Passa ai contenuti principali

Rimani aggiornato

ALTRI ARTICOLI (clicca qui per aprire o richiudere il menù a discesa)

Mostra di più

LE MILLE MASCHERE DI GURDJIEFF...

-




Per via della sua reputazione - ha scritto Fritz Peters(2) - le persone raramente venivano a contatto con un individuo chiamato Gurdjieff; esse incontravano piuttosto, l’immagine che si erano precedentemente create nella loro mente”. E perché questa immagine infrangesse sempre e comunque le aspettative più ovvie, perché l’incauto postulante non si trovasse di fronte un cliché ma un essere autentico, capace di dare o di togliere ma soprattutto di disseminare conoscenza, Gurdjieff fu costretto ad indossare spesso una maschera di apparente fraudolenza per percorrere una via aspra e difficile, quella che i sufi chiamano la “via di malamat” : la via del biasimo.  “Per esempio - testimonia Henri Tracol(3) - non ha mai esitato a far sorgere dubbi su sé stesso con il tipo di linguaggio che usava, con le sue contraddizioni calcolate e col suo comportamento, ad un punto tale che la gente intorno a lui, in particolare chi aveva la tendenza ad idolatrarlo ciecamente, fosse finalmente costretta ad aprire gli occhi sul caos delle sue reazioni”.


Da qui la necessità di confondere le acque, di camuffarsi, di barare su tutto quello che riguardava la sua identità personale: quasi a ricordare che quel che davvero contava non era la sua persona, ma l’insegnamento di cui era portatore.  Dice un motto zen: se qualcuno vi indica la luna dovete guardare la luna, non il dito puntato ad indicarla.
Nato nel Caucaso in una data imprecisata, compresa fra il 1866 ed il 1877(3bbis), e morto a Parigi nel 1949, quest’uomo inafferrabile e multiforme potrebbe puntualmente venire incluso nella compagnia, ormai piuttosto affollata, dei maestri giunti in Occidente per rivelare insegnamenti perduti o per ricondurre un’élite di seguaci sulla via della Tradizione; ma l’implicazione, per quanto non impropria, risulterebbe insufficiente. Fin troppi pretesi esegeti hanno cercato di classificare le idee di questo Dioniso dal volto di Taras Bulba e di inserirlo in qualche categoria: emissario dei sufi in Occidente; esoterista cristiano; buddista tantrico sotto mentite spoglie; da parte sua egli si definì solo un “maestro di danza”.
Fin dagli anni ‘20, quando costituì nel castello del Prieuré di Avon a Fontainbleu l’”Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo”, fece largo uso della provocazione e dello scandalo come strumento di risveglio interiore (con metodi non dissimili da quelli di certi maestri zen o dei sufi della cosiddetta malamattya) incantando le avanguardie e  quell’intellighentsia che proponeva l’ “epatér le burgeois” come primo passo verso un possibile altrove. Per gli stessi motivi naturalmente, il mistagogo caucasico, fu temuto o spregiato da chi, in un modo o nell’altro, restava nel novero dei bempensanti(3bbbis).
Gurdjieff elaborò un sistema di crescita e sviluppo interiore che nasceva dalla compassione per la condizione umana e dall’esigenza di contribuire ad alleviarne le sofferenze. E proprio nell’ “uso” costruttivo e consapevole dell’inevitabile sofferenza, egli individuò il nutrimento che avrebbe potuto restituire l’uomo alla sua dignità: “il più piccolo scopo per un uomo è quello di non morire come un cane" diceva spesso.
Henry Miller lo definì “un incrocio fra uno gnostico ed un dadaista”. Frank Lloyd Wright lo commemorò, parafrasando l’antitesi di Kipling, come l’uomo nel cui pensiero “l’Occidente incontra veramente l’Oriente”. André Breton avrebbe voluto includere nell’ultima edizione della sua “Antologia dello Humour Nero” il primo capitolo de “I Racconti di Belzebù al suo piccolo nipote”, opera monumentale e rabelaisiana in cui Gurdjieff si proponeva di “Estirpare dal pensiero e dal sentimento del lettore... le credenze e le opinioni... riguardanti tutto ciò che esiste al mondo(3bis)”. In realtà, il baffuto ierofante, non cercò mai di compiacere  artisti ed intellettuali che, di solito, apostrofava con l’appellativo di “vagabondi” e considerava inadatti a qualsiasi forma di disciplina interiore. Eppure, fra i suoi seguaci più fedeli, i vagabondi furono in maggioranza: basti ricordare, fra i molti, la scrittrice neozelandese Katherine Mansfield; Alfred Richard Orage, alfiere delle avanguardie storiche, del corporativismo e del credito sociale in Inghilterra; René Daumal, reduce dalle sperimentazioni patafisiche e parasurrealiste del “Grand Jeu” e studioso di sanscrito. Proprio Daumal scriverà le pagine più belle e illuminanti su questo insegnamento: dall’alpinismo trascendentale del “Monte Analogo”, al fulminante poema in prosa “La Guerra Santa”, alla rievocazione visionaria dell’agapè alcolica gurdjieffiana di “La Gran Bevuta”. Attraverso Daumal, Antonin Artaud concepirà l’utopia del Teatro della Crudeltà. Dai Movimenti Sacri in cui sensazione, sentimento e pensiero si equilibrano - le danze dervisce di Gurdjieff che tanto scalpore fecero a Parigi ed a New York nel 1924 - al tentativo di riappropriazione del sacro da parte di certe avanguardie teatrali che non dimenticarono mai la lezione del “maestro di danza”. Attraverso Artaud, fino a Jerzy Grotowsky, a Peter Brook, ad Alejandro Jodorowsky(3tris).
In altri ambienti meno flamboyants di quelli artistici, l’insegnamento di Gurdjieff ha ricevuto forse un’accoglienza più tiepida: per esempio, il cattolico e gandhiano Lanza del Vasto, riconobbe il valore del metodo ma non quello dell’uomo; René Guénon, che lo detestava, lo incluse, in compagnia di Aleister Crowley, Giuliano Kremmerz e Schwaller de Lubicz, nel numero dei più pericolosi esponenti della controiniziazione; al contrario, per le ben note differenze di prospettiva fra i due pensatori tradizionalisti, Julius Evola lo citò in termini sostanzialmente positivi in “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”, in “Cavalcare la tigre” ed in un articolo specifico degli ultimi anni(3quatris).
Chiunque sia stato quindi questo personaggio certamente straordinario - autore di libri senza essere scrittore, di musiche senza essere musicista, ‘maestro di danza’ per vocazione, cuoco raffinato, attore situazionista se mai ve ne fu uno, esseno, tantrista, sufi - poco importa in fondo.

