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Resi Umani: Da organismi scimmieschi all’ominide pensante, una storia ancora da scrivere . Mauro Biglino & Pietro Buffa - Testo completo

- PIETRO BUFFA MAURO BIGLINO PIETRO BUFFA MAURO BIGLINO RESI UMANI DA ORGANISMI SCIMMIESCHI ALL’OMINIDE PENSANTE Una storia ancora da scrivere ISBN 978-88-33800-65-3 ©2018 Uno Editori Prima edizione: Aprile 2018 Terza ristampa: Maggio 2019 Tutti i diritti sono riservati Ogni riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo, deve essere preventivamente autorizzata dall’Editore. Copertina: Monica Farinella Impaginazione: Caterina Robatto Editing: Andrea Cogerino, Enrica Perucchietti Per essere informato sulle novità di Uno Editori visita: www.unoeditori.com o scrivi a: info@unoeditori.com «I due giorni più importanti della tua vita sono quando nasci e quando capisci il perché» ha detto una volta lo scrittore americano Mark Twain. Un concetto che si può estendere in chiave filosofica e antropologica: sarà un giorno memorabile anche quando comprenderemo perché siamo nati come specie, come Umanità. La fede e la scienza hanno già formulato le loro risposte, proponendo da un lato l’idea creazionista, dall’altro la teoria evoluzionista. Due concetti diametralmente opposti ma simili nel porre l’Uomo al vertice, vuoi perché Dio l’ha prescelto, riconoscendogli il diritto di disporre a proprio piacimento di tutti gli animali, vuoi perché la Natura l’ha privilegiato, assegnandogli un’analoga supremazia sugli altri esseri viventi. Non solo gli effetti deleteri sul pianeta di questa supposta superiorità umana sono sotto gli occhi di tutti, ma sono sempre più evidenti anche le incongruenze, le contraddizioni, le lacune e le illogicità che in misure e forme diverse i due sistemi dottrinali palesano. Eppure, per dirla come i filosofi di una volta, tertium non datur – una terza via sembra impercorribile. Ne siamo proprio sicuri? È quella che prova a cercare – con un coraggio che rasenta la temerarietà – questo saggio scritto dal biologo molecolare Pietro Buffa e dall’esperto di Storia delle religioni Mauro Biglino. Sulla base delle proprie specifiche competenze, i due studiosi tracciano un quadro insolito entro il quale collocare la nascita, lo sviluppo e l’irresistibile ascesa di quello strano animale chiamato Uomo. Nello scenario che tratteggiano, spunta così un terzo incomodo: non Dio, non la Natura, ma un attore esterno (ancora da identificare) avrebbe agito nell’ombra interferendo nella nostra evoluzione, utilizzando metodi che solo oggi possiamo comprendere perché li stiamo usando anche noi. Anche noi, adesso, sappiamo manipolare un genoma; anche noi, adesso, sappiamo produrre creature “chimere” in laboratorio; anche noi, adesso, sappiamo intervenire sull’evoluzione di una specie. E se qualcuno, ancora più tecnologicamente all’avanguardia rispetto ai nostri odierni scienziati, lo avesse fatto in passato con il primo ominide? E se la specie Homo sapiens fosse il risultato di un esperimento scientifico pianificato e portato avanti nei millenni? Un’idea peregrina che fa inorridire – o sorridere – molti, ma che pure sta incominciando a trovare seguito anche in ambienti più formali. L’esempio più eclatante è quanto ha affermato Barbara Negri, responsabile dell’Unità di esplorazione e osservazione dell’Universo dell’asi (l’Agenzia Spaziale Italiana) durante il programma “C’è spazio” trasmesso da TV2000 – il canale della CEI, la Comunità Episcopale Italiana. Ospite della puntata intitolata “Primo contatto”, andata in onda il 23 marzo 2017, la dottoressa Negri ha detto: «Noi potremmo essere il risultato di “vita-forming” di qualcun altro. Questa è una delle ipotesi. Se noi vediamo lo sviluppo dell’Uomo, con la sua capacità intellettuale e cerebrale, esso è avvenuto in uno spazio molto piccolo, quasi come se ci fosse stata una programmazione per questa evoluzione che sta avvenendo davvero in maniera veloce. Quindi, una delle teorie, forse veramente legate più alla fantascienza che alla scienza, è che noi potremmo essere stati un esperimento di civiltà superiori, che hanno impiantato sulla Terra – proprio perché c’erano delle condizioni ambientali particolari – “l’esperimento Uomo”. E quindi prima o poi potremmo essere anche visitati per vedere a che punto è la nostra evoluzione. È una teoria anche questa». Come tale – come un’ipotesi di lavoro, ancora tutta da verificare e da dimostrare ma degna comunque di essere presa in esame – la affrontano anche gli autori di questo saggio. Ripercorrono i testi sacri – la Bibbia in particolare – con una chiave di lettura sorprendente e sconcertante (e chi conosce il metodo del “facciamo finta che…” sa già di cosa parlo), ma analizzano anche tutte le caratteristiche biologiche tipiche dell’essere umano difficilmente giustificabili con la teoria darwiniana. A partire da tutti quegli elementi che abbiamo in comune con le specie addomesticate – tratti biologici, comportamenti, attitudini, mutazioni genetiche e così via, che sappiamo essere effetto di un intervento esterno atto a modificare a proprio vantaggio la natura di un altro individuo. Se davvero qualcuno in epoche remote ci ha plasmato per farci diventare obbedienti, socievoli, facilmente controllabili e influenzabili, non ha agito poi tanto diversamente da noi, quando in età preistorica abbiamo trasformato un feroce e ostile lupo selvatico nel nostro più fedele e servizievole amico. Alla luce di questa ipotetica “terza via”, la nostra evoluzione sarebbe insomma il prodotto di una progressiva selezione genetica guidata da un’Intelligenza che ci ha resi umani per soddisfare un proprio interesse. Non per il nostro bene, dunque, ma per il suo. Perché essere addomesticati significa anche essere sottomessi, se non addirittura succubi. E l’assoggettamento non prevede diritto di scelta ma totale condizionamento, così come l’asservimento all’altrui volontà, esclude ogni vera forma di libertà di pensiero e di azione. Questo dunque saremmo noi, inconsapevoli cagnolini addestrati da individui superiori? Un bello smacco per il nostro smisurato Ego di (presunta) specie dominante… SABRINA PIERAGOSTINI Introduzione Da dove viene l’essere umano? La maggior parte delle persone dà per scontato che diversi passaggi cruciali che hanno caratterizzato la nostra storia biologica abbiano già trovato risposta nelle linee guida della sintesi neo-darwiniana. In realtà, l’evoluzione umana appare così peculiare tra i primati che le ricostruzioni teoriche degli eventi occorsi ai nostri progenitori non riescono ancora a descrivere una storia biologica priva di grosse lacune. Anche l’ambito accademico condivide perplessità su molti punti del nostro processo bio-evolutivo ma solo di rado i dubbi di questo “dibattito interno” raggiungono il grande pubblico. Ian Tattersall, scienziato di spicco nell’ambito degli studi sugli ominidi e curatore emerito della sezione di evoluzione umana del museo di storia naturale di New York1, riassume in una sola frase lo stato dell’arte a proposito delle nostre conoscenze: «Come siamo diventati esseri umani rimane una delle più grandi domande della scienza»2. Più a fondo si indaga sull’origine di diverse caratteristiche biologiche che ci hanno resi umani e più appare chiaro che Homo sapiens non rappresenta soltanto un’ennesima variazione sul tema della filogenesi3 dei primati. Una prima fondamentale considerazione sulla nostra origine riguarda il tempo: in nessun’altra linea di discendenza animale si registrano così tanti incisivi cambiamenti nello stesso intervallo di tempo in cui si è svolta l’evoluzione umana. Eventi a noi ancora ignoti hanno come catalizzato lo sviluppo delle varie forme antropomorfe poste lungo la nostra linea di discendenza, dando origine in modo repentino e definito a vere e proprie “novità biologiche”. Attualmente, molti scienziati tra cui Andrew Barr della George Washington University sono addirittura propensi ad abbandonare i modelli classici ancora largamente divulgati, che assocerebbero la rapida comparsa di nuove specie del genere Homo all’impulso dato da cambiamenti climatici4. Quella sulle origini umane è una storia ancora aperta. Nel precedente lavoro5, ho espresso l’opinione secondo cui, nel voler spiegare le nostre origini, evoluzionismo e creazionismo – anche se in modo diverso – rappresentino spesso sistemi ideologici. In quel testo partivo da lì, per sviluppare un punto di vista che superasse le due forme di pensiero contrastanti e valutare se il nostro processo evolutivo fosse stato, in tutti i suoi passaggi, completamente autonomo. La domanda era se la nostra storia biologica potesse, così come sostengono i teorici della paleo-astronautica, contemplare il ruolo attivo di soggetti esterni. Siamo generalmente portati a pensare all’evoluzione biologica nei termini e nei modi in cui la scienza ufficiale la spiega, vale a dire come un processo autonomo, in cui gli unici condizionamenti possibili sono da ricercare nella dinamica di adattamento delle specie all’ambiente. L’evoluzione biologica è però, come oggi sappiamo, un processo manipolabile e opportuni interventi, condotti sulla base di conoscenze e tecnologie, possono efficacemente affiancare le naturali modalità di cambiamento delle specie viventi. Questo dato di fatto è dimostrato da un crescente numero di operazioni che l’uomo esegue sulle linee evolutive di varie specie al fine di produrre modifiche biologiche ereditabili. Avvalorare l’ipotesi di interventi bio-genetici nella filogenesi umana comporta la soluzione di due fondamentali questioni. La prima, mettere in evidenza quei dati biologici che, oltre ogni ragionevole dubbio, confermino un’effettiva manipolazione esterna del nostro processo bio-evolutivo. La seconda questione riguarda invece la dimostrazione che la Terra abbia ospitato intelligenze superiori e tecnologicamente avanzate, prima della comparsa di Homo sapiens. Pochi ricercatori si pongono questa domanda e come conseguenza, vi è una totale carenza di modelli teorici che possano dar credito all’eventualità di una antica colonizzazione del nostro pianeta da parte di specie intelligenti. Come scrive il paleontologo Andrea Cau nel suo blog “Theropoda”6: «Lo sciovinismo antropocentrico è talmente viscerale in Homo sapiens, che egli non ha (quasi) mai ipotizzato che questo pianeta, sul quale arroga ed esercita un indiscusso diritto di proprietà, possa aver ospitato prima di lui altre intelligenze, altre civiltà, altre forme di vita capaci di produrre qualcosa di analogo a ciò che il progetto SETI sta cercando nello spazio esterno». Cau quindi si esprime a favore della fondazione di un secondo progetto SETI, non astronomico come quello già esistente (Search for Extra Terrestrial Intelligence) ma paleontologico (Search for Extinct Terrestrial Intelligence), il cui obiettivo sia quello di ricercare sulla Terra le testimonianze di una passata presenza di specie intelligenti non ascrivibili a Homo sapiens. Questo libro rappresenta la naturale prosecuzione del primo lavoro. Ancora una volta, tenteremo di portare all’attenzione dei lettori argomenti in grado di suscitare dibattiti sulle nostre origini. Tra questi, affronteremo la spinosa questione secondo cui, durante la nostra storia biologica, sarebbe avvenuto un processo bio-evolutivo finalistico che conosciamo con il nome di “domesticazione”. Homo sapiens presenta infatti un considerevole numero di caratteristiche morfologiche e comportamentali che sono proprie delle specie animali addomesticate. Ragionando in questi termini, osserveremo come una parte del moderno pensiero scientifico ammetta che l’essere umano sia una creatura addomesticata, sostenendo però che, diversamente da ogni altra specie addomesticata, l’uomo avrebbe indotto su se stesso un inconsapevole processo di domesticazione, si sarebbe cioè auto-addomesticato. Di certo un’ipotesi affascinante ma altrettanto ardua da dimostrare quanto quella che invece suggerisce che, nell’evoluzione di Homo sapiens, si sia verificata una domesticazione indotta da attori esterni. Come per tutte le questioni irrisolte, l’atteggiamento migliore è sempre quello di valutare ogni possibilità. Questo è ciò che tenteremo di fare, ricordandoci che, come talvolta avviene, le tanto agognate risposte potrebbero trovarsi al di là dei dogmi che limitano la libertà d’indagine. PIETRO BUFFA Scrive il dr. Pietro Buffa: «Anche l’ambito accademico condivide perplessità su molti punti della filogenesi umana ma solo di rado i dubbi di questo “dibattito interno” raggiungono il grande pubblico». Già solo questa affermazione è capace di indurre nelle menti aperte il dubbio, cioè quell’elemento che è indispensabile per garantire il progresso della conoscenza e senza il quale non si ha vera scienza ma sterile dogmatismo. L’affermazione citata è applicabile anche al mondo religioso nel quale gli addetti ai lavori “sanno” o quanto meno condividono le perplessità mentre ai fedeli ignari si raccontano delle verità date per certe e non confutabili. L’importanza di questo lavoro risiede proprio nel porre “nuovi modi di organizzare le informazioni”: perché le informazioni ci sono e talvolta provengono dall’antichità. È sufficiente che menti aperte, operanti in vari ambiti del sapere, riorganizzino ciò che si possiede al fine di formulare ipotesi capaci di indicare vie nuove per la ricerca della possibile storia dell’umanità: un’umanità che, a un’attenta analisi, risulta essere stata ed essere ancora addomesticata, divisa e chiusa in recinti culturali, sociali, politici, geografici, ideologici e religiosi. L’analisi ci porta anche ad affermare che scienza e racconti antichi potrebbero essere di gran lunga più vicini di quanto si sia mai pensato: le evidenze sono tali e tante che questa è un’ipotesi che ogni mente “scientificamente aperta” non può più accantonare a priori. Questo è ciò che abbiamo inteso fare: fornire elementi di riflessione, ricordandoci che, come ha scritto il dr. Buffa, le tanto agognate risposte potrebbero trovarsi al di là dei dogmi che limitano la libertà d’indagine. MAURO BIGLINO 1 La domesticazione come processo bio-evolutivo guidato «Ciascun caso di domesticazione può essere visto come una sorta di esperimento in ambito evolutivo». RICHARD C. FRANCIS Abbiamo ogni giorno sotto gli occhi una grandissima varietà di specie viventi che non sono il risultato di una esclusiva evoluzione naturale ma di una attività manipolatoria dell’uomo che ha affiancato e a più riprese guidato, il naturale processo bio-evolutivo di molti organismi. Nell’ambito animale, specie come il Gallus gallus (gallo e gallina), l’Ovis aries (montone e pecora), il Bos taurus (toro e mucca), il Camelus bactrianus (cammello), l’Equus caballus (cavallo) e ovviamente l’ampia quantità di morfologie canine che oggi ci sono familiari (Canis familiaris) rappresentano il risultato di un’evoluzione non completamente naturale, che affonda le proprie basi in un particolare processo chiamato “domesticazione”. Da specie selvatiche ad addomesticate e oltre Cosa si intende per domesticazione? Cominciamo col dire che ogni specie vivente selvatica occupa in natura un habitat che spesso condivide con altre specie. Da un punto di vista puramente sociale, le specie instaurano relazioni più o meno complesse con i propri simili (relazioni intra-specifiche) ma sono abitualmente poco inclini a rapportarsi con individui di specie diverse (relazioni inter-specifiche), mostrando riluttanza e aggressività. Le specie animali precedentemente elencate manifestano invece, tra le altre, due particolari caratteristiche comportamentali: una complessiva ridotta aggressività e una innata inclinazione ad accogliere l’essere umano nel proprio territorio sociale. Tuttavia, ognuna delle specie elencate discende da progenitori selvatici che non tolleravano la presenza dell’uomo. Le mucche sono ad esempio tra gli animali più docili e gestibili, eppure tale docilità è un tratto comportamentale completamente assente in quello che fu il loro progenitore selvatico, l’Uro, una creatura ormai estinta e ricordata per la ragguardevole mole e la grande aggressività. Che cosa ha letteralmente trasformato il temibile Uro selvatico in moderni e pacifici bovini? Attraverso un processo di selezione artificiale7 protratto nel tempo, l’uomo ha fatto emergere e reso costitutive in vari organismi caratteristiche comportamentali (e come vedremo anche fisiche), di cui erano privi i rispettivi progenitori selvatici, producendo animali mansueti, assoggettati nei suoi confronti e gestibili. Tra le specie che hanno subito la domesticazione, il cane è senz’altro l’animale più rappresentativo. Indagini genetiche hanno individuato nel lupo grigio (Canis lupus) l’antenato selvatico di tutte le moderne forme canine. Anche se diversi dettagli di questo specifico processo bio-evolutivo sono andati perduti, possiamo far risalire a circa 20.000 anni fa i primi tentativi di domesticazione del lupo nelle zone mediorientali8. In questo breve lasso di tempo, evolutivamente parlando, l’uomo è riuscito a produrre nei cani mutamenti comportamentali e fisici mai avvenuti nell’intera famiglia dei Canidi9 nei 35 milioni di anni precedenti. Le differenze tra il lupo selvatico e un cane moderno sono enormi. Il cane è fedele e affettuoso nei confronti dell’uomo, i lupi sono invece animali schivi, non abbaiano mai e mai cercheranno l’approvazione dell’essere umano scodinzolando. I cani sono animali ricettivi e portati all’apprendimento di regole che l’uomo impone loro, i lupi no. Inutile provare a insegnare a un lupo a riportare una palla, non lo farà per il fatto che si tratta di un gesto per lui innaturale. Per non parlare delle differenze “fisiche”, “estetiche”, tra i vari cani moderni e i lupi, loro progenitori. Oggi sappiamo che la capacità di interazione dei cani con gli esseri umani è correlata alla presenza di alcune mutazioni genetiche del tutto assenti nei lupi selvatici. In un recente studio condotto dalla Princeton University, il gruppo di Bridgett vonHoldt ha messo in evidenza che, nelle prime fasi della domesticazione dei lupi selvatici, la selezione dell’uomo di soggetti dal comportamento più socievole abbia favorito individui portatori di componenti genetiche in grado di plasmare la “personalità” dell’animale. Si tratta di particolari mutazioni del genoma canino direttamente legate alla tendenza di questi animali a socializzare con la nostra specie ed estremamente simili a quelle che, nell’essere umano, generano la Sindrome di Williams-Beuren, un raro disturbo neuro-comportamentale caratterizzato da un’eccessiva socievolezza dei soggetti10. Occorre un certo tempo affinché varianti genetiche di diverso tipo si stabilizzino nel corso delle generazioni e la specie selvatica possa quindi evolvere in specie addomesticata. È questo un processo molto delicato per la cui riuscita è necessario evitare che individui selezionati sulla base di determinate caratteristiche comportamentali e fisiche si accoppino con individui rimasti selvatici (introgressione genetica). L’uomo si accorse presto che, non solo la domesticazione, ma in generale tutte le pratiche di selezione artificiale degli organismi basate sul controllo della riproduzione di questi rappresentavano un potente e relativamente pratico motore evoluzionistico. Se non bisogna pensare che le specie siano “creta nelle mani di un vasaio”, è però un dato di fatto che l’uomo sia riuscito, attraverso tali pratiche, a imprimere nei cani modifiche davvero profonde, sviluppando ogni possibile variazione ritenuta utile e reprimendo quelle ritenute superflue o non gradite. Sempre a proposito del cane, la prima caratteristica che salta all’occhio è la grande variabilità delle dimensioni. La taglia esageratamente ridotta di alcuni esemplari come il chihuahua non ha alcun precedente nella famiglia dei Canidi. Una versione mutata del gene che codifica per IGF1 (fattore di crescita insulino-simile 1) si è imposta durante la selezione artificiale operata dall’uomo, determinando la taglia dei cani di piccole dimensioni11. Anche i piani anatomici originali del lupo sono stati alterati in molti cani, spesso solo per una questione estetica, con ripercussioni nella biologia di questi animali. Osservando ad esempio il pastore tedesco, è evidente la selezione orientata ad abbassare al massimo la parte posteriore dell’animale. Grazie a questo particolare assetto la linea del cane risulta esteticamente gradevole ma nel contempo meno funzionale: il cane è soggetto a displasia dell’anca (le ossa delle zampe non si connettono in maniera ottimale all’anca) e si trova anatomicamente limitato nello scatto e nella corsa veloce. Se consideriamo poi il bulldog, le modifiche morfologiche frutto delle selezioni ardite dell’uomo sono davvero tante in questi esemplari ma le maggiori hanno riguardato la regione cranio-facciale. I bulldog presentano un fisico tozzo e la testa molto grande rispetto alle dimensioni del corpo. Il muso dell’animale è assai schiacciato ed è questa una caratteristica assente in tutta la famiglia dei Canidi. A discapito di tali acquisizioni morfologiche che distinguono la razza bulldog, il cane è costretto a sopportare problemi fisici di varia natura: i bulbi oculari non sono ben inseriti nel cranio, la pelle in eccesso provoca all’animale piaghe che generano spesso dermatiti, il muso schiacciato fa sì che il palato molle spinga contro la trachea generando difficoltà respiratorie, ma non è tutto. A causa dell’eccessiva dimensione della testa dei cuccioli rispetto al canale pelvico della madre, il bulldog ha grandi difficoltà a partorire in modo naturale e si deve quindi ricorrere al taglio cesareo per evitare al cane gravissime emorragie da lacerazione dei tessuti che lo porterebbero alla morte (parto distocico). Una condizione definita “sproporzione cefalo-pelvica tra nascituro e gestante” molto simile a quella osservata anche per l’essere umano. Oggi la comprensione dei meccanismi alla base delle pratiche di selezione artificiale e degli effetti che tali pratiche producono sulle specie viventi è molto più completa. Nel caso specifico della domesticazione, dati importanti provengono da veri e propri esperimenti in ambienti controllati in cui si forza la natura biologica di alcune specie selvatiche al fine di costruire modelli che ci aiutino a comprendere le basi profonde di tale processo bio-evolutivo12. Esperimenti evoluzionistici: come la domesticazione cambia le specie L’evoluzione biologica richiede generalmente tempi così lunghi da creare difficoltà anche soltanto a immaginare come certi cambiamenti delle specie possano avvenire in natura. Nel processo di domesticazione siamo invece di fronte a una versione “accelerata” dell’evoluzione biologica e questo perché un attore esterno agisce da selezionatore intenzionale causando, in alcuni individui di una determinata specie, mutamenti repentini e dunque osservabili nel corso di poche generazioni. La domesticazione è dunque un processo e non un evento. Una pratica che assume una connotazione sempre più tecnica grazie a ricerche iniziate quasi settant’anni fa e tuttora in corso. L’esperimento di domesticazione più noto è quello condotto sulle volpi selvatiche siberiane. Tutt’ora in corso, questo programma si basa sulle intuizioni elaborate nei primi anni Cinquanta dal genetista Dmitri Belyaev, uno dei fondatori del Siberian Branch of Russian Academy of Sciences di Novosibirsk (Russia)13. Affascinato dal processo di domesticazione che portò dal lupo al cane, Belyaev, scomparso nel 1985, sosteneva che il fattore che guida, almeno inizialmente, ogni processo di domesticazione deve essere l’abbattimento di quelle “barriere sociali” che generalmente impediscono a una specie selvatica di relazionarsi con individui non appartenenti alla propria specie. Belyaev sosteneva quindi la necessità di intervenire in modo mirato su specifici tratti comportamentali degli animali attraverso un’attenta selezione riproduttiva di soggetti caratterizzati da una maggiore mansuetudine. Fu così che alla fine degli anni Cinquanta, Belyaev e la sua prima assistente Lyudmila Trut diedero il via a quella che possiamo definire la prima replicazione empirica di un processo di domesticazione in ambiente controllato. Si scelse di operare sulla volpe argentata, una variante della volpe rossa nord-americana Vulpes vulpes, allevata in cattività per la bellezza del manto. La scelta ricadeva nel fatto che, contrariamente a tante altre specie animali, la volpe non aveva conosciuto, in migliaia di anni, alcun processo di domesticazione. Gli scienziati selezionarono e acquistarono le volpi (trenta esemplari maschi e cento femmine) da un allevamento estone. Da qui si partì per programmare in modo mirato gli accoppiamenti: a ogni generazione, gli scienziati davano la possibilità di riprodursi solo al 5% dei maschi e al 10% delle femmine, esemplari scelti sulla base di un’unica caratteristica che era appunto la maggiore tolleranza verso l’essere umano. A ogni generazione di volpi prodotta, si verificava la mansuetudine dei singoli soggetti sulla base di una serie di prove, applicando un punteggio. Alla presenza dell’uomo, le volpi che mostravano forte aggressività ottenevano un punteggio basso. Anche alle volpi terrorizzate, quelle cioè che si nascondevano in fondo alla gabbia, veniva assegnato un punteggio basso. Alcuni esemplari apparivano invece più calmi per l’intera durata dei test e osservavano gli scienziati senza reagire in nessuno dei due modi descritti prima. Questi soggetti venivano selezionati e a loro veniva data la possibilità di produrre la generazione seguente. Nonostante i protocolli prevedessero un contatto con l’uomo ridotto al minimo, alla sesta generazione alcuni cuccioli cominciarono a scodinzolare alla presenza dei ricercatori e a emettere uggiolii per attirare la loro attenzione, mostrando di fatto un comportamento assente nella specie selvatica Vulpes vulpes. Inoltre, le volpi di sesta generazione non erano spaventate neppure da persone mai viste prima. In queste volpi stava emergendo un adattamento all’ambiente sociale umano. Per ogni generazione, cresceva il numero di individui propensi a cercare un contatto con l’essere umano e, alla tredicesima generazione, quasi il 50% dell’intero gruppo di volpi possedeva tale caratteristica comportamentale come innata. Fino al 1996, erano state generate circa settecento volpi ma, proprio in quel periodo, la profonda crisi economica che attanagliava la Russia si fece sentire anche sul versante scientifico e costrinse gli scienziati a vendere molte delle volpi mansuete per fare cassa e proseguire gli studi. Nel 2005, i ricercatori annunciarono che tutte le volpi presenti nel centro di ricerca di Novosibirsk avevano sviluppato una consistente propensione alla compagnia dell’uomo, praticamente uguale a quella mostrata dai cani. Sono state necessarie circa 43 generazioni per passare da una volpe selvatica che subisce per sua natura il forte stress causato dalla paura e dall’intolleranza verso l’uomo a una volpe che invece accetta la presenza dell’essere umano e lo riconosce come una figura rilevante, indipendentemente dall’organizzazione sociale interna alla propria specie d’appartenenza. Ma non è tutto. Ai risultati ottenuti sulle volpi a livello comportamentale si accompagnavano anche una serie di cambiamenti nell’aspetto di questi animali, imprevisti cambiamenti a livello fenotipico. Le modifiche riguardavano variazioni cromatiche della pelliccia, le orecchie, che divennero pendule come quelle di molti cani, la coda solitamente dritta assunse una conformazione arricciata, il muso si accorciò, la dentatura si ridusse nelle dimensioni mentre la calotta cranica divenne arrotondata. Si ridimensionarono anche delle differenze di genere come la differenza di dimensioni corporee tra i sessi. Non meno significativo fu anche l’insorgere di una novità nella fisiologia riproduttiva di questi animali: mentre le volpi argentate selvatiche entrano in calore una volta l’anno (gennaio-febbraio), gli esemplari addomesticati mostravano invece una minore stagionalità della riproduzione. L’imposizione data a Belyaev dalla dittatura sovietica di non divulgare i dati che comprovavano le sue ipotesi cadde insieme al regime e la Trut, che alla morte di Belyaev divenne direttrice del progetto, poté procedere alla pubblicazione dei risultati ottenuti14. In estrema sintesi, gli esperimenti testimoniarono non soltanto che la domesticazione è un processo bio-evolutivo riproducibile, ma anche che la selezione artificiale dello specifico tratto comportamentale relativo alla maggiore mansuetudine in esemplari selvatici condizionerà particolari mutamenti fenotipici, come se questi ne fossero collegati. La controprova di quanto sostenuto si ebbe quando il gruppo di Belyaev provò a selezionare linee di volpi che mostravano invece maggiore aggressività verso l’uomo. Nel corso delle generazioni, i ricercatori ottenevano esemplari sempre più aggressivi e intolleranti alla vista dell’uomo ma in questi casi, diversamente dall’esperimento basato sulla mansuetudine, non si assisteva ad alcun cambiamento fenotipico dei soggetti rispetto alla condizione di partenza. Sebbene gli esperimenti condotti sulle volpi abbiano prodotto gli studi considerati più completi sul processo di domesticazione di una specie selvatica, altrettanto degni di nota si sono rivelati gli studi di domesticazione sperimentale condotti anche sui ratti15. Rispetto alle volpi, i cui tempi di gestazione durano circa 55 giorni, i ratti partoriscono dopo circa 22 giorni e questo li rende un ottimo modello per lo studio di fenomeni bio-evolutivi. Anche in questo caso, gli scienziati selezionarono soggetti più mansueti e meno impauriti dall’uomo e bastarono poche generazioni per ottenere una riduzione significativa dell’aggressività verso i ricercatori. Alla settantaduesima generazione, tutti i ratti erano completamente mansueti e si lasciavano maneggiare dai ricercatori16. Anche in questo caso, i ratti selezionati col criterio della mansuetudine mostrarono molti cambiamenti fenotipici osservati nell’esperimento con le volpi. Diversamente dai loro progenitori selvatici, i ratti addomesticati si riproducevano tutto l’anno17, mostravano variazioni nel colore della pelliccia, riduzione della differenza di dimensione tra i sessi e un muso più accorciato che dava loro un aspetto molto più gradevole. Gli esperimenti sopra citati ci mettono di fronte a un primo dato significativo e a una consequenziale domanda. Nel processo di domesticazione basato sulla selezione di individui mansueti, gli esemplari sviluppano, in maniera alquanto rapida, anche alcuni specifici tratti fenotipici. Quali meccanismi biologici legano il tratto comportamentale della mansuetudine ai cambiamenti fenotipici che in breve tempo emergono? Ruolo dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene Gli studi condotti sui modelli animali hanno dimostrato che, nel corso del processo di domesticazione, la selezione artificiale conduce all’adattamento degli esemplari a un nuovo ambiente, quello cioè imposto da chi opera la domesticazione stessa18. Il regime di domesticazione produce effetti visibili sul comportamento degli animali modificando il modo con cui il sistema neuro-endocrino noto come asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene rilascia i propri ormoni. Atteggiamenti violenti, paura, ansia, traumi rappresentano fattori stressogeni che, nei mammiferi, stimolano il suddetto sistema neuro-endocrino a rilasciare glucocorticoidi, ormoni che attivano le vie metaboliche di compensazione allo stress, influenzando le reazioni comportamentali dell’animale (atteggiamento di difesa, fuga, aggressività). Rispetto ai ceppi selvatici, le specie addomesticate sottoposte ai medesimi fattori di stress rispondono in modo diverso grazie a una diversa modulazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene e a livelli di glucocorticoidi più bassi, a testimonianza della capacità sviluppata da questi animali di gestire meglio la paura e la propria aggressività. La selezione dell’uomo di soggetti dal comportamento più socievole ha favorito individui portatori di mutazioni genetiche e/o epigenetiche, che hanno un’azione sul suddetto asse neuro-endocrino. Le specie addomesticate presentano però anche cambiamenti sul piano anatomo-fisiologico. È dunque lecito chiedersi se il sistema neuro-endocrino succitato abbia un ruolo anche in questo aspetto. È noto che i glucocorticoidi raggiungono il nucleo di cellule bersaglio e interagiscono con il genoma attraverso specifiche regioni note come Glucocorticoid Responsive Elements. In questi ultimi anni, diversi studi hanno messo in evidenza la capacità dei glucocorticoidi di agire non solo negli organismi adulti ma anche durante lo sviluppo embrionale, inibendo o attivando l’espressione di specifici geni. Questo aspetto ci porta al nocciolo della questione: è possibile che, con il procedere della domesticazione, la diversa modulazione di questi ormoni influenzi l’espressione di geni variamente collegati ad aspetti fenotipici del soggetto? La risposta è sì. Recenti indagini hanno ad esempio dimostrato come i glucocorticoidi rivestano un ruolo nella conformazione ossea di organismi in fase di sviluppo19. Altre ricerche condotte sui ratti addomesticati hanno provato che i bassi livelli di glucocorticoidi di questi animali producono effetti sulla differenziazione dei melanociti dell’embrione, influenzando la pigmentazione di pelle e peli del soggetto20. E ancora, in un lavoro apparso sulla rivista «Genetics», Adam Wikins spiega come certi effetti morfogenetici del processo di domesticazione chiamino in causa l’azione dei glucocorticoidi su particolari cellule staminali che popolano una specifica zona dorsale dell’embrione, la “cresta neurale”21, 22. Com’è noto, le cellule staminali embrionali sono implicate nella costituzione di tessuti e organi e variazioni nella migrazione e differenziazione di tali cellule possono estrinsecarsi, sul piano anatomico, in vari cambiamenti morfologici. La prova che una differente modulazione ormonale relativa all’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene produce effetti negli organismi addomesticati (sia sul piano comportamentale che su quello morfogenetico), collega il processo di domesticazione a una tendenza bio-evolutiva degli organismi trattati: la comparsa della neotenia. Vediamo di cosa si tratta. Neotenia, conseguenza della domesticazione Osservando attentamente i cambiamenti sia comportamentali che fenotipici riportati dalle specie addomesticate, possiamo in generale evidenziare un aspetto senz’altro caratteristico: i mutamenti acquisiti da questi animali durante la domesticazione costituiscono il mantenimento di caratteristiche biologiche osservabili negli esemplari selvatici (progenitori) solo durante la fase giovanile, cioè solo nei cuccioli. Scopriamo così che caratteristiche osservate nei cani e descritte nelle volpi addomesticate (docilità, orecchie pendule, muso accorciato, cranio tondeggiante, occhi grandi, dentatura di dimensioni ridotte e dimensioni corporee simili tra i due sessi), rappresentano tratti biologici che, nei ceppi selvatici, sono presenti nei cuccioli23 ma che scompariranno una volta che l’animale diventerà adulto. Il mantenimento di tratti tipicamente giovanili negli organismi adulti prende il nome di “neotenia”, termine coniato nel 1884 dallo zoologo Julius Kollmann. Si tratta di un fenomeno evolutivo che, riscontrato in natura in alcuni invertebrati e anfibi, compare nei mammiferi solo come conseguenza di un processo di domesticazione24. Possiamo considerare la presenza di neotenia negli organismi superiori come un “contrassegno di domesticazione”. Stando così le cose ipotizziamo in generale che, nelle specie addomesticate, il suddetto asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene agisca in modo da causare nell’animale una sorta di ritardo (eterocronia) nel processo di maturazione di alcuni tratti, che dunque permangono anche in età adulta. Negli anni Trenta però Louis Bolk, primatologo olandese, mise in luce la presenza di numerosi tratti neotenici nella nostra specie, paragonando addirittura Homo sapiens a uno “scimpanzé infante sessualmente maturo”. Da allora, la presenza di neotenia in Homo sapiens alimenta accesi dibattiti sull’evoluzione umana e, di conseguenza, sulla possibilità che gli ominidi nostri progenitori si siano evoluti all’interno di un regime di domesticazione non semplice da spiegare. 