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Sono tutte stronzate! Il metodo francese per superare i sensi di colpa: non serve essere perfetti" - Spunti di riflessione

 

Riflessioni interessanti di Fabrice Midal


Obbedire spesso sembra una soluzione semplice e garantita, dal momento che in tal modo non si devia dal percorso degli altri. Non abbiamo più paura di sbagliare: seguendo le istruzioni alla lettera siamo sicuri di “far bene”. Senza nemmeno rendercene conto acconsentiamo a un atto servile. A volte ce ne lamentiamo un po’, ma lo facciamo comunque…

Étienne de La Boétie, reso famoso dalla sua amicizia con Montaigne, nel 1549, giovanissimo, scrisse un testo incredibile, intitolato Discorso sulla servitù volontaria. Questo scritto prodigioso è stato “dimenticato” per secoli prima di essere parzialmente riscoperto da Gandhi, sostenitore della non violenza. La Boétie pone nel suo discorso una domanda sorprendente: perché gli uomini rinunciano con tanta facilità alla propria libertà per obbedire ad altri?

Una ragione, sostiene, è la nostra paura di perdere il potere che deteniamo, per quanto scarso esso sia. E la formula che elabora non ha perso, purtroppo, nulla della sua verità: «Il tiranno realizza la propria tirannia attraverso una cascata di tiranni, che sono tiranneggiati e tiranneggiano a loro volta».

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Risulta chiaro che obbedire senza discutere, senza capire il perché, anche senza essere d’accordo, ci soffoca, ci rende spenti, impedisce l’intelligenza che ci contraddistingue. Vogliamo dire di no, ma qualcosa ci trattiene. L’educazione, la formattazione.

Fin dalla nascita, il bambino è incoraggiato a rientrare all’interno di uno schema anziché ad assumersi il rischio della libertà. A scuola impara ad applicare regole prestabilite, viene bombardato di nozioni utili a renderlo adatto al mercato del lavoro. Non gli si insegna né a pensare né a essere umano, ma a replicare, durante verifiche ed esami, in maniera identica le nozioni che ha imparato a memoria. 

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Noi confondiamo formazione e formattazione. 

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Volete superare un esame, un colloquio, una presentazione? 

Iniziate con il lasciarvi in pace. Liberatevi dalle catene che vi hanno imprigionato senza che nemmeno ve ne accorgiate. Esplorate altre risorse, altri punti di forza che abbiano la capacità di inventare risposte diverse. 

[...]

Smettete di essere passivi, tornate a essere in relazione con il vostro essere, con la vita. Impegnatevi. L’azione vera è quella che permette a qualcosa di essere, al senso di manifestarsi.

[...]

Questa capacità di attendere, che non è passiva ma anzi profondamente attiva, si basa sulla fiducia: non so in che modo accadrà, ma rimango attento, aperto, presente a ciò che succede. Mi permetto il lusso di non sapere, di non essere impaziente, ma sono pronto ad accogliere ciò che può arrivare. Ho fiducia nella vita, mi affido a essa: è lei che mi aiuterà se la lascio scorrere in me.

[...]

Meditare non è riflettere, ma sentire. È essere presente a ciò che succede, semplicemente, senza cercare sempre di prendere coscienza di ciò che accade. Come il ciclista che si tiene in equilibrio sulla bici perché non si chiede qual è l’angolazione ideale per non oscillare di qua e di là: non riflette coscientemente, ma si affida. Esce da se stesso, si lascia in pace per adattare, senza pensarci, la pedalata e il manubrio alla conformazione del percorso che segue. Neanche il giocatore di tennis calcola l’angolazione con cui la racchetta del suo avversario ha colpito la palla o la sua velocità: se riesce a prenderla, al contrario, è perché dimentica... è tutt'uno  con il gesto, con la situazione, è essendo presente e non cosciente.

Prendere coscienza, nel senso in cui intendiamo l’espressione dopo Descartes, è impedirsi di coincidere con la vita – guardarsi fare. Meditare, invece, è coincidere con essa, cosa che non richiede di essere “cosciente”, ma di essere aperto. 

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Non si tratta né di una rivoluzione né di un’innovazione, ma di un ritorno alla fonte. Perché in sanscrito e nella maggior parte delle lingue asiatiche, la pratica di base della meditazione viene chiamata bhavana, che si potrebbe tradurre come “essere in una certa maniera” – alla stregua della natura che è, senza ragione e senza motivo. L’azione del meditare è in questo senso concepita come un dispiegamento, ossia un lasciar affiorare alla luce ciò che è. Introducendo il concetto di coscienza, abbiamo ridotto la meditazione a pura tecnica, a un esercizio cerebrale che attiva una precisa zona della corteccia mentre ne lascia al riposo un’altra. Ci concentriamo sui suoi effetti misurabili sui nostri neuroni, ma dimentichiamo che molto più dei nostri neuroni essa riguarda la nostra intera esistenza.

Teorizzando la meditazione, torniamo a essere cervelli che riempiono scartoffie e liste di numeri, uomini d’affari come quello incontrato dal Piccolo Principe sul quarto pianeta. Ebbene, se egli fosse presente, anziché soltanto cosciente, se uscisse dalla sua torre di controllo di sé che costantemente esamina e si tiene a distanza da tutto, se si concedesse di esprimere i propri sentimenti, il proprio istinto, le proprie sensazioni, l’uomo d’affari tornerebbe a essere umano, sarebbe più preciso e svolgerebbe molto meglio i suoi compiti, essendo aperto, attento e presente alla realtà, in grado di elevarsi per comprenderla nella sua interezza.