 Esiste un insegnamento, preciso e raggiungibile, e questo è un dato di fatto. “Gli uomini non sono uomini”, dice in sostanza Gurdjieff, e quando si riferisce all’uomo “così com’è” mette sempre la parola fra virgolette. Il problema essenziale si riduce a questo: uscire dalle virgolette.
Il primo ostacolo, quello fondamentale, è la nostra stessa illusione: illusione di essere, di avere un io unico, di poter fare.  “Tutto accade. Tutto ciò che sopravviene nella vita di un uomo, tutto ciò che si fa attraverso di lui, tutto ciò che viene da lui, tutto questo accade...L’uomo è una macchina. Tutto quello che fa, tutte le sue azioni, le sue parole, pensieri, sentimenti, convinzioni, opinioni, abitudini, sono i risultati di influenze esteriori... movimenti popolari, guerre, rivoluzioni, cambiamenti di governi, tutto accade... L’uomo non ama, non desidera, non odia - tutto accade.(4)”
Per poter fare bisogna prima essere e per poter essere bisogna prima aver preso coscienza della propria fondamentale inesistenza. La dichiarazione può suonare sostanzialmente scandalosa ad un orecchio occidentale, ed ecco sollevarsi comode accuse, da parte di molti, a denunciare una dottrina inumana e crudele, laddove si dovrebbe parlare piuttosto di “obbiettiva imparzialità”.
In Gurdjieff il concetto di benevolenza e di misericordia non si associa con quello di dolcezza: qualcuno giustamente lo disse “uomo di spietata compassione”. Un altro uomo venuto a portare non la pace, ma una spada. D’altronde l’unica cosa simile ad una definizione che Gurdjieff abbia mai dato di sè, oltre a “maestro di danza”, è stata quella di “esoterista cristiano”; ma prontamente aggiungeva: ”Il Cristianesimo dice esattamente questo, amare tutti gli uomini. Impossibile. Allo stesso tempo è assolutamente vero che è necessario amare. Ma prima bisogna essere, solo dopo si può amare. Sfortunatamente, col passare del tempo, i moderni Cristiani hanno adottato la seconda metà, amare, ed hanno perso di vista la prima, la religione che avrebbe dovuto precederla. Sarebbe stupido da parte di Dio chiedere all’uomo ciò che questi non può dare(5) .”
La nostra vita, così com’è, è solo reazione meccanica a stimoli esterni: quello che chiamiamo io è un groviglio confuso di piccoli io in perenne conflitto fra loro. Non c’è unità in noi: “l’uomo è plurale. Il nome dell’uomo è legione(6)”. Da qui la necessità di costruirsi un Centro di Gravità, o Centro Magnetico, costituito dall’Insegnamento, intorno al quale agglutinare un certo numero di io e procedere dalla molteplicità verso l’unità. La via è data dallo sforzo cosciente e dalla sofferenza volontaria. Lo sforzo cosciente è attenzione, presenza, ricordo di sé; la sofferenza volontaria è invece l’abbandono delle proprie certezze, delle proprie opinioni, della propria affermazione meccanica di sé stessi, del desiderio di rassicurazione, del conforto intellettuale del  proprio senso di sé con le sue pretese di importanza e di onniscienza. Lo sforzo consiste anche nello smascheramento delle emozioni negative - ansia, rabbia, autocommiserazione, vanità, amor proprio, ecc. - dell’ “immaginazione”, cioè il credersi ciò che non si è, e dell’ “identificazione”, concetto non dissimile da quello che i Buddhisti chiamano “attaccamento”’.
I fini di questo sforzo non sono morali o moralistici: si può parlare con freddezza ed efficacia di controllo della dispersione energetica nel contesto generale della “macchina” umana. Viene dichiarata interiormente quella che René Daumal chiama la Guerra Santa: la nostra “essenza” - ciò che è innato e ‘naturale’ in noi - cresce nutrendosi della “personalità” - ciò che è indotto, acquisito dall’esterno - che normalmente la soffoca. In questa guerra - e non si può non pensare a Krishna ritto sul cocchio accanto ad Arjuna - sono abbattute spietatamente tutte le illusioni: prima fra queste, l’assai poco utile convinzione di avere “in dono” un’anima. Niente è in dono, tutto si paga: se una tale possibilità esiste, anche questa va pagata ed il prezzo è alto. ”Se in un uomo vi è qualcosa capace di resistere alle influenze esteriori, allora proprio questo qualcosa potrà resistere anche alla morte del corpo fisico.... Se in un uomo vi è qualche cosa, questo qualcosa può sopravvivere; ma se non vi è niente, allora niente può sopravvivere(8) ”La condizione umana reale e consapevole è il riconoscimento di quello che Gurdjieff chiama “l’orrore della situazione”, ma la maggioranza degli uomini preferisce essere blandita e proseguire indisturbata il suo sonno. Frasi come “beato chi ha un’anima, beato chi non l’ha, ma sventura e dolore a chi ne ha solo l’embrione(8)” raggelano i facili entusiasmi degli apologeti del New Age, disturbano i dispensatori di balsami consolatori ed i confezionatori di manuali su “come ottenere l’Illuminazione in 20 lezioni”. Così come suona sgradevole al sentimentalismo del tipico uomo religioso, il concetto che “Per essere capaci di aiutare gli altri, occorre innanzi tutto imparare ad aiutare sé stessi... Quando un uomo si vede realmente quale è, non gli viene in mente di aiutare gli altri - si vergognerebbe di questo pensiero... ...Soltanto un egoista cosciente può aiutare gli altri.(9)”
Né il sentimentalismo, né il moralismo appartengono all’insegnamento: “Ciò che è necessario è la coscienza. Noi non insegniamo la morale. Insegniamo come si può trovare la coscienza. Alla gente non piace sentirselo dire. Dicono che non abbiamo amore, solo perché non incoraggiamo la debolezza e l’ ipocrisia ma, al contrario, rimuoviamo tutte le maschere. Chi desidera la verità non parlerà mai di amore o di cristianesimo, perché sa quanto ne è lontano.(10)”
La via di Gurdjieff è una via religiosa nel senso più propriamente etimologico del termine: re-ligare, cioè riconnettersi, ricollegarsi. Negli ambienti gurdjieffiani l’applicazione dell’insegnamento viene chiamata “il Lavoro”. La scelta del nome chiarisce la natura del processo che si vuole mettere in atto. Ouspensky, il divulgatore più noto delle idee di Gurdjieff, chiama questo percorso “Quarta Via”, contrapposta alla via del “fakiro”, che lavora solo sul corpo; del  “monaco”, che lavora solo sulle emozioni; e dello “yogi”, che lavora solo sulla mente. Queste vie sbilanciate possono produrre solo “stupidi santi” (che sono in grado di fare tutto ma non sanno cosa fare) o “deboli yogi” (che sanno cosa fare ma non possono farlo). La Quarta Via invece è la “Via dell’Uomo Astuto”, quella che equilibra il lavoro delle prime tre, sviluppando armonicamente tutti gli aspetti dell’essere e permettendo al praticante di non abbandonare la sua vita ordinaria per rinchiudersi in un monastero, ma , come dicono i sufi, di “essere nel mondo ma non del mondo”.
Negli scritti di Gurdjieff in realtà non viene mai menzionata una Quarta Via, si parla piuttosto, nei “Racconti di Belzebù al suo piccolo nipote”, di antiche vie basate su “fede”, ”speranza” e “amore”, impulsi di origine divina ma ormai talmente distorti e sviliti dall’uomo attuale, da essere inservibili. L’immaginario profeta Ashiata Shiemash scopre una nuova via basata sulla “coscienza morale obbiettiva”, anch’essa di origine divina ma così rara nel mondo da essersi preservata incorrotta ed essere quindi ancora ‘attiva’: tale coscienza è divenuta inconscia e deve quindi essere risvegliata.
L’uomo è un essere tricentrico o “tricerebrale”; i tre centri o “cervelli” devono funzionare in modo armonico e non sbilanciato come di norma. Stomaco (e tutto quel che si trova al di sotto di questo), cuore e testa o, se si preferisce, corpo, emozioni e intelletto, devono equilibrare le loro funzioni e non interferire fra loro. Non bisogna quindi sacrificare o mortificare nessuna delle parti dell’uomo, ma bilanciarle e restituirle alla sfera appropriata: “Meriterà il nome di uomo e potrà contare su ciò che è stato preparato per lui dall’Alto, solo colui che avrà saputo acquisire i dati necessari per conservare indenni sia il lupo sia l’agnello che gli sono stati affidati(11).” Se tipi diversi di uomini, guidati solo da uno dei loro centri - l’intellettuale, l’emozionale, il sensitivo-motore - sono imprigionati in uno schema prestabilito, il quarto tipo di uomo, che ha equilibrato i tre centri, può cominciare ad assaporare i primi barlumi di libertà. Un’idea fondamentale collegata con questa è la differenza fra conoscenza e comprensione: la prima è fondata  su un solo centro, abitualmente il centro intellettuale; la seconda è tricentrica, passa cioè  per tutte le facoltà. Ciò che è compreso, cioè contemporaneamente capito, sentito e percepito,  ci appartiene davvero; la semplice conoscenza è invece del tutto strumentale e aleatoria. Da qui la scarsa considerazione di Gurdjieff per l’uso puramente intellettuale, teorico delle idee dell’Insegnamento: senza la comprensione e quindi la pratica, non si può che fraintendere.