2 Ominidi addomesticati «Se si potesse provare che una qualsiasi parte della struttura di una specie è stata formata per beneficio di un’altra specie, ciò distruggerebbe la mia teoria, poiché quella parte non potrebbe essersi prodotta attraverso la selezione naturale». CHARLES DARWIN Nel 1923, il biologo inglese J. B. Haldane, uno dei promotori della moderna sintesi neo-darwiniana, sottolineava che un cospicuo numero di caratteristiche biologiche che contraddistinguono l’essere umano (Homo sapiens) deriva dalla parziale o totale conservazione di caratteristiche che è possibile osservare nei cuccioli delle scimmie antropomorfe. In quella che fu l’ascesa da creature scimmiesche della fauna africana a indiscussi dominatori del pianeta, gli esseri umani si sono evoluti in senso neotenico, così com’è accaduto a diverse specie addomesticate. La neotenia ha fornito agli ominidi della nostra linea di discendenza un prezioso serbatoio di possibilità, opportunità evolutive che nessun altro primate ha avuto. È proprio grazie a questa particolare evoluzione che nei nostri progenitori si sono rimodellati tratti che riguardano il comportamento, l’anatomia, la fisiologia. Nessun primate non umano presenta tratti neotenici e il fatto che la neotenia abbia inciso sul percorso bio-evolutivo che ha condotto a Homo sapiens rappresenta un tema dalle implicazioni profonde. Quali particolari eventi possono aver agevolato la comparsa di tratti neotenici nei nostri progenitori diretti? Come riferito nel precedente capitolo, la neotenia è un fenomeno verificabile nei mammiferi solo come conseguenza di un processo di domesticazione. Partendo da questo presupposto, la scienza ufficiale tenta di spiegare questa peculiarità di Homo sapiens ipotizzando che i nostri progenitori si siano auto-addomesticati. Per una parte dell’accademia, gli ominidi della nostra linea di discendenza si sarebbero auto-addomesticati, anche se, dal momento che non è chiaro come un tale processo possa verificarsi, questa ipotesi presenta vari aspetti incongrui. Dall’altro lato, l’ipotesi alternativa che l’essere umano, fin dall’inizio della sua storia biologica, sia stato addomesticato in modo non molto dissimile da quanto poi egli stesso ha fatto con varie specie è per la scienza ufficiale un’eventualità inammissibile. Chiamare in causa processi di selezione artificiale diretti da “attori esterni” che avrebbero condizionato la nostra evoluzione vuol dire inserire nell’indagine sull’ominazione una componente finalistica che cambierebbe in modo radicale la concezione ufficiale della nostra filogenesi, poiché questa assumerebbe il significato di un processo programmato. Il nostro scopo non è quello di far prevalere una o l’altra possibilità dato che in entrambi i casi si percorre un terreno impervio, senza alcuna macchina del tempo che ci permetta di effettuare osservazioni dirette degli eventi occorsi ai nostri progenitori. Possiamo però analizzare le informazioni che ci giungono da varie indagini e da lì partire nel tentativo di ricostruire alcuni eventi a posteriori, anche se questo comporta il dover prendere in considerazione argomentazioni e possibilità spesso etichettate come “fantasiose”. D’altra parte, come spiega Yves Coppens, noto paleontologo francese che ha contribuito alla scoperta di Lucy (Australopithecus afarensis), la stessa paleoantropologia (disciplina che attraverso lo studio dei fossili tenta di ricostruire la storia biologica dell’essere umano) rappresenta una scienza che per dare risposte ha bisogno anche della fantasia. Questo non è però uno dei suoi aspetti meno importanti o attraenti, anzi, il fascino di questa disciplina sta forse proprio nell’importanza che in essa assume l’immaginazione. Iniziamo quindi questo viaggio, non prima di aver illustrato i più importanti passaggi della nostra storia biologica. Da organismi scimmieschi all’ominide pensante Seppur consapevoli di riportare una storia dai fatti non direttamente verificabili, dalle informazioni spesso discontinue e ancora bisognose di vari approfondimenti, possiamo descrivere quelli che furono i principali passaggi dell’evoluzione biologica umana (ominazione) attraverso l’indagine dei bio-fossili. Aiutandoci con lo schema sottostante che colloca temporalmente le principali specie “protagoniste” di questa storia (Fig. 2.1), ripercorriamo brevemente il suo corso evidenziando gli interrogativi che ancora riguardano la brusca ascesa alla condizione umana. Fig. 2.1 - Lo schema riporta le principali tappe dell’evoluzione umana attraverso le specie del genere Ardipithecus, Australopithecus e Homo. Vengono riportate anche le specie del genere Paranthropus (testualmente “accanto all’uomo”), che formano un “ramo” parallelo a quello del genere Homo. Il rettangolo che viene posto accanto a ogni specie segna il corrispondente periodo di comparsa e di estinzione. Le datazioni sono espresse in milioni di anni. La paleoantropologia colloca a circa 6 milioni di anni fa, nella parte orientale del continente africano, quel particolare momento in cui avvenne la separazione tra la linea evolutiva degli scimpanzé e quella che porterà alla specie Homo sapiens. In quell’epoca, però, non vi è ancora alcuna presenza di creature dalle spiccate caratteristiche umane. Per lungo tempo infatti i nostri progenitori sono rimasti poco più che degli scimpanzé, creature dall’aspetto antropomorfo classificate poi nei generi Ardipithecus e Australopithecus. Questi organismi popoleranno regioni del continente africano adiacenti alla Rift Valley25 per un periodo di circa 4 milioni di anni, prima di scomparire e lasciare il posto agli ominidi del genere Homo. I pochi rappresentanti del genere Ardipithecus (Ardipithecus ramidus e Ardipithecus kadabba) vissero tra i 5,8 e i 4,4 milioni di anni fa26, mentre i più antichi bio-fossili di Australopithecus appartengono alla specie Australopithecus anamensis27 e risalgono a circa 4,2 milioni di anni fa. Diversi tratti scheletrici indicano per gli Australopithecus una grande abilità sugli alberi ma è ormai acquisito che questi ominidi, dalla morfologia non molto dissimile a quella degli scimpanzé, tendessero anche alla deambulazione bipede. Dimostrare l’inclinazione al bipedismo di queste creature è essenziale per collocarle lungo la linea di discendenza umana. Attualmente, la tendenza è quella di presentare gli Australopithecus come organismi perfettamente bipedi, nonostante esistano ancora ampi dibattiti sul loro reale livello di bipedismo. Indagini eseguite sulla regione pelvica di Australopithecus afarensis (la nota “Lucy”)28, specie vissuta circa 3,2 milioni di anni fa e considerata da molti progenitrice diretta del genere Homo, hanno rilevato tratti anatomici favorevoli alla postura ortograda ma non sufficienti a certificare un bipedismo avanzato degli Australopithecus. In queste creature, l’estensione dell’anca risulta ancora limitata per una locomozione bipede agevole, da cui consegue che, sebbene in grado di deambulare su due piedi, questi organismi non fossero in grado di correre. Un’incapacità che costituiva certamente un grosso handicap in un habitat popolato da predatori. L’ovvia conclusione è che gli Australopithecus, piuttosto miti e non più intelligenti di una scimmia moderna, non avessero abbandonato la più sicura vita arboricola29. L’ultima specie del genere Australopithecus a calpestare il territorio africano fu Australopithecus sediba30. Vissuto circa 2 milioni di anni fa, Australopithecus sediba ha visto emergere i primi rappresentanti del genere Homo (Fig. 2.1). Semmai volessimo fissare un primo periodo di svolta nell’evoluzione degli ominidi, quel momento è databile intorno ai 2,4 milioni di anni fa. In quel particolare periodo, in prossimità della regione dei laghi del Kenya, un nuovo gruppo antropomorfo dall’aspetto ancora scimmiesco ma con varie caratteristiche che contraddistinguono l’essere umano fa improvvisamente la sua comparsa, segnando di fatto la fine degli Australopithecus. L’anatomia e gli aspetti comportamentali che convergono in questo nuovo gruppo di ominidi descrivono delle creature talmente progredite rispetto agli Australopithecus da fargli guadagnare il posto di primi rappresentanti del genere Homo. Ominidi proto-umani, classificati nella specie Homo habilis poiché abili nel ricavare strumenti litici affilati a partire da rocce di quarzo da utilizzare regolarmente come ausilio per raschiare la carne dalla pelle degli animali. Dietro tale capacità manifatturiera vi è una creatura biologicamente molto diversa da quelle presenti nel territorio africano fino a quel momento. Con un cervello grande il doppio rispetto a quello dei più grossi Australopithecus e dunque una migliore capacità elaborativa31, con la loro buona manualità e un’andatura bipede anatomicamente obbligata, Homo habilis stabilisce il primo vero passaggio verso la condizione umana (Fig. 2.1). Un aspetto controverso riguarda non solo le origini di Homo habilis, ancora incerte, ma anche le migrazioni di queste prime forme del genere Homo. Ancora vulnerabili per molti aspetti, ci si chiede come fecero questi ominidi a superare le imponenti distanze e contrastare le diverse barriere naturali che li confinavano all’interno del continente africano. Le recenti scoperte di fossili ascrivibili alla specie Homo habilis nella valle del Giordano in Israele, a Longgupo in Cina, a Dmanisi nella Repubblica della Georgia pongono vari interrogativi basati sulla “inettitudine”, sia fisica che intellettuale, di questi ominidi nell’affrontare spostamenti di tale portata. Sulla base di questi dati, possiamo oggi affermare che la storia biologica dell’uomo sembra iniziare nel continente africano ma già con la comparsa dei primi ominidi proto-umani diventa una storia pluri-continentale (Out of Africa 1). Il fatto che primi ominidi del genere Homo possano aver popolato altre regioni geografiche oltre all’Africa rimane un tema aperto anche grazie a un recente studio condotto dalla Australian National University. A seguito di un’indagine sull’ominide Homo floresiensis, scoperto nel 2003 sull’isola indonesiana di Flores e soprannominato “hobbit”32 per le sue dimensioni eccezionalmente ridotte33, i ricercatori della Australian National University traggono la conclusione che le origini di questo ominide siano riconducibili a prime forme del genere Homo che già popolavano le regioni indonesiane34, 35. L’ominide di Flores ha sempre destato curiosità. Parliamo di una creatura perfettamente bipede, alta circa un metro e relativamente moderna sul piano anatomico. Homo floresiensis scompare in epoche piuttosto recenti, forse solo 12.000 anni fa36. Sulle origini dell’ominide di Flores sembrava che ormai vi fosse certezza tra gli studiosi, la tesi ufficiale vedeva Homo floresiensis un discendente di Homo erectus, nonostante la grande diversità nelle dimensioni e nelle caratteristiche fisiche tra i due. Al fine di giustificare questa discendenza, gli evoluzionisti chiamavano in causa il fenomeno del nanismo insulare che provocò sugli erectus dell’isola di Flores una drastica riduzione delle dimensioni corporee. Questo era quanto divulgato ufficialmente, nonostante il nanismo insulare non spiegasse nulla circa l’anatomia unica di Homo floresiensis. Oggi questa tesi viene rigettata. I recenti studi della Australian National University mettono infatti in chiaro che nessun fenomeno di nanismo insulare si è mai verificato, in sostanza perché Homo floresiensis non ha nulla a che fare con gli Homo erectus. I piccoli ominidi di Flores apparterrebbero a un lignaggio molto precoce del genere Homo, verosimilmente a prime forme umane (riconducibili a Homo habilis) che prima di erectus popolavano le regioni indonesiane. Ritornando ai nostri progenitori diretti e proseguendo oltre Homo habilis, un altro importante “passaggio evolutivo” si ha con la comparsa di un ominide dalla struttura anatomica e dalle proporzioni che diventano improvvisamente molto vicine a quelle della nostra specie. Riferendoci alla documentazione bio-fossile, possiamo collocare in Africa intorno a 1,8 milioni di anni fa la forma più arcaica di questo nuovo ominide, nota come Homo ergaster (uomo lavoratore). La sua forma più moderna, nota come Homo erectus, emerge poco più tardi, rimpiazzando quella più arcaica in Africa e popolando anche l’Europa e tutta l’Asia. La specie Homo erectus rappresenta uno degli snodi più importanti nel quadro evolutivo umano ed è anche una delle specie più longeve (la sua estinzione risale infatti a circa 100.000 anni fa – Fig. 2.1). Una volta sulla scena, Homo erectus diventa in breve tempo l’unico esemplare del genere Homo sulla Terra, sostituendo la specie Homo habilis in tutti i territori. Con Homo erectus migliorano tutte le caratteristiche anatomiche e comportamentali anticipate da Homo habilis. La struttura fisica ricorda quella di un uomo moderno: erectus è piuttosto alto (175 cm in media), ha gambe lunghe e ossa molto robuste, fattore quest’ultimo che indica una considerevole forza fisica. Se già a partire da Homo habilis viene osservata una minore differenza nella taglia tra individui maschi e femmine (dimorfismo sessuale ridotto), questo aspetto si rivela più marcato in Homo erectus. La capacità cranica passa a 1000 cc rispetto ai 750 cc di Homo habilis. Per la prima volta siamo in presenza di una specie che si organizza in società più articolate, che elabora meglio le informazioni dell’ambiente. Con Homo erectus possiamo realmente parlare di un ominide “vincente” sotto vari aspetti, portatore di caratteristiche biologiche umane ma come sappiamo il processo di ominazione non si arresta. Agli inizi dell’ultimo milione di anni sembra ancora accadere qualcosa di rilevante e attualmente non chiaro: un ulteriore brusco passaggio evolutivo porterà verso le forme umane biologicamente moderne. Sappiamo poco di questo momento cruciale della storia biologica umana a causa della mancanza di informazioni circa gli eventi che, in termini naturali, avrebbero determinato il passaggio da creature umane arcaiche a moderne (transizione arcaico-moderna). Nell’alveo della teoria darwiniana, rimane ancora aperta la questione su quali siano state le esigenze adattative a cui avrebbe dovuto rispondere questa ulteriore trasformazione degli ominidi del genere Homo. I dati paleoantropologici testimoniano la presenza di ominidi biologicamente moderni a partire da circa 600.000 anni fa in Africa, in Europa e anche in Asia. Sebbene sia ancora difficile stabilire in che luogo ebbe inizio la transizione dalle forme arcaiche a moderne, si ipotizza che questi ominidi, generalmente raggruppati nella specie Homo heidelbergensis, abbiano avuto un’origine africana e che la loro presenza in Europa e in Asia sia da considerarsi successiva. Il gruppo Homo heidelbergensis mostra un avanzato grado di encefalizzazione (una capacità endocranica che raggiunge i 1200 cc) e una struttura anatomica moderna, seppur con alcuni tratti arcaici a livello cranio-facciale. Homo heidelbergensis è un ominide dalle migliorate capacità manifatturiere dato che i suoi strumenti litici, per quanto ancora rozzi, sono più sofisticati e funzionali rispetto a quelli prodotti da Homo erectus. Anche se non esiste ancora pieno accordo tra gli studiosi, Homo heidelbergensis potrebbe colmare, da un punto di vista paleoantropologico, diversi vuoti, costituendo in Africa il ceppo di origine più prossimo a Homo sapiens, in Europa quello di Homo neanderthalensis e forse in Siberia quello di un altro ominide ancora poco conosciuto (Uomo di Denisova)37. Secondo la Recent African Origin, la nostra specie, Homo sapiens, emerge come unità biologicamente definita in Africa intorno ai 200.000 anni fa. Quasi nello stesso periodo storico compare in Europa un’altra interessante forma umana: parliamo di Homo neanderthalensis, per molti aspetti affine a Homo sapiens ma più robusto nella struttura scheletrica (Fig. 2.1). In entrambe queste specie, l’encefalo raggiunge dei valori incredibilmente alti, in media 1450 cc di volume endocranico e un Quoziente di Encefalizzazione (38 pari a 8, il massimo tra le specie animali. Con Homo sapiens arriva un ominide dalla struttura fisica longilinea e con importanti cambiamenti a livello cranico e facciale. La calotta cranica del sapiens ha una conformazione tondeggiante e non più allungata posteriormente come nelle altre forme umane, l’osso frontale del cranio è alto e non più sfuggente, il volto alleggerito strutturalmente grazie a una riduzione del prognatismo, delle arcate sopraccigliari e alla comparsa del mento. In Homo sapiens scompaiono diversi tratti scimmieschi osservabili nelle precedenti forme umane. Da un punto di vista anatomico, i primi rappresentanti della specie Homo sapiens erano individui del tutto simili a noi, persino a livello encefalico. Il cervello dei primi sapiens eguagliava il nostro in termini di dimensioni e struttura intrinseca, eppure il loro comportamento e le loro capacità elaborative non erano, nel concreto, differenti da quelle di un Homo heidelbergensis o addirittura di un Homo erectus. Siamo di fronte a una singolarità dove, a fronte di un cervello molto più sviluppato e moderno, sembrano non corrispondere nuove conquiste comportamentali e culturali dei primi Homo sapiens. A cosa sarebbe servita dunque questa ulteriore encefalizzazione se gli ominidi della specie Homo sapiens continuavano a comportarsi da primitivi? In termini evoluzionistici, appare quantomeno insolito che un organo si sviluppi in maniera maggiore rispetto a quelle che sono le necessità del momento. Perché la selezione naturale avrebbe “premiato” ominidi possessori di un encefalo tanto grande e avanzato, potenzialmente in grado di sviluppare capacità matematiche superiori, se questi non sfrutteranno appieno tale organo? Trascriviamo e ribadiamo una metafora già espressa nel precedente lavoro: «È come immaginare di montare un motore a reazione su di un aeroplano, per fargli compiere le medesime operazioni di volo che faceva già con un motore da 50 cavalli, a che scopo?»39. Seppur moderni nelle caratteristiche anatomiche, i sapiens rimangono legati a una condizione di “primitività comportamentale” per un lungo arco di tempo, fino a circa 100.000 anni fa, quando alcuni di loro iniziano a elaborare le informazioni in modo nuovo, con il supporto di processi cognitivi simbolici. Alcuni sapiens iniziano infatti ad astrarre gli elementi della propria conoscenza e a rappresentarli tramite simboli, proiettandosi in stati esperienziali distinti nel tempo e nello spazio. Come sottolinea Ian Tattersall, Homo sapiens è adesso separato dagli altri ominidi da un abisso profondo proprio perché non più vincolato al presente e alla sola realtà visiva, bensì capace di concepire il futuro, l’infinito e persino il trascendente. Dal momento che il passaggio a individui in grado di manifestare attività cognitiva simbolica sotto varie forme fu piuttosto brusco, è adesso necessario comprendere quali eventi possano esserci alla base di questa peculiarità evolutiva. Come spiega Ian Tattersall in un suo intervento tenutosi a Rimini nel 2012, «sembra si sia verificata una modifica al cervello pre-esistente, una mutazione a livello genomico che ha prodotto una struttura con un potenziale radicalmente nuovo. Quel potenziale è rimasto inutilizzato fino a quando è stato “sprigionato”, probabilmente da uno stimolo culturale». Continua Tattersall: «[…] quasi inconcepibile è la transizione da forme umane a pensiero non simbolico a quelle a pensiero simbolico. Possiamo però affermare che questa acquisizione è stata recente ed è stata conseguita in seguito a un unico evento piuttosto che non con un processo di affinamento nel corso degli eoni». Tattersall esclude ogni gradualismo filetico legato al “rilascio” della capacità cognitiva simbolica umana e spiega la comparsa di questa caratteristica con lo sviluppo, nello stesso periodo, di un’altra determinante capacità di Homo sapiens, la capacità di articolare linguaggio40. Si sottolinea infatti che la funzione principale del linguaggio articolato, oltre a quella comunicativa (relativa alla capacità di esprimere i pensieri), riguarda il ruolo fondamentale da esso svolto nella costruzione del pensiero stesso, nella realizzazione del nostro sistema di concettualizzazione. La centralità del linguaggio per far esprimere appieno una mente simbolica è chiara ma diventa cruciale risalire agli eventi che potrebbero aver preparato il terreno a questa ulteriore acquisizione. La capacità linguistica è collegata a due particolari aree del cervello, area di Broca e area di Werniche, ma, come espresso anche nel precedente lavoro41, essa presuppone anche una riorganizzazione anatomica della laringe. A un certo momento della storia biologica di Homo sapiens, il tratto laringeo di alcuni individui si sposta più in basso: si tratta di una modifica essenziale, unica tra i primati, senza la quale nessun suono articolato potrebbe essere emesso42. Rimanendo fedeli a quanto esposto, possiamo così ricapitolare la sequenza degli eventi evolutivi all’origine della mente simbolica di Homo sapiens: 1. sviluppo di un cervello di dimensioni e struttura adeguate, è infatti probabile che l’encefalizzazione raggiunta dalle forme umane precedenti al sapiens non fosse sufficiente perché l’organo potesse supportare alcune facoltà; 2. modifica anatomica atta a creare un sistema di fonazione adeguato allo sviluppo di un linguaggio articolato; 3. l’acquisita capacità di articolare linguaggio funge da stimolo al cervello di Homo sapiens che, già predisposto, attiva facoltà cognitive simboliche. A seguito di questi eventi, Homo sapiens si trova in una condizione davvero unica in cui sistema cognitivo simbolico e capacità linguistica articolata si completano e si rafforzano a vicenda, quasi fossero ingranaggi di un sistema progettato per formare “ominidi pensanti”. È però legittimo domandarsi se anche i nostri cugini Homo neanderthalensis, dotati di un encefalo parecchio simile a quello di Homo sapiens, avessero acquisito un’analoga facoltà mentale. Attraverso la documentazione archeologica è possibile ottenere importanti informazioni circa il tipo di vita che conducevano gli ominidi estinti. Homo neanderthalensis, ad esempio, ha lasciato prove senz’altro rilevanti della sua complessa organizzazione sociale, ma piuttosto carenti in termini di attività simbolica. Considerata l’estesa presenza temporale dei Neanderthal, apparsi circa 200.000 anni fa e scomparsi solo 30.000 anni fa, se questi ominidi fossero stati “pensatori simbolici” ne avrebbero certamente lasciato traccia in maniera ampia e inequivocabile. Ciò non significa che i nostri cugini Neanderthal avessero tuttavia raggiunto un complesso livello cognitivo. Come già esposto, anche i primi Homo sapiens non erano in grado di utilizzare il pensiero simbolico e le prime tracce di comportamento cognitivo simbolico in Africa si manifestano intorno ai 100.000 anni fa, grazie al ritrovamento di oggetti ornamentali come conchiglie e placche levigate e incise con motivi geometri43, 44. Oggetti simbolici con significato sociale. Per quanto riguarda il periodo di uscita dall’Africa di Homo sapiens le stime sono alquanto variabili. Si ritiene lascino il continente africano passando attraverso le zone mediorientali intorno ai 60.000 anni fa, disperdendosi poi nei vari continenti45. Dotati di sistemi cognitivi simbolici e di una capacità di comunicazione senza eguali, Homo sapiens si impone su ogni altro ominide ancora presente sia in Africa che al di fuori di essa, diventando di fatto la sola specie del genere Homo presente sulla Terra. Domesticazione nell’evoluzione umana: quali prove? Nel capitolo precedente abbiamo parlato della domesticazione come processo bio-evolutivo e abbiamo evidenziato i suoi effetti, tra cui la comparsa della neotenia sui vari modelli animali. L’ipotesi che, nel corso dell’ominazione, anche gli ominidi nostri progenitori abbiano subito processi di domesticazione suggerisce una nuova interpretazione del successo evolutivo della nostra specie e crea non pochi problemi concettuali, spingendo gli accademici a cercare soluzioni ortodosse che risultino convincenti. Considerato ciò che oggi conosciamo sul processo di domesticazione, che possibilità abbiamo di verificare se anche Homo sapiens sia il prodotto di tale processo? Non possediamo prove dirette ma alcuni elementi della biologia umana ci inducono a pensare che tale processo sia avvenuto. Homo sapiens mostra infatti i principali “contrassegni” della domesticazione: 1. è una specie portatrice di numerosi tratti morfologici neotenici; 2. è una specie dalla spiccata socievolezza; 3. è una specie con tendenza all’assoggettamento. Conoscere la condizione biologica dell’antenato e quella del discendente è molto utile per eseguire ricerche atte a stabilire eventuali processi di domesticazione nella storia biologica di una specie. Il fatto che in natura vi sia ancora la presenza del lupo selvatico agevola ad esempio moltissimo gli studi comparativi sui suoi discendenti addomesticati, i cani. Purtroppo, come mostra la Figura 2.1 del precedente paragrafo, tutti i nostri progenitori diretti sono estinti ed è per questo che nelle varie indagini sulla domesticazione umana sono i nostri cugini scimpanzé, generalmente equiparati ai nostri antenati selvatici, a rivestire un ruolo di primo piano. La neotenia nell’essere umano e la perdita dei tratti scimmieschi Spesso affermiamo che gli esseri umani hanno molti tratti in comune con le grandi scimmie antropomorfe e in modo particolare con gli scimpanzé. Sebbene queste affermazioni siano senz’altro veritiere, non possiamo fare a meno di aggiungere che le affinità aumentano drasticamente quando, anziché confrontarci con le scimmie adulte, ci confrontiamo con gli esemplari neonati o molto giovani. Proprio durante la fase giovanile gli scimpanzé mostrano una grande quantità di tratti morfologici e alcuni aspetti comportamentali assai simili a quelli di un essere umano. Queste caratteristiche hanno però nelle piccole scimmie una breve durata e si perderanno con il passaggio allo stadio adulto (gerontomorfosi), quando la scimmia acquisirà i tratti definitivi tipici della specie. È sufficiente osservare la Figura 2.2 per cogliere appieno ciò che stiamo dicendo. Fig. 2.2 - A sinistra un esemplare di scimpanzé (Pan troglodites) di poche settimane, a destra un esemplare adulto [Naef, 1928]. Nella piccola scimmia la calotta cranica ha una morfologia tondeggiante, le arcate sopraccigliari sono poco pronunciate e il muso non è proteso in avanti. Un assetto cranio-facciale che ricorda molto quello umano. Mentre nella piccola scimmia la testa ha dimensioni proporzionalmente maggiori rispetto a quelle del corpo, nell’esemplare adulto questo rapporto proporzionale si inverte e la testa dello scimpanzé risulta alla fine piccola rispetto alle dimensioni corporee dell’animale. Negli scimpanzé adulti il cranio si restringe sia nella regione frontale, che diventa sfuggente, che in quella occipitale, cambiando in modo radicale la fisionomia cranica dell’animale. Spostandoci sull’anatomia della faccia, notiamo che nei giovani scimpanzé è assente il marcato prognatismo tipico delle scimmie. Questo assetto è in buona parte dovuto alle ridotte dimensioni delle ossa mandibolare e mascellare che, negli scimpanzé giovani, non sono proiettate in avanti come poi saranno nello scimpanzé adulto. Nella piccola scimmia notiamo pure ossa nasali sporgenti che abbozzano un piccolo naso destinato ad appiattirsi negli esemplari adulti. Ma non è tutto. Sempre osservando la Figura 2.2, appare evidente che la piccola scimmia riesce a tenere la testa e il collo allineati verticalmente, postura che ricorda più quella degli esseri umani che quella delle scimmie. La capacità di allineamento della testa con il collo deriva dalla posizione del foramen magnum, foro alla base del cranio in cui si inserisce la prima vertebra della colonna vertebrale. Nei piccoli di scimpanzé il foramen magnum ha una posizione quasi centrale, il che permette alle piccole scimmie di tenere la testa allineata alla colonna vertebrale e agevolare così una postura ortograda che ricorda quella umana46. Questo allineamento spiega perché gli scimpanzé giovani, rispetto agli esemplari adulti, siano più inclini ad assumere una postura eretta e a deambulare su due piedi, conducendo infatti una vita più terricola che arboricola. Con il procedere dello sviluppo, anche questa condizione muta e il foramen magnum dei nostri cugini scimpanzé arretra verso la regione occipitale del cranio, provocando un manifesto spostamento della testa in avanti rispetto alla colonna vertebrale. In conseguenza di questa nuova condizione anatomica, tutto il corpo dell’animale si protrae in avanti imponendo l’appoggio delle mani a terra, ora necessario per mantenere l’equilibrio. Ci rendiamo conto, adesso che abbiamo osservato alcuni tratti che caratterizzano le giovani scimmie, che partendo da quel modello anatomico, bastano davvero pochi “aggiustamenti” per ricavare una “forma umana”. Se vogliamo ipotizzare la comparsa di un ominide “prototipo” del genere Homo, la condizione principale è che in questo nuovo ominide permangano, per l’intera durata della sua vita, vari tratti morfologici presenti nella fase giovanile delle scimmie. Questo organismo alquanto particolare sarebbe una sorta di “scimmia pedomorfica”47, un nuovo “modello” di ominide la cui peculiarità sarebbe data dalla permanenza di piani anatomici e caratteristiche delle giovani scimmie antropomorfe. Perché ciò avvenga, occorre che in alcuni ominidi vi sia una precisa alterazione dei tempi di sviluppo di vari tratti biologici (eterocronia) e dunque un’evoluzione in senso neotenico. La presenza nell’essere umano di tratti comuni alle piccole scimmie antropomorfe (la calotta cranica più sferica e grande, il foramen magnum posizionato per agevolare la postura eretta, la riduzione del prognatismo, le arcate sopraccigliari poco prominenti), testimonia di fatto un’evoluzione in tal senso48. Secondo Stephen J. Gould, persino l’assenza di pelliccia che caratterizza l’essere umano è un tratto riconducibile a un’evoluzione neotenica, dato che gli scimpanzé molto giovani mostrano una discreta quantità di peli sul capo ma non sul corpo49. Appare sempre più chiaro che importanti cambiamenti avvenuti durante l’ominazione siano conseguenza di alterazioni di processi di sviluppo già esistenti. I processi di sviluppo più antichi, quelli che definiscono i piani anatomici di base dei vertebrati, come ad esempio la simmetria bilaterale50, sono difficilmente alterabili. Lo sviluppo di un arto aggiuntivo in una specie animale è da considerarsi ad esempio una modifica talmente profonda che potrebbe rivelarsi particolarmente distruttiva. Ricorrendo a una metafora, possiamo dire che alcuni processi di sviluppo sono talmente basilari da costituire le “fondamenta” su cui possono poi ergersi “edifici” dalle forme più varie. Queste vecchie fondamenta non vanno toccate. Viceversa, processi di sviluppo meno invasivi ma comunque rilevanti nel definire caratteristiche comportamentali e morfologiche di una specie animale possono essere estremamente alterabili, come ad esempio possiamo notare dai cambiamenti imposti all’anatomia cranio-facciale dei cani. Durante l’evoluzione umana si sono verificate importanti alterazioni dello stato di sviluppo dei nostri progenitori, alterazioni che non riscontriamo nelle scimmie antropomorfe. Il crescente numero di progetti di ricerca interdisciplinari che indagano la biologia delle specie animali addomesticate come organismi-modello apre oggi interessanti ipotesi intorno ai possibili percorsi della stessa evoluzione umana. Come abbiamo avuto modo di osservare, il processo di domesticazione è in grado di produrre effetti sulla biologia di una specie, proprio attraverso alterazioni dei tempi di sviluppo di varie caratteristiche. Queste alterazioni possono trovare spiegazione nella differente regolazione di particolari sistemi neuro-endocrini, tra cui il più rilevante è, come visto nel precedente capitolo, l’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene che controlla la risposta allo stress e facilita dinamiche di interazione inter-specifica. Se ciò è accaduto durante l’evoluzione umana, dovremmo aspettarci cambiamenti di questo sistema neuro-endocrino, simili a quelli riscontrati negli animali addomesticati. Ovviamente, l’essere umano non è contraddistinto dai soli tratti neotenici e sarebbe un grave errore pensare che tutta l’evoluzione umana sia legata alla neotenia51. Fatta questa precisazione, non possiamo però fare a meno di constatare che la neotenia ha giocato un ruolo fondamentale nel processo di ominazione. A differenza del percorso evolutivo degli altri primati, l’evoluzione in senso neotenico ci ha come “liberato” da quei tratti morfologici considerati “primitivi” caratterizzanti gli esemplari dei nostri più antichi progenitori e che caratterizzano ancora le grandi scimmie antropomorfe. Considerato che l’essere umano non discende dagli scimpanzé, da chi avremmo acquisito i tratti neotenici? Come abbiamo visto nel paragrafo in cui si descrive la nostra storia biologica, i paleoantropologi collocano all’origine del genere Homo alcune creature estinte dall’aspetto molto vicino a quello degli scimpanzé e facenti parte del genere Australopithecus. Sebbene non esistano reperti bio-fossili in grado di mostrarci nel dettaglio l’aspetto dei cuccioli di Australopithecus, non è incoerente pensare che questi presentassero i medesimi tratti che abbiamo precedentemente descritto per i piccoli di scimpanzé. Con la nascita dei primi ominidi portatori di tratti neotenici, ha dunque avuto inizio l’ominazione. Dall’anatomia dei reperti fossili dei nostri progenitori possiamo rilevare un ulteriore dato: l’acquisizione di tratti neotenici non è avvenuta in un’unica fase ma in fasi successive. Nel primo periodo sembra si siano stabilizzate negli ominidi caratteristiche che agevolassero sia la deambulazione bipede che la conformazione cranica sempre più tondeggiante e voluminosa. Altri tratti neotenici sono invece emersi più di recente nella storia biologica del genere Homo, come ad esempio i cambiamenti relativi all’assetto anatomico facciale. La Figura 2.3 mostra come Homo heidelbergensis, ominide che compare circa 600.000 anni fa e considerato oggi il diretto progenitore di Homo sapiens (vedi Fig. 2.1), esibisca ancora un’anatomia facciale grezza, pesante, scimmiesca. In Homo sapiens avviene una trasformazione “estetica”: diverse ossa che compongono il volto dei primi rappresentanti della nostra specie (mandibola, mascella, vomere, sopraorbitale, zigomo) si riducono e non si proiettano più al di là della linea verticale immaginaria che possiamo posizionare di fronte alle cavità orbitali dei soggetti. Fig. 2.3 - Comparazione anatomica facciale tra Homo heidelbergensis (sinistra) e Homo sapiens (destra). Il risultato è evidente. Homo sapiens mostra un chiaro “addolcimento” facciale dovuto alla perdita di ogni lineamento arcaico precedente. Possiamo ipotizzare che durante il processo di ominazione, l’anatomia del cranio si sia evoluta indipendentemente da quella del volto. I cambiamenti a livello del cranio, in termini di forma e volume, hanno infatti inizio circa 2,4 milioni di anni fa con la comparsa dell’ominide Homo habilis, considerato il primo rappresentante del genere Homo. Per osservare invece le modifiche facciali sopra descritte in figura, bisognerà attendere l’emergere di Homo sapiens che, secondo alcune stime, compare circa 200.000 anni fa. La differente cronologia di modifica, prima del cranio e poi della faccia, è plausibile in quanto la testa di un organismo, sebbene sia una struttura anatomica compatta, è comunque composta da due unità indipendenti denominate “modulo cranico” e “modulo facciale”. Come dimostrano specifiche evidenze sui cani, le morfologie cranio-facciali di un animale possono subire modificazioni indipendenti secondo varie combinazioni. Attraverso incroci selettivi, l’uomo ha prodotto cani dal cranio molto piccolo (brachicefali), cani dal cranio allungato (dolicocefali), dal muso corto (boxer) o anche dal muso lungo (levriero). Al momento non conosciamo quale evento o quali eventi potrebbero aver favorito il cambiamento dell’anatomia facciale in Homo sapiens. Passaggi evolutivi come questi potrebbero non trovare mai un’adeguata risposta facendo ricorso ai soli dettami della biologia evoluzionistica convenzionale. Ciò che però sappiamo per certo, grazie agli studi su animali come i cani la cui evoluzione biologica è stata fortemente governata dalla selezione artificiale, è che questa stessa selezione può rimodellare il modulo facciale di una specie fino a ottenere modifiche importanti52. Le modifiche facciali prodotte sui cani non hanno alcun valore adattativo. Queste modifiche sono state infatti ricercate per pure ragioni estetiche e non rispondono ad alcun tipo di esigenza adattativa del cane. I cani hanno in questo senso “subito” determinate scelte evolutive che l’uomo ha ritenuto vantaggiose più per se stesso che per l’animale in sé. E se qualcosa di simile fosse accaduto anche durante il processo di ominazione, nel passaggio a Homo sapiens? Se la transizione in questione non fu spontanea ma venne forzata attraverso incroci selettivi a opera di terzi? Ci troveremmo di fronte a un difficile dilemma semplicemente per il fatto che, come spiega Charles Darwin in L’origine delle Specie53, la selezione naturale può promuovere vantaggi per le singole specie ma non opera mai in modo altruistico, facendo cioè emergere in una data specie caratteristiche che siano a vantaggio di un’altra. La scoperta in una specie di tratti vantaggiosi per un’altra sarebbe infatti una confutazione della teoria, come specifica lo stesso Darwin in questo emblematico passaggio: «Se si potesse provare che una qualsiasi parte della struttura di una specie è stata formata per beneficio di un’altra specie, ciò distruggerebbe la mia teoria, poiché quella parte non potrebbe essersi prodotta attraverso la selezione naturale». La riduzione del dimorfismo sessuale Con il progetto di domesticazione delle volpi, Dmitri Belyaev mise in evidenza che uno dei cambiamenti neotenici che gli animali tendono a sviluppare durante il processo di domesticazione consiste nella riduzione delle preesistenti differenze di genere, ovvero del dimorfismo sessuale54. In termini di differenze di taglia corporea, soggetti maschi e femmine diventano sempre più simili ma anche altri caratteri vedono ridurre le differenze tra i sessi, come ad esempio la lunghezza dei canini degli animali, generalmente più sviluppati nei maschi rispetto alle femmine55. Negli scimpanzé c’è un discreto dimorfismo sessuale legato alle dimensioni fisiche dei soggetti maschi, più grandi rispetto alle femmine. Dai reperti bio-fossili notiamo che anche gli Australopithecus possedevano un dimorfismo sessuale marcato, simile a quello degli attuali scimpanzé. Questa condizione comincia a modificarsi solo con l’emergere dei primi ominidi del genere Homo. Come riferito nel primo paragrafo, già con Homo habilis e in misura maggiore con il successivo Homo erectus si evidenzia una marcata riduzione delle differenze corporee tra maschio e femmina56. È probabile che questa riduzione del dimorfismo sessuale sia un ulteriore elemento a favore di un processo di domesticazione iniziato precocemente nell’ominazione? Un cervello grande e neotenico Come abbiamo visto, molti dei nostri tratti biologici “esclusivi” sono osservabili anche nelle giovani scimmie, a testimonianza del fatto che abbiamo mantenuto buona parte dei caratteri già presenti nei cuccioli dei nostri progenitori scimmieschi. Negli ultimi anni, è stato largamente dimostrato che anche l’organo che più ci contraddistingue nel regno animale, il nostro cervello sovradimensionato, presenta basi neoteniche. Il cervello dei mammiferi è un organo estremamente complesso, costituito da cellule specializzate, i neuroni, che stabiliscono tra loro comunicazioni attraverso una fitta rete di connessioni (Fig. 2.4). Fig. 2.4 - Il cervello umano è formato da circa 86 miliardi di neuroni, ognuno dei quali stabilisce in media circa 10.000 connessioni con altri neuroni attraverso i bottoni sinaptici posti all’estremità dell’assone. Le connessioni tra neuroni non sono statiche ma si modificano e, sulla base di vari stimoli esterni, le cellule nervose possono riorganizzare questi collegamenti. Tale fenomeno, noto come “plasticità cerebrale”, è fondamentale sia per l’apprendimento che per l’instaurarsi di tutti i processi cognitivi. Nei mammiferi, la plasticità cerebrale è generalmente più attiva negli organismi più giovani, quando maggiore è la necessità di assimilare informazioni. Con l’avanzare dell’età, la plasticità cerebrale si riduce, le connessioni neuronali si “irrigidiscono” nella loro organizzazione e sono sempre meno reattive agli stimoli che richiedono un adattamento a nuove situazioni. Proseguendo l’analisi sugli scimpanzé, il loro cervello, dopo la nascita, continua lo sviluppo e raggiunge la completa maturazione verso i tre anni di età. Superata questa fase, nel cervello delle scimmie comincia a venir meno la plasticità intrinseca. Nell’essere umano assistiamo a un fenomeno molto differente. Dopo la nascita, il cervello di Homo sapiens prosegue lo sviluppo fino ai sei-sette anni di età, periodo in cui l’organo non solo quadruplica il proprio volume, passando da 330 cc a 1320 cc ma continua a far registrare un’elevata plasticità intrinseca. Il cervello umano raggiunge la maturazione verso i sedici anni ma a differenza delle scimmie conserverà una plasticità basale per buona parte della vita. Questa sorta di protratta “immaturità” dell’organo, ci rende ricettivi agli stimoli e inclini all’apprendimento anche quando si è superata la fase giovanile. Siamo di fronte a una caratteristica che nessun altro primate possiede e che, ancora una volta, rimarca la singolarità dell’evoluzione del cervello umano. Ci rendiamo conto di come l’evoluzione del cervello umano procedette sia in termini di ingrandimento dell’organo che in termini di aumento della sua plasticità intrinseca. Questo aspetto neotenico è molto rilevante in quanto una plasticità cerebrale sempre attiva potrebbe avere avuto implicazioni anche nel controverso sviluppo della nostra mente simbolica. È plausibile che, subito dopo la separazione dagli Australopithecus, pressioni selettive ancora ignote cominciarono a premiare ominidi dal cervello più grande ma nel contempo riorganizzato da un punto di vista neuronale, secondo un modello neotenico. La plasticità cerebrale umana è stata indagata nei laboratori dello Shanghai Institute for Biological Sciences. Lo studio ha evidenziato che l’uomo presenta una plasticità cerebrale più simile a quella dei giovani scimpanzé che a quella di esemplari adulti57. La Figura 2.5 riporta i risultati di questa analisi che compara l’espressione di diversi geni coinvolti nella maturazione cerebrale durante la vita di tre specie: scimpanzé (Pan troglodytes), macaco rhesus (Macaca mulatta) e uomo (Homo sapiens). Come si nota dal grafico, fino ai tre anni di età tutte le tre specie mostrano bassi livelli di espressione di questi particolari geni poiché il cervello si trova in una fase di “immaturità”. Superati i tre anni, l’espressione di questi geni aumenta in modo sempre più significativo nelle scimmie ma non nell’uomo, che mantiene così un cervello più immaturo e sistemi di apprendimento e cognitivi meno rigidi per l’intera durata della sua vita. Fig. 2.5 - Il grafico mette in relazione l’espressione di 7958 geni coinvolti nella maturazione cerebrale di tre organismi (in ordinate) con l’età degli stessi (in ascisse). Ogni punto rappresenta un individuo analizzato [«PNAS», 2009]. Senza entrare in particolari tecnici troppo noiosi per il lettore, possiamo dire che tra i fattori in grado di influenzare la maturità cognitiva negli organismi vi è il processo di “mielinizzazione”, un evento di maturazione delle cellule nervose in cui una guaina lipidica avvolge le cellule allo scopo di fornire loro supporto meccanico e funzionale. La mielinizzazione è certamente un processo molto importante man mano che questo processo si diffonde nel cervello, le cellule nervose diventano sempre meno libere di modificare le loro reciproche connessioni e sempre meno propense a esplorare nuove cablature. Possiamo affermare che più precoce sarà la mielinizzazione dei neuroni encefalici e più velocemente il cervello acquisirà rigidità strutturale. Contrariamente a quanto osservato in ogni altro primate, in cui la mielinizzazione procede in modo piuttosto rapido, nell’encefalo umano il processo di mielinizzazione ha tempi molto più lunghi58. I geni che regolano la mielinizzazione vengono espressi nell’uomo con ritardo rispetto agli scimpanzé e questa eterocronia, questa sorta di “slittamento” dei tempi di maturazione cerebrale rispetto alle scimmie, consente all’essere umano di prolungare il periodo di apprendimento. Il cervello umano è dunque un organo “aperto”, proprio perché non perderà mai del tutto la sua condizione biologica giovanile, quella sorta di “incompletezza” che è all’origine della sua plasticità e, si direbbe, della sua unicità. Un cervello che, grazie alla neotenia, rimane in un continuo stato di connettività, capace di creare schemi cognitivi dinamici indisponibili per gli altri animali. L’evoluzione del cervello umano rimane ancora oggi oggetto di dibattito a più livelli. Il continuo ampliamento cerebrale che si registra a partire dai primi ominidi del genere Homo e che raggiunge livelli notevoli nella nostra specie doveva avere una qualche forma di “priorità”, anche a costo di generare, a un certo punto della filogenesi umana, un inevitabile problema conosciuto con il nome di “dilemma ostetrico”. Il fatto che, durante la nostra evoluzione biologica, il bipedismo abbia preceduto di molto l’ampliamento del cervello, ebbe conseguenze importanti. Con la conquista della postura eretta e della deambulazione bipede, gli ominidi appartenenti al genere Homo acquisirono un assetto anatomico peculiare, insolito per un primate. Negli scimpanzé ad esempio, come nella maggior parte delle altre scimmie, il bipedismo è consueto nei piccoli ma si perde con il sopraggiungere della maturità fisica. Come precedentemente detto, la caratteristica anatomica funzionale legata al bipedismo ha quindi nell’essere umano una base neotenica. Affinché il bipedismo diventasse condizione permanente nell’essere umano, dovettero modificarsi molteplici aspetti anatomici come la curvatura della colonna vertebrale, la lunghezza delle gambe e la struttura del piede. Oltre a questi mutamenti, quella che possiamo definire la più radicale trasformazione interessò la regione scheletrica del bacino59. Il cosiddetto “cinto pelvico” dei nostri progenitori dovette adattare la propria morfologia in senso funzionale alla posizione eretta obbligata. Nello specifico, le ossa iliache del bacino si svilupparono lateralmente (anziché verticalmente come nelle scimmie antropomorfe) per facilitare l’inserzione dei potenti e più grandi muscoli della coscia e dare quindi all’organismo l’equilibrio necessario alla deambulazione bipede. Contestualmente, il bacino si restrinse a livello della cavità pelvica, canale osseo che oltre a essere il “perno” della postura eretta è anche il canale del parto. Rispetto a quella delle scimmie, la cavità pelvica di Homo sapiens, molto più piccola, crea un handicap non banale durante il parto, ostacolando il passaggio del feto che – data la grande encefalizzazione della nostra specie – sviluppa una testa di notevoli dimensioni durante la gestazione60. Da un punto di vista biologico, siamo in presenza di una condizione “paradossale”, nonché unica in natura61. Il parto umano risulta dunque molto più complesso e pericoloso di quello delle scimmie antropomorfe, nelle quali la cavità pelvica è più larga della testa del nascituro. Anche negli Australopithecus il canale del parto era ampio e la ridotta encefalizzazione di questi ominidi non dava adito a complicanze nella nascita. I primi rappresentanti del genere Homo, Homo habilis e Homo erectus, si trovavano ancora in una condizione favorevole in cui, pur possedendo un bacino stretto e ben costituito per la deambulazione bipede, questo non generava problemi durante il parto poiché il volume cranico che il feto di questi ominidi raggiungeva, sebbene cospicuo, non era ancora paragonabile a quello degli uomini moderni. Ci chiediamo ovviamente perché protrarre l’encefalizzazione oltre certi limiti, mettendo i successivi ominidi del genere Homo a rischio? In una visione bio-evoluzionista, in cui la riproduzione delle specie è un fattore cruciale, tutto ciò sembra molto peculiare. La deambulazione bipede e l’encefalizzazione rappresentano, nella loro reciproca incompatibilità, delle caratteristiche irrinunciabili nell’evoluzione umana. Ma c’è di più. La moderna biologia ha evidenziato che, all’interno dell’ordine dei primati62, esiste una precisa correlazione tra dimensioni encefaliche delle specie e tempi di gestazione: tanto più una specie è “encefalizzata”, tanto più i tempi di gestazione si allungano. L’unica specie a far eccezione è Homo sapiens, cerchiamo di capire perché. Data la correlazione premessa, l’eccezionale grado di encefalizzazione di Homo sapiens porterebbe a calcolare in non meno di diciotto mesi la durata della gravidanza umana. Sappiamo però che così non è. Homo sapiens partorisce dopo una gestazione di nove mesi e dà quindi alla luce un piccolo ancora immaturo, che dovrà completare fasi cruciali del proprio sviluppo al di fuori del corpo materno. In modo particolare, è proprio l’encefalo a non aver ultimato gran parte dello sviluppo, che prosegue infatti a ritmi elevatissimi per altri nove mesi dopo la nascita a differenza del corpo che, nel raffronto, fa registrare lievi aumenti. In un’ipotesi progettuale, in cui era necessario formare ominidi bipedi e dal grande encefalo, l’unica soluzione percorribile era quella di ridurre i tempi di gestazione, in controtendenza con quanto invece avviene in ogni altro primate. Oggi, la moderna ricerca genomica ha permesso di identificare una serie di geni collegati al parto e tra questi un gene in grado di regolare i tempi di gestazione nei mammiferi. Il gene in questione è quello relativo al recettore dell’ormone follicolo-stimolante (FSHR) che, presente anche nei primati non umani, ha subito dei particolari cambiamenti lungo la nostra linea di discendenza, cambiamenti che hanno ridotto i tempi di gestazione degli ominidi moderni63, 64. Con la riduzione della gestazione umana si entra in una criticità biologica che deve necessariamente tenere in considerazione due fattori: 1. una gestazione al di sotto dei nove mesi darebbe come risultato un nascituro incapace di sopravvivere; 2. dall’altra parte, un aumento del tempo di gestazione al di sopra dei nove mesi comporterebbe una totale incompatibilità cefalo-pelvica (già al limite) tra nascituro e gestante. Tutto questo rende il parto nella nostra specie un evento assai rischioso. Non è un mistero che il parto abbia sempre rappresentato per la donna una delle principali cause di morte, almeno fino al XIX secolo, quando i rischi a esso associati furono affrontati grazie a procedure di assistenza medica. È davvero peculiare che un momento fondamentale della vita come quello della nascita, garanzia di continuità della specie, sia invece un evento che nell’uomo può mettere seriamente a rischio la continuità biologica. Dati UNICEF aggiornati al 2015 registrano ancora l’elevato tasso di mortalità materna in quei Paesi del mondo dove nascere rimane un evento non medicalmente assistito; cifre davvero impressionanti che sfiorano i 300.000 decessi ogni anno65. Domesticazione nell’evoluzione umana: processo autonomo oppure opera di terzi? Abbiamo chiarito che l’essere umano è portatore di numerosi tratti che ci inducono a ritenere possibile che, durante la nostra evoluzione biologica, si siano verificati dei processi di domesticazione. Questa possibilità dovrebbe, a nostro avviso, diventare il punto di partenza delle molte indagini sull’evoluzione umana, basate essenzialmente sul concetto imperante di “adattamento evolutivo” di stampo darwiniano. Secondo questa visione, quando un dato carattere presente nell’essere umano è adattativo, lo è perché evolutosi efficacemente, se invece un carattere non è adattativo, non lo è perché nel frattempo è l’ambiente che si è modificato. Ora, dato che questo ambiente è in genere definito in modo vago, se una storia di adattamento per selezione naturale viene smentita (come spesso accade), se ne trova subito un’altra con la stessa logica esplicativa. Questa linea di condotta porta così a trovare una “storia adattativa” per tutto ma che alla fine non spiega nulla. Parlare di adattamento risulta generalmente facile, dimostrarlo è un altro conto. Per fare un esempio, il nostro cervello gestisce bene interazioni sociali complesse ma sono state le interazioni sociali complesse ad aver indotto l’imponente sviluppo cerebrale, oppure un tale cervello serviva proprio a gestire interazioni sociali complesse? Se partiamo dal presupposto che la selezione naturale costituisca l’unico meccanismo in grado di portare cambiamenti evolutivi in una specie vivente, allora qualsiasi altra ipotesi deviante da quel processo sarà vista come un tradimento nei confronti del presunto “dogma darwiniano”. Spiegare la domesticazione umana rappresenta un tema impervio e insidioso proprio per il fatto che un processo evolutivo di questo genere ha poco a che fare con la selezione naturale e lascia spazio a ipotesi molteplici. La domesticazione è infatti un processo bio-evolutivo in cui le pressioni selettive non sono ascrivibili alla selezione naturale ma comportano cambiamenti biologico-comportamentali finalistici a carico degli organismi. Poiché sembra evidente che tale processo possa aver contribuito, in più occasioni, a definire importanti aspetti dell’essere umano, un simposio tenutosi al Salk Institute di San Diego ha riunito nel 2014 studiosi di ogni parte del mondo allo scopo di creare dibattito sul tema (Fig. 2.6). Fig. 2.6 - Il manifesto relativo al simposio internazionale sul tema “Domesticazione ed Evoluzione Umana”, organizzato dal Center for Academic Research & Training in Anthropogeny (CARTA) – “to explore and explain the origin of the human phenomenon” – UC SAN DIEGO. Il simposio ha affrontato la tesi dell’auto-domesticazione dell’essere umano e non ha fatto alcun riferimento alla possibilità che Homo sapiens possa rappresentare il prodotto di una domesticazione messa in atto da terzi, così come generalmente accade con gli animali. Eppure, quest’ultima ipotesi, sebbene relegata a “ipotesi di confine”, fu per la prima volta avanzata proprio da un illustre accademico, Roger W. Wescott. Erano gli inizi degli anni Settanta quando Wescott, allora professore ordinario di antropologia alla Drew University nel Medison, scosse sia l’opinione pubblica che la comunità accademica con il libro The Divine Animal (“L’Animale Divino”)66. Nel suo libro, Wescott pone l’accento sulle caratteristiche biologico-comportamentali della nostra specie e su come queste possano trovare una valida spiegazione evoluzionistica attraverso l’osservazione e lo studio comparato di molte specie addomesticate. L’autore avanza quindi la possibilità che l’essere umano sia stato oggetto di ripetute selezioni artificiali da parte di attori esterni. Per Wescott, dunque, antichi colonizzatori del nostro pianeta avrebbero effettuato pressioni selettive sugli ominidi guidando la nostra evoluzione, biologica prima e culturale dopo. Wescott segnala inoltre che, già dalla preistoria, popoli geograficamente agli antipodi conservassero conoscenze comuni e peculiarità nelle narrazioni. A tal proposito, in un passaggio del suo libro scrive: «Non vi sono certamente prove indubbie di ciò. Ma non vi è, ovviamente, alcuna prova che lo escluda. Vi sono frammenti di prove alquanto ambigue secondo cui visitatori intelligenti si sarebbero periodicamente manifestati. Uno di essi è il motivo persistente dell’uomo uccello nell’arte preistorica: uomini con teste di uccello appaiono nelle pitture e nei bassorilievi dell’Europa paleolitica, dell’Oceania neolitica, del Perù dell’Età del Bronzo. […] Mentre queste raffigurazioni possono limitarsi a indicare niente di più di un culto dell’uccello comparabile a quelli africani del gatto e asiatici dell’orso, esse potrebbero altresì denotare un grossolano tentativo iconografico di tramandare che creature simili all’uomo sono periodicamente apparse dal cielo presumibilmente in veicoli e che, dal momento che gli uomini non potevano darsene una spiegazione, erano considerati come uccelli». Il tentativo di Wescott di reinterpretare l’evoluzione umana alla luce di un intervento esterno venne considerato antiscientifico e il suo libro, sebbene ben documentato e ricco di spunti interessanti, subì una forte censura. Se da una parte si può osservare che l’essere umano manifesti vari tratti tipici dell’animale addomesticato, l’ipotesi di una domesticazione umana messa in atto da attori esterni ci pone ovviamente di fronte a una serie di questioni non banali: dove sono le tracce di questi nostri formatori/educatori? È possibile evidenziare, oltre ogni ragionevole dubbio, che in epoche remote la Terra fosse abitata da qualche forma di intelligenza superiore e tecnologicamente evoluta, prima che Homo sapiens facesse la sua comparsa? Su questo punto la scienza ufficiale manifesta generalmente una forte chiusura. Non mancano però studiosi propensi a non escludere tale possibilità aprioristicamente. Tra questi il paleontologo Andrea Cau che, nel suo personale blog Theropoda, fornisce alcuni concetti interessanti a riguardo e indirizza una sorta di provocazione anche al mondo accademico: «Chiediamoci se sulla Terra siano esistite altre forme di vita intelligente, forse persino civiltà avanzate, nel vastissimo passato remoto precedente la comparsa della nostra specie». Cau scrive poi: «Per meglio comprendere se questa domanda sia lecita oppure una fantasia gratuita, confrontate la durata dell’attuale civiltà tecnologica umana post-neolitica, circa 6000 anni, con i 600 milioni di anni di esistenza della vita complessa (un centomillesimo) e provate a stimare quanto di tutto ciò che Homo sapiens ha prodotto sarà ancora “evidente” sulla superficie terrestre tra 100 milioni di anni – nell’ipotesi che la nostra specie si estingua oggi. In pochi decenni, tutti i satelliti artificiali umani in orbita ricadrebbero verso terra, disintegrandosi nell’atmosfera. In pochi secoli, tutto ciò che fu creato dall’uomo e che esiste sulla superficie terrestre sarebbe ricoperto dal rapido ritorno della vegetazione selvatica in quei luoghi che l’uomo aveva trasformato in città, strade, aree coltivate. La capacità delle radici in crescita delle piante di disgregare anche la roccia, figurarsi materiali come asfalto o cemento, non dà molte speranze di persistenza a buona parte dei nostri manufatti, apparentemente molto tenaci, di restare intatti dopo che le piante si fossero riprese possesso delle terre emerse. Nel giro di alcuni millenni, al più qualche milione di anni, l’erosione, gli agenti atmosferici, le future fasi glaciali, l’innalzamento dei mari, la deriva dei continenti, il sollevamento di nuove catene montuose, tutto questo distruggerebbe qualsiasi struttura superficiale (manufatti, strade, edifici, porti) non ancora distrutta dall’espansione della vegetazione. Buona parte dei monili di materiale resistente alla corrosione sarebbe dilavato dalle acque, trasportato in mare dai fiumi, dalle alluvioni e dalla lenta subsidenza dei suoli e nel giro di qualche milione di anni si accumulerebbe sul fondo dei mari, formando una stratificazione che, progressivamente sepolta sotto strati successivi e compattata dalla loro pressione, si trasformerebbe in roccia. Nei successivi milioni di anni, il ritorno totale della Natura come unica signora della Terra cancellerebbe la quasi totalità delle prove della nostra passata esistenza. Forse qualcosa persisterebbe sepolta sotto i fondali oceanici ma sarebbe condannata a un lento dissolvimento, sotto le pressioni prodotte dai movimenti della crosta terrestre. L’unica testimonianza della nostra esistenza, quindi, sarebbe quel sottile strato di carbonio e metalli pesanti, vestigio della nostra tecnologia, accumulatosi sul fondale oceanico ed eventualmente riemerso come parte marginale di qualche catena montuosa. Pertanto, se questo è l’inevitabile destino delle ultime tracce della civiltà umana, perché non dovrebbe essere già tutto avvenuto per una specie precedente la nostra, della quale, appunto, ogni traccia è andata distrutta al di fuori di qualche sottile strato sedimentario? Se l’intero ciclo dell’esistenza di una civiltà, la sua estinzione e la quasi totale distruzione naturale di ogni sua manifestazione scampata all’estinzione, si compie in qualche milione di anni, non esiste obiezione logica per cui il vastissimo passato geologico della Terra non possa contenere al suo interno dozzine di episodi come quello appena narrato». Continua lo studioso: «Pertanto, un possibile indizio dell’esistenza di una civiltà non-umana sulla Terra potrebbe essere un sottile strato la cui composizione chimica anomala (dovuta a un eccesso di carbonio e metalli pesanti) potrebbe indicare l’accumulo dei residui di una qualche specie tecnologicamente avanzata. Lo scenario ipotetico che vi ho appena illustrato fu sviluppato, indipendentemente uno dall’altro, da due autori, John C. McLoughlin (1984) e Mike Magee (1993), come ipotesi fantascientifica per spiegare anomalie geologiche e paleontologiche presenti nel famoso “limite K-T”, il livello geologico che segna la fine dell’era Mesozoica e la grande estinzione dei dinosauri: secondo questi autori, una specie intelligente di dinosauro, vissuta 65 milioni di anni fa, fu la causa della grande estinzione e della propria autodistruzione, secondo modalità e tempi non tanto diversi da quelli con cui oggi Homo sapiens sta alterando, in modo forse irreparabile, la biosfera e il clima. […] In realtà, non è detto che tutte le specie intelligenti siano portate a sviluppare la metallurgia, l’allevamento o un massiccio sfruttamento delle risorse naturali, come siamo soliti fare noi, e quindi potrebbero non lasciare una traccia stratigrafica così evidente della loro presenza sul pianeta del passato. In alternativa, come imposteremmo un “SETI”, qui inteso come “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”67, e che lezioni potrebbe darci in appoggio al suo più famoso fratello maggiore, rivolto allo spazio esterno?»68. Il paleontologo si dichiara inoltre favorevole a una possibile ricerca di forme animali che sulla Terra potrebbero aver raggiunto eccezionali livelli di intelligenza in epoche remote. Il discorso rimane valido anche se si ipotizza, così come faceva Wescott, che tali intelligenze superiori non fossero terrestri ma che, provenendo da altri mondi, avrebbero raggiunto e colonizzato la Terra. Uno dei principali punti deboli dell’ipotesi di auto-domesticazione umana nei confronti di una domesticazione a opera di terzi è rappresentata dalla netta differenza temporale con cui si determina l’inizio di questo processo. Nell’ipotesi di una domesticazione etero-guidata, il periodo di inizio del processo e delle pratiche di selezione artificiale dei soggetti potrebbe essersi verificato già nel Plio-Pleistocene, su ominidi del genere Australopithecus. È lecito pensare che, come in ogni processo di domesticazione, lo scopo iniziale fosse quello di produrre negli ominidi selvatici alterazioni comportamentali, principalmente legate al controllo della paura e dell’aggressività. Questa selezione era necessaria per aumentare il livello di tolleranza dei soggetti nei confronti dei loro simili e dei loro formatori, generando ominidi sempre più capaci di gestire interazioni cooperative. La tolleranza è un tratto tipico delle specie addomesticate, cui segue rapidamente il cooperativismo: una caratteristica comportamentale che, come vedremo più avanti, ci rende una specie vincente in natura e che inizia a comparire già negli Homo habilis (Pleistocene inferiore), sviluppandosi poi sempre di più durante il processo di ominazione69. Chi sostiene l’ipotesi dell’auto-domesticazione umana deve invece necessariamente post-datare l’emergere di queste caratteristiche perché sia gli Australopithecus che anche gli Homo habilis non possedevano ancora capacità cognitive tali da poter operare una qualsivoglia forma cosciente di scelta dei soggetti della loro specie. Inoltre, la comparsa già nei primi ominidi proto-umani di caratteristiche neoteniche come l’aumento encefalico, la deambulazione bipede e la riduzione del dimorfismo di genere relativo alle dimensioni del corpo70, offrono supporto a una domesticazione precoce nella nostra storia biologica. Anche la comparsa di una specie inadatta a grandi spostamenti in un sito geografico lontano dall’area originale di provenienza, può essere letta come un ulteriore elemento a favore dell’ipotesi di domesticazione guidata da terzi. Le specie addomesticate si ritrovano generalmente in varie parti della Terra a causa di una loro diffusione passiva, ovvero eseguita dall’uomo. Se facciamo un parallelismo con la nostra evoluzione biologica, abbiamo messo in evidenza come gli Australopithecus avessero una distribuzione geografica limitata, specificatamente confinati nel territorio africano. Con l’arrivo di Homo habilis entra in scena un ominide che emerge in Africa ma fa registrare la propria presenza anche in regioni molto lontane dal continente africano, creando non poche perplessità relative a una sua probabile “inettitudine biologica” nell’affrontare viaggi da un continente all’altro. L’ipotesi di una domesticazione degli ominidi da parte di terzi presuppone che una civiltà tecnologicamente avanzata sia stata in grado di eseguire sistemi di selezione empirici dei soggetti di interesse, atti a far emergere gruppi di individui con specifiche caratteristiche comportamentali e anatomiche. Ci chiediamo se le selezioni di ominidi selvatici abbiano causato alterazioni dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene e fino a che punto queste alterazioni potrebbero aver influito nel costituire il fenotipo umano. Gli esperimenti di domesticazione eseguiti su volpi e ratti costituiscono un buon punto di partenza per indagini atte a comprovare che alterazioni endocrine analoghe siano presenti anche negli esseri umani rispetto agli scimpanzé. Homo sapiens: specie cooperativa e assoggettata Abbiamo prima appurato come la cooperatività abbia rappresentato e rappresenti un’importante acquisizione comportamentale nell’evoluzione umana. Se gli ominidi del genere Homo fossero stati intelligenti ma tendenti all’isolamento, non saremmo mai diventati la specie con il più alto potenziale di dominio sulla natura. L’attitudine alla cooperazione è un tratto comportamentale quasi assente tra i primati adulti ma piuttosto presente nei soggetti giovani, più inclini a collaborare tra loro per uno scopo. Siamo in presenza di una caratteristica neotenica che, nel corso della filogenesi umana, conquista livelli sempre più elevati fino a raggiungere l’apice in Homo sapiens, dopo l’acquisizione del linguaggio articolato. Il grado di cooperatività aumenta infatti notevolmente quando gli individui sono in grado di scambiarsi verbalmente le informazioni. A questo punto vogliamo segnalare un’incongruenza in ambito bio-evoluzionistico: proprio in virtù della funzione del linguaggio articolato, la biologia che supporta l’emergere di tale capacità non poteva manifestarsi in un singolo individuo proprio perché il linguaggio non sarebbe stato di alcuna utilità presso soggetti privi della stessa abilità comunicativa. Occorreva un vero e proprio “gruppo fondatore”, più individui che diffondessero tale vantaggio all’interno della specie. In un’ottica darwiniana, possiamo pensare che la casualità determinante tale tratto abbia agito per un intero gruppo invece che per un singolo individuo? Un secondo importante aspetto legato all’emergere della capacità linguistica è dato dalla necessaria presenza di un “ambiente culturale idoneo” che permetta lo sviluppo e il perfezionamento di contenuti e dinamiche di una comunicazione avanzata. In assenza di un ambiente culturale idoneo, nessun sistema di comunicazione avanzato potrebbe mai svilupparsi e progredire. Per spiegare questo concetto consideriamo alcuni studi condotti sulle scimmie antropomorfe e in particolare quelli condotti su Kanzi, un bonobo allevato nella stazione di ricerca della Georgia State University71. Contrariamente ai suoi simili, Kanzi è in grado di comunicare con l’uomo mediante lessigrammi72 a un livello piuttosto avanzato. Kanzi può comunicare in modo avanzato rispetto a quanto facciano gli altri bonobo, solo perché si avvale di un linguaggio insegnatogli dagli esseri umani. In un ambiente privo della presenza culturale umana, il bonobo Kanzi non avrebbe mai sviluppato le sorprendenti capacità comunicative che dimostra. Questo non perché le scimmie antropomorfe manchino di capacità cognitive di supporto ma perché esse non sono in grado di creare autonomamente quella “‘struttura culturale collettiva” in grado di sostenere un sistema di comunicazione avanzato. Se il bonobo Kanzi, grazie all’uomo, ha ricevuto tale struttura culturale, potrebbe darsi che anche i nostri progenitori ne abbiano ricevuta una da attori terzi? Si tratta di idee affascinanti che inducono alla riflessione. • È possibile che il substrato culturale che ha catalizzato diverse abilità umane sia da ascrivere alla presenza sulla Terra di civiltà evolute in epoche remote? • Allo stesso modo, potrebbe la presenza di civiltà evolute e quindi dominanti, aver giocato un ruolo anche sull’evoluzione di un’altra caratteristica culturale che l’essere umano dimostra di possedere, ovvero la predisposizione all’assoggettamento? • Gli ominidi della nostra linea di discendenza erano forse assoggettati a terzi? Ricordiamoci che buona parte del “successo evolutivo” delle specie addomesticate è dovuto proprio alla loro sottomissione verso l’essere umano, che crea per loro ambienti in cui vivere al riparo da predatori e dalla selezione naturale, in una condizione di inconsapevole sudditanza. A sua volta, l’essere umano mostra una considerevole propensione all’assoggettamento. In un passaggio del suo libro, il biologo Giovanni Cianti scrive: «Da branco di primati liberi e fieri siamo stati trasformati in una super colonia di imenotteri con i suoi formicai, le città; la specializzazione del lavoro; le caste; il totale asservimento all’interesse di una élite – la formica regina – che ci dirige e ci pilota in base ai suoi esclusivi interessi. […] Tutto questo avviene grazie alla mancanza assoluta di consapevolezza che – al pari di ogni altro animale – contraddistingue l’essere umano. Il cane soffre per la catena ma non è in grado di comprendere perché gli viene imposta e grazie allo scarso cibo che riceve riesce pure ad affezionarsi al suo aguzzino»73. Non è illogico chiedersi allora se l’assoggettamento sia un ulteriore contrassegno di domesticazione dell’essere umano, il retaggio di un’evoluzione biologico-culturale avvenuta sotto la presenza e il controllo di terzi, così come sembrano dirci gli antichi Miti e così come avviene in tutte le specie addomesticate. Entreremo nei dettagli di questo argomento nel prossimo capitolo, non prima di aver introdotto ciò che a tal proposito scrive la studiosa di storia e mitologia Stefania Tosi in un suo saggio74: «Dai Sumeri agli Egizi, dai Greci ai Romani, gli uomini condividevano una comune convinzione: “che gli dei si occupassero di loro in questo mondo”. […] A leggere i poemi antichi si rimane sorpresi dalla facilità e dalla frequenza con cui gli esseri umani interagivano con il divino. Il divino in questi miti non era misterioso o invisibile, anzi, la fisicità era un tratto distintivo, tanto quanto i vizi e le necessità fisiologiche. […] In ogni tempo, la costante del rapporto uomo-dio è stata la rappresentazione della reciproca dipendenza fianco a fianco, creatore e creatura» L’uomo possiede un’innata consapevolezza che vi sia un’entità superiore a lui. A tal proposito scrive Tosi: «L’uomo ha sempre sentito il bisogno di vedere i suoi creatori, ne ha ricercato il contatto e inseguito la presenza, affinando la propria coscienza religiosa. Sono stati eretti templi, innalzati inni e preghiere per chiedere: “Chi sono?”, “Come sono?”, Cosa vogliono?”, “Perché ci hanno creato?”. […] Tutte domande che ci inseguono dalla notte dei tempi». Predisposizione ai tumori: effetto collaterale della domesticazione? Rispetto agli scimpanzé, che continuiamo a considerare i nostri corrispettivi selvatici, gli esseri umani sono molto più predisposti allo sviluppo tumorale. Il cancro è una patologia essenzialmente legata a mutazioni a carico del DNA con ricadute sulla proliferazione cellulare e affligge a livello mondiale circa un uomo su due e una donna su tre75. Le specie selvatiche sono generalmente ben lontane dal drammatico quadro statistico che riguarda lo sviluppo dei tumori nell’essere umano. Se ad esempio consideriamo le forme tumorali come quelle al seno, alla prostata, al polmone e il melanoma, rileviamo che esse sono responsabili di oltre il 20% dei decessi per cancro nella nostra specie, mentre nei primati (scimmie antropomorfe incluse), la loro incidenza è inferiore al 2%76. Un’indagine eseguita dall’Istituto Universitario di Oncologia di Oviedo ha messo in evidenza che 333 geni di interesse oncologico, poiché trovati di frequente nella nostra specie con mutazioni deleterie, raramente si ritrovano mutati negli scimpanzé77. Passando da specie selvatiche a specie addomesticate, notiamo un incremento generale dei casi oncologici che diventano estremamente frequenti in determinate specie, ad esempio nei cani di razza, che si ammalano spontaneamente di cancro, nel medesimo modo con cui ci ammaliamo noi esseri umani e con un’incidenza simile. I cani sviluppano infatti le stesse forme tumorali (benigne e maligne) che colpiscono l’essere umano, inclusi i tumori meno presenti in natura, come il tumore alla prostata, praticamente assente nelle specie selvatiche78. Questa triste realtà che condividiamo con i nostri “amici a quattro zampe” ha perciò indotto alcuni centri di ricerca sul cancro ad abbandonare i classici modelli di studio murini, sostituendo i topi con i cani79. Se si prende in considerazione il calcolo dello Standardized Mortality Ratio (SMR), che rappresenta il “rischio relativo” che un organismo ha di sviluppare una neoplasia rispetto alla popolazione media (con un SMR=1), si può evidenziare l’incidenza tumorale per le singole razze canine (Fig. 2.7). Come si nota, tutte le moderne razze canine hanno un SMR superiore a 1. Fig. 2.7 - Registro Tumori Animali, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe); SMR in ordinate / razze canine in ascisse. Al di là dell’aspetto oncologico, oggi sappiamo che oltre 360 patologie genetiche riscontrate nell’uomo sono state descritte anche nel cane80, mentre le stesse patologie sono virtualmente assenti nel lupo selvatico (Canis lupus), suo progenitore selvatico, così come nei nostri cugini scimpanzé. Da cosa può dipendere una tale predisposizione? È senz’altro plausibile che i cani, ben adattati alla convivenza con l’essere umano, loro formatore, abbiano sempre più condiviso gli stessi fattori di rischio ambientale e che ciò abbia contribuito all’insorgenza di molte forme tumorali. Sebbene vari fattori ambientali (agenti chimici / fisici / biologici) giochino un ruolo significativo nello sviluppo e nella progressione neoplastica, indagini sul genoma canino hanno mostrato che la predisposizione di questi animali a patologie genetiche (cancro incluso) sia il retaggio dell’insolita evoluzione biologica (domesticazione e selezione artificiale) che li contraddistingue. La domesticazione, e in modo più ampio ogni pratica di selezione artificiale basata su controlli riproduttivi, ha come fine quello di favorire solo alcuni individui, portatori di caratteristiche biologiche ritenute positive da chi interviene con tale pratica. Nel corso del processo di domesticazione e di selezione dei caratteri, gli accoppiamenti tra soggetti consanguinei sono spesso adottati per accelerare la “purificazione genetica” di varie caratteristiche biologiche. Tutto ciò ha però un costo. È proprio soffermandoci sul lavoro che l’uomo ha compiuto sul lupo grigio prima e sui proto-cani poi che è possibile comprendere le ripercussioni legate al controllo riproduttivo con relativo accoppiamento tra soggetti consanguinei, tecnicamente definito inbreeding. Attraverso un sistema di selezione artificiale iniziato dal lupo selvatico, l’uomo fu in grado di generare soggetti sempre più inclini a tollerare la presenza della nostra specie. L’uomo è diventato però sempre più esigente nella manipolazione evolutiva dei cani, arrivando persino a definire degli “standard di razza”, che prevedono sia il raggiungimento che la trasmissione genetica di precise caratteristiche biologiche. Le differenze biologiche tra i cani sono state spinte così all’estremo da creare animali molto diversi dai loro progenitori. Per raggiungere determinati scopi, gli esemplari dai tratti più vicini agli standard precostituiti vengono accuratamente selezionati e fatti accoppiare con componenti della stessa famiglia, in modo da produrre una sorta di consolidamento delle caratteristiche scelte, generazione dopo generazione. Diversamente da quanto accade con l’accoppiamento tra estranei, la progenie di genitori imparentati ha la probabilità di ereditare due copie identiche di ogni gene relativo a ogni specifico carattere di interesse. Attraverso l’inbreeding, chi opera la selezione mira al raggiungimento dell’omozigosi, all’ottenimento cioè di due copie identiche di ogni gene che presiede i caratteri prescelti. Se mal gestita, tale pratica porta però con sé il rischio di portare in omozigosi anche geni potenzialmente deleteri, normalmente inattivi nelle specie selvatiche proprio poiché non in omozigosi. Una volta in omozigosi, infatti, tali geni potrebbero esprimersi e predisporre l’animale a diversi stati patologici. Si apre così un nuovo capitolo che riguarda lo studio delle malattie genetiche del cane per far luce sui meccanismi patogenetici alla base delle malattie che colpiscono gli umani, a ulteriore testimonianza di un parallelismo bio-evolutivo che ci accomuna. 3 Il ragionamento della Drosophila «È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». ALBERT EINSTEIN Per affrontare il tema specifico della domesticazione dell’essere umano così come appare nei testi antichi teniamo a mente, a titolo di esempio concreto, che i processi di domesticazione condotti sulle volpi e sui ratti descritti in precedenza hanno evidenziato la necessità – e al contempo la possibilità – di agire per una durata di tempo che coinvolge più generazioni della specie oggetto di esperimento: abbiamo letto di 43 generazioni per le volpi e di 72 per i ratti. Cosa può essere successo per gli uomini? Se, come affermato nei capitoli precedenti, si può considerare sufficientemente documentato che l’essere umano sia portatore di caratteristiche comportamentali e fisiche che generalmente contraddistinguono gli animali addomesticati, l’ipotesi di una domesticazione messa in atto da attori esterni costituisce una questione di primaria importanza che al momento non ha avuto risposta documentata, almeno in base ai canoni della scienza. Si è visto infatti che, secondo la visione tradizionale, se un carattere presente nell’essere umano è adattativo, lo è in quanto si è evoluto in grazia della sua efficacia per l’individuo e per la specie cui esso appartiene e se una storia di adattamento per selezione naturale viene smentita dai fatti, se ne trova subito un’altra con la stessa logica esplicativa. Così, esiste una “storia adattativa” per tutto ma che alla fine non spiega nulla: questo è il motivo per il quale molte domande rimangono senza risposta. Infatti non sono facili da spiegare, secondo la metodologia e i principi tradizionali, vari elementi: 1. le mutazioni avvenute in più tempi molto ristretti in termini evoluzionistici; 2. il paradosso del rapporto tra crescita delle dimensioni dell’encefalo e durata del periodo di gestazione; 3. la nascita del pensiero simbolico con la necessaria contemporanea comparsa (non in un singolo individuo ma in un intero gruppo) di modifiche anatomiche necessarie per l’articolazione della parola; 4. disponibilità ai rapporti inter-specifici e all’assoggettamento; 5. capacità di tutti gli ominidi del genere Homo di spostarsi da un continente all’altro. È stato prima ricordato quanto sostenuto dal noto paleontologo Yves Coppens: la paleoantropologia è una scienza che necessita di fantasia. Questo non è un aspetto secondario, anzi, esso costituisce proprio uno degli elementi che – oltre a essere necessari in un ambito in cui i dati sono pochi, incerti e in continua evoluzione – determinano il fascino di questa disciplina che tenta di ricostruire la storia di Homo sapiens. Con la domesticazione umana si entra di fatto in un tema davvero spinoso e molto insidioso, proprio per il fatto che si rende necessario introdurre un concetto nuovo circa un processo evolutivo che ha poco a che fare con la selezione naturale, lasciando spazio a ipotesi di vario genere. La fantasia, basata su indizi che possano essere definiti quanto meno “ragionevoli”, ha dunque l’opportunità di trovare il suo giusto spazio ed esercitare una funzione che potrebbe rivelarsi fondamentale per la comprensione di quanto avvenuto nel passato. In questo specifico ambito la fantasia procede innanzitutto da dati che sono contenuti in testi antichi, informazioni che possono essere viste alla luce di chiavi di lettura diverse; noi utilizziamo quella che caratterizza il metodo dichiarato: “facciamo finta che” i racconti contengano nella sostanza un fondo di verità, siano cioè basati su fatti realmente avvenuti. Per contro, coloro che – in modo aprioristico e condizionato dalla tradizionale visione antropocentrica – non accettano l’ipotesi che la nostra specie possa essere stata sottoposta a processi di domesticazione e selezione artificiale, sostengono l’impossibilità che qualcuno sia intervenuto nel corso dei secoli o dei millenni, per avviare quella procedura, tenere sotto controllo un tale esperimento e ottenerne i risultati previsti e voluti nel corso del tempo. Questo ragionamento parte ovviamente dal presupposto che i racconti degli antichi vadano letti e interpretati come miti, leggende, metafore, allegorie che gli autori del lontano passato avrebbero elaborato per tentare di spiegare a modo loro, e con le categorie culturali e linguistiche di cui disponevano, la storia dell’umanità. Se invece applichiamo la scelta metodologica del “fare finta che” i testi del lontano passato contengano le memorie di eventi realmente accaduti, possiamo aprirci a ipotesi e possibilità di comprensione decisamente più ampie e capaci di spiegare come mai l’essere umano possieda molte caratteristiche che risultano essere tipiche delle specie addomesticate, come documentato nei capitoli precedenti. Rimanendo in tema di culture antiche e della possibilità che i loro racconti siano basati su storie concrete, citiamo l’interessante analisi condotta dal dr. Gian Matteo Corrias (Università di Firenze, latinista, specializzato alla Ecole des Hautes Etudes di Parigi) nel suo libro Gli dèi di Roma antica81, un testo che contiene un confronto, esposto in modo compiuto e documentato, tra forme di pensiero religioso tanto antiche quanto tra di loro lontane nello spazio: religiosità romana, ebraismo e bramanesimo, dottrine tradizionalmente ritenute diverse al punto da non essere compatibili. In realtà, l’inquadramento di queste forme di pensiero e lo studio della loro nascita storicamente accertabile può essere efficacemente esaminato e rappresentato con precise modalità, come scrive l’autore nell’Introduzione: «[…] uno strumento concettuale che può fornire un utile ausilio a una più generale definizione della questione che intendiamo studiare, quello di “epoca assiale” (Achsenzeit), istituito dal filosofo tedesco Karl Jaspers per indicare un periodo preciso della storia dell’umanità durante il quale, con sorprendente simultaneità a livello planetario, la cultura umana ha conosciuto una serie di trasformazioni talmente affini e profonde che ciò che ne risultò fu un mutamento della sua fisionomia complessiva82: si tratta dell’arco cronologico che va dal IX al III secolo a.C., e che ha il suo fulcro nel VI secolo a.C., epoca in cui con l’affermarsi in tutto il mondo delle formazioni imperiali “universali” (dall’impero assiro a quello persiano nel Vicino Oriente; ma situazioni analoghe si possono constatare in India e in Cina) e il parallelo sviluppo di profonde istanze individualistiche, si registra ovunque l’emergere di una serie di innovazioni (in Grecia la nascita della filosofia; a Roma la fine della monarchia, la nascita della Res publica [509 a.C.] e la rivoluzione cultuale che portò all’obsolescenza delle antiche strutture teologiche, alla reinterpretazione delle antiche divinità romane sulla base del modello greco e all’acquisizione ex novo di divinità greche, e fu sancita con l’erezione del tempio a Giove Capitolino), nonché di innovatori (simboli personificati di tendenze generali nelle rispettive comunità quali, in Cina, Confucio [550-480]; in India, Buddha [560-480]; in Iran, Zoroastro [fine del VII sec.]; in Israele, i grandi profeti “etici” dell’età esilica come Ezechiele e il Deutero-Isaia, che preparano la riforma teologica e cultuale post-esilica). Secondo Jaspers le espressioni più evidenti del periodo assiale sarebbero, in estrema sintesi, la nascita delle religioni “etiche” (e fideistiche) e del pensiero razionale. In effetti, com’è noto a chi frequenti lo studio delle civiltà arcaiche, le loro manifestazioni culturali precipue si presentano caratterizzate da una straordinaria omogeneità tanto in senso diacronico quanto in senso sincronico. La rivoluzione “assiale” prodottasi nella storia delle culture umane nel corso del VI secolo produce una progressiva alterazione nella percezione del mondo e dell’essere umano […]»83. Questa rivoluzione assiale si presenta in effetti con una certa evidenza sia dal punto di vista dei contenuti che della curiosa contemporaneità nello sviluppo degli eventi che, concretizzandosi in forme diverse in vari continenti, hanno poi determinato ciò che abbiamo sotto i nostri occhi: l’attuazione di un sistema di gestione e controllo dell’umanità che si è dimostrato di un’efficacia unica sia nel conseguimento del risultato che nella durata. Conosciamo tutto questo con il nome di “religioni”: un sistema di ammaestramento che opera dal momento della nascita di ogni singolo individuo e lo accompagna per tutto il corso della vita fornendogli, almeno a livello teorico, le risposte alle domande fondamentali dell’esistenza. Ogni religione infatti nasce e vive solo in grazia della sua capacità di presentarsi e farsi accettare come depositaria delle verità “ultime” (o “prime” a seconda della prospettiva), fornendo risposta consolatoria e gratificante alla madre di tutte le angosce: la paura della morte, con ciò che ne consegue. Il sistema del premio-punizione è uno degli strumenti principe in tutti i sistemi di ammaestramento e le religioni lo applicano alla perfezione. Tutto questo è il frutto di un vero e proprio progetto intelligente che, con ogni probabilità, è stato generato dalla necessità di una razza che si è trovata a – oppure ha scelto di – vivere una situazione peculiare. Cogliamo qui proprio quella componente finalistica, cui si è fatto cenno nei capitoli precedenti, che cambierebbe in modo radicale la concezione ufficiale della nostra filogenesi che assumerebbe i connotati di un vero e proprio processo programmato. Prendendo spunto dalla circostanziata analisi storica condotta dal dr. Corrias, per la cui conoscenza completa rimandiamo al testo dell’autore, riteniamo interessante ipotizzare un’esemplificazione degli sviluppi che possono essere stati oggetto di quella programmazione intelligente cui abbiamo accennato, attuata da un gruppo di individui che ha pensato (o si è trovato nella necessità) di sfruttare la situazione a proprio vantaggio ed è riuscito a raggiungere l’obiettivo, come in effetti è avvenuto con le vicende bibliche, ma non solo. Il tutto è iniziato molto tempo prima rispetto all’epoca che abbiamo definito assiale: la necessità di addomesticare ha un prologo molto affascinante, una storia che forse contiene la spiegazione relativa al “chi siamo”. Facciamo finta che… Come al solito applichiamo la scelta metodologica del “fare finta che” gli Elohim (termine con cui la Bibbia identifica la razza intelligente in oggetto, si veda la voce a essi dedicata in Appendice) giungano – volontariamente o forzatamente – su di un pianeta o in un territorio sconosciuto e selvaggio: nella fattispecie la nostra Terra. Tra le varie opzioni possibili scegliamo quella di una possibile provenienza esterna, perché i popoli di tutti i continenti ci hanno lasciato il ricordo dei cosiddetti “figli delle stelle” che sono giunti qui e sono stati di fatto gli artefici della nascita delle varie civiltà. Questi ipotetici colonizzatori sanno che probabilmente dovranno rimanere sul pianeta per tutto il resto della loro per altro lunghissima vita, di cui diremo più avanti. Vi arrivano dotati di una parte, sia pur ridotta, delle tecnologie di cui dispone la civiltà da cui provengono e, con queste dotazioni necessariamente limitate, devono