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Camminiamo contando il numero dei nostri passi, corriamo e calcoliamo la nostra velocità confrontandola con le prestazioni del giorno prima. Mangiamo, valutando da un punto di vista intellettuale ciò che abbiamo nel piatto, piuttosto che abbandonarci al gusto, al piacere di degustare attraverso i sensi, all’ascolto della sensazione di fame o di sazietà. Salutiamo un vicino dopo aver riflettuto e infine deciso di poterlo fare, come se questo rapporto con gli altri non fosse fondamentale nella vita umana. A forza di essere coscienti, dimentichiamo di essere presenti. A forza di pensare, dimentichiamo di godere. Il nostro primo istinto è quello di porci a distanza. Anche nella pratica della meditazione: resto a distanza al fine di controllare il mio respiro, i miei pensieri. E, a forza di essere cosciente di me, di mettermi al centro della tela, dimentico di essere presente.

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La meditazione sta diventando parte di questa razionalizzazione totalitaria. Meditare per diventare più efficienti, più produttivi, per liberarsi dell’intralcio degli stati d’animo. Essere coscienti di tutto, per meglio controllare tutto. Aumentare la produttività. Favorire la disumanizzazione. Far sì che essa sia totale, mondializzata…

Finiamola. Impariamo a lasciar sgorgare la vita nella sua effervescenza pura…

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Uno dei cicli di meditazione che insegno riguarda la fiducia. Smettere di compararsi agli altri richiede fiducia! Ma non fiducia in se stessi, né autostima. Personalmente, non mi fido di quell’entità chiamata “io”. Ho fiducia nella profondità della meditazione perché ne ho visto i frutti. Quando parlo, ho fiducia in ciò che dico perché l’ho provato.

La vera fiducia, quella che amo trasmettere, è incondizionata.

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Smettete di torturarvi.

Diventate il vostro migliore amico.

[...]

La meditazione non è il Ritalin.

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Ho insegnato la meditazione ai bambini, so che capiscono subito che cosa intendo con questo, lo capiscono più facilmente degli adulti perché non sono ancora imbevuti delle nostre ideologie, dei nostri automatismi, non sono ancora prigionieri della morsa in cui ci stringe la società. Meditare è per loro uno stato naturale: sanno lasciarsi in pace, sanno avere un rapporto d’amicizia con loro stessi. Non sono dissociati, come noi, dal loro corpo e dalle loro sensazioni. Si fidano di più della loro esperienza. Quando chiedo loro di sedersi ed entrare qualche minuto “in casa”, capiscono all’istante che cosa significa questo semplicissimo gesto.

ablo era uno di quei bambini. Il suo modo di praticare era incredibilmente naturale. Non cercava di interpretare un ruolo né di costruirsi un personaggio, non si prendeva sul serio come possono fare alcuni adulti e non aveva assolutamente l’impressione di partecipare a un qualche rituale mistico-magico. Una mattina gli avevo chiesto di prendere il mio posto e meditare di fronte al gruppo. Il suo atteggiamento esprimeva meglio di qualunque discorso l’unico messaggio che volevo trasmettere: sedetevi e lasciatevi in pace.

Oggi, Pablo ha dieci anni di più. Non è un meditante assiduo, ma ogni tanto torna a praticare con me. Mi ha scritto di recente. Gli ho chiesto l’autorizzazione di pubblicare la sua email. Eccola qui:

Il ricordo principale che ho della mia esperienza della meditazione da bambino, è la facilità con cui mi posizionavo nello spazio. A mano a mano che si cresce, aumentano il nervosismo e l’angoscia di fronte al silenzio, e la pratica diventa più difficile col passare degli anni… Aver praticato da piccolo permette di avere uno sguardo differente sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta: quando si presta attenzione alla propria esperienza dell’istante presente sin dall’età di dieci anni, ci si vede crescere. Il rapporto con il mondo evolve, e qui è racchiusa tutta la ricchezza di ciò che ho vissuto: posando uno sguardo semplice e meditativo su ciò che si vive, si entra in profondità nella complessità del dover crescere e cambiare. La meditazione mi ha insegnato a “lasciarmi in pace”, e questo è di grande aiuto quando, da adolescenti, tutto diventa più complicato e opprimente, difficile e ansiogeno. Darei due consigli per insegnare la meditazione ai bambini. Primo: accontentarsi di sedute brevi, perché un bambino non ha bisogno di tutto il tempo che impiega un adulto per trovare una posizione seduta ed entrare in rapporto con la propria esperienza (ne sono testimone!). Il secondo: spiegare loro che se fra qualche anno meditare diventerà più difficile, è normale. Io sono stato avvertito, e quindi non mi sono sentito in colpa quando, a partire dai tredici o quattordici anni, restare seduto sul cuscino è diventato meno naturale.

[...]

Se continuo a praticare, ogni giorno o quasi, è per continuare a toccare la vita. La mia meraviglia rimane intatta… anche quando “le cose vanno male”. Ho imparato ad avere fiducia nella mia capacità di meravigliarmi. E mi lascio in pace ancora più facilmente, provando allora quella strana sensazione che è la gratitudine. La gratitudine verso la vita, la mia vita. Solo perché è… Ci ho messo del tempo prima di parlare di questa meraviglia che provo: mi sembrava un discorso troppo edulcorato, temevo che prendesse il sopravvento sulla radicalità che mi sta a cuore, sull’urgenza di lasciarsi in pace. Ma mi rendo conto che in realtà si tratta dello stesso discorso: lasciarsi in pace non è altro che autorizzarsi a toccare questa meraviglia, a trovare lo spirito infantile che abbiamo sepolto sotto i nostri discorsi da esperti. Una simile felicità non dipende dalle circostanze ed è una profonda liberazione…



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