Fonte  ->  http://www.olistica.tv/AntologiaOlistica/INDICE/Gurdjieffincontroconunuomostraordinario/tabid/110/Default.aspx

----------
;


Il baffo destro e il baffo sinistro di Gurdjief




Fonte :  http://guide.supereva.it/franco_battiato/interventi/2007/09/306898.shtml


tratto dal libro di Fabrizio Ponzetta, L’esoterismo nella cultura di destra,
l’esoterismo nella cultura di sinistra, Jubal 2005


Un personaggio davvero interessante ai fini del nostro studio è George
Ivanovitch Gurdjieff. Prima di tracciare una sua breve biografia, sarà
opportuno spiegare l’interesse che il nostro studio nutre per lui. Nel
dualismo da noi identificato fra un esoterismo in seno alla cultura di
destra, il tradizionalismo, ed uno in seno alla cultura di sinistra, lo
spiritualismo contemporaneo sfociato nel new age, un personaggio storico
come Gurdjieff si muove sornione con modalità pragmatiche e trasversali,
attirando critiche e lodi da entrambe le parti.
Nel sito internet di una recente scuola di ispirazione gurdjieffiana si
citano in home page, con una certa compiacenza, le parole terribili che
Guénon ebbe a dire su Gurdjieff e i suoi discepoli: “Da evitare come la
peste”.
Anche Evola inserisce Gurdjieff nella raccolta di suoi scritti critici sullo
spiritualismo contemporaneo, ma, a dire il vero, oltre ad esporne i principi
dottrinari, non ne demolisce né la persona, né il pensiero, come fa con
altri, e, anzi, si lascia sfuggire che con qualche genuina organizzazione
iniziatica Gurdjieff deve aver avuto a che fare.
All’interno invece del variegato mondo new age, Gurdjieff assume le
connotazioni di un Abraxas moderno, un dio diavolo ora visto come esempio di
integrazione di opposti, ora visto come personaggio altamente negativo, il
prototipo dell’ipnotista crudele che lava il cervello a genuini ricercatori
spirituali, per i propri subdoli fini. La notorietà del suo nome, dagli anni
sessanta in poi, è dovuta sia alla vasta letteratura prodotta dai suoi
discepoli, comparsa per la maggior parte dopo la sua morte, avvenuta nel
1949 (in genere si tratta di diari che narrano le “avventure” di un
discepolo col maestro: “Idioti a Parigi” di Bennet; “La nostra vita con
Gurdjieff” dei coniugi De Hartmann; “La mia infanzia con Gurdjieff” e “I
miei anni con Gurdjieff” di Fritz Peters; “Mounsier Gurdjieff, ma lei chi
è?” di René Zuber; “Momenti d’oro con Gurdjieff” di Annie Lou Staveley, solo
per citarne alcuni, oltre al famoso “Frammenti di un insegnamento
sconosciuto” di Petr Demianovich Ouspensky), sia al fatto che alcuni noti
artisti contemporaneei (il regista Peter Brook, che girò un film liberamente
tratto dall’omonima autobiografia di Gurdjieff, “Incontri con uomini
straordinari”; Franco Battiato e Peter Gabriel, per limitarci ad alcuni
prestigiosi esempi) si sono più o meno esplicitamente ispirati al suo
insegnamento, generando quindi per emulazione un certo interesse giovanile
nei suoi confronti.
Anche il noto guru indiano Osho (Bhagwan Shree Rajneesh) ha fatto la sua
parte, citando Gurdjieff continuamente nei suoi discorsi e adottando alcuni
dei suoi metodi dinamici di meditazione. Inoltre, una certa tendenza
multietnica della danza e del teatro contemporaneo ha favorito la
divulgazione delle danze sacre che Gurdjieff (maestro di danza) insegnava ai
suoi discepoli. Infine, la psicologia umanista si è appropriata, spesso
omettendone la fonte, di tecniche, concetti e simboli (l’enneagramma in
primis) del sistema gurdjieffiano. In proposito si rimanda il lettore ai
rispettivi capitoli su Rajneesh e sulla psicologia umanista.
Detto ciò, passiamo a tracciare una biografia di Gurdjieff che possa
“giustificare” il bizzarro titolo di questo capitolo.
George Ivanovitch Gurdjieff nasce nel quartiere greco di Alexandropol in
Capacoccia, nella parte russa della zona di confine tra Russia e Turchia, in
un anno indefinito fra il 1860 ed il 1870. Nella sua gioventù alterna vari
lavori con una personale ricerca spirituale e archeologica che lo porta a
frequentare alcuni gruppi iniziatici, monasteri sufi e cristiani e vari
ricercatori esoterici, con cui fonda un gruppo denominato I cercatori della
Verità. Nei suoi viaggi, si spinge fino in Egitto ed in Sudan. Forse per
finanziare le sue ricerche ed i suoi viaggi, inizia intorno al 1890 anche
una sorta di strana carriera politico-diplomatica: come inviato di un
partito armeno si spinge fino in Svizzera e a Roma, a Creta ricerca le
tracce di una antica confraternita ma vi appare anche come inviato di una
società segreta ellenica. Con una confraternita giovanile di ispirazione
tradizionalista compie spedizioni in Tibet, in Siberia e a Bagdad. Nel 1901
pare che come agente segreto zarista sia penetrato in Tibet (quando, anni
dopo, i suoi discepoli cercarono di ottenere la cittadinanza britannica, i
servizi segreti inglesi si opposero con un rapporto in cui Gurdjieff veniva
definito come spia zarista che nei primi anni del novecento aveva lavorato
contro gli “interessi di Sua Maestà in Tibet”). In questi anni viene ferito
tre volte in scontri a fuoco; nel 1905 dovrebbe essere entrato in un
monastero sufi dell’Asia centrale. Nel 1908 inizia la sua tripla vita:
medico ipnotista in odore di ciarlataneria, mercante di tappeti, petrolio,
pesce e bestiame nonché maestro esoterico.
In “Il nunzio del bene venturo”, un libro che uscì nel 1933 a Parigi e che
doveva annunciare l’uscita dell’opera omnia di Gurdjieff, Gurdjieff raccontò
che il suo scopo era di svegliare l’essere umano e, avendo raccolto una
serie di conoscenze (se la biografia sopra citata è vera, come non dargli
torto), liquidò i suoi affari e si spostò a Mosca per insegnarle. Fra il
1913 ed il 1914 raccoglie a Mosca i suoi primi discepoli; nel 1915 accetta
come allievo il noto filosofo e conferenziere P.D. Ouspensky attraendolo e
scandalizzandolo. Nel suo autobiografico “Frammenti di un insegnamento
sconosciuto”, il filosofo russo, da poco tornato in Russia dopo un
“deludente” viaggio di ricerca spirituale in India, entra in contatto con
questo armeno dal linguaggio sgrammaticato, vestito abbastanza elegantemente
ma con i polsini sporchi, che lo convoca in rumorosi caffè moscoviti e gli
chiede soldi per essere accettato nella sua cerchia, in quanto il suo
“lavoro” abbisogna di grandi spese, come inverosimili oggetti da importare
dall’Egitto, e case costose in cui incontrarsi; “a testimonianza” di ciò,
Gurdjieff lo invita in un appartamento spoglio sopra una scuola che all’epoca
veniva dato alle maestre gratuitamente. Proprio per via di queste palesi
contraddizioni, Ouspensky si chiese, se con lungimiranza o con innocenza non
lo sapremo mai, se forse il signor G. (come lui lo chiama nel libro) non lo
stesse mettendo alla prova. Da lui rimase comunque affascinato: “Incontrarlo
era sempre una prova. Alla sua presenza ogni gesto sembrava artificiale: sia
che fosse troppo referenziale o al contrario troppo pretenzioso, dal primo
momento veniva distrutto, e non restava nulla se non una creatura umana alla
quale era stata strappata la maschera, mostrando così, per un istante, ciò
che era realmente”.
A Ouspensky ed al suo libro si deve la conoscenza delle dottrine di
Gurdjieff, in quanto gli scritti del maestro sono, volutamente o per
incompetenza (ci sono due scuole di pensiero in proposito), assai caotici e
bizzarri. Nonostante alla fine del libro Ouspensky, già allontanatosi da
Gurdjieff, ne distingua le idee (valide) dal personaggio (perfido),
Gurdjieff stesso definì il libro la migliore esposizione sistematica delle
sue idee e molti suoi discepoli ci studiarono sopra. La dottrina esposta da
Ouspensky, grazie ad appunti presi segretamente al termine degli incontri
con Gurdjieff, che preferiva la divulgazione orale di certi concetti, è
alquanto ampia e complessa; tuttavia, possiamo riferirne qui alcuni tratti
che sono davvero un punto d’incontro fra lo spiritualismo contemporaneo e la
Tradizione. Ciò che in teosofia e in antroposofia viene banalizzato, secondo
i tradizionalisti, con la parola “corpo” (i corpi sottili ad esempio), in
Gurdjieff assume più precisamente il significato di stati di coscienza;
così, più che un corpo fisico, uno emotivo, uno astrale e così via, esistono
uomini che vivono in uno stato di coscienza in cui predominano i bisogni del
corpo, altri in cui sono prevalenti quelli emotivi, quelli mentali o quelli
spirituali. L’uomo per Gurdjieff non è nulla di più che una macchina
biologica senza un centro di gravità permanente, ovvero non ha un’io ma una
serie di aggregati psicologici che si alternano in lui a seconda delle
situazioni; nel sistema gurdjieffiano un vero io può essere “creato” solo
tramite una disciplina, un “lavoro” su di sé, una serie di “shock” coscienti
autoindotti o meglio indotti da un maestro. Per Gurdjieff, esistono quattro
vie per giungere alla “liberazione” e cioè per “ottenere” un “io”, ovvero
per “morire con onore e non come cani”: la prima è la via del fachiro, vale
a dire una via adatta a uomini in cui prevale l’orientamento fisico, uomini
che tramite il controllo del corpo giungono ad un’unità interiore; la
seconda via è quella del monaco, ovvero una via emotiva e cioè devozionale;
la terza via è quella dello yogi, che potremmo definire una via
intellettuale; la “Quarta via” è la sua.
Ouspensky col tempo si indispettì parecchio per i metodi usati da Gurdjieff
atti a provocare gli shock di cui sopra e lo accusò di proporre ai suoi
discepoli, contrariamente a quanto predicava, la via del monaco, ovvero dell’ubbidienza
e della devozione, anziché la Quarta via, di cui Ouspensky si fece portavoce
diventando in vita più noto dello stesso Gurdjieff. Ouspensky, d’altronde,
era un raffinato intellettuale, mentre Gurdjieff non ebbe mai vita facile,
la sua esistenza fu costellata di migrazioni, lutti, difficoltà economiche e
incidenti di vario genere. Scappò con un manipolo di allievi dalla Russia
rivoluzionaria, inventando una spedizione scientifica al monte Induc;
attraversò così le zone controllate dalle guardie bianche e da quelle rosse
con due lasciapassare: uno ottenuto grazie ad alcuni discepoli di origine
aristocratica, l’altro ottenuto inventando di essere parte di una
associazione internazionalista ispirata ai principi del socialismo; in
prossimità dei posti di blocco si toccava il baffo destro o quello sinistro
affinché i discepoli capissero quale passaporto esibire e come comportarsi.
Tale ambiguità, dettata da esigenze di sopravvivenza e da un’equidistante
distacco dai dualismi mondano-politici, lo accompagnò in tutti i luoghi in
cui fece tappa, da Essentucki a Tbilisi a Costantinopoli a Berlino a Parigi;
ovunque racimolò soldi e discepoli, tenne conferenze e fece esibizioni di
danze sacre creando, a seconda del posto, anche brevi organizzazioni dal
nome Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo. Giunto infine a Parigi,
stabilì il suo quartier generale inizialmente in un ex priorato e
precisamente nella cittadina di Avon (1922).
Tenendo una conferenza a Londra presso gli allievi di Ouspensky (nel
frattempo trasferitosi in Inghilterra) che, nonostante la separazione, lo
invitò, Gurdjieff ne affascinò i più importanti fra cui l’editore Alfred
Orage che gli organizzò una serie di viaggi “promozionali” in America.
Da tutto il mondo ricercatori spirituali si recarono ad Avon, e la fama di
Gurdjieff crebbe quando la nota poetessa Katherine Mansfield, gravemente
malata di tubercolosi, decise di passare gli ultimi anni della sua vita ad
Avon. La stampa ipotizzò addirittura un omicidio.
Una serie di lutti, incidenti ed infine un pressante passivo economico