risolvere i problemi materiali posti dalla necessità primaria che è quella della sopravvivenza. Il pianeta/territorio in cui arrivano è abitato da forme antropomorfe. Spinti dall’imprescindibile necessità di lavorare, comprendono di trovarsi di fronte a una possibilità davvero fortunosa: quella di prodursi un lavoratore che possa capire efficacemente, eseguire ordini e operare quindi al posto loro, almeno per quanto riguarda l’espletamento dei compiti più gravosi. Hanno gli strumenti tecnici e le conoscenze teoriche necessarie per procedere e, nel senso letterale del termine, se lo fabbricano intervenendo direttamente e in diversi passaggi sulle creature viventi che presentano già una serie di caratteristiche biologiche di base su cui è possibile intervenire con relativa facilità. I testi e i racconti del lontano passato (Bibbia compresa) ci narrano di individui che hanno condotto attività che noi oggi definiamo di manipolazione bio-genetica, finalizzate a creare, nel senso di fabbricare, una vera e propria specie fatta di individui capaci di comprendere ed eseguire lavori dalla complessità via via crescente. Il tutto si è probabilmente concretizzato applicando metodi che sono descritti sia in questo che in altri testi ai quali rimandiamo84, 85. Negli stessi racconti degli antichi troviamo indicazioni sulla lunghezza della vita di quei lontani “creatori”: sono informazioni che possono apparire stupefacenti poiché evidenziano durate che arrivano a toccare alcune decine di migliaia dei nostri anni. Come abbiamo conoscenza di questo? Ce ne fornisce notizia il sacerdote babilonese Berosso (350-270 a.C. circa) nella sua Storia di Babilonia (Bαβυλωνιακὰ), un’opera che ci è giunta in modo parziale grazie alla trasmissione operata da autori come Abideno e Alessandro Poliistore: l’autore ha redatto una lista di re antidiluviani che avrebbero regnato per tempi lunghissimi, misurati in saroi, cioè in periodi di 3600 anni86. Ce ne fornisce notizia il sacerdote egiziano Manetone (III secolo a.C.) nella sua (quanto meno a lui attribuita) Storia dell’Egitto (Aegyptica, Aἰγυπτιακων) nella quale elenca in successione le dinastie dei cosiddetti dèi, cui seguono quelle dei semi-dèi87. Un altro elenco di dinastie dalla durata da alcuni ritenuta aprioristicamente inaccettabile, e dunque definita mitica, è contenuto nella Lista reale sumerica nella quale i regni sono misurati in sar, periodo che vale 3600 anni, e che potrebbe essere l’ovvia fonte della lista di Berosso in cui l’unità di misura è costituita dai saroi, anch’essi di 3600 anni. Nella Lista reale redatta in cuneiforme si dice che, dopo che la regalità calò dal cielo, il regno ebbe dimora in Eridu. Nel cosiddetto Periodo protodinastico I, in Eridu, Alulim divenne re e regnò per 28.800 anni; seguirono poi Alalgar, 36.000 anni; En-Men-Lu-Ana, 43.200 anni; En-Men-Gal-Ana, 28.800 anni; Dumuzi, 36.000 anni; En-Sipad-Zid-Ana, 28.800 anni; En-Men-Dur-Ana, 21.000 anni; Ubara-Tutu, 18.600 anni; a chiudere questa prima lista abbiamo Zin-Suddu. Alla lista segue l’annotazione in cui si afferma che il diluvio distrusse tutto88. Dopo l’evento catastrofico si ebbe una successione di regni la cui lunghezza si andò via via accorciando fino ad arrivare alle durate che la cultura ufficiale definisce storiche e accettabili, misurate in pochi anni o in alcuni decenni. Questo racconto ha un parallelo nella Bibbia (libro della Genesi) là dove ci viene detto che gli adamiti (Adamo e i suoi diretti discendenti) vivevano fino a 800-900 anni. Sottolineiamo che gli 8-900 anni di vita costituivano un privilegio riservato appunto agli adamiti, quel gruppo speciale di individui che gli Elohim si erano fabbricati per utilizzarli nei loro gan-eden, i laboratori in cui sperimentavano e producevano cibo sia di fonte animale che vegetale: il cosiddetto paradiso terrestre della Bibbia è solo uno dei tanti, altri sono descritti da altri autori come Omero89. Nel capitolo 6 della Genesi, secondo il prof. Kamal Suleiman Salibi, già docente presso l’Università di Beirut, si narra di come gli Elohim abbiano deciso di interrompere l’apporto del loro patrimonio genetico verso gli adamiti e di come, per conseguenza, la vita di questi ultimi si sarebbe accorciata per arrivare ai 120 anni90: la diminuzione in effetti è riscontrabile con precisa progressione nella successione del racconto biblico in cui si legge di durate via via decrescenti dai 900 anni di Matusalemme fino ai 175 anni di Abramo e ai 120 di Mosè. Per la fabbricazione – non creazione dunque – degli adamiti da parte degli Elohim si veda il già citato testo I geni manipolati di Adamo91. Sappiamo bene che Berosso, Manetone e la stessa Lista reale sumerica non hanno le caratteristiche tipiche delle fonti che possono essere considerate “certe”, precisiamo però che questa è un’osservazione che vale anche per l’intero testo biblico sui cui autori non abbiamo alcuna certezza: la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) è infatti un insieme di libri privi di fonti accertate, pertanto il metodo del “fare finta che”, da noi dichiarato e applicato, risulta essere l’unico accettabile, applicabile e intellettualmente onesto; se i sostenitori della necessità di avere fonti certe criticano l’utilizzo dei testi antichi devono necessariamente adottare lo stesso criterio nei confronti del cosiddetto libro sacro. • Ma, pur in assenza di certezze, è comunque possibile o per contro, è totalmente dissennato, ritenere vere quelle indicazioni su vite così lunghe? • Siamo così lontani dalla realtà? • Possiamo avere riscontri in ciò che noi conosciamo? • Conosciamo situazioni che siano in grado di aiutarci a capire? Vediamo un esempio tratto dalla realtà quotidiana. Sulla Terra abbiamo farfalle che vivono 24 ore e testuggini che vivono fino a 200 anni, il che significa che la durata di vita di queste ultime è pari a 73.000 volte quella delle prime. Eppure testuggini e farfalle vivono sullo stesso pianeta, respirano la stessa aria, i loro corpi contengono la stessa acqua e sono fatti delle stesse molecole. Se poi paragoniamo la durata di vita delle testuggini con quella di batteri che vivono soli 30 secondi e poi si duplicano dando vita alla generazione successiva, i numeri proporzionali che si ottengono dal confronto sono davvero esorbitanti e richiedono molti zeri per essere scritti. Quindi abbiamo sotto gli occhi la conferma che, pur in presenza di dotazioni biologiche e situazioni ambientali uguali, sono possibili periodi di vita incredibilmente diversi per durata. Non a caso abbiamo utilizzato il concetto della “incredibilità”, questo infatti è quello che viene utilizzato per negare in modo aprioristico ogni possibilità di verità ai testi antichi. Mantenendo la mente aperta a ogni ipotesi (unico atteggiamento scientificamente accettabile), procediamo nel nostro raffronto e proviamo a supporre che siano vere le liste che riportano per ciascuno di quei regnanti antidiluviani un periodo vitale capace di raggiungere i 30-40.000 anni: abbiamo in questo caso degli individui la cui durata di vita era pari a “solo” 400-500 volte quella degli umani (ipotizzando per questi ultimi una durata media di 70-75 anni). Siamo quindi lontanissimi da quel numero esorbitante di 73.000 che abbiamo usato come esempio e che è sotto i nostri occhi. Visto che è reale quest’ultimo, perché dobbiamo negare in modo pregiudiziale la possibilità che sia vero anche l’altro? Tutto questo è quindi teoricamente possibile, soprattutto se consideriamo che quegli individui erano definiti, in tutti i continenti del pianeta, “figli delle stelle” e dunque appartenenti a – e provenienti da – mondi diversi, dove quella durata della vita, conteggiata con il sistema dei nostri anni terrestri, potrebbe essere stata (ed essere ancora) l’assoluta normalità. Non abbiamo naturalmente certezze ma l’ipotesi si presenta quanto meno percorribile e, visto che è potenzialmente in grado di fornire risposte a domande per le quali la cultura tradizionale non è in grado di dare spiegazioni, vale la pena di non accantonarla con aprioristica e antiscientifica chiusura, ma di sottoporla alle necessarie verifiche. Questi individui dunque hanno proceduto e si sono fabbricati un “lavoratore”; uno schiavo in carne e ossa cui dover garantire solo il quotidiano sostentamento rappresenta un investimento di gran lunga meno costoso e impegnativo di qualsiasi altra apparecchiatura: la ricchezza degli imperi antichi si è costruita proprio sullo sfruttamento della schiavitù, una forma di prevaricazione che ancora oggi non risulta essere totalmente scomparsa. Uno schiavo viene nutrito con l’essenziale apporto calorico, non richiede “manutenzione”, non comporta ulteriori costi di mantenimento, non può farsi portatore di diritti ed esigenze particolari e quando si ammala può essere abbandonato e sostituito, soprattutto in considerazione del fatto che si riproduce in autonomia fornendo così sempre nuova forza lavoro. Una volta fabbricato, questo nuovo essere deve venire addestrato secondo precise modalità funzionali utili al suo padrone. Inizia così quel processo di ammaestramento che si protrae da millenni senza conoscere soste e che si tramanda, con le necessarie differenziazioni tra le varie culture, con la trasmissione di credenze, valori, usi, costumi, convinzioni… al fine di mantenere la continuità nella gestione dei docili sottomessi. Un percorso che è iniziato con l’insegnamento di primi semplici rudimenti di cultura e l’assegnazione di compiti elementari, fino a divenire via via sempre più complesso e articolato per metodi e contenuti. Dal passato al presente A un’attenta analisi della realtà attuale non possiamo non osservare come l’ammaestramento prosegua anche ora, utilizzando il sistema dei “recinti” che sono di natura fisica, socio-politica, religiosa e culturale nel più onnicomprensivo significato del termine. Supponiamo, con una necessaria semplificazione, di essere un feto dolcemente portato in grembo da una madre che viaggia nell’isola di Cipro che, come sappiamo, è divisa da un confine che separa due culture: quella greca e quella turca. Se nel corso di questi spostamenti il feto nasce e poi vive all’interno del territorio/recinto greco-cipriota, riceverà un’identificazione precisa: da quel momento quell’individuo verrà “ammaestrato” a essere e sentirsi greco; gli verrà dato un nome greco; gli verrà detto che il greco è la sua lingua e che il suo Paese ha una storia fatta di vicende da conoscere e di usi, costumi e tradizioni da apprezzare e rispettare; avrà una religione che dovrà considerare l’unica giusta, l’unica vera e gli verrà insegnato a curare gli interessi della sua nazione. Sarà quindi chiuso e ben ammaestrato nel recinto/gregge che definiamo greco. Se invece lo stesso feto, con lo stesso DNA, quindi dotato sempre delle stesse caratteristiche genetiche, nascerà e sarà casualmente portato a vivere oltre il confine, riceverà un altro ammaestramento e diverrà una persona diversa: si farà in modo che diventi e si senta turco, avrà un nome turco, imparerà un’altra lingua, conoscerà e apprezzerà un’altra storia, seguirà, amerà e rispetterà altri usi e costumi e infine riterrà unica e vera un’altra forma di pensiero religioso totalmente diversa dalla precedente e curerà gli intessi di un’altra nazione. Sarà quindi chiuso e ammaestrato in un altro recinto/gregge: quello turco. Divenuto adulto magari sarà anche chiamato a combattere contro coloro che abitano al di là di quel confine che ha diviso la sua stessa vita e li dovrà uccidere: lo farà con convinzione, con quella certezza di “essere intimamente e strutturalmente” greco piuttosto che turco (italiano, francese, tedesco, cinese…) anche se il suo DNA non è né l’uno né l’altro, come dimostrano bene gli studi che evidenziano la sussistenza di percentuali di DNA provenienti dai territori più diversi all’interno di individui che illusoriamente pensano di potersi identificare con certezza e indubbia specificità in questa o quella esclusiva appartenenza etnica o nazionale92. Nell’agone sportivo che sostituisce simbolicamente le battaglie cruente, il nostro individuo ammaestrato esprimerà il suo entusiasmo per gli atleti che rappresentano la sua nazione nelle varie competizioni, si esalterà nel vedere i colori della maglia che identificano la sua nazione/recinto e si commuoverà quando ascolterà il suo inno nazionale suonare mentre sul pennone si alza la sua bandiera: un pezzo di stoffa che identifica graficamente e cromaticamente un’appartenenza territoriale che è un chiaro frutto della casualità e la cui identificazione è pura conseguenza di quel processo di ammaestramento cui l’individuo è stato sottoposto sin dal momento della sua nascita. Altra stoffa e altri colori non produrranno lo stesso effetto in quanto il condizionamento è stato ben approntato e direzionato. Dal punto di vista religioso si sentirà dire di avere avuto la fortuna di essere nato nel luogo in cui si pratica la religione unica e vera, mentre gli altri popoli (recinti/greggi) devono essere compassionevolmente considerati dei poveri pagani necessitanti di redenzione o, nella migliore delle ipotesi, rispettati e forse anche compatiti per la loro vita tristemente condotta nell’errore e destinata a chiudersi in un aldilà quanto meno incerto. In un caso si sentirà in pace con se stesso se e quando avrà consumato la carne del suo Dio barbaramente trucidato in croce; carne miracolosamente formatasi dalla trasmutazione/transustanziazione o transignificazione (ultima elaborazione di una parte del pensiero teologico) di un pezzo di pane operata da un sacerdote nel corso di un rito inventato dai cosiddetti pastori e in un altro caso troverà invece certezza di conseguire il tanto desiderato paradiso nell’inchinarsi verso la Mecca un numero precisato di volte ogni singolo giorno e rispettando ancora altre norme. Tutto questo dipenderà dall’ammaestramento ricevuto nel gregge di appartenenza: lui è certo di essere greco, turco, italiano, indiano, cileno… cattolico, protestante, ortodosso, musulmano, scintoista o induista, perché così gli è stato insegnato con un processo di condizionamento costante, profondo, pervasivo, subdolo, fatto di parole, esempi, comportamenti, immagini, simboli, suoni opportunamente studiati e prodotti, che operano sia direttamente che indirettamente in un modo talmente efficace da rendere di fatto inevitabile il risultato cui non si sfugge, a meno di avviare un processo di revisione analitico, altrettanto costante, profondo, consapevole, difficile perché fortemente contrastato dai pastori e dai loro volonterosi collaboratori, ma non impossibile: il cammino verso il maggior grado possibile di libertà, almeno nei confronti dei condizionamenti più evidenti e pesanti. Un cammino che trova ostacoli innanzitutto all’interno stesso della mente di chi si accinge a compierlo: la resistenza nasce in noi perché sappiamo quanto sia difficile rimettere in discussione le presunte certezze che anni di ammaestramento hanno radicato nel nostro intimo. Questo efficacissimo ammaestramento è alla base di ogni cultura esistente sul pianeta Terra: ogni adulto ammaestrato ammaestrerà a sua volta i suoi cuccioli in una successione continua, in una catena i cui anelli sono fabbricati appositamente per dividere e controllare. Dalla finzione alla realtà della tradizione biblica Abbiamo formulato un esempio molto realistico collocato in ambito extra-biblico. La domanda lecita è la seguente: la finzione usata come espediente per spiegare il concetto trova riscontro nella concreta realtà? La risposta che ci sentiamo di dare è positiva perché è documentata non solo nella quotidianità del mondo che osserviamo, ma in modo specifico proprio all’interno dei sistemi di pensiero sorti in ambito biblico. Se rimaniamo all’interno della realtà sociale e culturale sviluppatasi a seguito dell’opera posta in essere nei secoli dal colonizzatore/governatore Yahweh (il presunto Dio della tradizione teologica giudaico-cristiana), troviamo dichiarazioni esplicite e inequivocabili circa il condizionamento che agisce nell’ambito sociale (gruppo etnico) che ha rappresentato la sua diretta ed esclusiva sfera di interesse: la famiglia di Israele e i suoi discendenti. Affermazioni esplicite che – pur scritte con intenti diversi – suffragano la nostra ipotesi si trovano, come esempio tra i tanti, in un testo scritto da una studiosa ebrea che si occupa di kabbalah: DNA ebraico, Connessione tra scienza e kabbalah (Shazarahel, Ed. Psiche2, 2011 Torino). L’autrice in questo lavoro esamina il concetto della “ebraicità” che sappiamo essere a un tempo inclusivo ed esclusivo e – a proposito di inclusione ed esclusione – noi non possiamo non concordare su un fatto che pare inequivocabile: Israele è il solo e unico popolo coinvolto nel patto proposto e voluto da Yahweh, il presunto Dio; l’unicità ed esclusività della sua chiamata e delle azioni con quella coerenti sono palesi. L’autrice è molto attenta nel formulare e specificare gli elementi che caratterizzano questa unicità ebraica (riportiamo testualmente): «Pur ammettendo una componente genetica nell’essere ebrei, non possiamo in alcun modo parlare di razza, innanzitutto perché può diventare ebreo chiunque scelga liberamente di convertirsi all’ebraismo secondo le regole della Legge ebraica; e poi perché, ad esempio, chi nasce da madre ebrea e padre non-ebreo è ebreo, mentre chi nasce da madre non-ebrea e da padre ebreo non è ebreo pur possedendo, di fatto, come nel primo caso, ben il 50% del suo patrimonio genetico “ebraico”». Quindi, per l’autrice la componente genetica, pur presente, non è tuttavia fondamentale, esattamente come abbiamo ipotizzato nell’esempio del feto che ha la ventura di nascere sull’isola di Cipro, al di qua o al di là di un confine: la genetica non ha rilevanza in relazione a ciò che lui diventerà a seguito del processo di educazione di cui sarà oggetto. Data questa premessa, la dr.ssa Shazarahel si chiede: «Se gli uomini sono allora geneticamente tutti uguali e allo stesso tempo tutti diversi, cos’è che fa la differenza, affinché si possa parlare di un “DNA ebraico”?». La risposta viene formulata nel momento in cui passa all’esame della preghiera più importante per quel popolo, il cosiddetto “Shemà Israèl” cioè “Ascolta Israele” (Dt 6, 4 e segg.). Introducendo e utilizzando un concetto scientifico che concerne la stessa nostra struttura cerebrale, l’autrice scrive: «Le parole che hanno certamente influito maggiormente a creare l’ambiente sonoro che accompagna la vita dell’ebreo sin dal grembo materno, sono le parole dello Shemà Israèl: il suono di queste parole quotidianamente ripetute da generazioni, giunte all’ebreo già attraverso le pareti uterine e la voce della madre, dall’ambiente familiare e sociale che lo circonda, parole che lui stesso ripeterà tutti i giorni della sua vita fino al momento in cui renderà l’ultimo respiro, ritracciano nella sua mente le stesse reti neurali ereditate dagli antenati, creando quei filtri di lettura del mondo tipicamente ebraici». Sono qui espressi con lampante chiarezza alcuni concetti fondamentali su cui ciascuno potrà riflettere: • la preparazione (condizionamento) inizia già dal periodo della gestazione; • la ripetizione agisce sul feto, che è quindi un obiettivo passivo, ed è finalizzata a costruire in lui le “reti neurali” in conformità con quelle «ereditate dagli antenati»; • successivamente la persona diviene soggetto attivo e – attraverso la ripetizione di parole e gesti – continua ad agire sulle «reti neurali» che risultano così essere «ritracciate» predisponendo l’individuo – in un modo che a noi parrebbe essere quasi meccanicamente automatizzato – a continuare a vivere il suo essere ebreo in un mondo che sarà di conseguenza visto attraverso specifici «filtri di lettura», come afferma il testo che abbiamo citato letteralmente. Questo meccanismo opera con estrema efficacia anche in considerazione di un altro elemento di certo non secondario. L’autrice infatti sottolinea proprio un aspetto che è di primaria importanza in ogni processo di condizionamento, quello della ripetitività a proposito del quale precisa: «In questa preghiera Dio ci ordina imperativamente di amarlo e di ripetere queste parole ininterrottamente, quasi in modo “ossessivo”». Un elemento davvero importante visto che lo richiama una seconda volta là dove ribadisce: «Sembra che Dio ci chieda di occuparcene in modo quasi ossessivo». Cita anche il passo specifico del Deuteronomio (6, 4 e segg.) in cui viene impartito l’ordine: «Le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai trovandoti in casa e camminando per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Le legherai come segno sul tuo braccio e saranno come frontali fra i tuoi occhi; le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte delle tue città». Va precisato che il verbo «ripeterai» non rende in italiano l’intensità del significato vero del corrispondente ebraico (shanan) che è qui espresso nella forma verbale “piel”, cioè intensiva attiva, per indicare l’azione vera e propria dell’inculcare, del ripetere in modo da imprimere nella mente. La ripetizione “ossessiva” è una caratteristica non da poco perché rappresenta uno degli strumenti più efficaci impiegati nelle attività, negli ambienti, nelle strutture sociali, politiche o religiose, in cui il condizionamento tende a conseguire l’obiettivo primario di forgiare le menti («ritracciare reti neurali», per usare l’efficace espressione della studiosa ebrea) facendo nascere e radicare in esse convinzioni, certezze per quanto possibile incrollabili e una conseguente disponibilità all’ubbidienza e alla sottomissione più o meno consapevole (caratteristiche che, nei capitoli precedenti, abbiamo visto essere tipiche di ogni processo di “domesticazione”). Non si fa così ad esempio nelle accademie militari o nei centri di addestramento reclute degli eserciti? La cosa non ci stupisce visto che Yahweh era un , “ish milchamah” (Es 15, 3) cioè un “uomo di guerra” che doveva costruirsi un esercito: i metodi paiono essere dunque sempre quelli, anche a distanza di millenni. Le considerazioni che l’autrice formula sono altrettanto interessanti: innanzitutto si chiede perché le parole dello Shemà sono così importanti e poi si domanda se siano semplicemente tradizioni obsolete quelle pratiche che il testo impone di osservare, come appunto quella di trascrivere le parole sul braccio, fra gli occhi e sulle porte. Si fa qui riferimento in particolare ai tefillin (detti anche filatteri: contenitori in pelle di un animale “puro” con strisce di cuoio che gli uomini, a partire dai tredici anni, dovrebbero portare ogni giorno, eccetto il Sabato e altre feste, durante la preghiera mattutina; contengono lo Shemà Israèl e altri passi della Torah) e alle mezuzot (piccole pergamene che riportano lo Shemà Israèl, generalmente inserite in un contenitore che viene fissato allo stipite della porta). Le parole dello Shemà devono quindi essere fisicamente presenti sul corpo e all’ingresso delle abitazioni: non possono e non devono essere dimenticate mai. L’autrice prosegue lamentando con un certo rammarico che «con l’avvento dell’era scientifica molti ebrei hanno abbandonato queste pratiche considerate ormai obsolete». Evidentemente alcuni (quanti? molti?), col progredire della conoscenza, si liberano da quel condizionamento che inizia già dalla gestazione e agiscono liberamente facendo scelte autonome: questo è un elemento fortemente presente nell’ampia sfera del mondo culturale ebraico al cui interno va detto che si riscontrano tutte le posizioni, dalla ultraortodossia all’ateismo. Sappiamo bene quanto sia storicamente variegato e culturalmente ricco quel mondo che nei secoli, col suo particolare metodo dialettico di approccio ai testi, ha saputo esprimere e raccogliere le opinioni più diverse su tutti i passi dell’Antico Testamento, ma ciò che ci interessa qui rilevare è il “metodo” che Yahweh ha ordinato di seguire: ripetizione ossessiva delle sue parole con le quali è addirittura necessario avere contatto fisico quotidiano, sia tattile che visivo. È stato affermato nei capitoli precedenti che la specie Homo sapiens porta in sé i principali “contrassegni” della domesticazione, uno dei quali è identificabile nella tendenza all’assoggettamento. • Ne era forse a conoscenza Yahweh? • Ha utilizzato le tecniche specifiche capaci di agire efficacemente proprio su questa caratteristica indotta nel processo di addomesticamento della famiglia (Giacobbe/Israele) che gli era stata assegnata? • La Bibbia contiene forse traccia di alcuni dei tanti momenti in cui questa tecnica è stata posta in essere con indicazioni per la sua continua e reiterata (“ossessiva”, come afferma l’autrice) applicazione nel tempo, al fine di non vederne scemare l’efficacia? • Non è strano che un Dio che dovrebbe saper parlare individualmente al cuore degli uomini abbia (o abbia avuto) la necessità di utilizzare questi metodi che sono delle vere e proprie tecniche di condizionamento? Ma sappiamo bene che non era e non è Dio: questo suo atteggiamento non è che un’ennesima conferma. Ci pare di poter dire che, dall’esempio di Cipro al mondo biblico, la realtà di fondo su cui dobbiamo riflettere seriamente è la seguente: ogni individuo viene portato a essere (o a credere di essere) ciò che è, per mezzo di un preciso, pervicace e ossessivo processo di condizionamento che, in ambito biblico, pare addirittura entrare in attività già dal periodo della permanenza del feto nel grembo materno. In sostanza, ogni cultura, nazione, gruppo sociale, partito politico, ideologia, struttura religiosa… cerca di fare in modo che l’inserimento e la permanenza in questo o quel “gregge” non sia oggetto di una scelta libera, ponderata e matura, ma il frutto di un’attività continua ed efficace, operante sulle “reti neurali” dei singoli in vario modo e con ogni mezzo: parole, immagini, gesti, azioni corali, riti, celebrazioni, suoni, promesse di territori o di paradisi e minacce di punizioni… non esclusa la violenza fisica che nei secoli si è spesso scatenata nei confronti di chi osava tentare di uscire dal gregge o anche solo di provare a riflettere seriamente sulle presunte verità. Violenza che, nei tempi moderni e per effetto di leggi più umane e meno divine, ha assunto altre forme, come quelle della gogna mediatica, della denigrazione, della diffamazione fino anche all’esclusione dal gruppo famigliare. Il prenderne atto rappresenta il primo passo di un lungo, difficile ma affascinante cammino che può aiutare a conseguire, almeno in alcuni ambiti, un maggiore grado di libertà e autonomia di pensiero, grazie ai quali si giunge a formulare ipotesi diverse, a proposito delle quali sottolineiamo – altro esempio della varietà di pensiero presente nel mondo ebraico – che la preghiera in questione (Shemà Israel) è stata oggetto di interessanti riflessioni anche da parte degli studiosi ebrei curatori del volume ESODO, Sepher Shemòt (Rav Shlomo Bekhor, Avigail H. Dadon, Ed Mamash, 2010 Milano) in cui, contrariamente a quanto affermato in “DNA ebraico” sulla assoluta unicità di Dio, rilevano: «[…] è necessario dapprima capire una ben nota difficoltà (Cf Torà Or, Vaerà 55b) riguardo allo Shemà, in cui si afferma che Dio è uno ma non che è unico [il corsivo è nel testo, N.d.A.]: il termine uno è infatti un aggettivo che si attribuisce a qualcosa che si può contare; è compatibile con un secondo. Unico invece esclude la possibilità di altri elementi». Questa precisazione è assolutamente coerente con tutto il contesto biblico che ci narra di molti Elohim e non già dell’Elohim di nome Yahweh come “unico”: egli era e doveva essere esclusivamente “unico” punto di riferimento per Israele, ma non “unico” in senso assoluto. È anche attraverso l’attenta riflessione originata da osservazioni come questa che passa il cammino verso quel maggiore grado di libertà che auspichiamo. La catena di cui abbiamo detto prima della digressione sullo Shemà ha inizio nel lontano passato, nella definizione che tiene ben separati pastori e greggi, ciascuno con funzioni ben definite e non sovrapponibili, pena il disfacimento dell’intero sistema (ricordiamo tutti il racconto emblematico della separazione delle lingue a seguito della vicenda della biblica torre di Babele). Il pastore deve avere come obiettivo l’incremento del numero di pecorelle che costituiscono il suo gregge e opera quindi in tal senso giustificando questa sua attività con la necessità, addirittura il dovere, di portare la luce a chi vive nelle tenebre: nel cristianesimo questo intento e l’operatività che ne consegue sono stati definiti “evangelizzazione”. Un’azione condotta nei secoli con ogni mezzo possibile, data l’importanza dichiarata del fine che pareva giustificare tutto: dalla feroce violenza all’utilizzo dei più sottili strumenti di condizionamento psicologico che fanno leva su ogni aspetto della psiche ritenuto aggredibile e controllabile. Il padre cattolico e missionario vincenziano Evariste Regis Huc (1813-1860), che ha operato in Estremo Oriente, descriveva così l’efficacia del metodo da lui impiegato per convincere i tibetani ad abbandonare le loro credenze definite “pagane” e abbracciare l’unica verità possibile e universale, quella della dottrina cristiana: «Abbiamo adottato una modalità d’insegnamento del tutto storica, avendo cura di bandire tutto ciò che poteva avere un sapore di disputa e di spirito di contesa; facevano loro molta più impressione i nomi propri, e le date ben precise, dei più logici ragionamenti. Quando conoscevano i nomi di Gesù, di Gerusalemme, di Ponzio Pilato e le date di quattromila anni dalla creazione del mondo, non dubitavano più del mistero della Redenzione e della predicazione del Vangelo; del resto, non abbiamo mai osservato che i misteri o i miracoli creassero loro la pur minima difficoltà. Siamo persuasi che attraverso l’informazione, e non attraverso il metodo della polemica, si possa efficacemente lavorare alla conversione degli infedeli»93. Dunque, comprese le attitudini e le caratteristiche psicologiche degli “infedeli”, il pastore si mette all’opera per convertirli e accoglierli amorevolmente nel gregge delle pecorelle che camminano sulla via della redenzione: li fa passare da un recinto a un altro. La figura del pastore e dei suoi collaboratori (siano essi in buona fede o consapevoli dell’inganno che stanno contribuendo a diffondere magari anche a fin di bene, come asserivano i padri della Chiesa) non va sottovalutata, non si tratta semplicemente di un simbolo rassicurante, gradevolmente bucolico e rasserenante. L’immagine del pastore è stata introdotta da quegli stessi individui che hanno ideato e definito il sistema dei recinti in cui chiudere e controllare le pecorelle. A ben vedere il pastore le conduce al pascolo, fa percorrere le vie da lui prescelte, stabilisce quale e quanta erba debbano mangiare, ne cura la salute, le difende dai predatori… Ma perché? La risposta può apparire cruda ma è quanto mai realistica. Perché a mungerle, tosarle e ucciderle per mangiarle (o venderle a chi lo faccia in un secondo momento) deve essere lui: lui e solo lui deve trarre profitto dal suo gregge. Che a ucciderle e mangiarle sia il lupo o il pastore, per le pecore in fondo poco cambia: devono stare nei recinti a disposizione della volontà dei pastori. Tornando agli Elohim… Impostare questo schema per gli Elohim (continuiamo a usare per comodità il termine con cui li identifica la Bibbia) non è difficile: la loro superiorità sulle “mandrie umane” è palese in ogni ambito; è quasi inevitabile che gli schiavi li considerino onniscienti e onnipotenti e che dunque accettino, o comunque subiscano in modo inconsapevole, l’addomesticamento biologico e il conseguente ammaestramento culturale come elementi assolutamente naturali. Gli Elohim sono potenti e terribili: è utile ripetere che tutto questo li pone in una posizione di indubbia e inarrivabile superiorità, quella tipica superiorità che la conoscenza garantisce sull’ignoranza. Supponiamo che quei colonizzatori siano dei materialisti impenitenti, non credano in nulla che non sia scientificamente esperibile e abbiano come scopo fondamentale, anzi unico, di passare il resto della loro vita nel modo più agiato possibile. Per vivere al meglio gli anni che la biologia concede loro, avvertono la necessità di accumulare beni e dotazioni materiali: dovranno poterne disporre a loro piacimento, sia dal punto di vista quantitativo che temporale. Per questo motivo il loro scopo sarà quello di possedere molto, sempre di più, e sapere di poterne disporre per sempre: le-’olam, diremmo biblicamente, cioè per un “lungo tempo”, almeno per tutta la durata della loro vita che, casualmente, è di gran lunga superiore a quella degli autoctoni che hanno trovato sul pianeta e/o territorio nel quale sono giunti. Grazie a questa particolarità della durata di vita apparentemente illimitata (anche se in realtà non lo è), gli Elohim lasciano inoltre che gli abitanti del luogo li considerino eterni (concedendo per un attimo che quel concetto esistesse, pur sapendo che è vero il contrario: non esisteva in ambito biblico); gli autoctoni se ne convincono da soli, perché le loro generazioni si susseguono mentre gli Elohim permangono e magari non capita mai di vederne morire qualcuno. Sottolineiamo che il termine ebraico ‘olam che viene sempre tradotto con “eternità” non ha assolutamente quel significato, ma indica semplicemente un qualcosa (tempo e, molto più spesso, spazio) che non è conosciuto, come rilevato addirittura dal Dizionario di ebraico e aramaico biblici94. Le disponibilità e i beni materiali del pianeta/territorio sono necessariamente limitati, pertanto, per conseguire l’obiettivo esclusivamente concreto e materiale, i governanti devono procedere in due direzioni: nell’immediatezza hanno la necessità di trovare dei collaboratori, perché non possono fare tutto da soli e, in prospettiva futura, devono pensare di ridurre al minimo il numero dei possibili rivali nell’accaparramento di quelle che vengono genericamente definite ricchezze, ossia l’insieme di quei beni materiali che contemplano anche le fonti di energia di cui hanno necessità per produrre ciò che serve e anche per incrementare il potere con i benefici che ne derivano. Per il primo obiettivo (collaboratori) stabiliscono dei rapporti privilegiati solo con un numero ridottissimo di individui accuratamente selezionati. Ricordiamo gli interventi di progressiva selezione effettuati sulle volpi e sui ratti al fine di far emergere quegli elementi caratteristici ritenuti utili dal selezionatore in funzione degli obiettivi che si è prefissato. Questo pare essere avvenuto con il gruppo degli adamiti biblici che non risultano essere i progenitori dell’umanità ma i capostipiti di una razza speciale che gli Elohim si sono fabbricata per introdurla e utilizzarla nei loro gan-eden (il cosiddetto paradiso terrestre): veri e propri laboratori in cui si producevano e sperimentavano nuove specie viventi sia vegetali che animali, finalizzate alla produzione di nutrimento per i lavoratori che si stavano moltiplicando nelle aree in cui erano stati introdotti (in questo atto vediamo la possibile risposta al problema della diffusione difficilmente spiegabile altrimenti, come si è evidenziato nei capitoli precedenti). Agli individui selezionati come collaboratori privilegiati viene trasmessa parte delle conoscenze con una progressività dettata dalla necessità di stabilire un rapporto sempre più stretto. La Bibbia stessa ci fornisce indicazioni precise circa alcuni degli insegnamenti basilari che sono stati loro forniti. Già dalle origini, per ben due volte, vengono addirittura impartite, in forma di ordine, indicazioni alimentari fondamentali (Gen 1, 29 e Gen 9, 3) che vengono via via ulteriormente precisate in una serie di norme peculiari scritte e riscritte, completate con elenchi dettagliati di ciò che è lecito o meno consumare (“adatto al consumo” è il concetto esatto) e presentate infine come sacre e dunque inviolabili: l’ammaestramento assume la forma di prescrizione religiosa, indubbiamente la più efficace. Questi individui, cioè i collaboratori più fidati e dunque più vicini al potere, vengono via via dotati anche di una certa inevitabile autonomia decisionale. Con pochi – pochissimi – il rapporto sarà anche aperto, chiaro ed esplicito: conosceranno cioè la “verità” e condivideranno gli obiettivi, godendone i privilegi sia pure in misura ridotta rispetto a quella dei governanti. Questi sono i cosiddetti “iniziati”: individui introdotti alla conoscenza, almeno a quel livello che garantisce complicità coi governanti e conseguente superiorità nei confronti dei sudditi che vengono volutamente tenuti all’oscuro della reale situazione in cui si trovano a vivere. A questi ultimi infatti viene trasmesso un insieme di nozioni che devono essere credute vere e che sono indispensabili per proseguire nella gestione dell’ammaestramento che garantisce il controllo: dal lontano passato a ora nulla è cambiato in questo senso. L’ammaestramento assume dunque una struttura gerarchica che prevede vari livelli di conoscenza della realtà. Per il secondo obiettivo (prevenire e ridurre eventuali rivali che inevitabilmente nascono col passare del tempo), gli Elohim e i loro strettissimi collaboratori iniziano ad agire con la forza, per passare successivamente all’utilizzo di sistemi più sottili ed efficaci: operano influenzando gli aspetti culturali di quel gruppo sociale e quindi le menti dei sottoposti. Quelli che possiamo definire “complici” (conosciuti come i re-sacerdoti, poi sostituiti dalle caste sacerdotali e infine dalle Chiese intese come strutture gerarchiche complesse e organizzate in formazioni piramidali strettamente legate al potere laico di volta in volta dominante), sono consapevoli e ben ripagati con il potere e la ricchezza che vengono loro concessi in misura variabile e commisurata all’impegno e ai risultati: i pastori e le pecore rimangono dunque tra di loro ben distinti in questo sistema articolato e ben strutturato. Una volta avviato il processo, saranno poi loro stessi a elaborare ulteriormente i contenuti costruendo un impianto teorico articolato che si svilupperà soprattutto quando gli Elohim non ci saranno più (perché andati via o per loro esplicita decisione di non comparire più direttamente): verrà da loro utilizzato per perpetuare a loro beneficio il sistema di potere basato su strutture organizzate in rigide gerarchie all’interno delle quali si progredisce sulla base di decisioni che vengono prese dai vertici (le Chiese). In questo modo si creerà e instillerà nel tempo una serie di convinzioni che dovranno passare di generazione in generazione. I collaboratori e i loro successori, anche in assenza degli originari governanti (Elohim), elaboreranno e diffonderanno un “credo”: una serie di verità che troveranno avallo non discutibile nel loro avere origine da un’entità superiore, con la quale gli stessi Elohim hanno magari fatto credere di essere in contatto e dalla quale deriverebbero in via esclusiva i poteri. Questo corpus dottrinale conterrà indicazioni e conoscenze finalizzate a indirizzare le menti e le coscienze dei sudditi/fedeli verso obiettivi che non contrastino con quelli condivisi dai pochi prescelti. I sudditi/fedeli dovranno pensare che la vita abbia finalità e significati diversi e, soprattutto, superiori rispetto alla sopravvivenza e al benessere materiale. Per questo si insegnerà che il possesso dei beni terreni non deve essere considerato un fine ma solo uno strumento; si affermerà che quei beni legano e condizionano l’uomo impedendogli il conseguimento del suo vero fine: l’acquisizione di una non meglio identificata realizzazione “spirituale”, “trascendente”, “non-materiale”. Obiettivo che verrà lasciato vago, innanzitutto per l’ovvia impossibilità di definirlo con precisione (nessuno sa nulla), ma anche per il fascino e l’attrazione che il mistero esercita sulla mente degli autoctoni che sono tenuti fuori dalla conoscenza. A questo punto apriamo una breve parentesi per rilevare una concordanza non da poco. L’apertura di capitolo abbiamo citato le parole del dr. Corrias che identifica il fulcro dell’epoca assiale, quella in cui si sono verificati gli eventi che hanno determinato una svolta davvero epocale nella storia delle civiltà umane, nel VI secolo a.C. Leggiamo ora quanto scrive, su un fronte ben diverso e diremmo insospettabile, il prof. Maximiliano Garcia Cordero (già professore docente di Esegesi dell’Antico Testamento e di Teologia biblica all’Università di Salamanca) nella Enciclopedia della Bibbia (Vol. 5, ELLE DI CI, Torino Leumann 1971): «Nell’Antico Testamento a malapena traspaiono le preoccupazioni nettamente spiritualiste. La giustizia retributiva divina deve esercitarsi in questa vita, poiché […] mancano lumi sulla retribuzione nell’oltretomba. […] L’interiorizzazione o spiritualizzazione delle promesse divine si fa più profonda a motivo della catastrofe nazionale del 586 a.C. La scomparsa della nazione fa sì che gli spiriti eletti si ripieghino su di sé, cercando una nuova interpretazione spirituale alle antiche promesse». Siamo dunque nel VI secolo a.C., il culmine di quell’epoca assiale nella quale le grandi civiltà del pianeta subiscono la trasformazione epocale (dall’induismo al buddismo, dal giudaismo all’antico pensiero cinese…) da cui nascono le religioni nella forma da noi conosciuta. Un caso? Solo un caso, oppure si è trattato di un progetto attuato su larga scala e che ha dispiegato in questi millenni tutta la sua straordinaria efficacia in relazione al controllo esercitato sui “recinti”? La domanda è lecita, chiudiamo la parentesi e proseguiamo dunque nella nostra ricostruzione che è forse solo apparentemente fittizia: se è valida questa ipotesi, l’ammaestramento attuato attraverso princìpi di ordine spirituale si è infatti dimostrato efficacissimo. Verranno promessi premi e si minacceranno punizioni; ci sarà violenza ma anche compassione e comprensione, in un’alternanza di comportamenti che sconcerteranno e intimoriranno, facendo acuire nei sudditi/fedeli il senso di