali. Nello Dzogchen tutto questo viene fortemente negato: non solo la vacuità e la chiarezza della mente possono essere percepite direttamente attraverso i sensi, ma è anche più facile e valido impegnare i sensi in questo compito spirituale, piuttosto che la mente concettuale. I nostri sensi sono le porte immediate della percezione diretta, farebbero quindi parte di una coscienza sensoriale libera dall’influenza della razionalità e di conseguenza sarebbero più vicini alla pura coscienza. La mente concettuale normalmente si sovrappone alla percezione diretta, applicandovi dei modelli, proiettando le proprie aspettative e appunto i
‘concetti’ contenuti nell’esperienza illusoria della personalità.
 Per esempio la coscienza sensoriale degli occhi percepisce il fenomeno noto come ‘albero’.
Quello che percepisce non è l’albero in sé, ma un’esperienza sensoriale di luce e  colore. È la mente concettuale che applica il modello, cioè l’immagine mentale dell’albero, a questa percezione pura. Se gli occhi si chiudessero, essa potrebbe ancora proiettare l’immagine di un albero che non sarà però uguale alla percezione diretta di quest’ultimo. La capacità innata della mente di modellare l’esperienza diretta dei sensi, sebbene sia di enorme utilità per gli esseri umani, è la causa principale degli ostacoli più persistenti nella pratica dello Dzogchen, proprio perché l’esperienza del rigpa è oscurata sia dal rapporto dualistico con i fenomeni, sia dalla concettualizzazione di quest’esperienza operata dalla mente razionale.
 Il percorso dello Dzogchen è privo di causalità: non si raggiunge l’illuminazione grazie ai propri sacrifici e ai propri meriti, ma si cerca di raggiungere una conoscenza sensoriale e a-concettuale di uno stato che è già presente. Nel primo istante di contatto tra la coscienza e l’oggetto dei sensi la natura della mente è lì, al di là del dualismo e dei processi mentali. Questa conoscenza, spiegano Norbu e Wangyal, è meravigliosa e liberatrice. Non è inerzia, ma puro risveglio di tutte le facoltà innate che sono nell’individuo.
Tentare di descriverla è impossibile. Cercarla e sforzarsi di averla è altrettanto inutile poiché essa è estranea all’atto di desiderare. Il rigpa è la completa assenza di sforzo, è lo spazio di pura potenzialità in cui ha luogo la soggettività, il sonno, il sogno, la vita da svegli e ogni altra transizione di coscienza.



(Gabriele Zurla - Lo Yoga del Sogno e del Sonno nello studio di
Namkhai Norbu e Tenzin Wangyal Rinpoche )
 

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