costrinsero alla chiusura del priorato di Avon e Gurdjieff nel 1932 si
trasferì a Parigi in un hotel vicino al Cafè de la paix. In questo periodo
si aliena i discepoli americani con i suoi bizzarri soggiorni in America
finalizzati esclusivamente a pressanti richieste di denaro e inizia a
scrivere la sua opera, di cui l’”Herald” (”Il nunzio del bene venturo”) è
una sorta di presentazione e allo stesso tempo è il proclama di un nuovo
inizio del suo lavoro atto a recuperare i discepoli. Dopo neanche un anno,
però, ritira le copie in circolazione dell’”Herald” e invita chi l’ha letto
a dimenticarlo e bruciarlo.
Nel 1936, in un piccolo appartamento di Parigi, in Rue des Colonels Renard,
riprende ad insegnare sistematicamente le sue idee a piccoli gruppi di
allievi. I suoi metodi sono sempre più pratici, una sorta di yoga della vita
quotidiana; i veri incontri sono a cena, dove egli cucina piatti esotici, e
dopo il pasto: “La sua tavola, quando alla fine del pasto un grande silenzio
si stabiliva per far posto alle domande dei suoi allievi, era simile al
tappeto di un club di judo. Il maestro, con il suo cranio rasato di samurai,
attendeva tranquillamente senza muoversi. Il «Monsieur, posso porre una
domanda?» che veniva a rompere il silenzio, aveva qualche cosa di rituale,
come il saluto di due judoka che si inchinano uno di fronte all’altro. In
quel momento il rispetto che impregnava la stanza raggiungeva il culmine”.
In questo clima surreale, fra discepoli che sfidano i coprifuochi della
Parigi occupata (siamo ormai negli anni quaranta) e un Gurdjieff che la sera
cucina e insegna e durante il giorno sguazza fra borsari neri alla ricerca
di cibo e caffè per i suoi allievi, si consuma l’ultima parte della sua
incredibile vita. Una vita che, nonostante le apparenze controverse ed
eterodosse, risulta in ultima analisi più vicina al mondo della Tradizione
che allo spiritualismo contemporaneo; come ebbe a dire René Zuber “Gurdjieff
era la tradizione”. Egli effettivamente era un patriarca ed un conservatore,
a prescindere dalle apparenze bohemien e surrealiste. Nonostante negli
ultimi anni della sua vita avesse formato e istruito un gruppo di donne
dichiaratamente lesbiche, non smise mai, ad esempio, di sottolineare quanto
le perversioni sessuali fossero di grande ostacolo alla realizzazione
spirituale.
Qualcuno vide in lui un collaborazionista dei nazisti, ma tale accusa può
essere giustificata solo ricordando l’atteggiamento opportunista di
Gurdjieff nei confronti della politica quando si trattava di mangiare e
quindi di sopravvivenza. Non va dimenticato che, fra i tanti personaggi
“interpretati” nella sua vita, Gurdjieff fu anche mercante orientale e
faceva ovviamente affari con tutti, “buoni e cattivi”; conseguenza di ciò,
per lui, era che, in periodi di carestia, a casa sua c’era sempre da
mangiare per i suoi ospiti. È poi risaputo che aiutò i suoi discepoli ebrei
a vivere in clandestinità e, come ricorda una sua discepola americana che,
tornando a trovarlo all’indomani della liberazione parigina, gli raccontò
delle prime notizie sull’olocausto, “una vena sulla sua fronte si gonfiò e
cominciò a pulsare. Vidi l’ira di Dio in quel viso incupito, una giusta
furia che sembrava sul punto di esplodere. un’ira santa per la ripetuta
disumanità dell’uomo verso i suoi simili”. Tuttavia, la “leggenda nera” di
Gurdjieff vuole che, per interposta persona, ovvero tramite Karl Haushofer,
il noto fondatore della “geopolitica”, fu lui ad ispirare al nazismo la
scelta della svastica rotante non verso destra (simbolo di sapienza) ma
verso sinistra (simbolo di potenza). Tale tesi pare essere smentita almeno
dalle note dei curatori dell’edizione italiana di “Monsieur Gurdjieff” di
Louis Pawels, l’autore de “Il mattino dei maghi”, uno dei primi articolati
studi sulle origini occulte del nazismo.
Un altro aspetto che spesso i tradizionalisti non notano, pena il dover far
rientrare Gurdjieff nella loro corrente, furono le concezioni
tradizionaliste che Gurdjieff nascose bizzarramente in quella sorta di opera
di “fantascienza” che fu ” I racconti di Belzebù al suo giovane nipote”,
ovvero il suo libro principale. Qui si ritrovano concetti cari al mondo
della Tradizione come quelli di casta, antievoluzionismo e il mito di una
provenienza comune dell’umanità, scampata al disastro di una precedente
civiltà evoluta. La metafora tradizionalista giustificante di regimi non
democratici per la quale il popolo è come un corpo, e come tale abbisogna di
una testa e di un ordine atto a far sì che ogni parte stia al suo posto, nel
sistema di Gurdjieff assume una corrispondenza implicita fra micro e
macrocosmo. Nel sistema di Gurdjieff l’essere umano è metafora di una
carrozza: la carrozzeria è il corpo, i cavalli le emozioni, il cocchiere la
mente ed il proprietario, ovvero colui che decide dove andare perché sa qual
è la direzione, è l’”Essenza”. Questa “Essenza” per Gurdjieff è nell’uomo
addormentata (di conseguenza la mente-cocchiere fa ciò che vuole, si ubriaca
e sbanda e non riesce a governare i cavalli-emozioni e alla lunga ci rimette
la carrozza-corpo, che viaggia su strade dissestate); quindi, essendo l’umanità
una estensione dell’uomo, Gurdjieff vede solo “addormentati” anche in coloro
che pretendono di governare la carrozza umanità. Da qui la sua indifferenza
per un regime o l’altro, per un mondo tradizionale o per uno progressista,
persino per la pace e la guerra (cfr. P.D. Ouspensky, “Frammenti di un
insegnamento sconosciuto”, Astrolabio-Ubaldini 1976), nonostante egli abbia
subito gravi lutti proprio a causa di questa, perdendo ad esempio il padre e
la sorella.
Tuttavia, pur non apprezzando i regimi totalitaristi, forse anche per il
semplice fatto che la sua esistenza in tali regimi non sarebbe semplicemente
possibile, la sua idea in proposito è tradizionalista, e ricorda il
reggente-filosofo della repubblica di Platone. A Platone venne sempre
chiesto idealmente dai filosofi suoi successori “Chi è così saggio in questa
società ideale da stabilire chi è così saggio per essere il re-filosofo?”.
Tale considerazione è ovviamente un pregiudizio moderno dal quale non
riusciamo ad uscire nel rivolgerci a Platone. Il punto di vista di Gurdjieff
è per sua natura libero da questo pregiudizio: quando l’uomo “conosce se
stesso”, per rimanere in una terminologia platonico-socratica, conosce l’universo,
quindi sa qual è il suo posto e riconosce la saggezza del “capo” senza
bisogno di campagne e mandati elettorali, rivoluzioni o colpi di stato. Il
mondo fu nell’età dell’oro, a cui rimandano i tradizionalisti, governato in
questo modo; in questo senso il sovrano è sovrano per volere divino. Poi
accadde qualcosa, una caduta, una sovrapposizione di ruoli, un miscuglio fra
ordini diversi di idee. Gurdjieff lo romanza fantastoricamente così: “In un
imprecisato tempo antico comparve sulla terra, in Babilonia, un uomo, figlio
di mercanti, di nome Lentrohamsanin” (è stato notato come questo nome
comprenda in sé le iniziali di Lenin e Trotzki). Egli era un ozioso
“coccolino di mamma e papà” che, per vanità e amor proprio, inventò una
teoria su un soggetto sul quale nessuno si era ancora espresso. La teoria
inventata da questo essere (descritto come alquanto perfido), che fu causa
di continue guerre e miseria, confusione e governi corrotti, è
inquietantemente simile a quel corpus di valori etici e politici che noi
oggi diamo per scontato: “La più grande felicità dell’uomo consiste nel non
essere dipendente da alcuna personalità, e nell’essere libero da qualsiasi
influenza estranea di qualsiasi tipo. [.] I nostri capi [ci parlano, nda] di
un altro mondo, presumibilmente migliore di questo , in cui le anime di
quelli che hanno vissuto degnamente in terra godrebbero di una vita di
assoluta felicità, in tutti i sensi. Ma in che modo la nostra vita attuale
sarebbe indegna? Non ci affatichiamo forse dalla mattina alla sera per
guadagnare il nostro pane quotidiano col sudore della fronte? [.] I nostri
capi e consiglieri dimostrino nei fatti ai semplici mortali come noi che
tutto quel che raccontano e cercano di farci credere è vero. Ce lo provino
per esempio trasformando in pane una manciata di sabbia ordinaria su cui
grazie al sudore della nostra fronte, germoglia e cresce l’orzo quotidiano”.
Queste parole messe in bocca a questo personaggio fantastorico, a metà fra
il populismo e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, sono difficilmente
contestabili per una mente contemporanea, ma inserite nella cosmologia
gurdjieffiana e nella corrente tradizionalista assumono significati diversi.
Interessante è poi questo modo di fare storia creando o riferendo (chi lo
sa?) una saga, ma comunque inserendo in modo più o meno camuffato elementi
contemporanei, ad esempio il nome di Lentrohamsanin, come a voler
sottolineare una ciclicità della storia e comunque dando elementi per
comprendere le imprecisioni storiche dei miti, più interessati a esprimere
concetti che alla precisione squisitamente cronologica.
Sempre ne I racconti di Belzebù al suo giovane nipote compare poi il noto
passo, scambiato spesso per una provocazione più che per una posizione
tradizionalista di Gurdjieff, secondo il quale gli uomini non discendono
dalle scimmie ma le scimmie dall’uomo, ovvero le scimmie sono il frutto di
accoppiamenti perversi fra donne e animali. E, al di là dell’ironia e dello
scandalo che una simile affermazione può provocare, bisogna prendere atto
che i tradizionalisti citano spesso, miti e leggende in cui si narra di una
razza superiore che si accoppia con una razza inferiore.
Gli spiragli di discussione che su quest’argomento si possono aprire sono
infiniti ed esulano dai termini che ci siamo posti in questo libro. Ci basti
qui sottolineare la posizione trasversale di Gurdjieff che, se da un lato si
fa portavoce di una Tradizione scampata alle “perversioni” moderne, con cui
afferma di essere entrato in contatto in misteriosi monasteri dell’Asia
centrale, dall’altro è sicuramente un uomo insofferente e allergico all’aristocrazia,
come viene testimoniato spesso riguardo al “suo assoluto disprezzo per le
convenzioni sociali. Avrebbe fatto sedere un premio Nobel accanto ad uno
spazzino, una lady accanto ad una prostituta”. I suoi discepoli infatti,
stretti a cena nell’appartamento parigino o in cattività in quell’esperimento
comunitario che fu il priorato di Avon, vennero sempre trattati nello stesso
provocatorio modo atto, almeno secondo Gurdjieff, a risvegliare in loro una
nobile essenza che li liberasse dalla plebea personalità.
Ci sembra infine opportuno ricordare che George Ivanovitch Gurdjieff, pur
non offrendo molti spunti espliciti al movimento ambientalista fu,
incontestabilmente, un proto-ecologista, che denunciava, già negli anni
trenta, l’indiscriminato uso dell’energia elettrica ai danni dell’ambiente
(cfr. G.I. Gurdjieff, “I racconti del giovane Belzebù al suo giovane
nipote”). Fu precursore anche del concetto di biosfera rivelando ad
Ouspensky che la vita organica è una pellicola che ricopre il pianeta (cfr.
P.D. Ouspensky, op. cit.). Anche la sua scandalosa tesi secondo la quale l’uomo
esiste sul pianeta perché dalla sua morte si scatena un certo fenomeno
energetico che nutre la luna, al di là dell’apparente infondatezza
scientifica, ha però il merito di far riflettere a riguardo delle concezioni
antropocentriche secondo le quali la nostra vita ha un senso superiore che
ci permette di sfruttare indiscriminatamente le risorse del pianeta. Lo
scopo della nostra vita potrebbe essere assai meno nobile di quello che
immaginiamo e molto più pragmaticamente interattivo col resto della natura.