totale dipendenza nei confronti dell’imprevedibilità delle decisioni prese in alto. L’ammaestramento prevede questa successione di momenti e atteggiamenti diversi: la paura e la distensione, l’angoscia e la gioia, il premio e la punizione… Si insegnerà che bisogna operare e lavorare su se stessi per acquisire la capacità di distaccarsi dalla schiavitù diabolica del possesso materiale, a favore di un risultato decisamente più elevato e meritevole: quello voluto dall’entità/legge superiore (ovviamente inventata) da cui tutto deriva e dipende. La sofferenza, il patimento, il dolore serenamente accettato e magari “santificato”, la rinuncia voluta e praticata, il distacco, lo spirito di sacrificio saranno le vie attraverso le quali si persegue e si consegue il vero obiettivo, cioè lo status di creatura realizzata spiritualmente: un obiettivo che non si raggiunge necessariamente in questa vita e che, per questo motivo, non è qui verificabile ed esperibile da parte dei più. Si inventerà un “luogo” o una “situazione” in cui il processo trova la sua conclusione e il giusto comportamento trova il suo premio: un paradiso, un nirvana, un non-mondo, un luogo da un punto di vista temporale non identificabile e variamente definito, dotato di ogni sorta di caratteristiche positive e allettanti. Il giusto, finale, eterno, infinito premio per le rinunce e le scelte “buone” praticate qui. Mentre la maggioranza del popolo si adatterà – chi più, chi meno e in vario grado – a tentare di seguire la via indicata, i pochi che condividono la conoscenza “vera” e che collaborano consapevolmente alla diffusione dell’illusione (elemento fondamentale del processo di ammaestramento) godranno, qui e ora, di tutti i vantaggi degli unici beni da essi ritenuti reali e concreti, quelli materiali, che verranno loro consegnati dai docili e convinti sudditi/fedeli. L’accaparramento potrà avvenire per donazione su base volontaria ma anche con l’ausilio di ulteriori inganni che, a catena, i potenti e i loro “sacerdoti” (li chiameranno così) elaboreranno nel tempo. La convinzione autonomamente generata impedirà di vedere le innumerevoli incongruenze presenti nel teorema abilmente costruito; le contraddizioni passeranno inosservate o, se troppo evidenti, si provvederà a inserirle nel concetto dell’insondabilità del mistero che avvolge il non-conoscibile. Saranno ovviamente eliminati, o zittiti in vario modo, tutti gli irriducibili ostinati che potrebbero costituire un serio problema per le “verità” inventate e trasformate in dogmi intoccabili. L’eliminazione fisica, la derisione, la denigrazione, la distruzione e demolizione non solo delle idee contrarie, ma anche delle persone che oseranno esprimerle, saranno messe in opera con gli strumenti che la civiltà metterà a disposizione con il passare del tempo: dai roghi alla gogna mediatica. Una delle conseguenze positive – e quanto mai utile – sarà costituita da un fatto quasi naturale: molti dei sudditi/fedeli, in modo assolutamente spontaneo, diverranno a loro volta inconsapevoli collaboratori perché si convinceranno della “verità” contenuta nel sistema dottrinale e se ne faranno autonomamente portatori e diffusori. Lavoreranno in sostanza per la causa, senza neppure chiedere compensi qui e ora, convinti essi stessi di operare in vista di quel fine ultraterreno che percepiscono come il vero e unico obiettivo della vita. Si presenteranno sulla scena anche individui che saranno certi di avere “visto” le realtà ultime: verranno venerati e considerati testimoni della verità. Come non rilevare che i “veggenti” vivono esperienze indissolubilmente legate al loro vissuto culturale, cioè all’ammaestramento nel quale sono cresciuti: i veggenti di estrazione cristiana vivono esperienze che confermano quanto loro credono essere vero, così come si verifica per i veggenti di estrazione orientale o di qualsivoglia altra appartenenza. I cristiani si immergono misticamente nella loro esperienza unica e personale di contatto con il Dio in cui credono, mentre i guru di cultura diversa sperimentano reincarnazioni o quant’altro. E ciascuno vive il tutto come indubitabilmente vero e altrettanto incomunicabile. I volenterosi collaboratori agiscono in assoluta e totale buona fede, per loro esclusiva scelta personale. Questi aspetti rappresentano esempi dei massimi risultati ottenuti grazie alla nostra evoluzione come specie addomesticata. Basti pensare che gli appartenenti a ciascuna delle tre religioni monoteiste che hanno nell’Antico Testamento la loro radice considerano gli appartenenti alle altre due come fratelli che, purtroppo per loro, vivono nell’errore: tanto potente è la forza psicologica delle recinzioni costruite a difesa delle singole strutture di potere. In conclusione, così potrebbero avere fatto gli Elohim e osservando la realtà che ci circonda nasce l’impressione che gli elaboratori delle religioni in genere – e di quella giudaico-cristiana in particolare – non abbiano “fatto finta”. Pressione psicologica e ossessione religiosa L’ossessività evidenziata dalla studiosa Shazarahel e la pressione psicologica esercitata in modo particolarmente pesante, soprattutto all’interno di alcuni gruppi di appartenenza, richiamano alla mente un fenomeno che la psichiatria descrive e tenta di curare: il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Coloro che ne sono affetti avvertono l’impulso irresistibile di controllare e ricontrollare l’efficacia di un atto svolto e provano un patologico senso di insicurezza nel momento in cui devono prendere o hanno preso decisioni (per un approfondimento si veda il sito da cui è tratta questa sintetica scheda)95. Lo psichiatra Gianfranco Poli afferma: «[…] il “disturbo ossessivo compulsivo” interessa diversi ambiti, tra cui quello religioso. […] Si tratterebbe quindi di uno stato abituale della mente che, a causa di una costante paura irragionevole del peccato, porta la persona a giudicare certi pensieri o azioni come peccaminosi o sbagliati anche quando in realtà non lo sono… (coloro che ne sono affetti) confondono i principi cristiani […] come rigidi dettami a cui attenersi senza nessuna libertà critica; per questi soggetti prevale l’eseguire i contenuti. […] Nel momento che non attuano ciò che per loro è determinante, il senso di colpa […] è tale che insieme all’ansia diventa una continua minaccia e paura di incorrere nella punizione divina per aver violato anche solo uno solo dei “precetti religiosi”». Lo psichiatra prosegue evidenziando che questa “scrupolosità religiosa” può esprimersi in vari modi: dai pensieri ripetitivi circa la possibilità di aver commesso un peccato alla paura eccessiva di avere offeso Dio fino al timore costante di andare all’inferno o anche solo di meritare una punizione per non avere tenuto fede a un particolare impegno. Nei lavori del già citato dr. Corrias per l’ambito romano, e nella Bibbia per l’ambito giudaico-cristiano, si evidenzia come la scrupolosità e la precisione nell’esecuzione degli atti materiali inerenti i riti sacrificali fossero elementi non solo espressamente richiesti, ma irrinunciabili e fondamentali per conseguire l’obiettivo che consisteva nell’ottenere il compiacimento e la benevolenza della “divinità” cui i riti stessi erano indirizzati. Importante era non irritare il “dio” compiendo atti secondo modalità a lui non gradite: ricordiamo come sono morti i due figli di Aronne (Lev 10) che hanno commesso la “colpa” di portare un’offerta non benaccetta, non richiesta. L’ossessività è dunque un elemento non secondario che in taluni casi può sfociare anche in una patologia vera e propria, sia pure come conseguenza non voluta o magari anche solo non prevista da parte del “pastore”. L’ammaestramento ha funzionato e funziona da millenni anche perché è basato sulla capacità di avere capito che è fondamentale fornire all’uomo la risposta alla madre di tutte le angosce: la paura della morte. Ogni recinto ha la sua risposta, non importa se essa si trova in un palese e insanabile contrasto con le altre: il gregge allevato in quel recinto sarà ammaestrato a crederla e a viverla come l’unica vera e ogni singolo appartenente al gregge ne sarà convinto al punto tale da essere spesso purtroppo disposto a uccidere pur di sostenerla. Non è un caso che molte religioni utilizzino questa terminologia; il pastore e il gregge, come spiegato, sono immagini che rappresentano efficacemente la realtà in cui viviamo: il pastore sceglie il cammino e i pascoli da cui trarre il nutrimento, il gregge segue. Il pastore difende le pecore dai lupi perché lui solo ha il diritto di trarne vantaggio e di ucciderle quando lo ritiene necessario. Possiamo dunque capire gli Elohim: con l’ausilio della conoscenza scientifica hanno fabbricato creature sempre più idonee e addomesticate e agito di conseguenza per renderle servizievoli, per tenerle sotto controllo e gestirle per i loro fini. Dall’antropologia e dall’archeologia apprendiamo che… Nel mondo accademico internazionale è ampiamente consolidata la convinzione che i Sumeri erano un popolo dotato di conoscenze straordinarie in ogni ambito dello scibile: scrittura, letteratura, agronomia con relativi sistemi di irrigazione, geometria, metallurgia, astronomia e calendario, unità di misura, legislazione civile e penale, governo pubblico e amministrazione, fiscalità, contabilità, sistemi di trasporto, musica e danza, educazione e istruzione scolastica… Avevano decine di termini con cui identificavano il petrolio e i suoi derivati. Nell’ambito dell’edilizia hanno dato prova di una perizia straordinaria di cui troviamo conferma anche nella Bibbia (Gen 11, 1-4); la scienza moderna ha testato con prove di laboratorio che i mattoni di argilla cotta sono cinque volte più resistenti di quelli essiccati al sole e le loro costruzioni tenevano conto di questo aspetto: i mattoni essiccati venivano usati per costruire la struttura di base mentre i mattoni cotti in forno servivano per le parti degli edifici che erano sottoposte a particolari sollecitazioni, come le scalinate, gli elementi architettonici sporgenti, strutture particolarmente esposte agli agenti atmosferici; il tutto era poi tenuto assieme dal bitume che fungeva da cemento. È stato scoperto di recente (Università di Berlino) che la cultura mesopotamica utilizzava la geometria trapezoidale per calcolare le orbite dei pianeti e prevederne quindi le posizioni96. La trigonometria era conosciuta in Mesopotamia almeno mille anni prima dei greci97. Come si comprende facilmente, questo popolo non poteva passare inosservato, eppure i lettori più attenti della Bibbia hanno sicuramente notato ciò che già il sumerologo S. N. Kramer98 ha evidenziato e cioè che l’Antico Testamento cita solo incidentalmente la terra di Shinàr (Gen 10, 10; Zc 5, 11) che viene identificata con Sumer, ma non nomina mai espressamente i Sumeri. Nella cosiddetta Tavola delle Nazioni (Gen 10) sono elencati tutti i popoli che abitavano nei territori del Medio Oriente e non solo (Egizi, Assiri, Babilonesi, Cananei, Filistei, Urriti, Hittiti, Moabiti, Etiopi, Amorrei, Evei, Accadi, quelli di Cipro, Rodi, Tarsi, Ofir…) ma non ci sono i Sumeri. Non possiamo non porci la seguente domanda: com’è stato possibile dimenticare proprio il popolo da cui l’Antico Testamento ha addirittura tratto gran parte dei suoi contenuti originali!? Il sumerologo Kramer ci riconduce agli studi del suo maestro Poebel raccolti in un articolo in cui in sostanza si afferma che gli Ebrei sono in realtà i diretti discendenti dei Sumeri. La Bibbia non li cita quindi espressamente perché quando parla degli Ebrei parla con ogni probabilità di un gruppo etnico diretto discendente di quel popolo. I Sumeri erano dunque semiti!? Proviamo a rispondere con l’aiuto della Bibbia stessa. Sappiamo (Gen 10, 21 e segg.) che Shem (Sem), figlio di Noè, ha avuto vari figli da cui sono derivate popolazioni che la storia conosce molto bene: Ashur, Elam, Aram… Da uno di questi figli discenderà Ebèr (Evèr), capostipite degli Ebrei. Gli studiosi citati rilevano alcuni aspetti decisamente interessanti e degni di un’attenta considerazione: • la dicitura corretta presente negli scritti cuneiformi originali riporta Shumer e non Sumer; • nel nome Sem la Bibbia usa la consonante [scin] per cui la lettura esatta è Shem; • il vocabolo ebraico che indica “nome” è shem e corrisponde all’accadico shumu perché la “e” dell’ebraico equivale alla vocale “u” della scrittura cuneiforme; • la parola Shumer era pronunciata Shumi o Shum. A queste note degli accademici noi aggiungiamo che: • i Sumeri avevano il loro territorio di elezione in Mesopotamia (a oriente della Palestina); • in Mesopotamia si pone la patria di origine del patriarca Avràm (Gen 15, 7 e 24, 10), che sappiamo essere discendente di Evèr, e dal cui figlio Isacco prosegue la discendenza geneticamente pura; • gli usi matrimoniali seguiti da Abramo, Isacco e Giacobbe per garantire la discendenza corrispondevano esattamente a quelli dei governanti Sumeri e, ancora prima, degli Anunnaki che garantivano la discendenza dinastica attraverso il matrimonio con una donna appartenente alla stessa famiglia finalizzato al mantenimento del patrimonio genetico; in genere si trattava di una sorellastra e nel pieno rispetto di questi usi dinastici, in Genesi 20, 12 Avràm dice espressamente: «Sara è figlia di mio padre ma non figlia di mia madre ed è divenuta mia moglie». È un caso che gli usi matrimoniali seguiti da Abramo e dalla sua famiglia corrispondessero a quelli dei governanti sumeri e, ancora prima, a quelli degli Anunnaki? • Il nome Isacco pare derivare dall’accadico (cultura che è succeduta a quella sumera) “Ishakku”: un titolo che indicava la più alta autorità della città. Questo ci fa pensare che la famiglia di Abramo occupasse una posizione di potere all’interno della società da cui poi si è mosso per andare a insediarsi nel territorio che il suo Elohim aveva avuto in dotazione per se stesso e per lui. È un caso che il nome di uno dei patriarchi fondatori del popolo, Isacco, derivi da un termine accadico che indicava un’alta carica amministrativa? Dopo queste indicazioni manca un tassello per completare il quadro: la questione del territorio in cui vivevano i Sumeri, il Sud della Mesopotamia che si trova a est della Palestina. Ancora una volta è la Bibbia a venirci in soccorso e lo fa là dove elenca i figli di Ioktàn e ci dice (Gen 10, 29-30) che i figli di Ioktàn occuparono quindi Mesha, probabilmente il territorio dell’attuale Arabia che si spingeva lungo la penisola arabica fino a Sefàr, l’attuale catena montuosa dello Zufàr che si affaccia sul mare arabico. Non sappiamo con certezza se l’ultima parte del versetto indica che Sefàr è un monte che si trova a oriente oppure se i figli di Ioktàn hanno raggiunto un’ulteriore catena montagnosa non meglio definita che si trova anch’essa a oriente, ma la Bibbia ci dice comunque con chiarezza che una porzione della discendenza di Shem si è spostata a est. Ricordiamo per inciso che Ioktàn era figlio di Evèr e dunque formalmente “ebreo”, esattamente come i figli di Abramo, discendente di Pelèg, fratello di Ioktàn. Registriamo un ulteriore dato: la storiografia ufficiale fa terminare la civiltà sumera intorno al 2000 a.C. e contemporaneamente attribuisce allo stesso periodo la comparsa nel teatro mesopotamico prima, e palestinese poi, del patriarca Abramo. Sappiamo che la storicità di questa figura è messa in discussione anche da molti Rabbini ma quand’anche si trattasse di una finzione letteraria in cui sono state convogliate caratteristiche e vicende di varia origine, rimane un fatto inequivocabile: la consequenzialità storico-temporale che non vede interruzioni tra la scomparsa dei sumeri e la comparsa del capostipite (o dei capostipiti) del popolo che diventerà successivamente Israele, l’eredità data in assegnazione a Yahweh dal comandante Elyon (Dt 32, 8 e segg.). Questi sono naturalmente spunti, elementi di riflessione certamente molto interessanti ma il dato fondamentale non è costituito dall’ipotetica identificazione tra sumeri ed ebrei bensì dalla constatazione che la cultura sumera si è presentata sulla scena essendo nella sostanza già completamente formata (come ci dice la storiografia ufficiale). L’antropologia e l’archeologia evidenziano la stupefacente assenza di tracce di una sua lenta evoluzione, cioè di quel processo dai tempi necessariamente lunghi che consente a un popolo barbaro e incolto di acquisire tutte quelle ricche, articolate e complesse conoscenze che abbiamo elencato in apertura della scheda e abbiamo visto essere inerenti in sostanza all’intero specchio dello scibile almeno nel modo in cui ce lo possiamo immaginare alcuni millenni fa. Questa straordinaria mancanza di tracce ci induce a pensare che la civiltà sumera non sia il frutto di un processo verificatosi secondo i tempi e i modi della lenta evoluzione naturale ma il prodotto di una progressiva, ma sorprendentemente rapida, attività di acculturazione (ammaestramento) condotta da una civiltà superiore che ha trasmesso, almeno parzialmente, le sue conoscenze. D’altra parte sono gli stessi sumeri ad avere registrato nelle loro memorie un dato di fatto: la loro esistenza e le loro conoscenze sono state un dono degli Anunnaki. È sufficiente avere la mente scientificamente aperta e disponibile a “fare finta che” questa ammissione sia corrispondente al vero e si hanno le risposte alle domande che attualmente ne sono prive. Il ragionamento della Drosophila La metodologia dichiarata del “fare finta che” gli antichi ci abbiano rappresentato dei dati storicamente attendibili ci riporta alle considerazioni accennate in apertura, al titolo del capitolo e quindi alla necessità di non chiuderci nel ragionamento della Drosophila melanogaster che utilizziamo adesso come esempio, negandoci così la possibilità di formulare ipotesi sulla nostra possibile vera storia. In cosa consiste questa argomentazione che vogliamo introdurre per aiutarci a comprendere quale può essere il corretto atteggiamento da tenere? Rimaniamo in ambito scientifico. La Drosophila melanogaster è il moscerino della frutta, un insetto molto utilizzato nei laboratori di genetica grazie ad alcune sue caratteristiche che ne fanno un vero e proprio strumento di studio di facile utilizzo. Tra queste peculiarità elenchiamo le seguenti: • ha solo quattro paia di cromosomi completamente mappati e dunque facili da tenere sotto controllo; • ha un ciclo vitale molto breve, di sole due settimane, che consente pertanto di osservare in tempi decisamente brevi i risultati di mutazioni naturali o indotte artificialmente in laboratorio e seguirne lo sviluppo nelle generazioni successive (due al mese); • le femmine depongono fino a seicento uova che si schiudono dopo ventiquattr’ore dalla deposizione; • le larve crescono per cinque giorni poi si trasformano in pupe dalle quali emerge l’insetto adulto; • le femmine si accoppiano dopo circa dodici ore dalla metamorfosi, consentendo così una rapida diffusione dei risultati di esperimenti condotti sul patrimonio genetico. Ipotizziamo ora un dialogo tra due Drosophile, una delle quali dice all’altra che la loro specie è oggetto di sperimentazioni che alcuni scienziati (appartenenti a una specie diversa) stanno conducendo da tempo con lo scopo di apportare variazioni i cui risultati si vedranno nelle generazioni successive. La Drosophila che riceve l’informazione è incredula, non può accettare una simile rivelazione che le fa cadere tutte le convinzioni che aveva, si dimostra quindi diffidente, reagisce, attacca e deride la sua compagna perché non ritiene possibile che qualcuno possa lavorare su di loro avendo un obiettivo così lontano nel tempo. La realtà di cui la Drosophila incredula non si rende conto è però la seguente: il genetista umano ha una durata di vita (media settant’anni) che è pari a circa 1700 volte quella del moscerino, pertanto venti generazioni della Drosophila rappresentano per lo scienziato un periodo di soli dieci mesi, un tempo decisamente breve nell’economia di vita di una persona di settant’anni. Così può essere per l’uomo: venti generazioni di nipoti e pronipoti sono per noi difficili da rappresentare e immaginare, ma cosa sarebbero per individui dotati di una vita che dura 4-500 volte la nostra? Cosa sappiamo noi dei parametri temporali e mentali connaturati a individui che dovessero poter vivere fino a 30-40.000 anni dei nostri? Infatti lo stesso parametro che abbiamo usato per il moscerino della frutta può essere applicato al rapporto tra l’Homo sapiens e i genetisti che lo hanno potenzialmente fabbricato: chi dovesse vivere per 30 o 40.000 anni potrebbe benissimo dedicarsi alla produzione di una specie a lui utile agendo attraverso selezioni dei soggetti e progressivi processi bio-genetici che si protraggono per diverse generazioni al fine di ottenere il risultato voluto (ricordiamo i tempi di gestazione delle volpi e dei ratti – 55 e 22 giorni – in relazione alla durata di vita degli sperimentatori russi di cui si è detto in precedenza). Anche la Bibbia ci fornisce alcuni indizi in merito. • Gli Elohim non hanno forse ammaestrato l’adam insegnandogli a lavorare nel giardino dell’eden (Gen 2, 15)? • Non hanno forse proceduto con l’ammaestramento quando gli hanno confezionato tuniche per vestirsi (Gen 3, 21)? • Non hanno proseguito in questa opera quando gli hanno detto che lui avrebbe dovuto imporre il nome e dominare sugli esseri viventi circostanti (Gen 2, 18 e 9, 2)? • Non gli hanno forse indicato la necessità di dominare sull’ambiente circostante (Gen 1, 28)? Con quale altro animale sarebbe stata necessaria una simile prescrizione: non fanno forse così tutti gli animali almeno nella misura in cui la natura lo permette loro all’interno di quell’equilibrio che si concretizza nella competizione tra le varie specie in continua contesa per territori e risorse? Un equilibrio che, come è evidente, non riguarda l’uomo, in quanto egli risulta essere una sorta di estraneo in grazia della sua origine e del suo sviluppo non totalmente prodotti e gestiti dalla natura con i suoi tempi. • Non hanno forse detto all’adam, in almeno due occasioni, come doveva nutrirsi? In un primo momento di soli vegetali e poi anche di carne (Gen 1, 29 e 9, 3)? • Lo stesso Yahweh, intervenuto secoli dopo il lavoro dei genetisti (Elohim rofim, cioè medici secondo certa esegesi ebraica), non ha forse avuto la necessità di ammaestrare il popolo che gli è stato assegnato nel momento in cui il comandante degli Elohim ha suddiviso le nazioni assegnandole ai suoi (Dt 32, 8-12)? Lo ha letteralmente costruito sulla base del suo progetto, lo ha modellato secondo quelli che erano i suoi metodi e i suoi fini, di natura esclusivamente terrena: conquistarsi un territorio in cui vivere e farsi servire. Egli stesso lo identificò come (Es 33, 3): Definendoli di “dura cervice” si è comportato con i suoi esattamente come si fa con gli animali: ha tentato di ammaestrarli con promesse allettanti (una terra dove scorrono latte e miele) e punizioni durissime (morte). Detto in termini crudi: il bastone e la carota. Evidentemente neppure “Dio” disponeva di metodi più efficaci di quelli che utilizziamo noi con i nostri animali domestici. Per fare questo ha elaborato e imposto ai suoi Israeliti 613 precetti (mitzvot) che regolavano in sostanza tutti gli aspetti della vita, persino in ambiti in cui non ci si attenderebbe l’intervento specifico di un presunto “Dio”, come nelle precise indicazioni igieniche e alimentari quando, ad esempio, li ha obbligati a espletare i loro bisogni fuori dall’accampamento perché si era stufato di calpestare i loro escrementi (Dt 23, 13) e ha stilato elenchi precisi di alimenti adatti al consumo (Lev 11, ecc.). Ha fornito regole sulle quali il suo popolo “di dura cervice”, in riferimento ad alcune di esse, si è anche permesso di esprimere quantomeno perplessità ritenendole talvolta immotivate: le definiva khukkim il più importante esegeta ebreo di sempre, Rashi, il quale sosteneva che norme come quella della vacca rossa o il divieto di indossare indumenti in tessuto composto da un misto di lana e lino o ancora quello relativo alla carne di maiale (su Talmud Yomà 67) erano prive di logica ed erano state date al solo scopo di “abituare gli ebrei all’osservanza dei precetti e di metterli alla prova per vedere se li avrebbero accettati volentieri e con gioia” (Esodo Sepher Shemot, op. cit.). Non sono forse questi i metodi (ordini che hanno una loro coerenza frammischiati a ordini apparentemente privi di senso) con i quali si addestrano all’ubbidienza le reclute nei più severi centri di preparazione per militari? Siamo di fronte a un presunto Dio capace di convincere con l’amore e la compassione o a un durissimo sergente di ferro che utilizza tutti gli strumenti efficaci per piegare la “dura cervice” dei suoi “educandi”? 4 Recinti antichi e moderni «Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle». DENIS WAITLEY L’implementazione e la definizione delle greggi da parte dei vari pastori di cui abbiamo detto è proseguita nei secoli ponendo attenzione alla realizzazione di recinti che le tengano ben divise e soprattutto facilmente controllabili. Già abbiamo rilevato la curiosa situazione in cui si trovano gli appartenenti alle tre religioni bibliche monoteiste: in presenza di insanabili e inconciliabili differenze ciascuno ritiene fideisticamente di essere nel vero. Da quando inizia il processo di educazione di ogni individuo questa è una delle convinzioni che vengono instillate con efficacia davvero straordinaria, capace addirittura di prevenire e obnubilare il dubbio che dovrebbe quanto meno fare capolino alla porta di una mente pensante. Dubbio che dovrebbe essere motivato dalle divisioni innumerevoli che si registrano all’interno stesso di ciascuna delle tre religioni: ebraismo, cristianesimo e islam non sono infatti dei monoliti ma un insieme di correnti di pensiero (greggi e recinti) in lotta perenne, nonostante le formali dichiarazioni di intenti che mirerebbero a una futura (quanto futura?) riunificazione. Ma ne siamo certi? Leggiamo quanto ha affermato rav Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, in un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera»99. Alla domanda sulle persecuzioni cui gli ebrei sono sottoposti da secoli, risponde testualmente: «È una scelta del Padreterno: ci ha esposti a ogni rischio, e continua a farlo; e nello stesso tempo ha un impegno con noi per la nostra sopravvivenza. Non lo dico io, lo dicono i profeti». E alla successiva conseguente richiesta di sapere se loro sono il popolo eletto precisa: «Non nel senso di una presunta superiorità. L’elezione è una sfida. È una continua messa alla prova. Non ti è consentito quel che è permesso a una persona normale. Sei chiamato a rispettare una disciplina particolare, con tutti i rischi che questo comporta». Quindi il far parte di quel gruppo significa avere una vita speciale, intanto perché direttamente collegata a Dio che, nel bene e nel male, avrebbe un occhio di riguardo per loro e poi, di conseguenza, per gli impegni peculiari che comporta e che non sono appannaggio delle “persone normali”, per usare la stessa terminologia impiegata dal dr. Di Segni. Una distinzione dunque tra gli Israeliti e gli altri – definiti “persone normali” – ai quali sono consentite cose che non sono permesse al popolo del patto. Ancora una volta l’attualità trova la sua radice nel libro nel quale le differenziazioni su base etnica e/o tribale erano nette. Vediamo testualmente quanto si scrive nel sito di attualità culturale ebraica www.e-brei.net in merito a un’illuminante affermazione biblica; sotto il titolo “E Dio creo la diversità” leggiamo la seguente annotazione: «Più volte ricorre nella Bibbia l’imperativo “Siate santi, perché Santo Sono Io il Signore”. Tra le tante interpretazioni che sono state date a questo monito è significativa quella di Rash (Troyes 1040-1105 – nel suo commento a Levitico 19, 2), forse il più autorevole dei commentatori della Bibbia. Egli, infatti, interpreta il termine ebraico “Kadosh”, “santo”, nel senso di “distinto”, “differenziato”, “diverso” e vede, dunque, nelle parole di Dio non solo una giustificazione della diversità, ma la diversità come dovere esistenziale. Come a dire “siate diversi dagli altri popoli come Io, il Signore, lo Sono dagli altri dèi». Questo invito alla diversità si trova in Lev 19, 2: Il termine ebraico che viene tradotto con sacro/santo significa “essere separato da, essere messo da parte per essere destinato a…”. Sacro è un agnello che viene separato dal gregge per essere destinato all’El; sacro è un terreno riservato a Yahweh e ai suoi più stretti collaboratori, ecc. L’aspetto interessante è che il più importante esegeta ebreo di tutti i tempi evidenzia la “santità” cioè “separazione, diversità” di Yahweh rispetto agli altri Elohim. In questa affermazione ci sono due elementi di fondamentale importanza data la fonte autorevole da cui provengono: l’affermazione di una diversità, quella ancora evidenziata da rav Di Segni e che quindi prosegue nel tempo, confermando le ipotesi che qui presentiamo, e la molteplicità degli Elohim all’interno della quale Yahweh si pone come uno tra i tanti ma nettamente “separato, diverso” dagli altri. Attenzioni e specificità indiscutibilmente riservate al popolo ebraico che motivano anche gli ulteriori chiarimenti forniti nel prosieguo dell’intervista; parlando di papa Francesco il dr. Di Segni afferma: «È un Papa che sa ascoltare. Gli ho chiesto di non citare più i farisei come paradigma negativo, visto che l’ebraismo rabbinico deriva da loro; e l’ha fatto. Gli ho chiesto di non cadere nel marcionismo, e mi pare ci stia attento». Nel comune pensare dei cristiani infatti i contrasti tra Gesù Cristo e i farisei rappresentano un tema di fondamentale importanza nella costruzione della dottrina che vede da un lato il messia buono e dall’altro i farisei falsi e malvagi; nel mondo ebraico invece il farisaismo, con il suo metodo dialettico di studio e analisi dei testi, costituisce la radice del pensiero rabbinico e dunque, giustamente, non può vederlo costantemente rappresentato e disprezzato come paradigma del male. A una domanda sui punti di disaccordo col pontefice, risponde: «Ne ho molti. Ad esempio il Papa fa passare la domenica come un’invenzione cristiana; ma se voi avete la domenica, è perché noi abbiamo il sabato. Quando Francesco è venuto qui in sinagoga voleva discutere di teologia. Gli ho risposto di no: di teologia ognuno ha la sua, e non la cambia; discutiamo di altro». Come si vede bene, le recinzioni sono invalicabili, la barriera è netta, i rapporti che i due mondi (ebraico e cristiano) dichiarano di avere con il presunto Dio sono ben definiti, peculiari, non confondibili né sovrapponibili, non possono neppure essere oggetto di dialogo. Non si può chiedere maggiore chiarezza: in questo modo si comprende bene cosa significa il fatto di nascere al di qua o al di là di un certo confine. D’altra parte è assolutamente comprensibile la posizione del rabbino in considerazione del fatto che l’Antico Testamento è un insieme di libri scritti da e per gli Israeliti, cioè quel popolo con cui Yahweh ha stretto un patto di alleanza in via esclusiva. Il cristianesimo se n’è impropriamente impossessato e ne ha fatto la radice delle sue elaborazioni teologiche che nulla hanno a che vedere con quanto in esso contenuto. Tra cristiani ed ebrei cambiano le verità, cambiano le concezioni di vita, cambia l’approccio con la cosiddetta divinità, cambia la visione del mondo sia terrena che escatologica, cambiano gli atteggiamenti e i cuccioli di uomo, di qua e di là dalla linea di demarcazione, vengono allevati in funzione della loro appartenenza e tutti cresceranno con la convinzione sottilmente e pervicacemente indotta dall’esterno (da educatori/pastori) di essere capitato, grazie a Dio (!?), nel “posto giusto”. Procediamo con alcuni altri esempi. Chi nasce in alcuni recinti si sente dire che non deve farsi immagini e tanto meno venerarle; chi nasce in altro ambito invece viene indotto a inginocchiarsi di fronte a esse, pur sapendo che l’ordine di non produrle dato dal presunto Dio non è mai stato revocato. A proposito di differenze tra le norme vigenti nelle varie appartenenze religiose evidenziamo anche una curiosità. Quanti sanno che la poligamia era praticata come norma nell’antica Israele (per rimanere in ambito biblico) e che un marito aveva normalmente due mogli, una per la procreazione e una per il piacere? La poligamia venne proibita soltanto nel X secolo dai rabbini europei con a capo Rabbenu Ghershòm, ma il divieto non è stato accolto dagli ebrei sefarditi (Spagna) che fino a oggi sarebbero dunque autorizzati a praticarla, ma vivono in nazioni che la proibiscono per legge (Esodo, Sepher Shemot, op. cit.). Che dire della possibilità di avere rapporti sessuali con bimbe di tre anni e un giorno di cui si è ampiamente detto in Il falso Testamento100? E ancora oggi le nazioni (recinti geo-socio-politici e militari) pongono l’umanità di fronte a presunte verità diverse: in alcune di esse al cittadino viene riconosciuto (a determinate condizioni) il diritto di decidere della sua vita mentre altre lo negano, ponendo questo divieto come fosse una insormontabile norma etica il cui valore sarebbe addirittura assoluto e non negoziabile101. Come valutare poi il cambiamento epocale che è avvenuto nel momento in cui si è deciso di porre fine ai sacrifici cruenti di uomini e animali? Chi nasceva nel momento in cui erano la norma, li riteneva buoni e necessari perché ammaestrato a compierli, chi invece nasce nella nuova cultura (recinto riveduto e corretto) li giudica una barbarie indicibile perché educato sulla base di altri princìpi che annullano anche la domanda che dovrebbe invece essere inevitabile: come mai per millenni sono piaciuti così tanto al Dio eterno e ora non li vuole più? Ma c’è altro. Tante situazioni tra le quali citiamo una delle regole più inaccettabili che nella Bibbia è stata applicata da subito e ha rappresentato anzi il filo conduttore dell’intera storia di quell’Elohim e del popolo su cui comandava: quando vuoi una terra sei legittimato da Dio stesso (anzi spesso è lui a ordinarlo) a prendertela con ogni mezzo, anche sterminando intere popolazioni, anziani, donne, bambini, animali. Un presunto Dio che per mantenere la promessa di un territorio in cui vivere serenamente all’ombra del fico e della vigna (cosa non ancora verificatasi dopo 4000 anni) deve compiere e far compiere atti orrendi, atti per i quali in epoca moderna i gerarchi di quella nazione che li ha praticati sono stati condannanti a morte: lui invece è divenuto Dio nel quale credono due miliardi di persone102. Nello stesso recinto che identifica in Yahweh il dio padre, si predica la necessità di evitare le guerre condannate come uno dei grandi mali dell’umanità. I tentativi di spiegare perché lui le accettava, le voleva, le imponeva, si sono sprecati nei secoli, ma nessuno di questi è risultato risolutivo o convincente: tanto meno lo è la forzosa distinzione tra un dio malvagio dell’Antico Testamento e un Dio buono nel Nuovo Testamento che non a caso rav Di Segni non accetta e, in un’ennesima presa di distanza dal pensiero cristiano, critica nettamente: «L’idea – cara all’eretico Marcione e tuttora diffusa tra i laici che di religione sanno poco, come Eugenio Scalfari – che esista un Dio dell’Antico Testamento, severo e vendicativo, e un Dio del Nuovo, buono e amorevole. Ma Dio è uno solo. Ed è insieme il Dio dell’amore e il Dio della giustizia. Il Dio che perdona, e il Dio degli eserciti». Non è strano che tutte queste contraddizioni non turbino coloro che sono stati educati a credere per vero ciò che in ambito cristiano è stato elaborato e tramandato come tale (diverso naturalmente dall’ambito ebraico che pure si basa sullo stesso libro): l’assenza della sana pratica del dubbio è uno degli obiettivi voluti e conseguiti all’interno del processo di domesticazione. Va da sé che la pluralità delle dottrine e l’evoluzione che le porta a variare nel tempo può rappresentare una ricchezza spesso irrinunciabile, una ricchezza potenzialmente portatrice di valori inestimabili per chi vuole condurre ragionamenti autonomi. Infatti non è questa ricchezza che viene qui stigmatizzata ma il fatto che, prendendone consapevolezza, se ne dovrebbero trarre le necessarie conclusioni: non si devono erigere recinzioni che tengano nettamente separati gruppi all’interno dei quali non può formalmente né sostanzialmente affermarsi alcuna certezza di verità. Consapevoli delle insanabili differenze, bisogna accettare l’idea che i confini devono essere permeabili nella convinzione che la verità potrebbe non trovarsi nella parte in cui ci è capitato di nascere: sappiamo bene però che i confini di ogni natura – siano essi geografici, politici, culturali, scientifici, sociali, religiosi – sono condizione indispensabile e quindi irrinunciabile per l’esercizio del potere. L’Homo sapiens a scuola di civiltà Gli esempi sarebbero davvero illimitati, pertanto ci fermiamo qui sottolineando che, a partire dai primordi e dal momento in cui venivano letteralmente “costruiti” e divisi i popoli governati dai singoli Elohim (Anunnaki, Neteru, Deva, Theoi… comunque siano stati chiamati), a quest’uomo andava veramente insegnato tutto: in qualità di specie animale “fabbricata”, non era e non è dotato di tutti gli strumenti necessari per vivere in ambienti per i quali non risultava, e non risulta ancora oggi, per natura adatto. Bisognava innanzitutto insegnargli a prodursi il cibo nelle forme e nella quantità e con la continuità necessaria a supportare l’impegno determinato dal suo essere stato “fabbricato” come un lavoratore. La semplice raccolta casuale di prodotti della natura o l’apporto alimentare fornito dalla caccia non erano in grado di garantire il soddisfacimento delle nuove insorte esigenze di una moltitudine di lavoratori che erano chiamati a svolgere compiti che comportavano una fatica fisica quotidiana, con necessità di apporto calorico e nutritivo decisamente diverse da quelle dei primitivi cacciatori-raccoglitori. Molto chiaro, a questo proposito, è un passo delle tavolette sumero-accadiche in cui si narra dell’introduzione dei cereali che, manco a dirlo, è stata opera degli Anunna/Anunnaki (il corrispettivo degli Elohim biblici). La tavoletta recita così: «La gente mangiava come le pecore l’erba con la bocca In quei giorni lontani, grano, orzo e cereali An dall’interno del cielo fece scendere (sulla terra)…»103. Il signore Enlil raccolse in pile l’orzo, lo ripose nella montagna, impilò la bontà della terra, l’orzo Innuha, sulla montagna, chiuse l’accesso alle montagne…»104. Dunque i cereali non sono una scoperta dell’uomo ma un dono dei cosiddetti dèi, infatti dallo stesso volume UTET ricaviamo un altro testo che narra come solo in secondo tempo agli uomini fu assegnato il compito di lavorare la terra: «Dopo che la terra fu fondata, la terra fu fissata, dopo che (gli dèi) le (immutabili) regole di cielo e terra stabilirono; dopo che essi, per approntare dighe e canali, ebbero poste le rive del Tigri e dell’Eufrate, allora An, Enlil ed Enki, i grandi dèi, e gli Anunna, i grandi dèi, presero posto sul loro eccelso trono che ispira terrore, e parlavano tra di loro». In quell’assemblea (che ricorda l’assemblea degli Elohim descritta nel Salmo 82 analizzato in Appendice) prendono una decisione: «Che gli uomini per sempre curino i fossati di confine, che essi prendano in mano la zappa e il canestro di lavoro. Per il tempio dei grandi dèi, che è adatto al trono eccelso, aggiungano campo a campo, per sempre i fossati di confine curino, le dighe tengano in ordine, i fossati di confine scavino, – piante di ogni genere facciano crescere, pioggia, pioggia… i fossati di confine scavino, accumulino orzo, che essi facciano prosperare il campo di grano degli Anunna, […] Che essi, buoi, ovini, animali della terra, pesci e uccelli, l’abbondanza del paese moltiplichino». Questo insieme di attività (la cura dei campi, l’irrigazione, l’allevamento) non pare dunque essere stato il frutto di un autonomo apprendimento da parte dell’uomo, ma la conseguenza di una decisione presa dagli Anunna/Anunnaki, che hanno provveduto a trasferire informazioni e ammaestramento. Sappiamo che, quando scrivono la loro storia, i popoli tendono generalmente all’auto-celebrazione, non perdono occasione di magnificare le loro gesta, anzi spesso tendono ad attribuirsi meriti che non hanno. In questo caso ci troviamo di fronte a una vera e propria confessione di incapacità; i sumeri non hanno avuto alcuna remora nel dichiarare che non sono stati loro ad acquisire ed elaborare in modo autonomo quelle abilità ma le hanno ricevute in dono da altri che hanno provveduto a trasmetterle, sia pure per fini meramente utilitaristici: avere qualcuno cui affidare i lavori più faticosi e da cui farsi servire. Ci viene detto infatti che gli uomini erano “come le pecore”, che “l’umanità confidava nell’acqua piovana” e che di conseguenza l’ammaestramento (acculturazione) è stato il prodotto dell’intervento dei creatori/fabbricatori: gli Elohim / Anunna / Deva / Theoi… Testi antichi e acquisizioni scientifiche definiscono percorsi che viaggiano in parallelo per cui, riprendendo un concetto espresso nei capitoli precedenti, ricordiamo quanto ci dice la scienza in merito al rapporto tra sviluppo encefalico e capacità cognitive: da un punto di vista anatomico, i primi rappresentanti della specie Homo sapiens erano individui del tutto simili a noi, persino a livello encefalico. Il cervello dei primi sapiens eguagliava il nostro in termini di dimensioni e struttura intrinseca, eppure il loro comportamento e le loro capacità elaborative non erano, nel concreto, differenti da quelle di un Homo heidelbergensis o addirittura di un Homo erectus. Siamo di fronte a una singolarità dove, a fronte di un cervello molto più sviluppato e moderno, sembrano non corrispondere nuove conquiste comportamentali e culturali dei primi Homo sapiens. A cosa sarebbe servita dunque questa ulteriore encefalizzazione se gli ominidi