------------------------ 






Fonte:


Il baffo destro e il baffo sinistro di Gurdjieff

Un personaggio davvero interessante ai fini del nostro studio è George Ivanovitch Gurdjieff. Prima di tracciare una sua breve biografia, sarà opportuno spiegare l'interesse che il nostro studio nutre per lui. Nel dualismo da noi identificato fra un esoterismo in seno alla cultura di destra, il tradizionalismo, ed uno in seno alla cultura di sinistra, lo spiritualismo contemporaneo sfociato nel new age, un personaggio storico come Gurdjieff si muove sornione con modalità pragmatiche e trasversali, attirando critiche e lodi da entrambe le parti.
tratto dal libro di Fabrizio Ponzetta, L’esoterismo nella cultura di destra,
l’esoterismo nella cultura di sinistra, Jubal 2005
Un personaggio davvero interessante ai fini del nostro studio è George
Ivanovitch Gurdjieff. Prima di tracciare una sua breve biografia, sarà
opportuno spiegare l’interesse che il nostro studio nutre per lui. Nel
dualismo da noi identificato fra un esoterismo in seno alla cultura di
destra, il tradizionalismo, ed uno in seno alla cultura di sinistra, lo
spiritualismo contemporaneo sfociato nel new age, un personaggio storico
come Gurdjieff si muove sornione con modalità pragmatiche e trasversali,
attirando critiche e lodi da entrambe le parti.
Nel sito internet di una recente scuola di ispirazione gurdjieffiana si
citano in home page, con una certa compiacenza, le parole terribili che
Guénon ebbe a dire su Gurdjieff e i suoi discepoli: “Da evitare come la
peste”.
Anche Evola inserisce Gurdjieff nella raccolta di suoi scritti critici sullo
spiritualismo contemporaneo, ma, a dire il vero, oltre ad esporne i principi
dottrinari, non ne demolisce né la persona, né il pensiero, come fa con
altri, e, anzi, si lascia sfuggire che con qualche genuina organizzazione
iniziatica Gurdjieff deve aver avuto a che fare.
All’interno invece del variegato mondo new age, Gurdjieff assume le
connotazioni di un Abraxas moderno, un dio diavolo ora visto come esempio di
integrazione di opposti, ora visto come personaggio altamente negativo, il
prototipo dell’ipnotista crudele che lava il cervello a genuini ricercatori
spirituali, per i propri subdoli fini. La notorietà del suo nome, dagli anni
sessanta in poi, è dovuta sia alla vasta letteratura prodotta dai suoi
discepoli, comparsa per la maggior parte dopo la sua morte, avvenuta nel
1949 (in genere si tratta di diari che narrano le “avventure” di un
discepolo col maestro: “Idioti a Parigi” di Bennet; “La nostra vita con
Gurdjieff” dei coniugi De Hartmann; “La mia infanzia con Gurdjieff” e “I
miei anni con Gurdjieff” di Fritz Peters; “Mounsier Gurdjieff, ma lei chi
è?” di René Zuber; “Momenti d’oro con Gurdjieff” di Annie Lou Staveley, solo
per citarne alcuni, oltre al famoso “Frammenti di un insegnamento
sconosciuto” di Petr Demianovich Ouspensky), sia al fatto che alcuni noti
artisti contemporaneei (il regista Peter Brook, che girò un film liberamente
tratto dall’omonima autobiografia di Gurdjieff, “Incontri con uomini
straordinari”; Franco Battiato e Peter Gabriel, per limitarci ad alcuni
prestigiosi esempi) si sono più o meno esplicitamente ispirati al suo
insegnamento, generando quindi per emulazione un certo interesse giovanile
nei suoi confronti.
Anche il noto guru indiano Osho (Bhagwan Shree Rajneesh) ha fatto la sua
parte, citando Gurdjieff continuamente nei suoi discorsi e adottando alcuni
dei suoi metodi dinamici di meditazione. Inoltre, una certa tendenza
multietnica della danza e del teatro contemporaneo ha favorito la
divulgazione delle danze sacre che Gurdjieff (maestro di danza) insegnava ai
suoi discepoli. Infine, la psicologia umanista si è appropriata, spesso
omettendone la fonte, di tecniche, concetti e simboli (l’enneagramma in
primis) del sistema gurdjieffiano. In proposito si rimanda il lettore ai
rispettivi capitoli su Rajneesh e sulla psicologia umanista.
Detto ciò, passiamo a tracciare una biografia di Gurdjieff che possa
“giustificare” il bizzarro titolo di questo capitolo.
George Ivanovitch Gurdjieff nasce nel quartiere greco di Alexandropol in
Capacoccia, nella parte russa della zona di confine tra Russia e Turchia, in
un anno indefinito fra il 1860 ed il 1870. Nella sua gioventù alterna vari
lavori con una personale ricerca spirituale e archeologica che lo porta a
frequentare alcuni gruppi iniziatici, monasteri sufi e cristiani e vari
ricercatori esoterici, con cui fonda un gruppo denominato I cercatori della
Verità. Nei suoi viaggi, si spinge fino in Egitto ed in Sudan. Forse per
finanziare le sue ricerche ed i suoi viaggi, inizia intorno al 1890 anche
una sorta di strana carriera politico-diplomatica: come inviato di un
partito armeno si spinge fino in Svizzera e a Roma, a Creta ricerca le
tracce di una antica confraternita ma vi appare anche come inviato di una
società segreta ellenica. Con una confraternita giovanile di ispirazione
tradizionalista compie spedizioni in Tibet, in Siberia e a Bagdad. Nel 1901
pare che come agente segreto zarista sia penetrato in Tibet (quando, anni
dopo, i suoi discepoli cercarono di ottenere la cittadinanza britannica, i
servizi segreti inglesi si opposero con un rapporto in cui Gurdjieff veniva
definito come spia zarista che nei primi anni del novecento aveva lavorato
contro gli “interessi di Sua Maestà in Tibet”). In questi anni viene ferito
tre volte in scontri a fuoco; nel 1905 dovrebbe essere entrato in un
monastero sufi dell’Asia centrale. Nel 1908 inizia la sua tripla vita:
medico ipnotista in odore di ciarlataneria, mercante di tappeti, petrolio,
pesce e bestiame nonché maestro esoterico.
In “Il nunzio del bene venturo”, un libro che uscì nel 1933 a Parigi e che
doveva annunciare l’uscita dell’opera omnia di Gurdjieff, Gurdjieff raccontò
che il suo scopo era di svegliare l’essere umano e, avendo raccolto una
serie di conoscenze (se la biografia sopra citata è vera, come non dargli
torto), liquidò i suoi affari e si spostò a Mosca per insegnarle. Fra il
1913 ed il 1914 raccoglie a Mosca i suoi primi discepoli; nel 1915 accetta
come allievo il noto filosofo e conferenziere P.D. Ouspensky attraendolo e
scandalizzandolo. Nel suo autobiografico “Frammenti di un insegnamento
sconosciuto”, il filosofo russo, da poco tornato in Russia dopo un
“deludente” viaggio di ricerca spirituale in India, entra in contatto con
questo armeno dal linguaggio sgrammaticato, vestito abbastanza elegantemente
ma con i polsini sporchi, che lo convoca in rumorosi caffè moscoviti e gli
chiede soldi per essere accettato nella sua cerchia, in quanto il suo
“lavoro” abbisogna di grandi spese, come inverosimili oggetti da importare
dall’Egitto, e case costose in cui incontrarsi; “a testimonianza” di ciò,
Gurdjieff lo invita in un appartamento spoglio sopra una scuola che all’epoca
veniva dato alle maestre gratuitamente. Proprio per via di queste palesi
contraddizioni, Ouspensky si chiese, se con lungimiranza o con innocenza non
lo sapremo mai, se forse il signor G. (come lui lo chiama nel libro) non lo
stesse mettendo alla prova. Da lui rimase comunque affascinato: “Incontrarlo
era sempre una prova. Alla sua presenza ogni gesto sembrava artificiale: sia
che fosse troppo referenziale o al contrario troppo pretenzioso, dal primo
momento veniva distrutto, e non restava nulla se non una creatura umana alla
quale era stata strappata la maschera, mostrando così, per un istante, ciò
che era realmente”.
A Ouspensky ed al suo libro si deve la conoscenza delle dottrine di
Gurdjieff, in quanto gli scritti del maestro sono, volutamente o per
incompetenza (ci sono due scuole di pensiero in proposito), assai caotici e
bizzarri. Nonostante alla fine del libro Ouspensky, già allontanatosi da
Gurdjieff, ne distingua le idee (valide) dal personaggio (perfido),
Gurdjieff stesso definì il libro la migliore esposizione sistematica delle
sue idee e molti suoi discepoli ci studiarono sopra. La dottrina esposta da
Ouspensky, grazie ad appunti presi segretamente al termine degli incontri
con Gurdjieff, che preferiva la divulgazione orale di certi concetti, è
alquanto ampia e complessa; tuttavia, possiamo riferirne qui alcuni tratti
che sono davvero un punto d’incontro fra lo spiritualismo contemporaneo e la
Tradizione. Ciò che in teosofia e in antroposofia viene banalizzato, secondo
i tradizionalisti, con la parola “corpo” (i corpi sottili ad esempio), in
Gurdjieff assume più precisamente il significato di stati di coscienza;
così, più che un corpo fisico, uno emotivo, uno astrale e così via, esistono
uomini che vivono in uno stato di coscienza in cui predominano i bisogni del
corpo, altri in cui sono prevalenti quelli emotivi, quelli mentali o quelli
spirituali. L’uomo per Gurdjieff non è nulla di più che una macchina
biologica senza un centro di gravità permanente, ovvero non ha un’io ma una
serie di aggregati psicologici che si alternano in lui a seconda delle
situazioni; nel sistema gurdjieffiano un vero io può essere “creato” solo
tramite una disciplina, un “lavoro” su di sé, una serie di “shock” coscienti
autoindotti o meglio indotti da un maestro. Per Gurdjieff, esistono quattro
vie per giungere alla “liberazione” e cioè per “ottenere” un “io”, ovvero
per “morire con onore e non come cani”: la prima è la via del fachiro, vale
a dire una via adatta a uomini in cui prevale l’orientamento fisico, uomini
che tramite il controllo del corpo giungono ad un’unità interiore; la
seconda via è quella del monaco, ovvero una via emotiva e cioè devozionale;
la terza via è quella dello yogi, che potremmo definire una via
intellettuale; la “Quarta via” è la sua.
Ouspensky col tempo si indispettì parecchio per i metodi usati da Gurdjieff
atti a provocare gli shock di cui sopra e lo accusò di proporre ai suoi
discepoli, contrariamente a quanto predicava, la via del monaco, ovvero dell’ubbidienza
e della devozione, anziché la Quarta via, di cui Ouspensky si fece portavoce
diventando in vita più noto dello stesso Gurdjieff. Ouspensky, d’altronde,
era un raffinato intellettuale, mentre Gurdjieff non ebbe mai vita facile,
la sua esistenza fu costellata di migrazioni, lutti, difficoltà economiche e
incidenti di vario genere. Scappò con un manipolo di allievi dalla Russia
rivoluzionaria, inventando una spedizione scientifica al monte Induc;
attraversò così le zone controllate dalle guardie bianche e da quelle rosse
con due lasciapassare: uno ottenuto grazie ad alcuni discepoli di origine
aristocratica, l’altro ottenuto inventando di essere parte di una
associazione internazionalista ispirata ai principi del socialismo; in
prossimità dei posti di blocco si toccava il baffo destro o quello sinistro
affinché i discepoli capissero quale passaporto esibire e come comportarsi.
Tale ambiguità, dettata da esigenze di sopravvivenza e da un’equidistante
distacco dai dualismi mondano-politici, lo accompagnò in tutti i luoghi in
cui fece tappa, da Essentucki a Tbilisi a Costantinopoli a Berlino a Parigi;
ovunque racimolò soldi e discepoli, tenne conferenze e fece esibizioni di
danze sacre creando, a seconda del posto, anche brevi organizzazioni dal
nome Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo. Giunto infine a Parigi,
stabilì il suo quartier generale inizialmente in un ex priorato e
precisamente nella cittadina di Avon (1922).
Tenendo una conferenza a Londra presso gli allievi di Ouspensky (nel
frattempo trasferitosi in Inghilterra) che, nonostante la separazione, lo
invitò, Gurdjieff ne affascinò i più importanti fra cui l’editore Alfred
Orage che gli organizzò una serie di viaggi “promozionali” in America.
Da tutto il mondo ricercatori spirituali si recarono ad Avon, e la fama di
Gurdjieff crebbe quando la nota poetessa Katherine Mansfield, gravemente
malata di tubercolosi, decise di passare gli ultimi anni della sua vita ad
Avon. La stampa ipotizzò addirittura un omicidio.
Una serie di lutti, incidenti ed infine un pressante passivo economico
costrinsero alla chiusura del priorato di Avon e Gurdjieff nel 1932 si
trasferì a Parigi in un hotel vicino al Cafè de la paix. In questo periodo
si aliena i discepoli americani con i suoi bizzarri soggiorni in America
finalizzati esclusivamente a pressanti richieste di denaro e inizia a
scrivere la sua opera, di cui l’”Herald” (”Il nunzio del bene venturo”) è
una sorta di presentazione e allo stesso tempo è il proclama di un nuovo
inizio del suo lavoro atto a recuperare i discepoli. Dopo neanche un anno,
però, ritira le copie in circolazione dell’”Herald” e invita chi l’ha letto
a dimenticarlo e bruciarlo.
Nel 1936, in un piccolo appartamento di Parigi, in Rue des Colonels Renard,
riprende ad insegnare sistematicamente le sue idee a piccoli gruppi di
allievi. I suoi metodi sono sempre più pratici, una sorta di yoga della vita
quotidiana; i veri incontri sono a cena, dove egli cucina piatti esotici, e
dopo il pasto: “La sua tavola, quando alla fine del pasto un grande silenzio
si stabiliva per far posto alle domande dei suoi allievi, era simile al
tappeto di un club di judo. Il maestro, con il suo cranio rasato di samurai,
attendeva tranquillamente senza muoversi. Il «Monsieur, posso porre una
domanda?» che veniva a rompere il silenzio, aveva qualche cosa di rituale,
come il saluto di due judoka che si inchinano uno di fronte all’altro. In
quel momento il rispetto che impregnava la stanza raggiungeva il culmine”.
In questo clima surreale, fra discepoli che sfidano i coprifuochi della
Parigi occupata (siamo ormai negli anni quaranta) e un Gurdjieff che la sera
cucina e insegna e durante il giorno sguazza fra borsari neri alla ricerca
di cibo e caffè per i suoi allievi, si consuma l’ultima parte della sua
incredibile vita. Una vita che, nonostante le apparenze controverse ed
eterodosse, risulta in ultima analisi più vicina al mondo della Tradizione
che allo spiritualismo contemporaneo; come ebbe a dire René Zuber “Gurdjieff
era la tradizione”. Egli effettivamente era un patriarca ed un conservatore,
a prescindere dalle apparenze bohemien e surrealiste. Nonostante negli
ultimi anni della sua vita avesse formato e istruito un gruppo di donne
dichiaratamente lesbiche, non smise mai, ad esempio, di sottolineare quanto
le perversioni sessuali fossero di grande ostacolo alla realizzazione
spirituale.
Qualcuno vide in lui un collaborazionista dei nazisti, ma tale accusa può
essere giustificata solo ricordando l’atteggiamento opportunista di
Gurdjieff nei confronti della politica quando si trattava di mangiare e
quindi di sopravvivenza. Non va dimenticato che, fra i tanti personaggi
“interpretati” nella sua vita, Gurdjieff fu anche mercante orientale e
faceva ovviamente affari con tutti, “buoni e cattivi”; conseguenza di ciò,
per lui, era che, in periodi di carestia, a casa sua c’era sempre da
mangiare per i suoi ospiti. È poi risaputo che aiutò i suoi discepoli ebrei
a vivere in clandestinità e, come ricorda una sua discepola americana che,
tornando a trovarlo all’indomani della liberazione parigina, gli raccontò
delle prime notizie sull’olocausto, “una vena sulla sua fronte si gonfiò e
cominciò a pulsare. Vidi l’ira di Dio in quel viso incupito, una giusta
furia che sembrava sul punto di esplodere. un’ira santa per la ripetuta
disumanità dell’uomo verso i suoi simili”. Tuttavia, la “leggenda nera” di
Gurdjieff vuole che, per interposta persona, ovvero tramite Karl Haushofer,
il noto fondatore della “geopolitica”, fu lui ad ispirare al nazismo la
scelta della svastica rotante non verso destra (simbolo di sapienza) ma
verso sinistra (simbolo di potenza). Tale tesi pare essere smentita almeno
dalle note dei curatori dell’edizione italiana di “Monsieur Gurdjieff” di
Louis Pawels, l’autore de “Il mattino dei maghi”, uno dei primi articolati