della specie Homo sapiens continuavano a comportarsi da primitivi? Seppur moderni nelle caratteristiche anatomiche, i sapiens rimangono legati a una condizione di “primitività comportamentale” per un lungo arco di tempo, fino a circa 100.000 anni fa. Secondo Ian Tattersall pare essersi verificata una mutazione – recente e avvenuta in tempi molto rapidi – a livello genomico che ha prodotto una struttura cerebrale con un potenziale assolutamente nuovo ma che è rimasto inutilizzato fino a quando è stato in un qualche modo attivato da un probabile stimolo di ordine culturale. Dunque, dopo quella mutazione avvenuta con una tempistica quanto meno non ordinaria per gli eventi evolutivi in natura, c’era un cervello pronto a ricevere e immagazzinare informazioni ma non ancora capace di elaborare in modo autonomo informazioni complesse. È stato evidenziato nei capitoli precedenti che il cervello di Homo sapiens, dopo la nascita, prosegue nel suo sviluppo continuando però a far registrare un’elevata plasticità intrinseca e, pur raggiungendo la maturazione verso i sedici anni, a differenza delle scimmie conserva una plasticità basale per buona parte della vita. Questa sorta di protratta “immaturità” dell’organo, ci rende ricettivi agli stimoli e molto inclini all’apprendimento anche quando si è superata la fase giovanile… Questa eterocronia, ovvero questo “slittamento” dei tempi di maturazione cerebrale rispetto alle scimmie, consente all’essere umano di prolungare il periodo di apprendimento, elemento questo di fondamentale importanza per la successiva considerazione. Torniamo a sottolineare che la selezione naturale può promuovere vantaggi per le singole specie ma non opera mai in modo altruistico, facendo cioè emergere in una data specie caratteristiche che siano a vantaggio di un’altra, ma questo pare essere proprio ciò che è avvenuto con l’Homo sapiens: lo sviluppo encefalico, con la sua caratteristica di mantenere plasticità e capacità di apprendimento anche in età adulta, ha rappresentato l’insorgere e il perdurare di potenzialità che un’altra specie (gli Elohim/Anunna fabbricatori) ha potuto utilizzare per i suoi fini e a suo vantaggio. Curiosamente, ma forse non troppo, i racconti sumeri paiono confermare questa successione di eventi e queste nuove potenzialità di utilizzo che rimanevano inespresse: documentano infatti come solo in un secondo tempo sia stato affidato all’umanità il compito di occuparsi della terra, della cura dei canali, dell’irrigazione, della coltivazione e dell’allevamento degli animali. Un processo che ha richiesto tempo e fatica da parte degli educatori per trasformare una specie selvaggia che mangiava l’erba come le pecore (Gen 3, 18, «tu dovrai mangiare l’erba della campagna, con il sudore della tua faccia mangerai il pane…») in un insieme di individui dotati di quelle caratteristiche, attitudini, conoscenze e capacità che noi definiamo tipiche e identificative del genere umano. Un’attività di vero e proprio acculturamento attraverso il quale sono state trasmesse conoscenze via via sempre più complesse e soprattutto utili per la vita quotidiana. Varie culture ce ne danno conto: il medico Galeno (II secolo d.C.) affermava che i Greci attribuivano l’origine e la diffusione delle diverse arti agli dèi e ai loro figli o comunque ai loro famigliari. Così, ad esempio, Apollo aveva insegnato medicina a suo figlio Asclepio che a sua volta l’ha resa disponibile per gli uomini che fino ad allora conoscevano e impiegavano solo dei rimedi empirici molto semplici: sia nella cura del corpo che nell’alimentazione quindi gli uomini, per i Sumeri e per i Greci, sono stati ammaestrati e istruiti e si sono potuti così emancipare e uscire dalla situazione in cui conducevano una vita molto simile a quella degli altri animali. Sappiamo che per alcuni non si tratta che di miti, ma i Greci si approcciavano a essi con uno spirito peculiare: non ne negavano la validità ma ricercavano il fondo di verità da cui avevano avuto origine. Lo storico Pausania (VI-V secolo a.C.), nel libro VII della sua opera, Periegesi della Grecia105, lamentava infatti che sul fondamento di verità era stato eretto nel tempo un edificio di menzogne che portava la maggior parte delle persone a non credere ad avvenimenti che erano realmente accaduti e che accadevano ancora. In sostanza egli scriveva che le menzogne contaminavano le verità, rendendole inaccessibili. I miti erano quindi ritenuti veri nella sostanza, cronache, tradizioni con valenza storica partendo anche dalla convinzione che non si sarebbe potuto parlare in quel modo di un qualcosa che non era mai esistito: è impossibile che un mito sia interamente mitico, scrive Paul Veyne (archeologo e storico francese, membro del College de France) nel suo testo già citato e da cui sono tratte queste considerazioni. • Cosa dire ad esempio dei miti in cui si parla di creature che hanno contemporaneamente caratteristiche umane e animali, quando leggiamo che la moderna genetica sta producendo ibridi uomo-maiale e uomo-pecora (pur se in via sperimentale e con il fine di ottenere cellule e organi da trapiantare a scopo terapeutico)106? • Quali saranno i potenziali passi successivi? • Cosa ci differenzia più dagli antichi racconti? I cosiddetti miti paiono dunque contenere il ricordo – sia pure parziale, frammentario e spesso impropriamente farcito di falsità ed esagerazioni – di alcuni dei passi compiuti dai primi “pastori” (Elohim / Anunna / Deva / Theoi…) per fare dell’uomo una creatura utilizzabile, predisposta al processo di progressivo “ammaestramento”. Ci hanno dunque fatti mutare, ci hanno addomesticati e condizionati culturalmente? È sempre il prof. Veyne (op. cit.) che ci ricorda, sia pure con finalità diverse da quelle specifiche di questo nostro lavoro, che ogni epoca e ogni società opera con quadri di riferimento che sono arbitrari, possono variare nel tempo ed entrare anche in contraddizione tra di loro: «Una volta che si è all’interno di uno di questi vasi, ci vuole un colpo di genio per uscirne e cambiare; in compenso, una volta fatto questo geniale cambiamento di vaso, i bambini piccoli possono essere socializzati sin dalle classi elementari al nuovo programma. Essi ne sono soddisfatti come i loro antenati erano soddisfatti del loro, e non cercano assolutamente il modo di uscirne poiché non percepiscono nulla al di là di questo: quando non si vede ciò che non si vede, non ci si rende nemmeno conto di non vedere. A maggior ragione non ci si rende conto della forma bislacca di questi limiti; si crede di vivere dentro confini naturali… [ricordiamo l’esempio dell’Isola di Cipro, N.d.A.]. Si crede che gli antenati già occupassero la stessa patria, o almeno che il compimento dell’unità nazionale fosse prefigurato e che qualche progresso lo portasse a termine». Lo storico approfondisce il concetto traendone la seguente conclusione: «Se qualcosa merita il nome di ideologia, questo è proprio la verità». Ogni programma di verità (cioè ideologia religiosa, sociale, culturale, politica, nazionale…) si attua con i tempi richiesti dal processo di socializzazione e l’ammaestramento è necessario, totale nei limiti del possibile e comunque decisamente efficace: la realtà in cui viviamo ne è concreta testimonianza. Abbiamo letto in precedenza che il prof. Wescott ha avanzato la possibilità che l’essere umano possa aver subito episodi di selezione artificiale da parte di attori esterni, pressioni selettive da parte di antichi colonizzatori del nostro pianeta che avrebbero guidato la nostra evoluzione, biologica prima e culturale dopo. Da appartenenti a una specie che ama definirsi “intelligente” non dobbiamo quindi chiuderci nello sterile ragionamento della piccola e aprioristicamente scettica Drosophila, ma, come ha fatto il docente della Drew University e con lui moltissimi altri, dobbiamo rimanere aperti alle possibilità che lo studio del passato ci offre, soprattutto quando ci rendiamo conto che quel passato si presenta come capace di fornire, almeno a livello potenziale, risposte a domande che attualmente ne sono prive. 5 La materia oscura del genoma «DNA non codificante, sede di tesori ancora nascosti». EWAN BIRNEY Ritorniamo nuovamente a occuparci degli aspetti più scientifici che fanno parte della nostra indagine sull’evoluzione umana, entrando adesso in argomenti più legati alla genetica. Confrontare il genoma degli esseri umani con quello degli scimpanzé è senz’altro utile per capire cosa ci rende diversi da loro. Nel tentativo di comprendere ciò che ci ha reso umani, numerose indagini sono oggi rivolte a specifiche regioni funzionali del nostro genoma che sappiamo aver avuto un ruolo fondamentale nel controllare, in modo diverso rispetto a ogni altro primate, l’attività di interi gruppi di geni107. Se queste regioni di controllo non avessero subito opportune modifiche nel corso della nostra filogenesi, il nostro patrimonio genetico avrebbe continuato a esprimersi come nelle scimmie antropomorfe e nessun antico ominide sarebbe mai diventato Homo sapiens. Il professor Marco Ragusa, ricercatore e docente di Biologia e Genetica alla Facoltà di Medicina di Catania, spiega l’importanza di queste regioni di controllo genetico e, spingendosi ai confini del pensiero ufficiale, illustra le ragioni per cui la loro modifica durante l’evoluzione del genere Homo richiami alla mente ipotesi di “progettualità”. La materia oscura del genoma Primum Movens “innaturale” del Processo di Ominazione MARCO RAGUSA Esistono notevoli differenze strutturali e funzionali tra Homo sapiens e i nostri cugini viventi più prossimi, le grandi scimmie antropomorfe108. Tra queste differenze, la più evidente è rappresentata dallo straordinario sviluppo cerebrale che ha caratterizzato molti passaggi dell’evoluzione del genere Homo109. Seppur con una organizzazione anatomica di base che è comune a quella presente negli altri mammiferi, il cervello umano mostra alcune singolari caratteristiche. Tra i primati, l’encefalo umano ha il più elevato numero di neuroni: recenti dati indicano circa 86 miliardi, mentre scimpanzé e gorilla ne possiedono rispettivamente 28 e 33 miliardi. Tuttavia, il nostro encefalo non è il più grande presente del mondo animale, primato che spetta ai cetacei e agli elefanti. Sebbene però l’elefante possieda un cervello di ben 250 miliardi di neuroni, solo 5.6 milioni (circa il 2.2%) sono neuroni corticali, i più importanti per le capacità cognitive superiori. Al contrario, il 20.9% dei neuroni del cervello umano sono corticali, una quantità circa il 10% più grande della porzione corticale di ogni altro mammifero. La corteccia cerebrale umana è infatti, in proporzione, la più grande nel regno animale e contiene più neuroni di ogni altro mammifero. L’enorme e funzionalmente complicato cervello non è l’unico tratto distintivo umano, esistono numerose altre differenze che ci rendono “eccezionali” tra i primati e che riguardano l’anatomia orientata al mantenimento di una postura ortograda, l’assenza di una pelliccia di rivestimento, la capacità di articolare linguaggio. Ciò che rende l’essere umano biologicamente ancora più interessante è il fatto che la nostra specie si sia evoluta a partire da un antenato ancestrale molto simile agli scimpanzé, circa 6 milioni di anni fa. Un intervallo di tempo particolarmente breve quando si ragiona in termini evolutivi. Giusto per fare un esempio, basti pensare che il topo e il ratto, due specie di muridi talmente simili da un punto di vista strutturale e funzionale che possono facilmente essere confuse, si sono separate tra i 12 e i 19 milioni di anni fa; quindi, nella più “veloce” delle ipotesi, il loro tempo di divergenza è stato il doppio di quello che si presume essere trascorso durante l’ominazione. Ci troviamo di fronte a un’evoluzione biologica, la nostra, che in modo estremamente rapido, avrebbe prodotto ominidi sempre più diversificati nei caratteri110. Di fronte a un tale “miracolo” della Natura, gli scienziati si affannano da decenni nel cercare di comprendere quali siano stati i determinanti genetici responsabili di un processo bio-evolutivo che ha trasformato così rapidamente organismi scimmieschi in creature pensanti, in grado di dominare sulle altre specie e di trasformare gli ecosistemi a proprio piacimento. In altre parole, la scienza è alla ricerca di quei geni che ci rendono “umani” nel senso biologico del termine. Sebbene a oggi si lavori sul sequenziamento dei genomi di due antiche specie di ominidi appartenenti al genere Homo, Neanderthal e Denisova, la qualità dei dati non è ancora tale da permettere indagini profonde. Ancora oggi, infatti, molti scienziati impegnati nella ricerca delle basi genetiche della nostra evoluzione devono utilizzare i genomi delle grandi scimmie antropomorfe viventi come termine di paragone. Tra il nostro genoma e quello di scimpanzé, la scimmia geneticamente più affine alla nostra specie, è stata stimata una differenza di circa il 3%. Nel 2014, un articolo pubblicato su «Genome Research» titolava: “Comparing the human and chimpanzee genomes: Searching for needles in a haystack” (Paragonare i genomi di uomo e scimpanzé: Cercare aghi nel pagliaio)111. Questo titolo dal sapore volutamente provocatorio riassume una profonda verità: comparare il nostro genoma con quello di scimpanzé per identificare cosa sia in grado di produrre tratti uomo-specifici è un’impresa talmente complessa che, ancora oggi, siamo lontani dal vedere una sua conclusione. Eppure, nel corso degli anni, sono state annotate un certo numero di differenze molecolari che possono aver contribuito al processo di ominazione, ad esempio: 1) la fusione di due cromosomi ancestrali per formare il cromosoma 2 umano; 2) regioni di DNA inattivo nei cromosomi umani 1, 9, 16 e Y; 3) una inversione peri-centrica uomo-specifica che ha interessato i cromosomi umani 1 e 18. Si tratta di differenze cromosomiche che potrebbero aver prodotto delle importanti ricadute durante la nostra evoluzione ma che da sole, non riescono a giustificare la grande complessità biologica dell’essere umano. Dall’indagine sui cromosomi, la maggior parte degli studi comparativi uomo-scimmia si è perciò concentrata sui geni codificanti per proteine. Questi tipi di studi si basano su due semplici assunti: 1) i reali “motori molecolari” delle cellule e quindi dei tessuti e degli organi sono le proteine. Ne consegue che il nostro super cervello, così strutturalmente e funzionalmente differente da quello dei nostri cugini primati, deve essere necessariamente il risultato dell’azione combinata di proteine uomo-specifiche che la Natura ha “plasmato” negli ultimi 6 milioni di anni; 2) una proteina che svolge una funzione fondamentale, tende a essere “conservata” nella scala evolutiva, cioè tende a essere sempre presente nelle varie specie. Se si paragona quindi una proteina umana che abbia una funzione fondamentale con la stessa proteina di un’altra specie (proteina ortologa), le differenze saranno inesistenti o minime. Quindi, se proteine estremamente conservate nel corso dell’evoluzione dei Mammiferi si ritrovano anche nell’uomo ma con modifiche (mutazioni) che ne alterano in maniera sostanziale la funzione, queste proteine potrebbero considerarsi dei buoni candidati per spiegare le basi della diversità biologica di Homo sapiens. In parole povere, i genetisti nell’ultimo decennio sono andati alla ricerca di geni codificanti per proteine che abbiano subito mutazioni uomo-specifiche in grado di conferire loro nuove e più performanti funzioni o di geni che siano comparsi de novo nel genere umano. Qual è stato il risultato di questa “caccia” ai “geni chiave” della nostra evoluzione? Nonostante i dati numerici differiscano tra uno studio e l’altro, possiamo giungere alla seguente stima: nel nostro genoma sono presenti circa 300 geni uomo-specifici112 e di questi solo qualche decina sono geni de novo. È un risultato soddisfacente? Indubbiamente no! Solo la metà di questi geni uomo-specifici è stata associata a funzioni cerebrali ma nessuno di essi sembra avere un ruolo davvero determinante nello sviluppo di un cervello così complesso come quello di Homo sapiens. In altre parole, ancora oggi, i geni che, in circa 6 milioni di anni, ci hanno permesso di scendere dagli alberi e conquistare il cosmo, non sono stati identificati. Secondo diversi esperti, questa inconsistenza tra numero di geni de novo e l’eccezionale complessità di Homo sapiens sarebbe dovuta a un errore di prospettiva. Stiamo cioè cercando “gli aghi” nei posti sbagliati del “pagliaio”. Forse perché questi “aghi”, di cui siamo alla disperata ricerca, hanno un aspetto che, almeno inizialmente, nessuno aveva previsto. Da quando è nata la genetica moderna, gli scienziati hanno sempre ritenuto che gli elementi più importanti nel genoma delle specie fossero i Geni Codificanti per Proteine (GCP), sequenze di DNA che vengono trascritte in molecole di RNA che, a loro volta, vengono lette e decodificate per sintetizzare le proteine. Questa visione “proteino-centrica” della genetica molecolare ha cominciato a scricchiolare quando, agli inizi di questo secolo, i risultati del Progetto Genoma Umano hanno suscitato non poche perplessità e anche qualche “imbarazzo” tra gli addetti ai lavori. Solo il 2% del nostro intero genoma codifica per proteine: si stima che la nostra specie abbia un bagaglio di circa 20.000 GCP, un numero non molto diverso da quello dei GCP presenti, ad esempio, in Caenorhabditis elegans, un minuscolo verme113. Si intuisce facilmente che la questione della complessità di Homo sapiens non poteva più essere spiegata, così come era sempre stato, tramite la semplice conta dei geni e ciò spinse la ricerca verso una nuova e più complessa fase della genetica molecolare. Oggi, le nostre conoscenze sul tema sono migliorate. Attualmente sappiamo che il 98% del nostro genoma che non ha proprietà codificanti per proteine e che un tempo era, per tale motivo, definito “junk DNA”, cioè “DNA spazzatura”, in realtà viene in buona parte trascritto in molecole di rna che svolgono una notevole serie di attività molecolari114. Questa vasta porzione del genoma dalle funzioni “inattese” e che rappresenta quasi interamente l’informazione contenuta nel nostro DNA, ha assunto un nome quasi romanzesco: Dark Matter of the Genome, ovvero “la materia oscura del genoma”115. Per essere più precisi, la materia oscura del genoma è costituita da: 1. sequenze che regolano l’espressione dei geni, cioè regioni di DNA che controllano dove, quando e come un gene deve attivarsi durante lo sviluppo e la vita di un organismo; 2. geni che esprimono molecole di RNA che non vengono tradotti in proteine, ovvero Geni Non Codificanti per Proteine (GNCP). I GNCP sono circa cinque volte numericamente superiori ai GCP e si sono accumulati nel corso dell’evoluzione dei genomi in modo direttamente proporzionale alla complessità degli organismi. Lo stesso processo non è avvenuto per i GCP, il cui numero si è quasi stabilizzato a partire dalla comparsa dei vertebrati. Da un punto di vista molecolare, gli RNA prodotti dai GNCP esercitano un controllo su larga scala dell’espressione genetica, regolando importanti processi cellulari e lo sviluppo embrionale116. In altre parole, i GNCP e, per estensione, tutta la materia oscura del genoma rappresentano la “chiave di volta” della ricerca che identifica in essi i reali determinanti genetici alla base del funzionamento degli organismi viventi, della loro complessità e della loro evoluzione. Torniamo alla domanda che ci eravamo posti all’inizio. In cosa consiste la reale differenza genetica tra Homo sapiens e grandi scimmie? La risposta più evidente sembra risiedere non nel numero di geni e nemmeno nel tipo di geni ma piuttosto in come i GCP vengono espressi nell’essere umano. Numerose evidenze sperimentali dimostrano che l’espressione genica di uomo e scimmie si estrinseca in modo profondamente diverso, in modo particolare durante lo sviluppo embrionale, periodo in cui si strutturano le differenze tra le specie. Cosa controlla l’espressione genica? Cosa regola quel 2% del nostro genoma che codifica per tutto quel prezioso bagaglio di proteine che consentono la costruzione di cellule, tessuti, organi e che assemblano tutto in quella complessa e misteriosa “macchina” che è Homo sapiens? La risposta sta proprio nella materia oscura del genoma, in tutte quelle regioni non codificanti (GNCP e regioni regolative) che dettano precise istruzioni su “come siamo fatti e come funzioniamo”. Alcuni recenti lavori dimostrano che la maggior parte delle differenze esistenti tra il genoma umano e quello delle grandi scimmie risiede proprio su regioni di DNA non codificanti. Una recente ricerca ha fatto rilevare che circa 510 regioni di DNA non codificante presenti nelle scimmie sono invece assenti in Homo sapiens. I nostri progenitori hanno perso determinate porzioni di DNA che inibivano l’espressione di alcuni geni collegati a tratti tipicamente umani117. Nello specifico, geni come GADD45G, un gene coinvolto nello sviluppo encefalico, poco attivo nei primati poiché controllato e inibito da una particolare regione di DNA, è nell’essere umano invece libero di esprimersi proprio a causa dell’assenza di quella regione di controllo. Più di 100.000 mutazioni sono state individuate nelle regioni di DNA non codificanti del nostro genoma. Si tratta di mutazioni uomo-specifiche assenti negli altri primati118. La presenza di un numero così elevato di mutazioni in regioni di DNA non codificante sembra un fenomeno tipico della nostra specie. Circa 2700 di queste regioni di DNA, alcune delle quali chiamate Human Accelerated Regions (HARs), ovvero “regioni umane a evoluzione accelerata”, sono state caratterizzate. Si presume che le HARs controllino il tempo, lo spazio e il modo con il quale i gcp vengono espressi119. Oggi sappiamo che più di 100 HARs regolano l’espressione genica durante lo sviluppo encefalico. Ad esempio, HAR1, un long non coding RNA (GNCP), viene espresso nei neuroni di Cajal-Retzius durante lo sviluppo della neo-corteccia umana. Queste scoperte sgretolano radicati paradigmi della genetica molecolare, idee che suggerivano che alla base delle caratteristiche di Homo sapiens vi fossero chissà quali geni dalle “miracolose” proprietà. In realtà, condividiamo con le scimmie quasi gli stessi GCP ma ciò che ci rende peculiari risiede nel fatto che utilizziamo tali geni in maniera diversa, poiché essi si trovano sotto il controllo dalla materia oscura del genoma che regola la loro espressione in un modo squisitamente uomo-specifico. La diversa regolazione genica cui è andato incontro il genoma umano (affinché potessimo diventare quello che siamo) è da considerarsi un unicum e se considerata da un punto di vista “ingegneristico” appare anche perfettamente logica. Questo concetto merita di essere spiegato meglio. Immaginiamo di rappresentare l’assetto genomico dell’antenato comune di Homo e scimpanzé come una casa. La forma di questa casa è determinata da una serie di moduli strutturali, come pareti, camere, servizi igienici, cucina, ecc. Questi moduli sono i GCP. I moduli di questo edificio sono perfettamente integrati e funzionali tra loro grazie a dei corridoi che mettono in comunicazione le varie aree, con un sistema elettrico che illumina adeguatamente i vari ambienti, un sistema di riscaldamento che mantiene una costante e piacevole temperatura, un sistema idrico che fa in modo che l’acqua arrivi nei punti giusti della casa. Questi elementi che rendono funzionale e abitabile la casa sono i GNCP, cioè i costituenti della materia oscura del genoma. Continuando con la nostra metafora, immaginiamo un gruppo di ingegneri che vogliono ristrutturare questa casa attraverso un progetto ben preciso. La loro idea è quella di rivoluzionare rapidamente l’edificio sopra citato. A questo punto gli ingegneri hanno davanti tre possibilità… 1. Buttare a terra la costruzione e riedificare tutto da zero. Questa ipotesi sarebbe troppo costosa in termini di risorse e tempo impiegato e gli ingegneri sarebbero costretti a riscrivere da zero l’architettura di base già collaudata e che si è rivelata funzionante in passato. Ridisegnare tutto ex novo è una soluzione non percorribile anche in natura: la natura conserva ciò che di buono ha fatto ed è quello che farebbero anche degli ingegneri oculati, quando hanno già un canovaccio efficace su cui lavorare. 2. Ristrutturare aggiungendo nuove stanze, eliminandone alcune, allungando le pareti, spostando la cucina, ampliando il bagno, ecc. Continuando nella metafora, in termini genetici, significherebbe aggiungere a un organismo geni de novo in maniera massiccia, modificare la struttura di molti altri geni presenti, eliminare quelli più obsoleti. Questa linea di condotta può sembrare logica sia da un punto di vista ingegneristico che biotecnologico ma presenta un’importante difficoltà. Come sanno bene i costruttori, aggiungere stanze dal design moderno a una struttura preesistente stilisticamente più vintage è un processo che porta inevitabilmente a un ambiente esteticamente e funzionalmente non armonico e poco integrato. Si impegnerebbero tante risorse, tanta fatica e anche tanto tempo (tempo che in questa nostra metafora gli ingegneri non hanno), per ottenere un puzzle di moduli funzionali, vecchi e nuovi, mal accoppiati e disarmonici. Sul versante biotecnologico, significherebbe aggiungere nuovi geni e nuove versioni di geni pre-esistenti, in un sistema biologico già perfettamente calibrato e i cui elementi molecolari sono in equilibrio tra di loro. Cosa succede infatti quando un nuovo gcp viene inserito in un sistema biologico? La proteina che ne deriva, che chiameremo (A), per poter espletare le sue funzioni, dovrà interagire con un altro partner molecolare che chiameremo (B). Questa nuova interazione andrà a turbare tante altre interazioni che (B) intratteneva con (C) o (D), i quali a loro volta modificheranno il loro comportamento che interferirà con le interazioni di (C) e (D). Si intuisce come il semplice inserimento del modulo (A) generi a cascata una serie di eventi difficili da prevedere. È come inserire nuove tessere in un domino già estremamente complesso. Questa sorta di visione “olistica” dei sistemi biologici, chiamata anche network biology, chiarisce come l’inserimento di nuovi GCP provochi potenziali problemi di integrazione del “nuovo arrivato”, tranne nel caso in cui la natura si prenda il suo tempo (milioni di anni) per inserire perfettamente il nuovo GCP all’interno di una struttura già ben organizzata120. Pensate quanto tempo sarebbe stato necessario per trasformare organismi scimmieschi in uomini tramite l’aggiunta di migliaia e migliaia di geni di nuova concezione, di certo molto più di 6 milioni di anni. Arriviamo quindi alla terza possibilità. 3. Effettuare il minimo possibile dei lavori di ristrutturazione. Lasciando inalterata o quasi la struttura architettonica di base (pareti, soffitto, pilastri, servizi principali), gli Ingegneri hanno invece provveduto a connettere in maniera più efficiente le varie aree della casa, ridisposto le finestre e le porte, rifatto l’impianto elettrico e quello idrico, permettendo così l’installazione di elettrodomestici “più esigenti” da un punto di vista dei consumi ma certamente più performanti e ottimali. L’opera è stata infine completata con un tocco estetico, stuccando e ridipingendo le pareti. Trasponendo questi concetti edilizi alle trasformazioni a cui è andato incontro il genoma dei nostri progenitori, potremmo asserire che, durante il processo di ominazione, si è preferito lasciare quasi del tutto inalterato il set di GCP, attuando invece un “ammodernamento” degli elementi che regolano il modo con cui l’organismo sfrutta questi GCP. Il genoma umano è stato reso capace di combinare le funzioni di GCP pre-esistenti in maniera “più intelligente” di quanto non avessero fatto i genomi dei nostri progenitori. Il nostro genoma ha così sviluppato nuove “capacità”, facendo funzionare in modo diverso ciò che già possedeva. La struttura dell’edificio è rimasta quasi del tutto inalterata, ma ritinteggiando e aggiungendo qualche finestra e porta, non sembra più la stessa casa. Allo stesso modo uomo e scimmia ci appaiono, pur nelle loro similarità, due organismi molto differenti. Eppure, queste due specie discendono dalla stessa ancestrale creatura e sono separate da una divergenza temporale di soli 6 milioni di anni. Il loro assetto genico (GCP) è rimasto sostanzialmente inalterato ma ciò che li distingue è appunto un set “modificato” di GNCP e sequenze regolatrici che popolano la materia oscura del genoma. Nel genoma umano i gncp hanno un modo più sofisticato di interagire tra di loro e con i GCP, il che ha condizionato in maniera unica l’espressione fenotipica e funzionale di Homo sapiens. A questo punto ci si potrebbe anche chiedere dove risieda la peculiarità di tale processo evolutivo? Bisogna premettere che la strategia alla base del processo di ominazione non è impossibile ma, molto più semplicemente, è improbabile. Prima della comparsa della nostra specie, la natura non aveva mai, in tempi evolutivamente così brevi, stravolto la struttura e la funzione di un organismo attraverso il semplice rimescolamento delle carte di un mazzo vecchio di sei milioni di anni, per giunta senza aggiungere nulla di nuovo o quasi. In tal senso, l’ominazione appare quasi come il risultato di una strategia che mostra connotati di “intelligenza scientifica”. Oggi, quando un ingegnere genetico si trova a dover modificare un organismo, utilizza la strada più semplice e scontata: inserisce o modifica un GCP. L’inserimento di un GCP estraneo all’interno di un genoma è una procedura che si deve scontrare con quanto precedentemente detto a proposito dei principi alla base della network biology. Più l’organismo da modificare è complesso, più l’inserimento o la modifica genetica risulta problematica e con scarse probabilità di successo. Questo accade ogni qualvolta si debba modificare un unico elemento genico. Pensate quanto complesso sia dover ingegnerizzare migliaia di geni. L’ideale sarebbe potenziare il funzionamento delle network biology senza alterarne la struttura (cioè il numero e il tipo di GCP). Per far questo bisognerebbe essere in possesso di una completa e profonda conoscenza della materia oscura del genoma e di come le diverse decine di migliaia di elementi che la costituiscono si interfacciano con il resto del genoma. Purtroppo, sappiamo ancora molto poco di queste regioni di DNA non codificanti: ovviamente di un certo numero di essi conosciamo il funzionamento e i loro target molecolari, tuttavia, quello che manca è una visione d’insieme che ci permetta di comprendere il ruolo e l’integrazione di tutti gli elementi. Potremmo concludere dicendo che il processo di ominazione sembrerebbe il frutto di un oculato esperimento di ingegneria genetica basato su modifiche della porzione di controllo del nostro genoma. La Natura si è sempre mostrata agli occhi di chi ha la fortuna di studiarla, come un ingegnere genetico ante litteram che, con pazienza, nel corso di tempi lunghissimi, fa prove su prove di modifica del DNA. Il 99% di queste prove fallisce ma l’1% ha successo. Tutto questo accade per ogni elemento genico codificante e non: miliardi di possibili combinazioni casuali che vengono filtrate e selezionate sulla base delle necessità del momento. Qualunque cosa abbia portato alla nascita di Homo sapiens rappresenta una singolarità evolutiva, un evento senza precedenti che sembra eludere gli ortodossi princìpi darwiniani. Forse, a un certo punto della storia della vita sulla Terra, la Natura ha smesso di seguire le sue regole, adottando processi il cui significato non conosciamo ancora; o forse, il percorso evolutivo che ha condotto a Homo sapiens non ha nulla a che fare con un processo puramente naturale ed è invece associabile a un fenomeno indotto. Prendere in considerazione quest’ultima ipotesi apre la strada a pensieri inquietanti che certamente metterebbero in discussione l’essenza stessa di tutti noi esseri umani121. Facciamo finta che… Al lettore attento non sono certo sfuggiti alcuni passi del capitolo contenenti affermazioni che aprono potenzialmente nuove strade e suscitano importanti riflessioni. È comunque utile riprenderli. «La diversa regolazione genica cui è andato incontro il genoma umano (affinché potessimo diventare quello che siamo) è da considerarsi un unicum e se considerata da un punto di vista “ingegneristico”, appare anche perfettamente logica […]. Il genoma umano è stato reso capace di combinare le funzioni di GCP pre-esistenti in maniera “più intelligente” di quanto non avessero fatto i genomi dei nostri progenitori. Il nostro genoma ha così sviluppato nuove “capacità”, facendo funzionare in modo diverso ciò che già possedeva […]. Bisogna premettere che la strategia alla base del processo di ominazione non è impossibile ma, molto più semplicemente, è improbabile […]. Prima della comparsa della nostra specie, la natura non aveva mai, in tempi evolutivamente così brevi, stravolto la struttura e la funzione di un organismo attraverso il semplice rimescolamento delle carte di un mazzo vecchio di sei milioni di anni, per giunta senza aggiungere nulla di nuovo o quasi. In tal senso, l’ominazione appare quasi come il risultato di una strategia che mostra connotati di “intelligenza scientifica” […]. Potremmo concludere dicendo che il processo di ominazione sembrerebbe il frutto di un oculato esperimento di ingegneria genetica basato su modifiche della porzione di controllo del nostro genoma». Riassumendo: siamo il prodotto di una serie di eventi definiti come un unicum altamente improbabile, una serie di mutazioni che spesso producono risultati non funzionali; il tutto si presenta con le caratteristiche di una strategia elaborata da una intelligenza scientifica. Ovviamente non facciamo dire alla scienza più di quanto non dica, ma procediamo con un parallelismo che è quanto meno lecito nel momento in cui dichiariamo formalmente che è nostra scelta metodologia “fare finta che” i testi antichi contengano nella sostanza racconti veri, siano cronache di eventi concretamente verificatisi. La Bibbia ci narra di Elohim che hanno fabbricato l’uomo utilizzando il loro (tzelem), cioè quel quid di materiale che contiene la loro immagine e lo hanno fatto all’interno di un progetto preciso nelle finalità: un progetto quindi intelligente. È un tema su cui non ci soffermiamo qui in quanto ampiamente sviscerato in precedenza122, 123. Della clonazione si dice in altra parte di questi lavori, pertanto riportiamo il racconto molto più particolareggiato che ci hanno lasciato le scritture sumero-accadiche e che pare la descrizione di ciò che sopra è stato solo tratteggiato in forma di pura ipotesi. Gli dèi appartenenti ai ranghi inferiori si lamentano del duro lavoro cui sono sottoposti; i comandanti comprendono la necessità di trovare un sostituto che possa svolgere le funzioni più faticose ed Enki, uno dei due figli del capo dell’impero, afferma che la cosa è fattibile. Convoca la sorella Ninmah e altre “dee” che la dovranno assistere in questa operazione. La dea procede e, in quella sua opera di fabbricazione, si verificano una serie di fatti che sono per così dire normali e attendibili quando si interviene con sperimentazioni complesse come quelle tipiche dell’ingegneria genetica. Di seguito riassumiamo in estrema sintesi quanto ampiamente trattato nei particolari in La Bibbia è un libro di storia (op. cit.). Ninmah produsse un uomo che non teneva le mani dritte; poi ne fabbricò uno che avendo gli occhi sempre aperti non tollerava la luce; un terzo aveva i piedi gonfi e paralizzati dunque non funzionanti; poi ne fabbricò uno che non tratteneva l’urina; la creatura seguente era una donna che non poteva partorire; il sesto era un essere asessuato. Visti questi tentativi fallimentari, intervenne direttamente Enki e per lui il racconto riporta espressamente l’atto del riversare il seme dal pene nella vagina di una femmina. Ma neppure lui conseguì un risultato migliore, anzi, l’essere da lui prodotto aveva la testa, il collo, gli occhi malati, la gola era chiusa, anche i suoi organi interni erano mal funzionanti, i problemi alla schiena, alle gambe e alle mani gli impedivano di lavorare, non riusciva a nutrirsi e neppure a sedersi… Solo dopo questa successione di fallimenti si arrivò finalmente a produrre l’individuo funzionante che venne poi ammaestrato/istruito come documentato nel presente lavoro. Non facciamo ulteriori commenti, lasciamo al lettore le riflessioni che un simile parallelismo tra scienza e testi antichi inevitabilmente suscita e concludiamo rimarcando nuovamente quanto espresso dal prof. Ragusa in chiusura di capitolo: «Forse, a un certo punto della storia della vita sulla Terra, la Natura ha smesso di seguire le sue regole, adottando processi il cui significato non conosciamo ancora; o forse, il percorso evolutivo che ha condotto a Homo sapiens non ha nulla a che fare con un processo puramente naturale ed è invece associabile a un fenomeno indotto. Prendere in considerazione quest’ultima ipotesi apre la strada a pensieri inquietanti che certamente metterebbero in discussione l’essenza stessa di tutti noi esseri umani». 6 Racconti antichi di tecnologie future «Più migliorano i nostri strumenti e più lontano riusciamo a vedere, ma non nel futuro, nel passato, eventi passati la cui luce non ci ha ancora raggiunti». dal film “ADELINE – L’ETERNA GIOVINEZZA” In un futuro non troppo lontano, alcune conquiste della scienza potranno, più di altre, condurci a forme molto sofisticate di manipolazione genetica: persino la riproduzione umana potrà essere “progettata” e condotta in base a regole dettate dalla bio-tecnologia, in un mondo dove a dare vita ai prossimi nascituri potranno essere addirittura le macchine. In questo capitolo in particolare, prenderemo in esame i libri sacri della tradizione indiana e vedremo come in questi testi esistano potenziali rispondenze con diverse conoscenze biologiche attuali, in modo particolare con lo sviluppo embrionale e con la possibilità che tale sviluppo possa anche verificarsi al di fuori del corpo materno, in una condizione che chiamiamo ectogenesi. A tal proposito, sarà il documentarista e scrittore Enrico Baccarini124, conoscitore dell’antica cultura indiana, a fornirci il suo amichevole contributo relativamente a certe informazioni. Nell’affermare che i testi indiani non richiedono interpretazioni di sorta, Baccarini ci proporrà una tesi secondo la quale in questi antichi libri affiorano elementi relativi a tecnologie avanzate di vario genere, anche di tipo biologico, sostenendo la necessità di poter analizzare questi elementi proprio alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Ectogenesi e sviluppo embrio-fetale fuori dal corpo materno Con il termine “ectogenesi” (dal greco ektos, “esterno/fuori”, e genesis, “origine”) intendiamo qui riferirci a un processo di gestazione al di fuori del corpo materno che, dalla prima cellula del nuovo individuo (zigote), arriva fino al termine dello sviluppo. Il primo a immaginare la possibilità di una riproduzione per ectogenesi in una sorta di “utero artificiale” fu il biologo britannico John B. Haldane che, nel 1924, non soltanto ritenne tale possibilità percorribile, ma ne preconizzò il perfezionamento tecnologico intorno al 2070. Anche se a oggi l’ectogenesi può apparire come una pratica che ha dell’assurdo, la previsione dello scienziato britannico potrebbe rivelarsi non così approssimativa. Buona parte della tecnologia relativa alla componentistica di base necessaria a produrre un ambiente per lo sviluppo embrio-fetale esiste già e, almeno da un punto di vista concettuale, la realizzazione di una macchina integrata che risulti funzionale a una completa ectogenesi sarebbe possibile. Nella nostra specie, l’intero processo di sviluppo embrio-fetale ha una durata di circa quaranta settimane. Oggi, sia l’inizio che la fine di tale processo (rispettivamente le prime due settimane e dalla ventiquattresima settimana in poi) possono già svolgersi al di fuori del corpo materno. Sappiamo infatti che, subito dopo la fecondazione, lo zigote può iniziare a dividersi in laboratorio fino al raggiungimento di uno stadio di sviluppo chiamato di blastocisti. La blastocisti si presenta come una formazione sferica cava, di circa 200-300 cellule, contenente al suo interno un particolare gruppo di cellule dalle quali si costituirà l’embrione propriamente detto, a condizione che la blastocisti sia impiantata nell’utero. Se invece consideriamo il periodo ultimo della gestazione umana, sappiamo che il feto potrebbe completare il proprio sviluppo anche al di fuori dal corpo materno (all’interno di incubatori), a partire dalla ventiquattresima settimana. Una ectogenesi che possa definirsi completa, come detto, prevede però la possibilità di condurre l’intera gestazione fuori dal corpo materno. Questo richiede di rispondere tecnologicamente alle esigenze biologiche dell’individuo in fase di sviluppo durante quelle ventidue settimane che intercorrono tra la seconda e la ventiquattresima. Allo stato attuale della ricerca applicata, questo intervallo temporale di sviluppo embrio-fetale non può svolgersi al di fuori del corpo materno. Ricerche in questo senso, atte a colmare quest’arco temporale, sono però alle porte e implicano studi volti, da una parte, a mantenere in laboratorio embrioni in fase di sviluppo per un periodo superiore alle due settimane dalla formazione dello zigote (limite legalmente consentito), dall’altra parte ci s’impegna nella progettazione di macchine tecnologicamente avanzate che garantiscano la prosecuzione della vita anche a infanti nati prima della ventiquattresima settimana di gestazione125. Prima di addentrarci negli aspetti più scientifici dell’ectogenesi, vagliamo alcune delle informazioni potenzialmente collegabili a questa pratica contenute nei testi indiani. Antichi testi indiani descrivono nascite per ectogenesi? ENRICO BACCARINI Nell’India antica il termine shastra significa “scritto sacro”. Tutti gli shastra indiani hanno origine dal Veda, poi inclusi all’interno di altri volumi come il Mahabharata o i Purana. In questi libri, un attento studio ha permesso negli ultimi anni di identificare qualcosa di sorprendente e forse anche inconcepibile, ovvero riferimenti a ciò che parrebbero essere descrizioni di vere e proprie nascite al di fuori dal corpo materno e manipolazioni genetiche ante-litteram. Nel maestoso poema epico Mahabharata, possiamo leggere come il grande saggio Vyasa riuscì a portare alla luce i cento fratelli guerrieri Kaurawa e la loro sorella Dusshala126. La guerra dei Bharata vide fronteggiarsi due fazioni: la famiglia dei cento Kaurava e quella dei loro cugini, gli spodestati Pandava, che vinsero lo scontro finale nella grande battaglia di Kurukshetra, durata diciotto giorni e descritta nel Mahabharata. Quello che vogliamo qui evidenziare è come nacquero i cento fratelli Kaurawa. Gandhari rimase incinta di suo marito, il re Dhrutarashtra. Dopo ben due anni di gestazione, non era riuscita a partorire suo figlio mentre Kunti, moglie di Pandu fratello del re, diede alla luce suo figlio Yudhishthira. Gandhari si adirò profondamente in quanto suo figlio aveva perso, come primogenito, il diritto al trono. Colma di rabbia, la regina decise di abortire ma ciò che si presentò davanti ai suoi occhi non era un feto bensì una massa che non possedeva alcun aspetto umano. Scioccata, Gandhari invocò il grande saggio Vyasa che, raggiunta la donna, le chiese di poter prendere quanto era stato abortito. Vyasa quindi divise accuratamente quella massa in 101 pezzi e ripose ogni singolo pezzo in una Ghruta Kumbha127. Il termine Ghruta non identifica una tradizionale giara contenente olio Ghee. Il termine Ghruta indica più propriamente un elemento nutriente che fornisce energia vitale, mentre il termine Kumbha identifica un tipo particolare di giara che, a livello simbolico, nell’induismo ha da sempre rappresentato l’utero, la fertilità, il potere generativo degli esseri umani. Si potrebbero identificare le Ghruta Kumbha come delle “urne nutrienti” per sviluppare la vita. Proprio da questi particolari contenitori nasceranno i cento Kaurawa. Riteniamo importante astenerci dal giudizio e dalle interpretazioni ma è altrettanto doveroso constatare come la descrizione appena riportata si discosti totalmente dai miti che conosciamo e ancor più possa possedere al suo interno un background sapienziale unico, non certamente frutto di un’invenzione mitopoietica (che non avrebbe mai potuto avere così tanti elementi circostanziabili e associabili a processi reali). Queste descrizioni sembrano piuttosto avvicinarci a una scienza dimenticata e forse anche a conoscenze che solo oggi, come spiegherà più avanti il biologo Pietro Buffa, stiamo lentamente riscoprendo. Anche il testo sacro Rigveda descrive una nascita fuori dal corpo materno. In questo libro viene riportato infatti come Agastia e Vashista nacquero dal seme di Mitra-Varuna che fu posto in un’urna chiamata Pushkara128. La parola Pushkara è formata da due parti, Push significa “nutrire” mentre Kara significa “fare”. Un’urna che nutre o un recipiente che possiede sostanze nutritive è quindi detto Pushkara. Sia Agastia che Vashista non ebbero dunque una madre ma solo un padre. Anche la storia di Drona ci narra che non nacque da un grembo materno129. Drona nacque infatti da un recipiente fatto di foglie e il suo nome significa appunto “recipiente di foglie”. Suo padre fu Bharadwaja, la figura legata al testo noto come Vymanika Shastra. Questa la sua storia: un giorno mentre si trovava con i suoi compagni sulle rive del fiume Gange, Bharadwaja vide una apsara (ragazza vergine) di nome Ghritachi giunta per fare il bagno. Il saggio fu sopraffatto dal desiderio ed eiaculò raccogliendo il liquido seminale in un recipiente chiamato per l’appunto Drona. Drona è un altro esempio di nascita per ectogenesi. Tutte queste descrizioni sembrano riportare alla mente una sorta di riproduzione in ambienti in grado di ricreare quel complesso supporto biologico normalmente fornito dal corpo materno. È interessante notare come generalmente questo tipo di nascite erano indicate con il nome sanscrito di Ayonija che letteralmente significa i “non nati” ovvero, come specifica il dizionario della lingua Telugu, «nati miracolosamente… non nati da un utero»130. Manipolazione genetica riproduttiva nell’antica India? Il primo ministro indiano Narendra Modi lo ritiene possibile ENRICO BACCARINI Spesso ci viene naturale pensare che la storia sia un processo lineare in cui l’evoluzione scientifica, tecnologica, filosofica e sociale del genere umano abbia gradualmente condotto all’epoca moderna. In questo determinismo storico-scientifico fanno breccia però alcune realtà in grado di scardinare questo nostro assetto cognitivo. La riscoperta di conoscenze o pratiche “fuori dal tempo”, in non poche occasioni, ha messo a dura prova lo status quo, mettendo talvolta in discussione molte delle nostre granitiche certezze. Questo fenomeno si sta verificando nello studio delle antiche civiltà in cui, da più parti e in maniera sempre maggiore, emergono evidenze di un “sapere” inconcepibile per l’epoca; un sapere in parte codificato sia nelle leggende che, soprattutto, nei testi sacri di svariati popoli. Tale realtà è oltremodo evidente nel sub-continente indiano. Lo studio di libri come il Mahabharata o i Purana, tra i più antichi testi sacri dell’umanità, ha permesso, in modo particolare negli ultimi anni, di identificare elementi e avvenimenti stupefacenti in riferimento a ciò che parrebbero descrizioni di manipolazione degli embrioni o anche manipolazioni genetiche ante-litteram. Ipotizzando di essere davvero dinnanzi a descrizioni di questo tipo, l’unico modo per capirne la loro reale valenza è quello di sottoporre ad attento vaglio e analisi di specialisti i riferimenti citati. Il 28 ottobre 2014 il quotidiano inglese «The Guardian» titolò un suo articolo “Il primo ministro indiano sostiene che la genetica esisteva già in tempi antichi”, il sottotitolo recitava “Narendra Modi, primo ministro indiano, afferma che la chirurgia estetica e la genetica riproduttiva sono esistite migliaia di anni fa”131. La stessa notizia veniva ripresa successivamente dal quotidiano «The Hindu» che riportava alcune parole del ministro: «Possiamo sentirci orgogliosi di ciò che il nostro Paese ha raggiunto nel campo della scienza medica in un remoto passato. Abbiamo tutti letto nel Mahabharata di Karna132 e se ci riflettiamo ci renderemo conto come non fosse nato dal grembo di sua madre e questa è una prova che la scienza della genetica era già presente»133. Quali motivazioni potevano aver spinto una figura così influente a esternare dichiarazioni di questo tipo? Indubbiamente si potrà obiettare che il nazionalismo promosso da Modi potesse aver avuto qualche influenza su tali dichiarazioni, ma rimane il fatto che sono gli stessi testi sacri indiani a fornirci documentazioni in tal senso, circostanziando in taluni casi queste realtà con un livello di dettaglio a dir poco sconcertante. Non c’è bisogno di interpretazioni, i testi indiani sono chiari fin dalla loro prima lettura e non si prestano a fraintendimenti. A questo punto indaghiamo se nel già citato Mahabharata siano anche presenti cognizioni pertinenti l’embriologia e la genetica. I primi approcci scientifici alla comprensione dell’embriologia umana vengono fatti risalire ad Aristotele (384-322 a.C.) ma tale realtà sembra essere molto più antica e affondare nel remoto passato dell’India. Kapil Muni fu probabilmente il primo ad avere affrontato questo campo di studi. Sia nel Mahabharata (composto secondo alcuni studiosi addirittura nel 5561 a.C.) che nella Bhagavata Purana (composto nel 1652 a.C.) sono presenti chiari riferimenti e dettagli riferibili all’embriologia. Già nei tempi più remoti, gli indiani conoscevano la differenza tra le due componenti in grado di originare la vita: il Raja (l’ovulo) e il Reta (il liquido seminale maschile). La Bhagavata Purana dichiara che il Kalala, che la scienza moderna definirebbe zigote, dopo cinque notti si trasforma in Budbuda, letteralmente un aggregato, che ci ricorda lo stadio di blastocisti descritto da Buffa all’inizio del capitolo. Sempre secondo la Bhagavata Purana, dopo dieci giorni si forma il Karkandhu, letteralmente “frutto della giuggiola”, equiparabile a un agglomerato compatto e definito134. Osservando delle immagini di un embrione in fase di sviluppo all’11° giorno di gestazione ciò che vedremo sarà qualcosa di simile. Dopo il Karkandhu si formerebbe l’Anda, una struttura di forma ovoidale. Il testo prosegue con una descrizione estremamente precisa del modo in cui avviene la formazione e soprattutto lo sviluppo del feto umano nell’utero, associando in modo corretto a ogni fase gestazionale il corrispettivo sviluppo fetale. Ci domandiamo come potessero uomini di almeno 3000 anni fa possedere delle informazioni tanto precise sulla embriologia umana da essere speculari a quelle forniteci dalla scienza attuale. Nella Bhagavata Purana viene poi descritta in dettaglio la genesi di un Purusha (essere umano). Secondo la tradizione, il testo venne redatto dal compilatore dei Veda, Vyasadeva, una figura estremamente importante nel pantheon induista, noto soprattutto per aver reso accessibile all’umanità i Veda. Come avviene spesso nella tradizione indiana, le conoscenze sono espresse sotto forma di storie (per essere più accessibili e comprensibili) e così avviene anche per spiegare la genesi del Purusha. Il testo afferma che, al momento dell’unione della parte maschile e quella femminile, nella donna entrano i 23 principi maschili che, riuniti assieme ai suoi 23 principi femminili, stimolano l’energia creativa. Potremmo ritenere che gli antichi chiamassero con il termine “principi” i 23 cromosomi contenuti nelle cellule gametiche sia maschili che femminili? L’intera descrizione del processo non sembrerebbe portare ad altre conclusioni. Possiamo pensare che migliaia di anni fa in India queste realtà fossero già note? Non solo in India Affermazioni esplicite sull’applicazione di ingegneria genetica nel lontano passato si hanno anche dal mondo ebraico. A titolo di curiosità, che però può assumere valore indiziario se non addirittura probatorio circa le conoscenze che erano patrimonio di quella che noi consideriamo ancora una mitica antichità, riportiamo testualmente quanto scritto da un esegeta del forum consulenzaebraica.forumfree.it: «Che la Bibbia parli di ingegneria genetica è noto da sempre agli ebrei attraverso il Talmud… In 1656 anni, la durata dell’era prediluviana, si raggiunse un livello scientifico clamoroso… Gli ingegneri genetici erano i refaim, vocalizzabile altrimenti con “rofim” = medici…». Va detto che il termine refaim/rofim cui fa riferimento l’esegeta deriva dalla lettura del Talmud, mentre la Bibbia ci fa capire che tali pratiche erano ad appannaggio degli Elohim. Sappiamo che la lingua ebraica era scritta senza le vocali per cui una differente vocalizzazione può produrre significati diversi: in questo caso la definizione talmudica di “medici” non si pone necessariamente in contrasto con la narrazione biblica in quanto tra gli Elohim esistevano varie specializzazioni, c’erano quelli che si occupavano di bio-medicina e quelli, come Yahweh, che appartenevano invece alla gerarchia militare. Quindi, pur con la necessità di chiarire questa solo apparente discordanza all’interno dei testi ebraici, registriamo l’affermazione dell’esegeta ebreo che suffraga, per il Medio Oriente, quanto affermato dal ministro indiano per l’Estremo Oriente. Un’altra straordinaria conferma è stata data dal rav prof. Egael Safran (docente di Etica medica alla Hebrew University di Gerusalemme). Intervistato in seguito alle questioni nate dopo che nel 1997 era stata prodotta la pecora Dolly per mezzo della clonazione, espresse il suo pensiero con una formulazione che potrebbe apparire quanto meno sconcertante se posta in relazione a ciò che pensa la cultura tradizionale. Safran disse infatti che la clonazione era già conosciuta nella Bibbia, indicando un riferimento preciso: «Basterebbe ricordare come sono venuti al mondo Adamo ed Eva». In effetti il libro della Genesi è chiaro su questo aspetto e non necessita di interpretazioni. Prendiamo quindi atto che i conoscitori dei testi antichi, quando parlano liberi dai condizionamenti di una tradizione che ha voluto sempre nascondere ciò che è chiaramente scritto, non hanno alcuna difficoltà ad affermare che l’ingegneria genetica non costituisce una scoperta moderna ma era già patrimonio di individui appartenenti ad antiche civiltà. Lo sviluppo fuori dal corpo materno – descritto nei miti Indiani – potrebbe diventare presto realtà Era il 1987 quando nei laboratori del Mount Sinai Hospital di New York cominciarono esperimenti che avevano come obbiettivo quello di mantenere vitale un utero fuori dal corpo della donna. Gli organi provenivano da interventi di isterectomia totale in pazienti affette da patologie di varia natura. Subito dopo l’espianto chirurgico, gli uteri erano selezionati, incubati e alimentati artificialmente attraverso semplici macchine in grado di garantire loro livello di ossigenazione, di nutrizione e di eliminazione delle scorie ottimale. Gli esperimenti sembravano funzionare, gli organi non degeneravano e davano modo agli scienziati di comprendere, in maniera più diretta, fondamentali aspetti della fisiologia uterina. Un risultato eclatante fu quello ottenuto sfruttando un sistema di circolazione artificiale che permetteva la somministrazione all’organo di ormoni come estrogeni e progesterone. Queste specifiche infusioni producevano nell’utero isolato le medesime modificazioni osservate quando le donne si trovano in stato di gravidanza. Il modello di studio era promettente e inevitabilmente, scaturì il desiderio di tentare di più, ossia verificare se un embrione, nelle primissime fasi di sviluppo, riuscisse ad annidarsi nell’utero espiantato. Scienziati italiani si unirono agli studi in corso, tra loro spiccano i nomi di Carlo Bulletti e Carlo Flamigni (allora ricercatori all’Università di Bologna). Per gli esperimenti si utilizzarono embrioni provenienti da vari centri di riproduzione medicalmente assistita, embrioni alle primissime fasi di sviluppo ma non idonei per l’impianto in una donna a causa della presenza di piccole malformazioni. L’esperimento ebbe il successo sperato: l’embrione introdotto nell’utero esterno al corpo umano si annidava e procedeva nello sviluppo. Fu così che trent’anni fa si “concretizzò” la prima gravidanza artificiosa, non artificiale, dato che l’embrione era accolto in un organo vero e proprio. Erano i primi tentativi di sviluppo embrionale al di fuori del corpo materno, esperimenti “epocali” che aprivano orizzonti verso i quali nessuno era pronto, neppure la stessa comunità scientifica. I dati prodotti vennero pubblicati infatti dopo molte titubanze solo l’anno successivo, accompagnati però da una nota del direttore della rivista che ne prendeva le distanze sotto il profilo bioetico135. I laboratori coinvolti, preoccupati della posizione contestataria in ambito bioetico, interruppero gli esperimenti ma l’idea della fattibilità di una riproduzione ectogenetica era ormai diventata concreta e quell’ipotesi visionaria lanciata nel 1924 da John B. Haldane iniziava a perdere il suo status di “fanta-biologia”. Si dovranno aspettare quindici anni da quegli esperimenti, quando il Weill Cornell Medical College di New York compie un passo successivo grazie alla dottoressa Hung Ching Liu, capo del laboratorio di Medicina Riproduttiva. Embrioni vitali in laboratorio Diretti dalla dottoressa Hung Ching Liu, i biologi del Weill Cornell Medical College di New York riuscirono a far annidare embrioni umani non all’interno di un utero isolato ma su un supporto artificiale biodegradabile, tappezzato da un compatto strato di cellule endometriali, cellule specializzate della parte più interna dell’utero. L’ambiente ricreato, sebbene minimale, consentì agli embrioni nelle prime fasi di sviluppo di annidarsi e proseguire lo sviluppo per sette giorni136. La stessa dottoressa Ching Liu, relatore all’American Society for Reproductive Medicine del 2001, dichiarò a questo proposito il proprio compiacimento: «Sul nostro supporto l’embrione cresce felicemente e le sue caratteristiche sono uguali a quelle mostrate in vivo». Gli sviluppi erano sorprendenti ma, da un punto di vista bioetico, la loro portata si faceva sempre più problematica man mano che prendeva corpo la possibilità di incubare embrioni umani in fase di sviluppo fuori del corpo materno per un periodo superiore a quello legalmente consentito (oggi di quattordici giorni)137. Il limite delle due settimane non è casuale. Proprio a questo stadio di sviluppo, nell’embrione umano si genera una caratteristica formazione longitudinale denominata “stria primitiva”, una sorta di linea che segna l’inizio della cosiddetta fase di “gastrulazione”, ovvero di quell’insieme di movimenti morfogenetici che predispongono la futura anatomia del nuovo individuo. È proprio a questo stadio che, secondo alcuni punti di vista bioetici, verrebbe sancito quel momento in cui l’embrione acquisisce una “dignità individuale”. A oggi, numerosi laboratori di diversi Paesi accolgono nel proprio statuto il limite dei quattordici giorni ma c’è anche chi comincia a invocare un abbattimento di questo limite e la revisione delle normative in vigore138. Nati in laboratorio INCUBAZIONE EXTRAUTERINA PROTOTIPI E TECNOLOGIA DI BASE Oggi la ricerca di una ectogenesi sempre più completa è orientata alla realizzazione di macchine integrate che consentano anche a feti molto immaturi di completare il proprio sviluppo fuori dal corpo materno. L’ambizione è quella di ricreare, attraverso opportuna progettazione e integrazione di specifiche componentistiche artificiali, ogni supporto biologico fondamentale allo sviluppo fetale. La bio-macchina incubatrice assicurerà tutte le funzioni dell’utero materno nel suo complesso e sarà in grado di rispondere alle esigenze nutrizionali del feto, ai suoi scambi metabolici e persino agli stimoli esterni. Fondamentalmente, l’obbiettivo è quello di riprodurre un insieme di complessi meccanismi di interscambio sulla base di princìpi fisico-chimici già in larga parte noti. Le difficoltà intrinseche relative a una ectogenesi completa sono enormi ma non insormontabili. Certamente, la transizione verso questo tipo di tecnologia prevede un lungo cammino e gli ostacoli da superare non saranno soltanto tecnici ma anche bioetici. L’inevitabile scontro avrà per temi l’importanza della relazione madre/figlio durante la gestazione, l’intima natura del corpo femminile e il senso da dare al significato di “essere nati” o “essere prodotti”139. Sebbene queste implicazioni in diversi casi abbiano disincentivato la ricerca diretta alla realizzazione di prototipi, non mancano i risultati. La Juntendo University di Tokyo lavora da decenni allo sviluppo di prototipi in grado di garantire un’Incubazione Fetale Extrauterina (IFE) protratta. È infatti nei laboratori di questa università che hanno avuto esito positivo i primi esperimenti effettuati su alcuni feti di capra. Prelevati dalla madre e incubati all’interno di una macchina che riproduce l’ambiente uterino e che si rivela capace di nutrire il feto attraverso il cordone ombelicale, questi feti sono vissuti per ben tre settimane140. Oggi gli esperimenti proseguono e ulteriori straordinari risultati arrivano dai laboratori del biologo Alan W. Flake, del Center for Fetal Research di Philadelphia. In una recente pubblicazione su «Nature Communications», Flake riferisce di aver assemblato un ambiente artificiale in grado di accogliere feti di pecora assai immaturi, facendo progredire il loro sviluppo per oltre quattro settimane141. Al momento in cui si scrive, i risultati ottenuti al Center for Fetal Research di Philadelphia sono da ritenersi i più avanzati. Nell’ambiente progettato da Flake, i feti sono collegati al sistema artificiale attraverso il cordone ombelicale e mantengono una emo-dinamica ottimale grazie a sofisticati sistemi membranosi che garantiscono scambi gassosi e supporto nutritivo. Gli organismi, all’interno di una “camera amniotica” chiamata dai ricercatori “bio-bag”, si muovono e portano a maturazione organi importanti come polmoni e cervello. Lo stesso Flake ribadisce: «È davvero una cosa eccezionale sedere li e guardare i feti dentro il nostro supporto artificiale agire come normalmente agiscono nell’utero». Sulla base di questi interessanti risultati e aiutandoci con uno schema appositamente riferito allo sviluppo umano, cerchiamo di mettere in evidenza i principali componenti che dovrebbero costituire una bio-macchina idonea all’incubazione extrauterina (Fig. 6.1). Fig. 6.1 - Componentistica di base della bio-macchina per ectogenesi. • Camera amniotica: l’organismo umano compie il suo sviluppo fetale in un ambiente liquido all’interno della sacca amniotica. In maniera simile, un sistema di incubazione extrauterina dovrà disporre di un’apposita camera amniotica di forma sferoidale ripiena di liquido amniotico artificiale in cui l’organismo può muoversi e crescere. Il liquido che riempie la camera non sarà stagnante ma sottoposto a un continuo ricambio. Il suo ruolo è plurimo, esso fornisce al feto libertà di movimento, attutisce rumori esterni, mantiene la stabilità termica, protegge il feto dalle infezioni grazie a specifiche sostanze in esso disciolte e assicura una protezione contro eventuali sollecitazioni meccaniche pericolose causate da impropri movimenti materni (un problema assente all’interno di una camera amniotica). Il liquido amniotico è dinamico, di fatto cambia la propria composizione chimica con il progredire della gestazione, arricchendosi di vari nutrienti, fattori di crescita, urea e altre sostanze. Riuscire a gestire in maniera automatizzata il liquido amniotico costituirà certamente una delle sfide più importanti nello sviluppo di questa tipologia di incubatori. La camera amniotica dovrà essere termoregolata, poiché l’intero processo di sviluppo embrio-fetale umano avviene alla temperatura di 37° C. L’incubatore dovrà inoltre garantire al feto un’opportuna stimolazione di tipo meccanico attraverso pistoni idraulici che riproducono la continua e diversificata dinamica del movimento materno. L’incubatore sarà tarato per simulare le ore di veglia e di sonno della madre, in modo che il feto non si sentirà mai “isolato” ma sempre integrato al sistema di supporto. Dato che il feto svilupperà presto la capacità uditiva, una componente del sistema invierà a tempo debito particolari stimolazioni sonore. • Dalla placenta naturale alla placenta artificiale: nella fase di gestazione precedente allo sviluppo dei polmoni, il feto effettua tutti gli scambi gassosi attraverso il cordone ombelicale. Grazie ai vasi ombelicali (due arterie e una vena), il feto si connette alla circolazione materna, sfruttando la complessa struttura discoidale chiamata placenta. La placenta costituisce un vero e proprio organo di “connessione materno-fetale”, alla base di tutti gli scambi sia gassosi che nutritivi e ormonali. Data l’enorme importanza di quest’organo, una placenta artificiale integrata al sistema d’incubazione dovrà riprodurre tutte le funzioni al fine di realizzare un’efficace interfaccia feto-macchina142. Per via dei numerosi e complessi compiti che la placenta assolve, la produzione di un suo corrispettivo artificiale comporta la soluzione di numerosi e complessi problemi, primo fra tutti quello relativo agli scambi gassosi e nutritivi. Sistemi di interscambio gassoso in grado di mantenere l’organismo incubato sotto stabili condizioni fisiologiche fanno da alcuni anni riferimento a una precisa tecnologia, la Extra Corporeal Membrane Oxygenation (143, sviluppata nel 1992 dal team di Masanori Tamura del Dipartimento di Ginecologia dell’Università di Tokyo. In sintesi, sfruttando delle sofisticate membrane, il sangue del feto viene drenato, privato di ogni molecola gassosa di scarto, ossigenato e nuovamente perfuso. I parametri relativi alla composizione gassosa del sangue fetale sono accuratamente monitorati in tempo reale affinché gli scambi gassosi avvengano in maniera ottimale. Sul versante degli scambi nutritivi si lavora perché vi sia anche una realizzazione di sistemi membranosi altamente specifici, analoghi a quelli ECMO. • Sistema di supporto informatico: infine, sistemi di analisi morfologica del feto in via di sviluppo e dispositivi elettronici per il monitoraggio dei parametri vitali devono integrarsi all’incubatore e gestire in modo automatico eventuali situazioni di emergenza. Ancora una volta gli antichi testi… Abbiamo visto che i testi sumero-accadici ci raccontano che gli Anunnaki decisero di formare un essere che lavorasse al posto loro e per farlo usarono il teema, una sostanza che veniva estratta dal loro corpo, e lo mescolarono con il tiit dell’Abzu: il teema indica l’essenza vitale, ciò che fa sì che uno sia ciò che è, ma ciò che ci interessa qui è il tiit. Le tavolette sumere tradotte da Giovanni Pettinato nel già citato lavoro pubblicato da UTET recitano così: «Ninmah prese in mano la pura argilla dalla cima dell’abisso e con essa modellò un uomo». Dalle stesse traduzioni ricaviamo che Ninmah (una “dea” anunnaki) fu assistita nella sua attività da altre femmine; risulta quindi che furono queste le cosiddette “dee madri” su cui poi si innestarono tanti culti che hanno caratterizzato gran parte della storia dell’umanità. Non erano dunque divinità e neppure non meglio definite entità telluriche, ma femmine in carne e ossa che hanno partecipato a quell’insieme di interventi con i quali sarebbe stato prodotto l’essere umano. È sempre il prof. Giovanni Pettinato (già ordinario di Assirologia e Sumerologia all’Università La Sapienza di Roma) a ricordare i nomi delle collaboratrici: Ninimma, Suzianna, Ninmada, Ninbarag, Ninmug, Dududuh, Eresgunna. Riportiamo ancora letteralmente la traduzione dell’assirologo: «… l’intelligente, l’accorto che conosce tutto ciò che è… che forma ogni cosa… fece apparire il Sigen e i Sisgar [= la matrice o meglio le ovaie], Enki stese il suo braccio verso di esse e là crebbe un feto». L’operazione consistette in una miscelazione vera e propria che previde il coinvolgimento delle ovaie, cioè gli organi riproduttivi femminili. Dopo una serie di esperimenti fallimentari finalmente il successo arrise al progetto e allora le varie “divinità” coinvolte festeggiarono con un ricco banchetto a base di carne, pane, virgulti di canna e birra. • Ma che cos’è il tiit? • Che cosa prese Ninmah nel territorio conosciuto come Abzu? Facendo ricorso alla fantasia, si può ipotizzare anche un’interpretazione che richiama quanto affermato in questo capitolo e cioè la possibilità che la prima parte dell’intervento effettuato per produrre il “lavoratore” sia avvenuta fuori dal corpo femminile: il tiit, nel suo duplice significato di “argilla e ciò che contiene la forma”, può infatti rimandare al contenitore in cui venne compiuto l’atto della miscelazione. Lo stato attuale delle conoscenze genetiche e delle tecniche di laboratorio ci consente di ipotizzare che gli Anunnaki abbiano necessariamente usato dei contenitori all’interno dei quali compiere l’intervento: la struttura genetica degli “dèi” venne inserita nell’ovulo della femmina ominide dentro uno o più recipienti di argilla appositamente dedicati. Nella Casa della Vita la “dea” Ninmah utilizzò quindi contenitori con l’argilla, li forgiò, dette loro la forma di bagni purificatori, così da creare all’interno la miscela, e poi l’operazione venne ripetuta per gli innesti successivi: prese quattordici pezzi d’argilla e mise sette pezzi a destra e sette a sinistra. Nei contenitori forgiati con l’argilla Ninmah introdusse gli ovuli delle femmine e poi li unì con il sangue purificato degli Anunnaki maschi (Atrahasis). Curioso notare che Ninmah veniva anche definita “Madre dei viventi”, cioè si usava con lei la stessa espressione che identifica Chawwah cioè la biblica Eva. Nella metà di questi recipienti si produssero maschi e nell’altra metà femmine, esattamente come dice il versetto 27 del primo capitolo della Genesi: L’argilla citata non è dunque un semplice elemento simbolico, perché può avere addirittura due valenze: 1. “Ciò che contiene la forma” nel senso del DNA terrestre… e/o 2. “Ciò che contiene la forma” nel senso di recipiente catalizzatore dell’impianto genetico. Non vogliamo cimentarci nel tentare una scelta documentata tra le due opzioni, ma ciò che interessa rilevare è ancora una volta la possibile concretezza di quanto è stato tramandato circa la formazione dell’adam-lulu. Quest’ultimo termine è portatore di un significato che vari autori hanno ben sintetizzato, ricavandone l’origine dal sumero lu che significa “qualcuno, chiunque”: lulu indicherebbe quindi “mescolato” e forse anche “primitivo”. L’affiancamento funzionale tra DNA e argilla non è così strano come può apparire. Sono numerosissimi gli studi da cui si ricava che l’interazione di argilla e DNA ha probabilmente costituito una fase essenziale per la formazione della stessa vita sulla Terra; le argille furono probabilmente necessarie per: • concentrare i prodotti presenti nel brodo caldo primordiale o per proteggere il DNA giunto sul pianeta dallo spazio, nel caso si preferisca seguire questa ipotesi formulata da Fred Hoyle, Chandra Wickramasinghe e Paul Davies; • proteggere le strutture genetiche dalla distruzione operata dalle radiazioni UV e X; • catalizzare la polimerizzazione di nuovi composti fino a ottenere molecole più complesse; • garantire al DNA il mantenimento della capacità di trasformare cellule batteriche. Tra le varie fonti citiamo Alessandro Demontis col suo testo sulla montmorillonite144, nel quale sono anche indicati i riferimenti agli studi condotti da Hanczyz e Fujikawa nel 2002, James P. Ferris nel 2006 e Q. Huang e W. Chen nel 2007. La scienza moderna ha verificato che i complessi DNA-argilla sono resistenti all’attacco delle nucleasi e non perdono le loro potenzialità genetiche; il DNA assorbito può essere inglobato da nuove cellule. Questo tipo di scambio genetico può riguardare dna extracellulare di tipo omologo, cioè proveniente da cellule della stessa specie di quella competente, o DNA non-omologo, proveniente da altre specie, incluse quelle vegetali. La scienza utilizza inoltre i complessi argilla-DNA come stampo per la reazione random di amplificazione (rapd) e ha rilevato le proprietà catalizzatrici nei processi di combinazione e ricombinazione dell’RNA. Quanto sopra è sufficiente per comprendere come il rapporto sostanziale presente nel termine sumero-accadico tiit – reso in ebraico con afar – tra argilla e “ciò che contiene l’essenza, la forma” può avere una valenza precisa e contenere la memoria di una conoscenza che nel passato si possedeva e che ora è stata recuperata dalle moderne scienze biologiche e genetiche. Gli interventi di ingegneria genetica furono compiuti dagli Anunnaki/Elohim in quello che noi definiremmo, secondo la terminologia moderna, un laboratorio, e che loro chiamavano Bit-shimti o semplicemente Shimti: vocaboli che vengono tradotti come “luogo in cui viene soffiato il soffio della vita”. Questa precisazione sul soffio non può essere casuale: il luogo in cui venivano creati i nuovi viventi veniva collegato al respiro, elemento fondamentale e primario per la vita. Il nuovo lulu (miscelato), come ogni neonato, acquisisce infatti lo status di “vivente” nel momento in cui inizia a respirare ed è proprio il suo “formatore” a fornirgli questa possibilità. Inoltre, il termine sumerico shimti veniva tradotto col mesopotamico naphishtu che corrisponde all’ebraico (nephesh), che significa “gola, collo, persona, respiro, qualcuno…”. Dopo l’intervento l’adam-adamu diviene quindi una “persona” dotata della nuova vita introdotta dal “creatore” che gli instilla il soffio. Non si tratta della trasmissione di elementi spirituali, ma dell’atto col quale il nuovo essere inizia a respirare autonomamente, divenendo così un individuo dotato di vita. Così raccontano i Sumeri, così pare confermare la Genesi: David Wolpe (Senior Rabbi del Sinai Temple di Los Angeles) nella sua analisi dei midrashim relativi a Gen 2, 7, riporta il significato letterale del versetto: «The Lord God formed man», cioè “Il Signore Dio formò l’uomo”, non lo creò (Etz Hayim, Jewish Publ. Society, New York 2005). Non ci sono allegorie, non c’è simbologia, non è necessario introdurre alcuna categoria ermeneutica particolare, siamo molto probabilmente di fronte al racconto di un sofisticato intervento di manipolazione genetica parte del quale può avere avuto luogo in un ambiente artificiale esterno rispetto alla sua sede naturale. Si tratta di un’ipotesi ma, come scriveva Isaac Newton: «Nessuna scoperta è mai stata fatta senza un’audace ipotesi». Considerazioni finali Nell’oceano sconfinato di incertezze, l’uomo che varca la soglia del Terzo Millennio come colonne d’Ercole oltre le quali la misura della realtà assume una dimensione sempre più sfumata, ha l’urgenza di sapersi tassello nel quadro di un’evoluzione cosmica in cui Homo sapiens non rappresenti l’unica specie senziente dell’Universo. Sappiamo di appartenere al complesso tessuto di uno spazio-tempo rappresentato dalla Via Lattea, una galassia tra miliardi di galassie, ognuna delle quali con centinaia di miliardi di stelle. Questa coscienza è ammaliante ma è allo stesso tempo fonte di un disperato senso di solitudine, dovuto al fatto di non riuscire a cogliere segnali di vita intelligente sbirciando fuori, nel cortile del sistema solare, nel braccio di Orione, nella regione periferica della nostra galassia. Avvertiamo di non essere la sola specie intelligente nel cosmo; ciò nonostante, non siamo riusciti a instaurare un contatto con una civiltà avanzata. E se questo contatto fosse avvenuto in epoche remote? Come potremmo oggi, con le nostre attuali conoscenze, rendercene conto? Allora radio-astronomo del Massachusetts Institute of Technology (MIT), John A. Ball elaborò nel 1973 una teoria per spiegare il “silenzio alieno”, ossia il fatto che nessun segnale di vita intelligente sia stato captato. Secondo John Ball, civiltà intelligenti ci studierebbero fin dai tempi più remoti, come fossimo parte di un vasto “zoo cosmico”. Il nostro pianeta rappresenterebbe quindi, insieme a tanti altri, l’ambiente ideale dove confinare, in condizioni controllate, i frutti di un articolato progetto bio-evoluzionistico ancora incompleto. Sarebbe dunque auspicabile non concentrare tutti i nostri sforzi investigativi al solo spazio siderale ma augurarsi che almeno parte della scienza possa procedere verso ricerche in grado di attestare o smentire categoricamente il passaggio di tali civiltà sulla Terra e un loro coinvolgimento nel procedere della nostra evoluzione. Curioso leggere persino nel testo del brano “Keep talking” dei Pink Floyd le parole del cosmologo Stephen Hawking che instillano il dubbio sul come e sul perché a un certo punto, quell’umanità che aveva vissuto come gli animali, liberò il potere dell’immaginifico145. Forse noi umani siamo ancora in una “adolescenza della specie”, un’adolescenza cosmica che, nel disegno universale, ci vede distanti dalla consapevolezza. FRANCESCO TROVATO (Giornalista scientifico) Appendice Gli Elohim Forniamo qui in Appendice alcune informazioni basilari per il lettore che non avesse avuto modo di approfondire in precedenza il tema. Chi erano quegli individui protagonisti delle vicende antico-testamentarie che sono stati fatti artificiosamente diventare Dio? Che caratteristiche avevano e come agivano? Riassumiamo gli elementi costitutivi fondamentali che sono ampiamente documentati in lavori precedenti e ai quali rimandiamo per gli approfondimenti del caso. Precisiamo, intanto, che non procederemo con la traduzione del termine Elohim perché nessuno sa cosa volesse dire; le correnti dogmatiche di ogni natura non hanno ovviamente dubbi, per loro significa Dio, ma quel vocabolo, che è nella forma plurale, viene tradotto in tutti i modi possibili proprio a causa della reale ignoranza (non conoscenza) che lo circonda, per cui riteniamo più corretto riportarlo nella sua forma ebraica originale ovviamente traslitterata nella lingua italiana. L’impossibilità di darne una traduzione certa è un destino che il termine Elohim condivide con il nome Yahweh, anch’esso di significato sconosciuto e quindi tradotto in vari modi, compresa la possibilità di intenderlo come una semplice interiezione quale: “È lui!”