studi sulle origini occulte del nazismo.
Un altro aspetto che spesso i tradizionalisti non notano, pena il dover far
rientrare Gurdjieff nella loro corrente, furono le concezioni
tradizionaliste che Gurdjieff nascose bizzarramente in quella sorta di opera
di “fantascienza” che fu ” I racconti di Belzebù al suo giovane nipote”,
ovvero il suo libro principale. Qui si ritrovano concetti cari al mondo
della Tradizione come quelli di casta, antievoluzionismo e il mito di una
provenienza comune dell’umanità, scampata al disastro di una precedente
civiltà evoluta. La metafora tradizionalista giustificante di regimi non
democratici per la quale il popolo è come un corpo, e come tale abbisogna di
una testa e di un ordine atto a far sì che ogni parte stia al suo posto, nel
sistema di Gurdjieff assume una corrispondenza implicita fra micro e
macrocosmo. Nel sistema di Gurdjieff l’essere umano è metafora di una
carrozza: la carrozzeria è il corpo, i cavalli le emozioni, il cocchiere la
mente ed il proprietario, ovvero colui che decide dove andare perché sa qual
è la direzione, è l’”Essenza”. Questa “Essenza” per Gurdjieff è nell’uomo
addormentata (di conseguenza la mente-cocchiere fa ciò che vuole, si ubriaca
e sbanda e non riesce a governare i cavalli-emozioni e alla lunga ci rimette
la carrozza-corpo, che viaggia su strade dissestate); quindi, essendo l’umanità
una estensione dell’uomo, Gurdjieff vede solo “addormentati” anche in coloro
che pretendono di governare la carrozza umanità. Da qui la sua indifferenza
per un regime o l’altro, per un mondo tradizionale o per uno progressista,
persino per la pace e la guerra (cfr. P.D. Ouspensky, “Frammenti di un
insegnamento sconosciuto”, Astrolabio-Ubaldini 1976), nonostante egli abbia
subito gravi lutti proprio a causa di questa, perdendo ad esempio il padre e
la sorella.
Tuttavia, pur non apprezzando i regimi totalitaristi, forse anche per il
semplice fatto che la sua esistenza in tali regimi non sarebbe semplicemente
possibile, la sua idea in proposito è tradizionalista, e ricorda il
reggente-filosofo della repubblica di Platone. A Platone venne sempre
chiesto idealmente dai filosofi suoi successori “Chi è così saggio in questa
società ideale da stabilire chi è così saggio per essere il re-filosofo?”.
Tale considerazione è ovviamente un pregiudizio moderno dal quale non
riusciamo ad uscire nel rivolgerci a Platone. Il punto di vista di Gurdjieff
è per sua natura libero da questo pregiudizio: quando l’uomo “conosce se
stesso”, per rimanere in una terminologia platonico-socratica, conosce l’universo,
quindi sa qual è il suo posto e riconosce la saggezza del “capo” senza
bisogno di campagne e mandati elettorali, rivoluzioni o colpi di stato. Il
mondo fu nell’età dell’oro, a cui rimandano i tradizionalisti, governato in
questo modo; in questo senso il sovrano è sovrano per volere divino. Poi
accadde qualcosa, una caduta, una sovrapposizione di ruoli, un miscuglio fra
ordini diversi di idee. Gurdjieff lo romanza fantastoricamente così: “In un
imprecisato tempo antico comparve sulla terra, in Babilonia, un uomo, figlio
di mercanti, di nome Lentrohamsanin” (è stato notato come questo nome
comprenda in sé le iniziali di Lenin e Trotzki). Egli era un ozioso
“coccolino di mamma e papà” che, per vanità e amor proprio, inventò una
teoria su un soggetto sul quale nessuno si era ancora espresso. La teoria
inventata da questo essere (descritto come alquanto perfido), che fu causa
di continue guerre e miseria, confusione e governi corrotti, è
inquietantemente simile a quel corpus di valori etici e politici che noi
oggi diamo per scontato: “La più grande felicità dell’uomo consiste nel non
essere dipendente da alcuna personalità, e nell’essere libero da qualsiasi
influenza estranea di qualsiasi tipo. [.] I nostri capi [ci parlano, nda] di
un altro mondo, presumibilmente migliore di questo , in cui le anime di
quelli che hanno vissuto degnamente in terra godrebbero di una vita di
assoluta felicità, in tutti i sensi. Ma in che modo la nostra vita attuale
sarebbe indegna? Non ci affatichiamo forse dalla mattina alla sera per
guadagnare il nostro pane quotidiano col sudore della fronte? [.] I nostri
capi e consiglieri dimostrino nei fatti ai semplici mortali come noi che
tutto quel che raccontano e cercano di farci credere è vero. Ce lo provino
per esempio trasformando in pane una manciata di sabbia ordinaria su cui
grazie al sudore della nostra fronte, germoglia e cresce l’orzo quotidiano”.
Queste parole messe in bocca a questo personaggio fantastorico, a metà fra
il populismo e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, sono difficilmente
contestabili per una mente contemporanea, ma inserite nella cosmologia
gurdjieffiana e nella corrente tradizionalista assumono significati diversi.
Interessante è poi questo modo di fare storia creando o riferendo (chi lo
sa?) una saga, ma comunque inserendo in modo più o meno camuffato elementi
contemporanei, ad esempio il nome di Lentrohamsanin, come a voler
sottolineare una ciclicità della storia e comunque dando elementi per
comprendere le imprecisioni storiche dei miti, più interessati a esprimere
concetti che alla precisione squisitamente cronologica.
Sempre ne I racconti di Belzebù al suo giovane nipote compare poi il noto
passo, scambiato spesso per una provocazione più che per una posizione
tradizionalista di Gurdjieff, secondo il quale gli uomini non discendono
dalle scimmie ma le scimmie dall’uomo, ovvero le scimmie sono il frutto di
accoppiamenti perversi fra donne e animali. E, al di là dell’ironia e dello
scandalo che una simile affermazione può provocare, bisogna prendere atto
che i tradizionalisti citano spesso, miti e leggende in cui si narra di una
razza superiore che si accoppia con una razza inferiore.
Gli spiragli di discussione che su quest’argomento si possono aprire sono
infiniti ed esulano dai termini che ci siamo posti in questo libro. Ci basti
qui sottolineare la posizione trasversale di Gurdjieff che, se da un lato si
fa portavoce di una Tradizione scampata alle “perversioni” moderne, con cui
afferma di essere entrato in contatto in misteriosi monasteri dell’Asia
centrale, dall’altro è sicuramente un uomo insofferente e allergico all’aristocrazia,
come viene testimoniato spesso riguardo al “suo assoluto disprezzo per le
convenzioni sociali. Avrebbe fatto sedere un premio Nobel accanto ad uno
spazzino, una lady accanto ad una prostituta”. I suoi discepoli infatti,
stretti a cena nell’appartamento parigino o in cattività in quell’esperimento
comunitario che fu il priorato di Avon, vennero sempre trattati nello stesso
provocatorio modo atto, almeno secondo Gurdjieff, a risvegliare in loro una
nobile essenza che li liberasse dalla plebea personalità.
Ci sembra infine opportuno ricordare che George Ivanovitch Gurdjieff, pur
non offrendo molti spunti espliciti al movimento ambientalista fu,
incontestabilmente, un proto-ecologista, che denunciava, già negli anni
trenta, l’indiscriminato uso dell’energia elettrica ai danni dell’ambiente
(cfr. G.I. Gurdjieff, “I racconti del giovane Belzebù al suo giovane
nipote”). Fu precursore anche del concetto di biosfera rivelando ad
Ouspensky che la vita organica è una pellicola che ricopre il pianeta (cfr.
P.D. Ouspensky, op. cit.). Anche la sua scandalosa tesi secondo la quale l’uomo
esiste sul pianeta perché dalla sua morte si scatena un certo fenomeno
energetico che nutre la luna, al di là dell’apparente infondatezza
scientifica, ha però il merito di far riflettere a riguardo delle concezioni
antropocentriche secondo le quali la nostra vita ha un senso superiore che
ci permette di sfruttare indiscriminatamente le risorse del pianeta. Lo
scopo della nostra vita potrebbe essere assai meno nobile di quello che
immaginiamo e molto più pragmaticamente interattivo col resto della natura.
http://www.olistica.tv