. Così scrive infatti il rabbino Hooward Avruhm Addison, sostenendo che, secondo alcuni biblisti, poteva trattarsi di un’esclamazione pronunciata quando lo vedevano arrivare146. L’apertura mentale di certi studiosi e le possibilità interpretative che evidenziano non possono non farci pensare alle innumerevoli fantasiose elaborazioni mistiche che nei secoli sono state prodotte sul famoso tetragramma e sui 72 nomi del presunto Dio. Le definiamo fantasiose senza alcun intento offensivo, ma solo per metterle in relazione con il fatto che, a fronte di 72 nomi variamente elaborati e dotati di una presunta efficacia funzionale laddove non addirittura magica, la realtà è che non si conosce il significato e l’origine neppure del primo, “Yahweh”: non sappiamo in che lingua sia stato pronunciato, non sappiamo con quali suoni vocalici, non sappiamo se in origine fosse formato effettivamente dalle consonanti che poi sono state usate per trascriverlo. Era un nome di quattro o di tre lettere (consonanti)? Era insomma un tetragramma o un trigramma? Sappiamo però per certo che Mosè non fu il primo a udirlo e a conoscerlo. L’epigrafia mediorientale documenta che i popoli circostanti conoscevano quel nome molto prima della comparsa sulla scena del popolo che poi assunse l’identità israelitica. Le nazioni mediorientali del II millennio a.C. sapevano che su quel territorio governava un individuo di nome YHW o YW o YWH, e che aveva addirittura una compagna conosciuta con il nome di Ashera, che gli ebrei della colonia di Elefantina in Egitto, ancora molti secoli dopo, chiamavano “Anat-Yahwu”. Tornando ai personaggi di cui ci stiamo occupando diciamo che… • Gli Elohim biblici non erano un Dio unico, come sostengono sia la teologia che più in generale tutte le correnti spiritualiste da due millenni, ma una pluralità di individui in carne e ossa; una molteplicità chiaramente e inequivocabilmente evidenziata in numerosissimi passi dell’Antico Testamento (Es 3, 12 e segg.; Es 15, 3 e segg.; Es 18, 11 e segg.; Dt 6, 14 e segg.; Dt 13, 7 e segg.; Dt 32, 17 e segg.; Ger 7, 18). Avevano addirittura degli accampamenti nelle zone di confine che presidiavano con le loro schiere (Gen 32, 1 e segg.); che quegli individui avessero accampamenti era comunemente noto agli autori antichi che li ricordano espressamente anche nei testi di Qumran come il 4Q401 14i 8 in cui si afferma: «essi sono onorati in tutti i gli accampamenti degli Elohim e riveriti dall’assemblea degli umani». • Erano individui che vivevano talmente a lungo da essere considerati immortali anche se non lo erano. Nei lavori precedenti147 sono riportati i passi in cui la Bibbia dice chiaramente che gli Elohim (cioè il presunto Dio delle teologie) muoiono come tutti gli uomini (Salmo 82). L’esegesi tradizionale di questo passo rappresenta un esempio paradigmatico dell’asservimento al dogmatismo. La filologia che opera per fornire elementi alla teologia afferma che, senza alcuna ombra di dubbio, il termine Elohim rappresenta una particolare forma di plurale (plurale di astrazione, di intensità…) che, in realtà, rimanda a un singolare: Dio. Per i sostenitori della dottrina tradizionale il Salmo 82 costituisce quindi un vero problema, perché il termine Elohim qui non può essere ricondotto al singolare: pronomi, aggettivazioni e, soprattutto, dieci verbi nella forma plurale lo impediscono. Lo devono riconoscere anche i più inveterati sostenitori del valore singolare. Per superare questo ostacolo, gli irriducibili affermano che in questo passo biblico il termine Elohim non significa “Dio”, bensì “Giudici”. Non entriamo nel merito specifico perché lo abbiamo fatto ampiamente nei libri già citati, ma riportiamo quanto scrive in proposito uno studioso che non può essere certo tacciato di avvalorare tesi fantasiose: il professor Mike Heiser148. Scrive lo studioso nel suo sito (riportiamo le sue testuali parole in inglese): «Briefly, the Elohim of Yahweh’s council (Psa 82) are divine beings, not human rulers. This is most obvious from the parallel passage in Psalm 89:5-8. In Psalm 82:1 the plural Elohim are called “sons of the Most High” in verse 6. Obviously, this means they are “sons of the God of Israel” since in biblical theology, Yahweh is Most High (Psa 83:18). In Psalm 89, Yahweh’s sons are called bene Elohim. These bene Elohim are quite obviously not human since their assembly or council is explicitly said to be in the clouds /heavens not on earth. The content of Psalm 82 also easily demonstrates these are divine beings, not humans, since the plural Elohim, of Psalm 82 are being judged for their corrupt administration of the nations. The Hebrew Bible never asserts that human rulers, Jew or Gentile, are in charge of the nations. Moreover, contrary to popular and scholarly assumption, no passage in the Hebrew Bible calls the human Elohim». Egli afferma in sostanza alcuni fatti evidenti: gli Elohim non sono uomini, ma esseri ben distinti dagli adam; vivono molto più a lungo (le-’olam, cioè “per lunga durata nel passato e nel futuro”) ma ne condividono la natura mortale; secondo lo studioso l’assemblea di cui parla il Salmo non si è neppure tenuta sulla Terra e la Bibbia mai attribuisce il controllo delle nazioni a dei giudici. La Bibbia ha infatti termini precisi per indicare i giudici: felilim e shofetim (si vedano Es 21, 22 e il Salmo 2) che, non a caso, è il titolo ebraico del Libro dei Giudici. Mai li confonde con gli Elohim. A ulteriore conferma, rimando i lettori volonterosi al testo I manoscritti di Qumran (UTET, 1974 Torino) nel quale lo studioso Luigi Moraldi esamina frammenti dei papiri della comunità essena e rileva addirittura la presenza in quella assemblea di varie fazioni di Elohim. Lo stesso prof. Rav Emanuel Tov però annota un elemento fondamentale che supporta in modo incontrovertibile la tesi della pluralità degli Elohim là dove scrive che i termini Elyon, El (probabile singolare di Elohim) e Yahweh, contrariamente a quanto sostiene la teologia, non devono necessariamente essere letti come tre modi per indicare il Dio unico di Israele: sono infatti tre termini che si riferiscono a individui diversi conosciuti anche nella cultura ugaritica149. In effetti, è proprio la “necessità” di considerarli come tre epiteti di un unico presunto Dio a condizionare le interpretazioni monoteiste che sono in palese e insanabile contrasto con il contenuto biblico: la dottrina è costretta a piegare il testo alle sue esigenze. L’analisi completa delle varie modalità con le quali i grammatici hanno tentato invano di spiegare e giustificare l’impiego del plurale Elohim si trova in due capitoli di altro volume150 e pertanto non la riprendiamo qui. • Gli Elohim viaggiavano su macchine volanti definite ruach, kavod, merkavah, alle quali sono state dedicate particolareggiate analisi in numerosi capitoli in precedenti lavori151. Il kavod viene normalmente tradotto con “Gloria di Dio” ma ricordiamo, per inciso, che il racconto dell’Esodo rivela che la cosiddetta “Gloria di Dio” poteva essere vista su richiesta; uccideva chi le stava di fronte o anche solo chi si trovava nei pressi quando passava; poteva però essere vista di dietro dopo che era passata e ci si poteva comunque salvare dai suoi effetti mortali semplicemente nascondendosi dietro normalissime rocce che, quindi, controllavano ciò che Dio stesso non era in grado di controllare (Es 33), gli effetti della sua presunta “gloria”, una vera assurdità logica. Il professor Jeff A. Benner (fondatore dell’Ancient Hebrew Research Center, nonché autore dell’Ancient Hebrew Lexicon of the Bible), scrivendo del kavod e mettendo in relazione il racconto dell’Esodo con i Salmi 3 e 24 e il capitolo 29 di Giobbe, lo descrive come una macchina pesante che fungeva da arma di attacco e di difesa. Il reverendo presbiteriano padre Barry Downing (ministro cristiano, teologo, fisico, specializzato nei rapporti tra scienza e religione), uomo di fede cristiana che esercita il suo ministero, non ha alcuna remora a scrivere che la religione mosaica è il frutto di un incontro di quella gente con un UFO guidato da intelligenze di provenienza non terrestre152. In ambito ebraico, cattolico e cristiano riformato, ci sono dunque menti aperte, capaci di porsi le domande e di fornire ipotesi di risposta che non richiedano il ricorso alla categoria del mistero per affrontare temi a cui la teologia non sa fornire spiegazioni. • Nella Bibbia, gli Elohim non sono mai considerati “dèi”: in origine erano in realtà oggetto di rispetto e sottomissione esclusivamente a causa del loro grande potere, garantito dalle conoscenze e dalla tecnologia di cui disponevano e che incuteva terrore. Erano temuti anche per la loro crudeltà, una caratteristica di cui la Bibbia costituisce una testimonianza inequivocabile. Yahweh, definito il “guerriero”, non si faceva scrupolo di ordinare stermini veri e propri di persone inermi, conducendo operazioni che noi oggi classificheremmo senza equivoci come di pulizia etnica (vedi Cronache, Samuele, Re, ecc.). • Gli Elohim non si occupavano di temi quali la religione nel senso moderno del termine, la spiritualità, l’aldilà. Avevano come obiettivo fondamentale la definizione di strutture di potere distribuite nei vari territori sui quali poi si sono sviluppate le diverse civiltà e, a questo scopo, si spostavano alla ricerca di terre e di genti da cui farsi servire (Dt 32, 17 e segg.). • Gli Elohim erano individui che conoscevano le leggi della natura, del cosmo, e le trasmettevano soltanto ai loro fedeli seguaci, dando così avvio alle caste dei re/governatori/sacerdoti, i cosiddetti “iniziati” alla conoscenza, appunto. Questo sapere era però squisitamente scientifico, concreto, materiale, ossia utile alla quotidianità dei loro governati o alle loro specifiche esigenze di viaggiatori dello spazio. Nulla a che vedere con le presunte conoscenze di ordine spiritualista che sono state elaborate nel corso dei secoli. Yahweh, lungi dall’essere il “Dio” unico e trascendente, non era che uno di loro: quello a cui era stato affidato il compito di governare sulla famiglia di Israele e sui suoi discendenti (quindi non su tutti gli ebrei, neppure sui parenti più stretti di Giacobbe/Israele) e su un territorio definito. Ma, per la verità, neppure di questo possiamo essere sicuri: egli potrebbe anche essersi autonomamente attribuito il potere su un territorio (la terra di Canaan) che nessuno gli aveva assegnato. L’analisi della strategia adottata per conquistare la famosa Terra promessa ci evidenzia infatti tutta l’attenzione da lui posta nel non destare l’attenzione dei suoi colleghi/rivali, molto più potenti di lui, che governavano sulle nazioni circostanti, come l’Egitto e la Mesopotamia. Egli era consapevole della sua situazione ed era letteralmente ossessionato dal timore che i suoi lo abbandonassero per seguire gli altri Elohim; per questo li minacciava continuamente di morte e procedeva senza pietà nell’uccisione dei traditori (due citazioni per tutte: Dt 13, 7 e segg.; Nm 25, 1 e segg.). • Gli Elohim erano legislatori, governanti e giudici. Nella nostra cultura/civiltà le funzioni legislativa, giudiziaria ed esecutiva sono notoriamente separate e la cosiddetta “separazione dei poteri” rappresenta una delle garanzie irrinunciabili degli ordinamenti democratici. Nel passato, invece, le tre funzioni erano racchiuse nell’unica figura del governante – re, imperatore, o comunque lo si volesse definire – che le esercitava sia direttamente che tramite i funzionari da lui scelti e nominati. Gli Elohim, colonizzatori potenti e plenipotenziari, rappresentano un modello tipico di questa concentrazione e fusione dei poteri. Il loro modo di governare dispotico – Yahweh ne è uno degli esempi più drammatici e palesi – racchiudeva in sé le funzioni suddette. È pertanto evidente a tutti che gli Elohim erano in origine al contempo: • legislatori (dettavano regole e norme in piena autonomia decisionale); • governanti, ministri che curavano i molteplici aspetti del potere (facevano applicare le leggi direttamente o attraverso loro delegati, come Ietro, Mosè, ecc.); • giudici (verificavano il rispetto delle leggi, comminavano ed eseguivano – o facevano eseguire – pene e punizioni). Questo non implica il fatto che fossero degli adam particolarmente evoluti – come devono necessariamente cercare di sostenere i teologi/ideologi monoteisti – anzi, al contrario, la Bibbia che abbiamo in casa (senza alcuna necessità di traduzioni particolari) fornisce chiaramente elementi utili a definire la distinzione netta. Vediamone alcuni. 1. Gli Elohim “fecero” gli adam (Gen 1). Ci chiediamo: se gli Elohim fossero stati “normali uomini” sarebbe stato necessario precisare questa ovvia banalità? Non sarebbe stato ridicolo fare un’affermazione simile, attribuendole un’importanza fondamentale nella storia? È quindi evidente che la Bibbia non ci vuole dire che noi siamo stati fatti da “legislatori/giudici/ministri” (che a loro volta sarebbero stati necessariamente degli uomini) ma da “altri”. 2. Gli Elohim “si unirono” con le femmine adam (Gen 6). Se fossero stati normalissimi uomini con funzioni di “legislatori/giudici/ministri”, sarebbe stato necessario precisare nuovamente una simile banalità? Dei normali uomini con chi si sarebbero dovuti unire? E poi, perché quelle unioni sessuali hanno dato origine a un gruppo particolare, quello dei ghibborim, cioè i sangue misto che, non a caso, erano definiti “uomini potenti, famosi”? Ricordiamo che, nella storia dell’umanità, i fondatori delle grandi civiltà erano sempre definiti semidei, cioè figli di un umano e di un appartenente alla genia di quelli venuti dall’alto: da Ghilgamesh a Enea, dai primi governanti in Egitto alla dinastia giapponese, ecc. Ognuno potrà trovare esempi numerosissimi. 3. Gli Elohim “muoiono come tutti gli adam” (Salmo 82). Di questo abbiamo già detto, ma inseriamo un’ulteriore considerazione dettata dal banalissimo buon senso: se fossero stati normali uomini con funzioni di “legislatori/giudici/ministri”, sarebbe stato necessario ricordare una simile ovvietà? Come avrebbe potuto essere altrimenti? 4. Molti Elohim erano rivali di Yahweh che aveva costantemente timore che il suo popolo si rivolgesse a essi: la Bibbia ne nomina alcuni, come Kamosh, Milkom… Ci chiediamo: il presunto “vero Dio” aveva così tanto timore di normalissimi “legislatori/giudici/ministri”, infinitamente meno potenti di lui? La paura lo accecava al punto da uccidere spietatamente chi lo abbandonava per mettersi al servizio di uomini qualsiasi? Gli ebrei che avevano avuto rapporto diretto costante, quotidiano, personale con lui erano così stolti da abbandonare il “vero potentissimo Dio” per dei “legislatori/giudici/ministri”, cioè normali uomini che esercitavano funzioni di potere locale e limitato? Parrebbe addirittura impossibile elaborare un’ipotesi del genere, talmente è ridicola e – diremmo anche – profondamente offensiva nei confronti di quella gente, che in quel caso risulterebbe infatti essere stata incapace di distinguere e scegliere tra il Dio universale e dei normalissimi uomini. La Bibbia dice chiaramente che il popolo poteva “scegliere” tra Yahweh e altri Elohim (Gs 24 e molti altri passi): i sostenitori della dottrina affermano che in quei casi si trattava delle divinità pagane rappresentate dagli idoli. Ma noi ci chiediamo: gli ebrei del tempo, dopo avere avuto per secoli (almeno da Abramo in poi) rapporto diretto, costante, quotidiano, personale, con Yahweh – quello che viene presentato come il “Dio unico, vivo e operativo nella storia” – erano sprovveduti al punto da preferirgli mucchietti di pietre o tronchetti di legno inerte, idoli senza vita? Non era fin troppo evidente l’abissale e inimmaginabile differenza? I dogmatici, costretti dal loro pregiudizio fideistico a fare questa affermazione, non si rendono conto del fatto che rappresenta una sfida all’intelligenza umana o anche solo al normale buon senso e risulta fortemente offensiva nei confronti di quel popolo o quantomeno dei suoi antenati? Impossibile solo il pensarlo: sarebbe stato un comportamento assolutamente incomprensibile, tipico di individui senza un minimo di capacità di discernimento. Molto più facile pensare che il popolo delle origini – libero dai dogmi teologici che invece condizionano molte menti attuali – fosse ben consapevole della situazione che stava vivendo. Il comportamento costante nella storia biblica documenta infatti come quel popolo sapesse bene che: • gli Elohim non erano assolutamente normali “uomini” che ricoprivano incarichi di “legislatori/giudici/ministri” e tanto meno erano idoli inerti e ridicoli; • gli Elohim, nelle funzioni e nei poteri esercitati, avevano le stesse prerogative e caratteristiche di Yahweh, perché appartenevano al suo stesso “gruppo” di origine; • Yahweh non era che uno di loro e quindi costituiva solo una delle possibili opzioni di scelta; • gli altri Elohim erano per “lui” concreti, temibili e pericolosissimi rivali. Pare che questo concetto fosse ancora ben presente al tempo di Paolo di Tarso (il cosiddetto Apostolo delle genti, sulle cui elaborazioni teoriche si fonda sostanzialmente la dottrina cristiana). Nella Prima Lettera ai Corinzi (8, 5-6) dice testualmente: «E in realtà, anche se vi sono cosiddetti theoi sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti theoi e molti signori, ma per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui». L’affermazione è chiara: per questo israelita della tribù di Beniamino c’erano molti theoi (per gli ebrei c’erano infatti molti Elohim) e, per i credenti nella nuova fede, il Dio cui rivolgersi era uno solo (esattamente come gli ebrei dovevano rivolgersi al solo Yahweh). Il già citato padre presbiteriano Barry Downing, nella quarta di copertina del suo lavoro dedicato agli oggetti volanti nella Bibbia, riporta anche un’affermazione contenuta nella lettera agli Ebrei (13, 2) traducendola così: «Do not neglet to show hospitality to aliens, for thereby some have entertaine angel unawares»; in sostanza non bisognava dimenticare di dare ospitalità agli sconosciuti (aliens) perché qualcuno dei destinatari della lettera, senza saperlo, forse aveva già ospitato qualcuno di loro (angels): gli angeli rappresentavano il grado più basso nella gerarchia militare degli Elohim essendo i portaordini, i controllori, i guardiani che operavano per conto dei superiori. Gli Elohim erano dunque tanti, colonizzatori e, in quanto tali, avevano la necessità di definire dei sistemi di regole, norme, leggi da impartire ai popoli da loro governati. 5. Gli Elohim avevano esigenze fisiologiche precise tanto inattese quanto palesemente assurde se riferite a un Dio spirituale e trascendente. Amavano le bevande alcoliche inebrianti e avevano il piacere (forse il bisogno?) di annusare il fumo prodotto dalla combustione di grassi animali e umani. Yahweh, come ammette lui stesso, si faceva consegnare i primogeniti (Es 22, 28-29) e voleva che fossero bruciati per lui, come egli stesso afferma in Ezechiele 20, 25 e segg.: «[…] perché non avevano praticato le mie leggi, anzi, avevano disprezzato i miei decreti, profanato i miei sabati e i loro occhi erano sempre rivolti agli idoli dei loro padri. Allora io diedi loro perfino statuti non buoni e leggi per le quali non potevano vivere. Feci sì che si contaminassero nelle loro offerte facendo passare per il fuoco ogni loro primogenito, per atterrirli, perché riconoscessero che io sono il Signore (Yahweh)». “Facendo passare per il fuoco ogni loro primogenito” è il significato crudo, talmente devastante e inaccettabile per la dottrina che, spesso, nelle bibbie tradizionali viene abilmente occultato e sostituito con il termine “consacrare”, che nulla ha a che vedere con la letteralità del testo ebraico e, soprattutto, con gli scopi dell’atto. Le finalità della produzione di quel fumo prodotto dalla bruciatura del grasso preparato con le modalità precise descritte in Levitico 3, 3-5 («Il grasso che avvolge le viscere e tutto quello che vi è sopra, i due reni con il loro grasso e il grasso attorno ai lombi e al lobo del fegato, che distaccherà al di sopra dei reni») sono state analizzate nei particolari in lavori precedenti già citati153, in cui si trova anche pubblicato lo studio medico che documenta la funzione neurofisiologica dell’atto dell’annusare quel fumo che “calmava” gli Elohim e la diffusione di quella pratica che era appannaggio delle cosiddette divinità dei popoli di ogni continente. Non ci torniamo qui, ma non possiamo non rilevare che persino opere da questo punto di vista ritenute lontanissime e insospettabili ci forniscono conferme: nell’Iliade (Libro I, II, IV, VI, VIII, XXII, XXIII) e nell’Odissea (Libro III, VII, IX, XII, XIII, XVII, XIX) ad esempio, gli “dèi” chiedevano che fossero loro preparate e bruciate interamente certe parti di carne e di grasso degli animali, proprio come faceva lo Yahweh biblico e i suoi colleghi elohim (i passi sono tutti analizzati nel secondo dei testi citati). Annusavano quel fumo per rilassarsi, scrive chiaramente la Bibbia (Num 28). Se, come ci si vuole fare intendere, si tratta di un’allegoria, dovremmo riconoscere che gli autori biblici e Omero, o gli autori dei testi a lui attribuiti, avrebbero stranamente scelto proprio lo stesso strumento letterario, la stessa rappresentazione allegorica con gli stessi contenuti corrispondenti in modo straordinario anche nella sostanza! Molto più immediato e molto meno fantasioso è invece pensare che, in entrambi i casi, si tratti di racconti che rimandano a situazioni concrete e ben conosciute. La cultura giudaico-cristiana assume nei confronti di questa realtà un duplice atteggiamento: considera assolutamente reali, e al contempo barbari e pagani, i riti compiuti dai vari popoli, e tende invece a leggere e interpretare in chiave allegorica o metaforica i sacrifici umani chiaramente citati nella Bibbia come espressamente richiesti da Yahweh e dai suoi colleghi/rivali Elohim. Considerati tutti gli elementi riportati, possiamo affermare che GLI ELOHIM NON ERANO E NON SONO DIO. Ciò detto, è ovvia e inevitabile la domanda: chi erano? Da dove provenivano questi Elohim / Anunnaki / Deva / Theoi…? Ferma rimanendo la scelta metodologica del “fare finta che” i testi antichi siano portatori di una storicità di fondo, dovremmo dire che le informazioni in essi contenute rimandano a esseri venuti dall’alto, figli delle stelle, dotati di tecnologia e conoscenze che la cultura corrente ritiene non possibili per i tempi in cui si svolgevano le vicende cui presero parte o di cui furono addirittura i primi artefici. L’onestà intellettuale e la metodologia scientifica richiedono però prove inconfutabili, in assenza delle quali non si possono fare affermazioni certe, pertanto, prendendo atto delle azioni a essi attribuite, possiamo formulare le seguenti domande che ci auguriamo possano avere in futuro una risposta documentata in modo incontrovertibile: • Erano individui provenienti da altri mondi? • Erano residui di razze terrestri sopravvissute ai vari cataclismi che periodicamente hanno sconvolto il pianeta? • Erano ex-terrestri che avevano abbandonato il pianeta e poi ci hanno fatto ritorno? • Erano i rappresentanti di una razza superiore che viveva nella cosiddetta terra cava? • Erano degli umani tornati dal futuro con un’ipotetica “macchina del tempo”? • Erano dei personaggi immaginari, protagonisti di una grande favola prodotta dalla fertile – ma straordinariamente simile – fantasia degli autori biblici e dei popoli di tutti i continenti della Terra? Queste sono sostanzialmente le ipotesi che vengono formulate e il futuro forse ci svelerà la verità, ma quale che sarà la risposta non cambierà di una sola virgola il nostro lavoro che porta alla luce dei contenuti la cui verifica (per conferma o confutazione) sta mettendo in evidenza un fatto: la storia dell’umanità dovrà essere riscritta. Elenco delle abbreviazioni adottate ANTICO TESTAMENTO Pentauteco Genesi (Gen) Esodo (Es) Levitico (Lv) Numeri (Nm) Deuteronomio (Dt) Storici Giosuè (Gs) Giudici (Gdc) Rut (Rt) I e II Libro di Samuele (1 e 2 Sam) I e II Libro dei Re (1 e 2 Re) I e II Libro delle Cronache o Paralipomeni (1 e 2 Cr) Esdra (Esd) Neemia (Ne) Tobia (Tb) Giuditta (Gdt) Ester (Est) I e II Libro dei Maccabei (1 e 2 Mac) Libri poetici e sapienziali Giobbe (Gb) Salmi (Sal) Proverbi (Pr) Qoelet o Ecclesiaste (Qo o Eccle) Cantico dei Cantici (Ct) Sapienza (Sap) Siracide o Ecclesiastico (Sir o Eccli) Libri profetici: profeti maggiori Isaia (Is) Geremia (Ger) Lamentazioni (Lam) Baruc (Bar) Ezechiele (Ez) Daniele (Dn) Libri profetici: profeti minori Osea (Os) Gioele (Gl) Amos (Am) Abdia (Abd) Giona (Gn) Michea (Mi) Naum (Na) Abacuc (Ab) Sofonia (Sof) Aggeo (Ag) Zaccaria (Zc) Malachia (Ml) NUOVO TESTAMENTO Vangeli Matteo (Mt) Marco (Mc) Luca (Lc) Giovanni (Gv) Atti degli Apostoli (At) Lettera ai Romani (Rm) Lettera I e II ai Corinzi (1 e 2 Cor) Lettera ai Galati (Gal) Lettera agli Efesini (Ef) Lettera ai Filippesi (Fil) Lettera ai Colossesi (Col) Lettera I e II ai Tessalonicesi (1 e 2 Ts) Lettera I e II a Timoteo (1 e 2 Tm) Lettera a Tito (Tt) Lettera a Filemone (Fm) Lettera agli Ebrei (Eb) Lettera di Giacomo (Gc) Lettera I e II di Pietro (1 e 2 Pt) Lettera I, II e III di Giovanni (1, 2 e 3 Gv) Lettera di Giuda (Gd) Apocalisse (Ap) Gli Autori PIETRO BUFFA Pietro Buffa nasce a Palermo nel 1973. Biologo Molecolare e Ph.D si specializza in Bioinformatica presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Svolge da oltre quindici anni attività di ricerca nel settore della genomica e dell’analisi computer assistita di bio-sequenze. Vincitore del premio internazionale Marie Curie, ha lavorato per tre anni al King’s College di Londra in qualità di Post Doctoral Research Associate, conducendo studi in ambito oncologico-molecolare. Autore di svariate pubblicazioni scientifiche e saggista. Da alcuni anni si interessa di specifiche tematiche “di confine” portando avanti indagini che collegherebbero le origini umane alla controversa teoria degli “antichi astronauti” e alla possibilità di una nostra evoluzione biologica etero-guidata. Pubblica nel 2015 il primo saggio sul tema dal titolo: I geni manipolati di Adamo (Uno editori), libro pubblicato anche in Francia. MAURO BIGLINO Mauro Biglino nasce a Torino nel 1950. Autore di prodotti multimediali di carattere storico-culturale per diverse case editrici italiane, ha condotto studi classici e da trent’anni si occupa dello studio dei testi biblici ebraici. Traduttore di diciassette libri dell’Antico Testamento per le Edizioni San Paolo, da molti anni tiene conferenze al fine di descrivere la chiave di lettura letterale della Bibbia. Ha pubblicato numerosi volumi, alcuni dei quali anche tradotti all’estero. Tra i suoi numerosi lavori ricordiamo: Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia (Uno Editori – 2010), Il Dio alieno della Bibbia (Uno Editori – 2011), Non c’è creazione nella Bibbia (Uno Editori – 2012), La Bibbia non è un libro sacro (Uno Editori – 2013), La Bibbia non parla di Dio (Mondadori – 2015), Il falso testamento (Mondadori – 2016), La Bibbia non l’ha mai detto (Mondadori – 2017). 1 https://www.amnh.org 2 Intervista a Ian Tatterrsal (https://www.youtube.com/watch?v=3w7iizN7M_Y). 3 Con il termine “filogenesi” si identifica il processo evolutivo degli organismi. 4 https://m.phys.org/news/2017-08-paper-genus-homo-response-environmental.html 5 P. Buffa, I geni manipolati di Adamo, Uno Editori, 2015 Orbassano (TO). 6 http://theropoda.blogspot.it/p/lautore-del-blog.html 7 La selezione artificiale o selezione intenzionale (programmata) delle caratteristiche biologiche di una specie è una procedura che non risponde ai criteri di auto-organizzazione propri dell’ambiente naturale. Nella selezione artificiale, gli individui dotati di una qualsiasi proprietà desiderata possono essere favoriti da un’interferenza esterna mediante incroci selettivi. 8 B. vonHoldt, Genome-wide snp and haplotype analysis reveal a rich history underlying dog domestication, «Nature», 2010. 9 La famiglia dei Canidi include lupi, volpi, licaoni, coyote, sciacalli. 10 B. vonHoldt, Structural variants in genes associated with human Williams-Beuren syndrome underlie stereotypical hypersociability in domestic dogs, «Science Advances», 2017. 11 B. Sutter et al., A single igf-1 allele is a major determinant of small size in dogs, «Science», 2007. 12 D. Reznick et al., Selection in «Nature»: Experimental manipulation of natural populations, «Integrative & Comparative Biology», 2005. 13 http://www.sbras.ru/en/cmn/general 14 L. Trut et al., Animal evolution during domestication: the domesticated fox as a model, «Bioessays», 2009. 15 D. Belyaev et al., Influence of stress on variation and its role in evolution, «Biologisches Zentralblatt», 1982. 16 I. Plyusnina et al., Effect of domestication on aggression in gray Noerway rats, «Behavior Genetics», 2011. 17 G. Shishkina et al., Sexual maturation and seasonal changes in plasma levels of sex steroids and fecundity of wild Norway rats selected for reduced aggressiveness toward humans, «Physiology & Behavior», 1993. 18 L. Trut, Is selection an alternative or complementary to variation?, «Genetika», 1993. 19 Y. Hakeda, Action of glucocorticoid on bone-forming and bone-resorbing cells, «Clin Calcium», 2006. 20 I. Oskina et al., Role of Glucocorticoids in Coat Depigmentation in AnimalsSel eced for Behavior, «Cytology and Genetics», 2010. 21 A. Wikins et al., The domestication syndrome in mammals: a unified explanation based on neural crest cell behavior and genetics, «Genetics», 2014. 22 M. Sundberg et al., Glucocorticoid hormones decrease proliferation of embryonic neural stem cells through ubiquitin-mediated degradation of cyclin D1, «J Neurosci», 2006. 23 Tutti i cuccioli dei mammiferi sono accomunati da specifici tratti comportamentali e morfologici che inducono l’animale adulto a riconoscere il piccolo e a prendersene cura. 24 Analogamente alle volpi addomesticate, anche nei cani possiamo cogliere la presenza di chiari tratti comportamentali e fenotipici tipici dei cuccioli di lupo, loro progenitore selvatico. 25 La Rift Valley è un sistema di fosse tettoniche che si estende per circa 3500 km lungo il bordo orientale africano, dalla depressione della Dancalia fino al Sudafrica e continua, attraverso il Mar Rosso, fino alla Siria. La Rift Valley è stata una ricca sorgente di scoperte paleoantropologiche. 26 T. D. White et al., Ardipithecus ramidus and the paleobiology of early hominids, «Science», 2009. 27 G. Leakey et al., New speciments and confirmation of an early age for Australopithecus anamensis, «Nature», 1998. 28 D. Johanson, A New Species of the Genus Australopithecus from the Pliocene of Eastern Africa, Kirtlandia, 1978. 29 J. Kappelman, Perimortem fractures in Lucy suggest mortality from fall out of tall tree, «Nature», 2016. 30 R. Berger et al., Australopithecus sediba: a new species of Homo-like australopithecus from South Africa, «Science», 2010. 31 P. Tobias, The brain of Homo habilis: a new level of organization in cerebral evolution, «Journal of Human Evolution», 2004. 32 Inutile ricordare che tipologia umana siano gli hobbit nei capolavori di Tolkien Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli (N.d.R.). 33 P. Brown et al., A new small-bodies hominin from the late Pleistocene of Flores, Indonesia, «Nature», 2004. 34 A. Debbe et all, The affinities of Homo floresiensis based on phylogenetic analyses of cranial, dental and postcranial characters, «Journal of Human Evolution», 2017. 35 http://www.anu.edu.au/news/all-news/origins-of-indonesian-%E2%80%98hobbits% E2%80%99-finally-revealed 36 Il fatto che l’isola di Flores abbia ospitato questo particolare ominide fino a pochi millenni fa ha alimentato alcune leggende locali che gli indigeni si tramandano dalla notte dei tempi e che hanno come protagonisti piccole creature antropomorfe della foresta chiamate Ebu Gogo (letteralmente “creature voraci”). Nei racconti popolari, queste creature erano solite addentrarsi nei villaggi in cerca di cibo, spaventando gli abitanti, per poi razziare e talvolta rapire bambini piccoli. Il popolo di Nage riferisce che gli Ebu Gogo erano ancora presenti sull’isola di Flores addirittura dopo l’arrivo dei Portoghesi, nel XVII secolo. Dopo la scoperta dell’ominide di Flores, viene da chiedersi se alle origini di queste leggende non vi sia anche un fondo di verità, l’eco di una remota convivenza dei popoli indonesiani con queste creature. 37 C. Finlayson, Biogeography and evolution of the genus Homo, «Trends of Ecology and Evolution», 2005. 38 Il Quoziente di Encefalizzazione (QE) è una stima approssimativa del livello di encefalizzazione di un organismo. Si calcola attraverso la formula C = E/Sr, dove (C) sta per “fattore di cefalizzazione”, (E) è la massa del cervello in questione, (S) la massa corporea dell’organismo ed (r) una costante che nei mammiferi ha valore 0,66. Homo sapiens ha un QE = 8, gli scimpanzé = 3. 39 P. Buffa, I geni manipolati di Adamo, op. cit. 40 I. Tattersall, Masters of the planet: The search for our human origins, Macmillan, 2012. 41 P. Buffa, I geni manipolati di Adamo, op. cit. 42 In alcuni sapiens la laringe assume una posizione più bassa rispetto a quella di ogni altro primate. Più la laringe è bassa, più ampio è lo spazio posto al di sopra delle corde vocali (camera faringea) grazie al quale diventa possibile modulare una vasta gamma di suoni (fonazione). Questa modifica è essenziale per articolare i suoni vocalici (a, e, i, o, u), presenti nell’universale linguistico e favorire un linguaggio che va oltre i suoni nasali e gutturali. 43 F. D’Errico et al., Additional evidence on the use of personal ornaments in the middle Paleolithic of North Africa, «Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America», 2009. 44 Un recente lavoro evidenzia la presenza di pitture rupestri molto antiche nella Spagna sud-orientale, a dimostrazione di un’attività simbolica dei Neanderthal basata sul fatto che gli Homo sapiens non avessero ancora colonizzato quelle zone. (D. L. Hoffmann et al., Symbolic use of marine shells and mineral pigments by Iberian Neandertals 115,000 years ago, «Anthropology», 2018). 45 L. Pagani, Tracing the route of modern humans out of Africa by using 225 human genome sequences from Ethiopians and Egyptians, «American Journal of Human Genetics», 2015. 46 G. Russo et al., Another look at the foramen magnum in bipedal mammals, «Journal of Human Evolution», 2017. 47 Il termine pedomorfosi (letteralmente “con forma infantile”) fu proposto per la prima volta da Walter Garstang nel 1922. 48 M. F. Montagu, Time, Morphology and Neoteny in the Evolution of Man, «American Anthropologist», 1955. 49 S. J. Gould, Ever since Darwin: Reflections in Natural History, Norton, 1992. 50 La parte destra e quella sinistra del corpo dei vertebrati sono specularmente uguali. Un organismo che ha tale disposizione delle parti possiede una simmetria bilaterale. 51 L’essere umano va considerato una combinazione di caratteristiche neoteniche e vere e proprie novità biologiche. Se consideriamo ad esempio l’acquisizione della postura eretta, questa caratteristica ha certamente un retaggio neotenico per quanto riguarda la collocazione del foramen magnum ma tale tratto, sebbene necessario, non è però sufficiente. Altre modifiche legate al bipedismo interessano l’anatomia del piede, del bacino, la curvatura della colonna vertebrale, la maggiore lunghezza degli arti inferiori, tutte caratteristiche assenti nelle giovani scimmie e apparse nella nostra linea di discendenza come “novità biologiche”. 52 A. Drake et al., Large-scale diversification of skull shape in domestic dogs: disparity and modularity, «American Naturalist», 2010. 53 C. Darwin, The Origin of Species by Means of Natural Selection, Murray, London [L’origine delle Specie per Selezione Naturale, Bollati Boringhieri, 2011 Torino]. 54 Per dimorfismo (dal greco “due forme”) sessuale si intende la differenza morfologica tra individui appartenenti alla medesima specie ma di sesso opposto. 55 J. M. Plavcan, Canine dimorphism, «Evolutionary Anthropology», 1993. 56 H. M. McHenry, Behavioral ecological implications of earlyhominid body size, «Journal of Human Evolution», 1994. 57 M. Somel et al., Transcriptional neoteny in the human brain, «PNAS USA», 2009. 58 J. Miller et al., Prolonged myelination in humna neocortical evolution, «Proceeding of the Natural Academy of Science USA», 2012. 59 W. Wang et al., Comparison of inverse dynamics muscolo skeletal models of AL288-i Australopithecus afarensis and KNM-WT 15000 Homo ergaster to modern humans, with implications for the evolution of bipedalism, «Journal of Human Evolution», 2004. 60 S. Leigh, Brain growth, life history and cognition in primate and human evolution, «American Journal of Primatology», 2004. 61 K. Rosenberg, Bipedalism and human birth: the obstetrical dilemma revisited, «Evolutionary Anthropology», 1995. 62 L’ordine dei Primati raccoglie i lemuri, i tarsi, tutte le scimmie e l’essere umano. Sono circa 250 le specie viventi stimate che condividono precise caratteristiche come, ad esempio, la visione binoculare a colori, la mano prensile e un certo grado di dimorfismo sessuale. 63 http://www.lescienze.it/news/2011/04/15/news/il_gene_che_controlla_la_durata_della_gestazione-552344 64 J. Plunkett et al., An Evolutionary Genomic Approach to Identify Genes Involved in Human Birth Timing, «Plos Genetics», 2011. 65 http://www.unicef.it/doc/436/mortalita-materna-dati-statistici.htm 66 R. W. Wescott, The Divine Animal, Funk & Wagnalls, 1969. 67 “Ricerca di estinta intelligenza terrestre”, N.d.R. 68 http://theropoda.blogspot.it/2012/08/search-for-extinct-terrestrial.html 69 Negli scimpanzé vi è scarsa cooperazione tra gli individui. Ovviamente per cooperare bisogna anche comunicare. La comunicazione umana tramite linguaggio articolato non ha eguali nel regno animale ma gli esseri umani sono superiori agli scimpanzé anche nella comunicazione non linguistica. I bambini che non hanno ancora acquisito capacità linguistica superano di gran lunga gli scimpanzé nel comportamento cooperativo. 70 Come illustrato nel corso di questo capitolo, Homo erectus mostra già un’importante riduzione del dimorfismo sessuale, tendenza iniziata già con Homo habilis (2,4 milioni di anni fa). Tra i primati, gli esseri umani occupano il gradino più basso nella scala del dimorfismo sessuale e anche se questa caratteristica non è tra le più rappresentative di una domesticazione degli ominidi, essa è comunque degna di nota. 71 http://www.klemens.sav.sk/fiusav/doc/organon/2012/2/201-226.pdf 72 Insieme di segni a cui corrispondono specifiche parole di un linguaggio. 73 G. Cianti, Evo Diet, Evo Editorial, 2014. 74 S. Tosi, Il falso Dio, Libri Eretici, 2017 Orbassano (TO). 75 http://www.registri-tumori.it/cms/ 76 D. S. Beniashvili, An overview of the world literature on spontaneous tumors in nonhuman primates, «J Med Primatol», 1989. 77 X. S. Puente et al., Comparative analysis of cancer genes in the human and chimpanzee genomes, «BMC Genomics», 2006. 78 K. Cornell et al., Clinical and pathologic aspects of spontaneous canine prostate carcinoma: a retrospective analysis of 76 cases, «Prostate», 2000. 79 S. M. Hawai, Dogs: Active Role Model for Cancer Studies, «Journal of Cancer Therapy», 2013. 80 D. F. Patterson, Models of human genetic disease in domestic animals, «Advances in Human Genetics», 1982. 81 G. M. Corrias, Gli dèi di Roma antica, Uno Editori, 2017 Orbassano (TO). 82 K. Jaspers, Origine e senso della storia, Mimesis, 2014. 83 G. M. Corrias, Gli dèi di Roma antica, op. cit., pp. 15-16. 84 P. Buffa, I geni manipolati di Adamo, op. cit. 85 M. Biglino, La Bibbia è un libro di storia, Uno Editori, 2017 Orbassano (TO). 86 http://prajnaquest.fr/blog/wp-content/uploads/Babylonaica-of-Berossus.pdf 87 https://manojedsel.firebaseapp.com/manetone-la-storia-d-egitto-B01HPAJ076.pdf 88 http://digilander.libero.it/emilianna/STUDI/Lista%20reale%20sumera.pdf 89 M. Biglino, La Bibbia non parla di Dio, Mondadori, 2015 Milano. 90 K. S. Salibi, The Arabia Bible revisited, Cadmus Press, 2008 Damasco. 91 P. Buffa, I geni manipolati di Adamo, op. cit. 92 Si veda a puro titolo esemplificativo questo breve ma illuminante video: https://www.youtube.com/watch?v=WD_oqdhcrzA. 93 P. Veyne, I Greci hanno creduto ai loro miti?, Il Mulino, 2005 Bologna. 94 P. Reymond, Dizionario di ebraico e aramaico biblici, Società biblica britannica e forestiera, 2001 Roma. 95 https://it.aleteia.org/2017/01/09/disturbo-ossessivo-compulsivo-religione-senso-colpa 96 http://www.media.inaf.it/2016/01/28/geometria-babilonesi-giove 97 http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2017/08/24/i-babilonesi-inventori-della-trigonometria-prima-dei-greci_904aa2b9-5ad7-408f-a1f6-9dcd9d6c9b56.html 98 S. N. Kramer, The sumerian, their history, culture and character, University of Chicago Press, 1963-1971 USA. 99 http://www.corriere.it/cronache/18_gennaio_21/riccardo-segni-migrazione-fuori-controllo-vittorio-emanuele-iii-era-meglio-dove-stava-prima-acaf10b0-fe23-11e7-8db5-ba94532fe916.shtml 100 M. Biglino, Il falso Testamento, Mondadori, 2016 Milano. 101 M. Biglino, L. Forni, La Bibbia non l’ha mai detto, Mondadori, 2017 Milano. 102 M. Biglino, L’invenzione di Dio, Uno Editori, 2015 Orbassano (TO). 103 A. Demontis, Testi sumeri, ILMIOLIBRO Rotomail Italia S.p.A., 2010. 104 G. Pettinato, Mitologia sumerica, UTET, 2001 Torino. 105 ‘Eλλάδος περιήγησις (Helládos Periēghēsis). 106 http://www.corriere.it/salute/18_febbraio_19/creato-usa-embrione-ibrido-pecora-uomo-ae2a1b76-1555-11e8-83e1-221a94978c8b.shtml 107 E. Check, It’s the junk that makes us humans, «Nature», 2006. 108 Le scimmie antropomorfe viventi includono Orango, Gorilla, Scimpanzé e Bonobo. 109 S. R. Leigh, Brain growth - life history and cognition in primate and human evolution, «Am J Primatol», 2004. 110 M. O’Bleness et al., Evolution of genetic and genomic features unique to the human lineage, «Nat Rev Genet», 2012. 111 A. Varki, Comparing the human and chimpanzee genomes: searching for needles in a haystack, «Genome Res», 2009. 112 Y. E. Zhang, New genes contribute to genetic and phenotypic novelties in human evolution, «Curr Opin Genet Dev», 2014. 113 I. Ezkurdia et al., Multiple evidence strands suggest that there may be as few as 19,000 human protein-coding genes, «Hum Mol Genet», 2014. 114 M. Ragusa et al., Molecular Crosstalking among Noncoding RNAs: A New Network Layer of Genome Regulation in Cancer, «International Journal of Genomics», 2017. 115 K. R. Chi, The dark side of the human genome, «Nature», 2016. 116 S. Geisler, RNA in unexpected places: long non-coding RNA functions in diverse cellular contexts, «Nat Rev Mol Cell Biol», 2013. 117 C. Y. McLean et al., Human-specific loss of regulatory DNA and the evolution of human-specific traits, «Nature», 2011. 118 S. Prabhakar, Accelerated evolution of conserved non-coding sequences in humans, «Science», 2006. 119 J. A. Capra et al., Many human accelerated regions are developmental enhancers, «Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci», 2013. 120 J. S. Weitz et al., Evolution, interactions, and biological networks, «PLoS Biol», 2007. 121 Marco Ragusa è autore di interessanti video su tematiche scientifiche di ampio dibattito, incluso il tema dell’evoluzione umana. A tal proposito è possibile prendere visione del video dal titolo “Il misterioso Homo sapiens” al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=HhRviV3ab3M 122 P. Buffa, I geni manipolati di Adamo, op. cit., Uno Editori, 2015 Orbassano (TO). 123 M. Biglino, La Bibbia è un libro di storia, Uno Editori, 2014 Orbassano (TO). 124 E. Baccarini, I Vimana e le guerre degli Dei, Enigma Edizioni, 2015 Firenze. 125 La ventiquattresima settimana di gestazione rappresenta il limite prima del quale non è possibile tenere in vita un feto umano con gli attuali sistemi di incubazione. Il rischio di morte più frequente per i bambini estremamente prematuri è imputabile all’assenza di polmoni ben sviluppati e attivi, che dunque non possono fornire al cervello l’ossigenazione necessaria e sono inoltre troppo fragili per accogliere l’aiuto esterno della ventilazione artificiale. 126 Mahabharata, cap. 6, “Nascita dei Pandava e Kaurawa”. 127 Mahabharata, Sambhava Parva, Sezione CXV. 128 Rigveda, 7-33-13. 129 Mahabharata, Libro I, Adi Parva, Sambhava Parva, Sezione CXXXI. 130 P. Sankaranarayana, English Telugu Dictionary, K. R. Press, 1891. 131 https://www.theguardian.com/world/2014/oct/28/indian-prime-minister-genetic-science-existed-ancient-times 132 Karma è considerato il più grande guerriero descritto nel Mahabharata. Sono i personaggi del poema a definirlo tale, tra cui Krishna e Bhishma. Karma era figlio di Kunti (madre dei cinque fratelli Pandava che avrebbero combattuto contro i loro cugini Kaurawa) e Surya (il dio del Sole). I testi ci dicono che Karma nacque senza che Kunti perdesse la verginità. 133 http://www.thehindu.com/todays-paper/tp-in-school/genetic-science-existed-in-ancient-times-modi/article6545958.ece 134 Bhagavata Purana 3-31-1. 135 C. Bulletti et al., Early human pregnancy in vitro utilizing an artificially perfused uterus, «Fertility and Sterility», 1988. 136 L. Barmat et al., Human preembryo development on autologous endometrial coculture versus conventional medium, «Fertility and Sterility», 1999. 137 Nel 1979, il comitato bioetico americano Ethics Advisory Board pone una Convenzione al fine di disciplinare la ricerca sugli embrioni umani. Il documento riguarda i centri impegnati nello studio dell’embriogenesi umana e obbliga tali centri a non mantenere in laboratorio embrioni umani in fase di sviluppo per un periodo superiore ai quattordici giorni dalla formazione dello zigote (https://archive.org/details/hewsupportofrese11unit). 138 J. Johnston, Embryology policy: Revisit the 14-day rule, «Nature», 2016. 139 E. Perucchietti, Utero in affitto, Revoluzione, 2016 Torino. 140 Y. Kuwabara et al., Artificial Placenta: Long Term Extrauterine Incubation of Isolated Goat Fetuses, «Artificial Organs», 1989. 141 E. Partridge et al., An extra-uterine system to physiologically support the extreme premature lamb, «Nature Communications», 2017. 142 C. Metelo-Coimbra, Artificial placenta: Recent advances and potential clini capplicpplication, «Pediatric Pulmonol», 2016. 143 N. Unno et al., Development of an artificial placenta: survival of isolated goat fetuses for three weeks with umbilical arteriovenous extracorporeal membrane oxygenation, «Artificial Organs», 1993. 144 http://altragenesi.blogspot.it/2015/05/ruolo-dell-argilla-in-genetica.html 145 https://www.youtube.com/watch?v=iCA_XaSXn_M 146 Cfr. AA.VV., Hetz Hayim, The Jewish Publication Society, 2005 New York. 147 M. Biglino, La Bibbia è un libro di storia, op. cit., Uno Editori, 2017 Orbassano (TO). 148 Editor accademico del Logos Bible Software, M.A. e Ph.D. in Ebraico Biblico e Lingue Semitiche presso l’Università del Wisconsin-Madison nel 2004, M.A. in Storia Antica presso l’Università della Pennsylvania. 149 Cfr. Textual criticism of the Hebrew Bible, Fortress Press, USA 2001. 150 M. Biglino, Antico e Nuovo testamento. Libri senza Dio, Uno Editori, 2016 Orbassano (TO). 151 M. Biglino, E. Baccarini, La caduta degli dèi, Uno Editori, 2017 Orbassano (TO). 152 Cfr. The Bible and flying saucers, USA 1968, pubblicato in Italia da Il cerchio della Luna con il titolo La Bibbia e i dischi volanti. 153 Cfr. M. Biglino, La bibbia è un libro di storia, op. cit., e La Bibbia non parla di Dio, op. cit. -

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