Commenti

Unknown ha detto…
Si R. Guenon lo detestaba, es suficiente para desconfiar muchisimo de lruso.

Guenon de sufismi se entendia mucho. El fue musulman....

El otro, me parece un charlatàn.
Anonimo ha detto…
Gurdjieff è figlio di un'epoca nella quale si conosceva ancora poco, a livello esoterico, dell'oriente e del mondo sufi...Il suo "sistema" non è altro che un melanges di occultismo russo, sufismo, pseudo-zoroastrismo di Hanish e dello Xnoom , un pizzico di Yoga e di Buddhismo ( mal capito ...).
Questo sistema pasticciato poteva avere un suo significato con lui in vita...Per il resto meglio stendere un velo pietoso.
Recentemente due autori hanno provato a riabilitare il suo insegnamento, dicendo che "forse" la confraternita Sarmoung è veramente esistita, che c'erano i Kwajagan...FAVOLE, altro che "bevi l'acqua o l'onda ?". Bisogna dimostrare le proprie tesi, sennò si fa come la cicciona teosofa russa, altra pasticciona...E in quell'articolo si salta di palio in frasca ma non si scioglie il dilemma : dov'è la tradzione alla quale faceva riferimento l'Armeno ??? Risposta : non è mai esistita.

Rimani aggiornato sui miei contenuti

  • I MIEI LIBRI

Lettori fissi

ECOVILLAGGIO MANTOVA